Il posto della Chiesa

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“E allora non può non chiedersi anch’essa: qual è il mio posto? Qual è il mio “luogo”?”.
Scrive così, riferendosi alla Chiesa, Stefania Baglivo a metà del suo articolo ““Luoghi” ecclesiali e teologia dal margine” sulla rivista quindicinale Rocca. Lo spunto è un passo del Documento finale del Sinodo dei Vescovi.“«A chi tra noi vorrebbe avere un ruolo attivo nella creazione di pratiche culturali controegemoniche, “una politica di posizione” intesa come punto di osservazione e prospettiva radicale impone di individuare spazi da cui iniziare un processo di re-visione» (bell hooks, Elogio del margine).
A queste parole di bell hooks si è rivolto il mio pensiero quando, nel leggere il Documento Finale della XVI Ass. Gen. Ord. del Sinodo dei Vescovi (26/10/2024), sono giunta al n. 114. Un paragrafo che, seppur nella sua brevità, ho trovato particolarmente profetico. Così dice:
«Questi sviluppi sociali e culturali chiedono alla Chiesa di ripensare il significato della sua dimensione “locale” e di mettere in discussione le sue forme organizzative, al fine di servire meglio la sua missione. Pur riconoscendo il valore del radicamento in contesti geografici e culturali concreti, è indispensabile comprendere il “luogo” come la realtà storica in cui l’esperienza umana prende forma. È lì, nella trama delle relazioni che vi si instaurano, che la Chiesa è chiamata ad esprimere la propria sacramentalità e a svolgere la propria missione».
La parte IV che include, appunto, il n.114, tratta della Conversione dei legami, gettando lo sguardo sui “luoghi” nei quali l’intera Chiesa vive e sulle forme che assume per essere efficacemente presente nei territori. Questo sguardo sembra essere illuminato da importanti novità di posizionamento, per riprendere bell hooks. La Chiesa, interpellata e spesso (s)travolta dagli sviluppi sociali e culturali descritti nei numeri che precedono il 114 (l’urbanizzazione, la mobilità umana, l’interculturalità, la cultura digitale), si riconosce immersa in un mondo in cui la percezione del tempo e dello spazio è radicalmente cambiata. E allora non può non chiedersi anch’essa: qual è il mio posto? Qual è il mio “luogo”?
A questa fondamentale domanda risponde il n.114: il posto della Chiesa non è tanto il singolo territorio che essa in qualche modo occupa, quanto l’esperienza umana e la trama di relazioni nelle quali è in grado di inserirsi per diventare sacramento (mediazione simbolico-reale) dell’accoglienza di Dio per tutte e tutti. Individuare questo “luogo” come posizionamento radicale per iniziare processi di re-visione, richiamando ancora le parole di bell hooks, potrebbe costituire un vero e proprio compito di realtà per il cattolicesimo attuale.
Posizionarsi “nell’esperienza umana e nella trama di relazioni”, certo, richiede un ripensarsi, un ricollocarsi a volte complesso e la necessità di una forma ospitale aperta, mai rigida. Nell’intera parte IV del Documento Finale si guarda al futuro proprio da questa prospettiva: l’esigenza di una decostruzione dell’opposizione tra centro e periferie grazie alla quale la Chiesa diventi “casa” accogliente ed inclusiva (n.115).
E ciò che riguarda l’intera Chiesa, vale, ovviamente, anche per la teologia, il cui “luogo” specifico non potrà essere se non “l’esperienza umana e la trama di relazioni”. Da questa posizione così larga ed ospitale, la riflessione sistematica può davvero contribuire con parole nuove, capaci di dialogo con la cultura nella quale è immersa. La teologia che potremmo definire dal margine è quella che offre una possibilità preziosissima di interlocuzione non solo con chi è “dentro”, ma soprattutto con chi è “fuori” e con chi è sulla “soglia”… in pratica davvero con tutte e tutti. Questo compito le è affidato ora più che mai, pena l’insignificanza.”

Gemma n° 2748

“Quest’anno, come gemma, ho deciso di portare il mio cane: Ragù. Sembra ieri la prima volta che l’ho visto, e invece sono già passati quattro anni e mezzo. È cresciuto troppo in fretta e, a volte, mi ritrovo a pensare a quando era solo un cucciolo: piccolo, giocoso e pieno di energia. Ripenso spesso a com’era quattro anni fa, ma allo stesso tempo so che, anche se è cambiato, il suo carattere è rimasto lo stesso: unico, allegro, fedele e sempre molto affettuoso.
In questi quattro anni ho capito davvero cosa significhi avere un cane al proprio fianco. È un’amicizia speciale, fatta di momenti meravigliosi ma anche di piccole incomprensioni. Nonostante ciò, è un legame sincero, profondo, che non si può spiegare a parole, ma solo vivere. È un’amicizia unica che mi ha aiutato a crescere e che continuerà a farlo” (G. classe quarta).

Professore, professoressa, professora… Prof!

Alunne e alunni, alunne/i, alunnə, alunn*…
Professore, professoressa, professora… Prof! E non ci pensiamo più!
E’ un tema che a volte infiamma, a volte lascia indifferenti (mi è andata di lusso! va bene sia al maschile che al femminile). C’è chi lo vive come una missione, una battaglia da portare avanti ad ogni costo, e chi lo vive come una moda. C’è anche chi non lo vive proprio, non comprende il senso della diatriba. Mi sono imbattuto in un articolo molto interessante di Edoardo Lombardi Vallauri, insegnante di linguistica all’Università Roma Tre. L’ha scritto il 4 febbraio per La Rivista Il Mulino con il titolo “Sovraesteso”? Sul presunto sessismo del maschile non marcato.

“Nel 1987 Alma Sabatini pubblicava Il sessismo nella lingua italiana (Libreria dello Stato), sotto l’egida di una Commissione per le pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri. Da allora molti aspetti dell’italiano vengono guardati come sessisti. Alcuni lo sono, altri no (inoltre, sulla scia del testo di Sabatini, sono usciti A. Cardinaletti e G. Giusti, Il sessismo nella lingua italiana. Riflessioni sui lavori di Alma Sabatini, “Rassegna Italiana di Linguistica Applicata”, vol. 23, 1991; e C. Robustelli, Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, Comitato Pari Opportunità, 2012).
Tanto per cominciare, chi parla di queste cose raramente ha chiaro che cosa intenda con “italiano”. Infatti una cosa è la struttura della lingua, altra cosa è come le persone la usano. Se i femminili di nomi di ruolo e mestiere come avvocata, ministra, sindaca e membra (del Consiglio direttivo) sono meno in uso dei maschili, questo non si deve alla lingua italiana, che li mette perfettamente a disposizione, ma si deve alle abitudini delle persone, che a loro volta dipendono da fatti di frequenza nella realtà. Linguisticamente non c’è niente di male o di difficile a usare questi femminili, e infatti con l’aumentare delle donne in quei ruoli le relative parole suonano sempre meno strane.
Che i femminili di presidente, studente e professore si formino con il suffisso -essa è invece una differenza di trattamento fra i sessi da parte della struttura della lingua, perché il femminile è tratto dal maschile mediante un’aggiunta che lo può far percepire come secondario. Una specie di derivazione di Eva dalla costola di Adamo. Ma certo l’italiano non impedisce di dire la studente, la presidente e anche la professora (come si sono sempre usati cacciatora o pescatora, sebbene non riferiti a persone, e pastora). Anche qui, non è la lingua a opporsi, ma le abitudini dei più.
Diverso è il fatto che per i plurali di genere misto le forme sono uguali a quelle del maschile: Anna e Marco sono andati in città, con la stessa desinenza che se fossero due maschi (andate si usa solo se sono tutte femmine); oppure: il bonus spetta a tutti i dipendenti (intendendo sia gli uomini sia le donne). Simile è l’uso delle forme maschili al singolare quando non si specifica il genere: qualcuno ha suonato il campanello, chi si ferma è perduto. Qui è proprio la lingua, e non una nostra preferenza dovuta all’abitudine, che ci obbliga a usare le stesse desinenze del maschile.

Persone poco competenti (se in buona fede) hanno diffuso per questa caratteristica dell’italiano l’etichetta di “maschile sovraesteso”, che lo connota negativamente, perché fa pensare che il maschile invada proprio il campo del femminile, estendendosi a designare quello. “Sovraesteso” infatti significa “esteso anche dove sarebbe corretto l’altro”: amico a nessuno sovraestende a nella funzione di di, mentre ci dobbiamo dare 20 euro sovraestende ci al posto di gli; altri esempi sono era interessato nella politica italiana, facete, prenduto, ho andato. Insomma, un vero maschile sovraesteso sarebbe Flavia è bravo. Nella realtà, l’unico maschile sovraesteso che conosco era una pubblicità della Esso (“Metti un tigre nel motore” ndr).
Invece la lingua non tratta come maschili le femmine (non dice Anna ed Alma sono andati, e nemmeno Flavia è simpatico), ma ricicla le forme del maschile solo per la neutralizzazione del genere, cioè per i casi in cui non viene espresso né il maschile né il femminile. Così evita di tenere in piedi una ulteriore serie di desinenze apposta per il genere misto (che in altre lingue è il neutro). Tecnicamente, si dice che in italiano le desinenze del maschile sono quelle “non marcate”, perché, oltre a fungere come marche del maschile, servono anche per i casi visti sopra in cui non viene marcato, cioè non viene espresso, il genere. E oltre a questi, anche in casi ancora meno connessi a individui sessuati, come i seguenti: il sole ha asciugato le panche; ha nevicato; piove: questo non ci voleva.
Ebbene: perché una lingua che ha il maschile e il femminile (cosa non scontata: il 55% delle lingue del mondo non hanno il genere) usa le forme di uno dei due come non marcate per non esprimere il genere, anziché crearsi una terza serie di desinenze? Per economia. Allo stesso modo, il presente è il tempo non marcato, che si usa quando non si vuole esprimere nessun tempo in particolare: la salita è più faticosa della discesa, anche se la forma del verbo è quella del presente, non esprime l’idea che la cosa sia vera solo in questo momento: le forme del presente servono anche per non esprimere alcun tempo, cioè (che è lo stesso) per esprimere insieme passato, presente e futuro: proprio come le forme del maschile plurale designano contemporaneamente maschi, femmine e ogni altro genere, senza alcuna distinzione. Questo, si badi bene, non determina nelle nostre menti una maggiore importanza o una preferenza per ciò che accade nel presente. Il presente è solo il concetto più semplice: un evento al presente è solo quell’evento, mentre per pensarlo al passato o al futuro dobbiamo immaginargli una caratteristica aggiuntiva. Quindi le forme del presente, poiché a differenza di quelle del passato o del futuro non aggiungono caratteristiche peculiari, sono le più adatte per non esprimere un tempo in particolare.
Lo stesso vale nella dimensione del numero, dove il singolare (e non il plurale) è il non marcato, cioè quello che si usa quando non si esprime il numero: carne di maiale, legno di castagno, hanno fatto gli esercizi. Questo perché il plurale ha una caratteristica che il singolare non ha: l’esserci più individui. Il plurale contiene il singolare (è fatto di elementi singolari), mentre il singolare non contiene il plurale (non è fatto di elementi plurali). Quindi le forme che designano il singolare sono quelle di senso più generale, quelle che descrivono qualcosa che si trova sia nel singolare sia nel plurale; mentre quelle del plurale includono un elemento che è specifico ed esclusivo del plurale. Per questo le forme più adatte a esprimere entrambi sono quelle del singolare.
Possiamo chiederci: perché fra maschile e femminile il più adatto a esprimerli entrambi è il maschile? La risposta che dà chi vede sessismo nella lingua è che questo rifletterebbe una maggiore importanza dei maschi nella società. Ma nelle lingue che per designare oggetti inanimati hanno il neutro, è proprio il neutro il genere che si usa per i plurali misti. E nelle lingue che hanno come generi l’animato e l’inanimato, il non marcato è l’inanimato. Con il ragionamento che si fa per l’italiano, nelle civiltà di chi parla queste lingue gli oggetti inanimati dovrebbero essere percepiti come più importanti delle persone. E ovviamente non è così.
Una possibile ragione per cui in italiano il non marcato è il maschile potrebbe essere meramente quantitativa: poiché sia i maschili sia i neutri del latino hanno dato nomi in -o in italiano, questi sono più numerosi di quelli in -a. Quindi verrebbero sentiti come i nomi più tipici, e perciò più adatti a stare per entrambi i generi.
Ma più interessante è l’ipotesi che il genere si comporti come il numero e il tempo, e diverse altre categorie della lingua di cui non possiamo parlare qui per mancanza di spazio: il più adatto a stare per entrambi è quello che non ha qualcosa di speciale, qualcosa in più, di peculiare ed esclusivo. Ebbene, fra inanimati e animati, chi ha qualcosa che è suo esclusivo? Gli animati. Sia gli uni (le pietre, gli oggetti) sia gli altri (gli animali e gli umani) hanno peso, estensione, colore, forma; ma solo gli animati hanno la vita. Quindi per evocarli tutti indistintamente è meglio l’inanimato, che designa le proprietà comuni a tutti, e non l’animato che ci aggiunge la vita, che è solo di alcuni.
E fra maschi e femmine, chi ha qualcosa di più? Mettiamoci nella mente degli uomini primitivi che hanno instaurato questi aspetti delle nostre lingue: sia maschi sia femmine hanno corpo, linguaggio, movimento, volontà… ma solo le femmine hanno una caratteristica importante e decisiva in più: possono fare figli. Quindi dei due generi grammaticali il più generico, quello più adatto a stare per entrambi i sessi perché non aggiunge una caratteristica decisiva che appartiene a uno solo dei due, è il maschile. Insomma, il maschile sarebbe usato per riferirsi a gruppi misti non per una maggiore importanza data ai maschi, bensì perché i maschi non hanno quella importante cosa in più che hanno solo le femmine.
Questo per la genesi del maschile non marcato. Ma a dispetto di questa origine innocente, esso finisce oggi per discriminare le donne? Notiamo anzitutto che esso non genera sensazioni di diversa importanza fra gli oggetti o fra gli animali: dire la pinza e il cacciavite sono caduti, la meringata e il bollito sono buoni o la gatta e il gatto sono eleganti non ci porta a percepire la pinza come meno importante del cacciavite, la meringata da meno del bollito o la gatta inferiore al gatto. Guarda caso, l’idea che il maschile linguistico sia discriminante sorge solo per le persone, cioè solo dove la discriminazione c’è già nella realtà. La professoressa sembra, ad alcuni, meno importante del professore; e dire Flavia e Luigi sono arrivati o i laureandi devono essere in regola con le tasse darebbe l’impressione che i maschi siano più importanti delle femmine. Ma se la discriminazione fosse nella lingua, non dovrebbe sentirsi dappertutto, almeno un po’ anche per gli animali e per le cose? Non sarà che invece la discriminazione della donna sta nella realtà e non sta nella lingua, anche se sostenere che sia nella lingua permette di esibirsi in “battaglie” etiche ad assai più basso costo personale di quelle che occorre combattere nella realtà?
Passando dalla struttura della lingua al modo in cui viene usata, chi vuole vedere discriminazione nel maschile non marcato sostiene cose così:
Il cosiddetto uso generico del maschile influenza le rappresentazioni di genere in modo discriminatorio nei confronti delle donne. Ciò è particolarmente vero poiché i giornali continuano a pubblicare alcuni annunci di lavoro nella forma maschile, suggerendo quindi, a nostro avviso, che le donne non siano candidate idonee (P. Gygax, U. Gabriel, O. Sarrasin, J. Oakhill, A. Garnham, Generically intended, but specifically interpreted: When beauticians, musicians and mechanics are all men, “Language And Cognitive Processes”, vol. 23, 2008, trad. nostra).
Questo tipo di ragionamento ignora metà delle cose: ammettendo che le forme del maschile (si cercano automuniti disposti viaggiare) facciano venire in mente più gli uomini che le donne, questo funziona in direzioni diverse a seconda di ciò di cui si parla e di ciò che si dice. Ci serve un medico potrà rafforzare lo stereotipo che i medici siano più maschi che femmine, ma allora per occuparsi dei bambini e della casa bisogna essere bravi e generosi indebolirà lo stereotipo che a casa stiano solo le donne. Proprio come fa, contro un altro stereotipo, il maschile non marcato in questa pubblicità di Tigotà.

E quando si dicono cose come queste:
– il nostro Paese è preda dei mafiosi e dei politici corrotti;
– occorrono leggi efficaci contro quelli che non pagano le tasse;
– trovate il colpevole e assicuratelo alla giustizia. L’autore di questi crimini odiosi deve essere punito;
non sarebbero certo le donne a subire discriminazione linguistica, ma gli uomini.
Insomma, abbiamo visto che l’uso di uno dei due generi come non marcato nasce da esigenze strutturali di economia e non da mentalità sessista, parallelamente a quanto accade per l’uso di un tempo non marcato (il presente) e di un numero non marcato (il singolare). Inoltre, le ragioni per cui fra maschile e femminile il non marcato è il maschile non sono probabilmente discriminatorie, proprio come nelle lingue che hanno il neutro o l’inanimato l’uso di questo genere come non marcato non riflette una discriminazione a favore degli oggetti e a danno delle persone.  Poi, se a discriminare fosse la struttura della lingua, dovrebbe farlo almeno un po’ anche per tutto ciò che ha genere (compresi animali e oggetti), non solo per ciò su cui già percepiamo una discriminazione nella realtà sociale. Infine, ben poco conta la struttura astratta della lingua rispetto ai significati che si trasmettono; e siccome si usano le forme del maschile per non esprimere il genere sia dicendo cose positive sia denigrando, l’impressione che si parli più dei maschi che delle femmine si tradurrebbe in un trattamento pari. Oppure se, come è probabile, si parla più spesso male che bene delle persone, la discriminazione linguistica sarebbe a danno dei maschi.
Concludendo con un assaggio di realtà geolinguistica: se il maschile non marcato sostiene una mentalità sessista, le lingue che non hanno il genere dovrebbero favorire civiltà non discriminanti. Lingue senza genere sono ad esempio il cinese, il farsi (la lingua dell’Iran e dell’Afghanistan), il finlandese, il giapponese, l’inglese, il turco, l’ungherese.”

Tra determinismo e libero arbitrio

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Maddalena Feltrin è allieva della Scuola Superiore di Toppo Wassermann di Udine. Recupero un suo pezzo di un mese fa, scritto per Treccani. Il tema è di nuovo quello delle scelte, del libero arbitrio e del determinismo. Ci vuole un po’ di concentrazione, ma gli interrogativi che suscita sono numerosi e interessanti, così come le possibilità di approfondimento.“

Accettando l’analisi che viene proposta da alcuni neuroscienziati come J.D. Haynes e B. Libet, si è costretti all’ammissione di una visione deterministica del mondo, ossia la concezione della realtà per la quale tutti i fenomeni sono collegati l’un l’altro secondo un ordine necessario e invariabile. In altre parole, in natura, data una causa o una legge, può verificarsi soltanto un certo effetto o un particolare fenomeno e non un altro. Nell’Universo non c’è spazio per una variazione spontanea né per il perseguimento di una libera scelta.
Questa visione del mondo comporta degli effetti su molti aspetti del nostro approccio alla vita, ed è emblematico il caso della legislazione, che necessita di essere completamente rivista. La legge è, infatti, basata sull’idea che le persone siano responsabili delle loro azioni (tranne in eccezionali occasioni) ma, se ogni prassi umana è ricondotta a prevedibili schemi di risposta a degli stimoli, non si può più pensare di punire un uomo: egli, ontologicamente, non ha mai preso una vera decisione! Conseguentemente, la negazione del libero arbitrio mette in discussione l’esistenza stessa del sistema giuridico e di qualsiasi forma normativa.
Di fronte a questa conclusione, alcuni filosofi come T. Nagel, P. van Inwagen e C. McGinn ribadiscono l’importanza dell’intuizione della libertà. Essa è la condizione ineliminabile dei giudizi morali e lo stesso Haynes ammette come – non appena si comincia ad interpretare il comportamento delle altre persone – sia virtualmente impossibile credere che esse non stiano attivamente prendendo delle decisioni. Siamo, quindi, condannati a credere nella libertà, anche se abbiamo buone ragioni per pensare deterministicamente. Pertanto, dobbiamo – a loro detta – ammettere il paradosso di dover credere a qualcosa la cui esistenza sembra impossibile da provare: come scrive Inwagen, «il libero arbitrio sembra […] essere impossibile. Ma sembra anche che il libero arbitrio esista. Perciò l’impossibile sembra esistere».
Per rispondere a questa contraddizione, il biofisico H. Atlan recupera il senso di responsabilità del singolo in una visione deterministica con un confronto tra le neuroscienze e Dio. Egli, riprendendo la visione spinoziana della mente e del corpo intesi come aspetti diversi della stessa sostanza, sviluppa il suo pensiero a partire da un verso in un antico trattato ebraico, Capitoli dei padri 3:15 (Pirkei Avot, ndr): Tutto è previsto ma viene concesso il permesso [di scegliere];
e, successivamente, utilizza nella sua argomentazione un passo dal Salmo di Davide (Ps 141:4):
Non inclinare il mio cuore ad alcuna cosa malvagia,
per commettere azioni malvagie con i malfattori,
e fa che io non mangi delle loro delizie.

In questi passaggi delle Sacre Scritture, infatti, l’uomo non percepisce di aver determinato le proprie azioni, ma viene ugualmente definito responsabile di esse. Davide, infatti, sembra quasi accusare Dio di manipolazione o inclinazione perversa, implicitamente dichiarandolo ‘autore’ delle sue azioni malvagie – ma ciò è impossibile, in quanto all’Altissimo non può essere attribuito alcun atto ingiusto. La spiegazione teologica che viene data in risposta a questo paradosso è la stessa che si può utilizzare per recuperare il senso di responsabilità in una visione deterministica su base scientifica: dal momento che la libertà di scelta è puramente un’illusione, gli uomini possono solamente osservare l’agire di una forza esterna nel loro stesso corpo. Contemporaneamente, tuttavia, sono ritenuti imputabili di qualsiasi loro pensiero e gesto in quanto essi stessi si illudono di poter scegliere. Inoltre, non sarebbe possibile giudicare moralmente un agente non umano (che sia Dio o la legge di natura delle cose): la preghiera del re di Israele non è una critica morale all’Onnipotente, ma è una supplica che semplicemente riflette il modo con cui Dio opera e ‘funziona’. Le azioni divine non sono il risultato di una scelta etica, ma sono un modo di essere. Il senso di responsabilità implicato nelle nostre azioni è qualcosa che appartiene alla nostra logica, e che ha senso solamente se si mantiene separato dal concetto di determinismo neurale. Anche se la possibilità di scelta, in senso assoluto, potrebbe essere un’illusione, il concetto di responsabilità è perfettamente reale.
Questi due piani possono essere distinti più facilmente nella lingua inglese, che distingue tra consciousness e conscience: con la prima si intende ‘coscienza di sé, consapevolezza di esser vivi’, con la seconda invece la sensibilità etica dell’individuo. Conseguentemente, si può mantenere una responsabilità per ciò che accade attraverso il proprio corpo, indipendentemente dal controllo della consciousness (riservato a Dio, o al naturale corso degli eventi), ma nella loro piena acquiescenza in una fase di conscience. Tuttavia, il concetto rimane per noi sfuggente e difficile da accettare in quanto queste due funzioni, nei fatti, operano come un unico sistema integrato e con assoluta interdipendenza tra le parti.”

Gemma n° 2747

“Come gemma di quest’anno, ho voluto portare questo charm di Pandora, un regalo che ho ricevuto per Natale da una persona davvero speciale per me: mia sorella V. Questo charm non è solo un semplice oggetto, ma rappresenta per me un legame profondo e indissolubile con lei.
V. è sempre stata al mio fianco nei momenti di difficoltà, sostenendomi quando prendevo un brutto voto a scuola e aiutandomi a superare le mie insicurezze. Ma non solo: è stata anche la mia compagna nei momenti più belli della mia vita, condividendo con me gioie, risate e ricordi indimenticabili.
Ora, però, le cose sono cambiate. V. non vive più con me, e in alcuni momenti sento molto la sua mancanza. La casa sembra un po’ più vuota senza la sua presenza quotidiana, e spesso mi capita di desiderare di poter tornare indietro nel tempo, a quando condividevamo ogni attimo della nostra giornata. Per fortuna, però, in famiglia abbiamo una bellissima abitudine: almeno una volta alla settimana, lei e il suo ragazzo vengono a cena da noi. Queste serate sono diventate un appuntamento fisso che aspetto sempre con impazienza, perché mi permettono di rivederla, chiacchierare con lei e sentirmi di nuovo vicina a lei, come un tempo.
Ogni volta che penso a mia sorella, provo un’enorme gratitudine e ringrazio il Signore per avermi donato una persona così speciale. È la sorella migliore che potessi mai desiderare, e se avessi la possibilità di scegliere in un’altra vita, non avrei alcun dubbio: la risceglierei ancora e ancora”.
(L. classe seconda).

Gemma n° 2746

“Come gemma ho deciso di portare Undisclosed desires dei Muse perché rappresenta la parte di me che tendo a mostrare di meno e anche perché la collego a V, una delle persone a me più care e che mi è stata vicina nei momenti migliori e peggiori della mia vita e con cui ho trascorso momenti indimenticabili e provato tantissimi sentimenti. Penso che se non l’avessi conosciuta non sarei come sono adesso ed è per questo che le voglio un mondo di bene” (G. classe seconda).

La difficoltà di scegliere

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Quello delle scelte, oltre che essere un argomento tipico del terzo anno, è uno dei temi di cui si parla più frequentemente in classe. Ne scrive Alice Nanni, studentessa magistrale in Neurobiologia, sulla rubrica Chiasmo di Treccani.

“Non c’è niente di più umano della scelta, un concetto trasversale che di taglio attraversa tutti i livelli di realtà della nostra esistenza assumendo connotazioni via via diverse.
Compare già multiforme nella storia delle tradizioni filosofico-religiose: Eva può non mangiare la mela poiché ha in dono il libero arbitrio; nel buddhismo si sceglie la rinuncia per raggiungere il nirvana; nell’induismo le azioni compiute in vita determinano la successiva reincarnazione in base al karman accumulato; nei miti norreni l’eroe o l’eroina paradossalmente scelgono il loro destino, o meglio accolgono ciò che è predeterminato per loro. Anche al di fuori della sfera spirituale la natura umana rimane intrinsecamente dominata dalla scelta. Kierkegaard, ad esempio, sostiene che la possibilità di scegliere non sia «la ricchezza, bensì la miseria dell’uomo» e considera il libero arbitrio il suo limite e la sua disperazione. Forse non sorprende che la sua dissertazione su questo vuoto che si para di fronte all’homo, in bilico davanti al futuro, si risolvesse tutta nella fede in Dio. Infatti, per secoli il bisogno di spiegare il mondo, l’esistenza e l’Io, e di rispondere alle domande senza una facile risposta è stato dominio delle religioni, sopravvissute allo scientismo, all’Illuminismo, al razionalismo e perfino a Nietzsche. La domanda da farsi a questo punto è: riescono ancora a resistere nel tecno-capitalismo del ventunesimo secolo?
Circoscrivendo lo sguardo alla parte di mondo definita Occidente, è innegabile che stiamo attraversando una crisi della spiritualità e delle credenze. In un’indagine dell’Istituto di Ricerca Eurispes del 2024, molti giovani tra i 18 e 30 anni hanno valutato la religione come uno degli ultimi valori per priorità nella propria vita: è risultata “molto importante” o “importante” solo per il 38,7%, a fronte del 90,6% ottenuto dalla voce “democrazia”. I report di diversi Osservatòri in merito alla questione mostrano che il trend è di allontanarsi dalle istituzioni religiose per cercare la propria spiritualità in una nuova dimensione fluida, indefinita e autonoma. In un mondo che ha perso le sue coordinate assolute, ognuno è lasciato alla sua personale interpretazione del reale: la capacità di scegliere si inserisce così in uno spazio senza assi cartesiani, in cui lo spaesamento interiore va a braccetto con una società neoliberale della performance e della produttività, in cui ogni occasione è un’opportunità da sfruttare.
Parlare di spiritualità e di individualità significa parlare inevitabilmente di collettività. Gli ultimi decenni hanno visto affastellarsi una rivoluzione tecnologica dopo l’altra, con una spinta al profitto che, se in un primo momento ha generato un clima di speranza e prosperità, ha presto rivelato l’altra faccia della medaglia, quella brutta. L’insostenibilità di questo modello omnicomprensivo può essere esemplificata attraverso un’analisi intergenerazionale che si ispira al pensiero di Maura Gancitano. La generazione Boomer è figlia del primo modello liberale — quando ancora era possibile crederci —  e vive intrisa della retorica liberal-calvinista del se vuoi puoi, sostrato di una visione di successo secondo cui il benessere coincide con un lavoro, non importa quanto faticoso e totalizzante, che garantisca di che vivere e un po’ di più. La generazione dei Millennial è la prima a mettere in crisi questo ideale: le crisi finanziarie, il ricambio sempre più veloce di un mercato libero fondato sulla moneta e non sull’essere umano, e le aspettative calate dall’alto intaccano la narrazione dominante. Gli eredi naturali di questo processo sono i giovani e le giovani della Generazione Z (1999-2014), che portano ancora più avanti la rottura.
Una caratteristica specifica dei cosiddetti nativi digitali è l’espressione della propria identità online, una para-realtà che se interrogata in modo intelligente restituisce uno spaccato interessante dell’attualità. In modo non esaustivo, possiamo citare due macro-trend che vivono nello spazio virtuale e che inevitabilmente mantengono un rapporto bidirezionale con la realtà. Da un lato troviamo l’insofferenza per la retorica del lavoro come priorità: la tendenza era già emersa con il periodo delle Grandi Dimissioni, conseguenza del lockdown degli anni ‘20, ma la ricerca di strade alternative e la denuncia di una cultura lavorativa vecchia e abusante si rafforzano di giorno in giorno. Dall’altro lato abbiamo la FOMO (fear of missing out).
Per quanto la disuguaglianza sociale e la povertà assoluta siano in aumento, osservando a volo di uccello l’evoluzione socioeconomica dell’ultimo secolo, risultiamo essere generalmente più ricchi. O almeno, secondo un modello iper-consumista, abbiamo più soldi per poterne spendere di più. Sta di fatto che, mettendo da parte il discorso di classe, lo stile di vita del cittadino medio è profondamente cambiato e si è arricchito della dimensione del tempo libero, delle ferie, del viaggio di piacere. A cascata le nuove generazioni hanno ricevuto in eredità la possibilità di essere molte più cose, almeno in potenza. Lo sappiamo e veniamo esposti a questa consapevolezza quotidianamente, con un flusso continuo di vite altrui sullo schermo, che mostra quante cose si possono fare, quante cose si possono essere. Insomma, è sicuramente cambiato il modello di riferimento ma è altrettanto vero che l’idolo del “tutto è possibile” è continuamente ingrassato dal confronto con l’altro, che si propone come immagine in negativo di tutto ciò che tu NON sei.
Spopolano reels su Instagram e video su Tiktok di persone in stanze immacolate, che recitano: «POV: hai 20 anni e ogni giorno sei indecisa se fondare una start-up, lasciare tutto e viaggiare il mondo in un van, iniziare un master o scrivere poesie». Che sia realistico o meno, chiunque di noi è esposto a questa potenzialità immaginativa infinita e, in una spirale di overthinking, la tua vita finisce per assumere l’aspetto di una nave senza timone, che speri naufraghi prima o poi sull’isola giusta. L’ambito universitario è forse la massima espressione di questa parabola. Continuare il percorso di studi significa anche prolungare quel limbo in cui (quasi) tutto è ancora accessibile; perciò, tantissime persone finiscono per concludere il ciclo di studi trovandosi di fronte qualcosa di inaspettato, ovvero la mancanza di prospettive concrete e quindi la possibilità di qualunque prospettiva.

Seppure assumiamo che l’essere umano sia fatto per scegliere, non è però calibrato su un numero tendente a infinito di opzioni per ogni scelta. In relazione a questo nuovo spaesamento quotidiano dell’esistenza si è iniziato a parlare del concetto di paradosso della scelta, teorizzato da Barry Schwartz nel libro “The Paradox of choice: Why more is less” (2004). Per lo psicologo americano la massimizzazione della libertà individuale non è direttamente proporzionale alla massima felicità. Secondo i dettami della filosofia neoliberale, più è meglio: un principio assoluto che dovrebbe riguardare anche i gradi di libertà del singolo individuo inserito in una società del benessere. Invece, la curva reale che descrive la felicità dell’essere umano in funzione del numero di scelte possibili sarebbe a forma di campana, con un massimo oltre il quale la qualità di vita diminuisce.
Schwartz identifica, in particolare, il modello comportamentale del maximizer, ovvero colui o colei che vuole scegliere sempre la migliore delle opzioni, crede che ogni possibilità sia realizzabile ed è alla ricerca della perfezione. Una volta compiuta la scelta, la sua quête non si esaurisce poiché il/la maximizer continua a ipotizzare l’esistenza di un’alternativa migliore collocata nel futuro, ma anche tra quelle — impossibili da verificare —  già scartate nel passato. Questo loop comporta sensazioni di ansia e depressione, rimorso, insoddisfazione cronica e, in ultima analisi, quella che Schwartz chiama la paralisi della scelta, ovvero scegliere di non scegliere, poiché lo stallo permette di fare tutto, di essere tutto. In termini più scientifici si parla di choice overload, un tema non nuovo nel settore delle neuroscienze.
Per citare qualche esempio, uno studio del 2018 ha tentato di indagare come il cervello si attiva nel processo della scelta. I soggetti sperimentali sono stati esposti a set di oggetti di 6, 12 o 24 elementi tra cui dovevano sceglierne uno. Analizzando l’attività cerebrale grazie alla tecnica dell’fMRI, si è osservata una curva a campana, con un massimo di attivazione per il set di 12 elementi e valori minori sia per 6 che per 24. Lo stesso Schwartz ha portato a supporto della sua tesi una serie di semplici test dimostrativi, tra cui il più famoso è forse quello dei cioccolatini: posti di fronte a una scatola di 30 o a una di 6 cioccolatini, i suoi studenti hanno riportato in modo statisticamente significativo più soddisfazione per la scelta nel secondo caso, come se il maggior numero di alternative scartate rendesse meno appagante la scelta compiuta. Ovviamente, le variabili in gioco sono moltissime e complesse, ma questo studio e altri più recenti sono un interessante spunto per interrogarsi sulla gestione emotiva e cognitiva della scelta in una società che ha commercializzato e portato alle sue estreme conseguenze questo carattere esistenziale dell’essere umano.
Un’altra prospettiva per analizzare il paradosso della scelta è radicata nel modello socioeconomico di sviluppo, sia nella sua realtà oggettiva sia nell’interiorizzazione che ne fa il singolo. La narrazione dominante dell’ultimo decennio ha spinto, infatti, verso un’estrema responsabilizzazione dell’individuo, generando una sorta di equazione per cui il massimo della libertà significa anche il massimo della colpa: assistiamo insomma a un ritorno dell’ideale individualista dei Baby Boomer, intersecato, però, con l’iper consumismo e molte nuove difficoltà quali la crisi climatica. Calandoci nell’attualità, proprio il tema ambientalista, estremamente sentito dai più giovani, può essere un esempio calzante di questa nuova dinamica. Una risposta efficace e a lungo termine a questo problema non può che essere collettiva, politica, globale: eppure, ha attecchito molto il linguaggio dell’azione individuale, che deresponsabilizza le istituzioni e i colossi del mercato, e ripropone la logica del consumo, ma “green”. Se l’individuo, attraverso le sue scelte, è responsabile del cambiamento che può produrre in teoria, ma ha un impatto relativamente piccolo in pratica, lo scollamento tra la libertà di scegliere e la conseguenza di questa libertà diventa conclamato. Da cui il pessimismo, la rinuncia, la non-scelta.
Questo scarto ha progressivamente contagiato la sfera pubblica e quella individuale con il risultato della morte civile del singolo e quindi della collettività. Un dato chiaro è, per esempio, la crisi del voto, pilastro della struttura democratica: pochissimi giovani oggi scelgono di esercitare questo diritto fondamentale, e l’astensionismo appare come la forma più grande di protesta impugnabile contro una sovranità che già da tempo non è rappresentativa. Checché se ne dica, la cifra umana della generazione Z non è il disinteresse, ma la sensazione di impotenza fondata non tanto sul paradosso della scelta, quanto sul paradosso della libertà di scelta. Di fronte a un futuro che si annuncia spaventoso e che non è possibile cambiare da soli, nonostante venga detto che abbiamo la libertà di farlo, scegliere di non scegliere o non scegliere di scegliere è il grido unanime di un sistema al collasso che, mentre si espande, implode.
Nel marasma di individualità tutte incatenate, il ruolo stesso della scelta è totalmente deformato. Tra performatività, logica del profitto e morte dello spirito, questa modernità che vuole superare la velocità della luce è in realtà profondamente paralizzata, perfino davanti alle troppe opzioni di un menù del fast food. Più che chiederci come tornare a scegliere dovremmo forse ribaltare la prospettiva: tornare a essere fonte attiva di opzioni, invece che consumatori passivi di offerte, e finalmente definire un nuovo concetto di libertà individuale, che abbia al centro l’essere umano.”

Gemma n° 2745

“Quest’ anno come gemma ho deciso di portare la musica, perché la musica è una parte fondamentale della mia vita. Mi accompagna ogni giorno, sia per rilassarmi, concentrarmi o semplicemente per divertirmi. Ogni genere ha qualcosa di speciale per me, e mi piace scoprire nuovi artisti e suoni. Mi aiuta a scaricare lo stress e a migliorare l’umore, ed è sempre presente quando ho bisogno di compagnia. La musica per me è anche un ricordo, perché quando ascolto una canzone ripenso sempre al periodo in cui la ascoltavo più frequentemente, come le canzoni R&B dei cd di mio padre che cantavo a squarciagola durante i tragitti più lunghi quando ero più piccola (anche se lo faccio ancora). Non importa dove mi trovi o cosa stia facendo, la musica è sempre lì, a rendere ogni momento un po’ più speciale. Non potrei mai farne a meno, perché la musica, con ogni suo genere diverso, mi fa sentire a casa ovunque io sia perché mi porta conforto e mi comprende anche quando non so spiegare i miei sentimenti e mi sento sola” (C. classe seconda).

Gemma n° 2744

“Quest’anno ho deciso di dedicare lo spazio della mia gemma alla mia intera associazione di basket perché vi faccio parte da ormai tre anni e ci sono particolarmente affezionato” (D. classe prima).

Gemma n° 2743

“Come gemma ho scelto di portare il viaggio a Barcellona che ho fatto a fine luglio del 2024 insieme ai miei zii e mia sorella. All’inizio devo ammettere che non avevo altissime aspettative per questa città, non mi aspettavo nulla di che. Non appena arriviamo però, mi rendo conto di essermi sbagliata e cambio totalmente idea a riguardo. Nonostante io non sia rimasta moltissimo tempo, questa città mi è davvero entrata nel cuore, come le persone che ho incontrato. Mi ricordo ancora come fosse ieri i rumori, i sapori e i profumi che mi hanno accompagnato per tutto il mio viaggio e vorrei non dimenticarmeli più. Vorrei inoltre, non dimenticarmi più tutti i sorrisi e gli occhi vivaci delle persone che ho incontrato, che sono la cosa che più mi è rimasta impressa nel cuore.
Certe volte quando sono un po’ giù o è una giornata no, chiudo gli occhi e cerco di materializzarmi qua, perché per me Barcellona è il mio posto sicuro e credo che questo riassuma il legame che ho con questa bellissima città. Spero non risulti banale questo discorso poiché credo che tutti, nessuno escluso, debbano avere il loro posto sicuro nel mondo” (C. classe terza).

Gemma n° 2742

“Quest’anno come gemma ho deciso di portare un anello che mi ha regalato mia mamma al mio 18º compleanno.
Per me  ha un significato molto importante e profondo perché  me l’ha regalato una persona molto speciale e importante a cui voglio molto bene.
Questo anello è diventato ormai un mio portafortuna, lo tengo tutti i giorni ma allo stesso tempo ho la  paura di perderlo quindi sto molto attenta ad indossarlo…
Non è solo un accessorio, ma è molto di più perché è come se rappresentasse un po’ mia mamma ed è come se l’avessi sempre vicino a me: la presenza di mia mamma che mi aiuta sempre e mi è sempre vicina  è fondamentale.
Inoltre, anche mia sorella ha un anello simile e quindi simboleggia anche il nostro legame”.
(G. classe quinta).

Gemma n° 2741

“Quest’anno ho scelto come gemma una foto della mia squadra di pallavolo. I motivi sono tanti. In primis la pallavolo è uno sport che fa parte della mia vita da anni e che mi lega molto a mio padre: infatti anche lui è appassionato di questo sport e lo pratica ancora. Quando ero bambina, lui passava il tempo a lanciarmi la palla e insegnarmi a prenderla al volo, ed era uno dei miei giochi preferiti. Quest’anno in particolare la pallavolo mi ha dato tanto perché non faccio parte di un semplice gruppo ma di una vera squadra, in cui ho trovato amicizia, supporto, divertimento e motivazione per dare il massimo. Così gli allenamenti sono diventati un momento in cui liberare la mente dai problemi e concentrarmi sul giocare al meglio” (G. classe quinta).

Gemma n° 2740

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Da quanto si dica, si narri, o si dipinga, Napoli supera tutto: la riva, la baia, il golfo, il Vesuvio, la città, le vicine campagne, i castelli, le passeggiate… io scuso tutti coloro ai quali la vista di Napoli fa perdere i sensi.
Ho scelto questa poesia di Goethe perché penso che Napoli sia una delle più belle città d’Italia.
Condivido che sia ricca di paesaggi naturali stupendi ma manca un particolare molto importante ovvero le persone; a Napoli le persone ti fanno sentire come a casa, sono accoglienti e inclusive.
Personalmente trovo che sia molto cinematografica come città e perciò sembra sempre di essere in una pellicola” (S. classe quarta).

Gemma n° 2739

“Questa è una foto di me e dei miei due fratelli che mi hanno cresciuta con gioia, scherzi e tanto intrattenimento.
In questa foto eravamo nel parco di Cavalese, Trentino Alto Adige. Un tempo avevamo una casetta in quel paesino, era praticamente la mia infanzia e la adoravo. Purtroppo l’abbiamo data agli zii di mia madre perché col passare del tempo non riuscivamo a tenerla.
Ho scelto questa foto di me, mio fratello e mia sorella perché amo il fatto che abbiamo avuto tantissime possibilità di passare del tempo insieme, anche se ora stiamo diventando grandi e non li vedo tanto spesso come prima. Amo i miei fratelli, tutti quanti, anzi, tutta la mia famiglia, ma loro due sono i migliori in assoluto: il legame è fortissimo, non lo voglio perdere, anzi voglio che cresca con me per sempre” (R. classe prima).

Gemma n° 2738

Immagine creata con ChatGPT®

Perché in fin dei conti questo siamo.
Esseri fragili.
Deboli ramoscelli attaccati fievolmente al grande albero della vita.
Pronti a spezzarsi da un momento all’altro.

È l’inizio di una poesia che avevo letto qualche anno fa e che avevo salvato sul telefono. Ma non ne avevo mai capito il significato, fino a quest’estate.
Finisce la scuola, sono finalmente libero e tra due settimane parto per Toronto, per il viaggio che sto sognando da mesi. Non potrei essere più contento. Ma c’è qualcosa che non va, o qualcuno: sono quasi 2 mesi infatti che mio nonno, che abita nella mia stessa casa, che ho visto ogni giorno della mia vita, non sta bene; gli hanno diagnosticato un grande tumore ai polmoni e siamo tutti in pensiero per lui. Ora che ho finito scuola, ho più tempo da spendere con lui; mi ero promesso di farlo, ma purtroppo non l’ho sempre mantenuto, non quanto avrei voluto. Arriva domenica, è sera, sono con lui e stiamo parlando. Improvvisamente comincia a sentirsi sempre peggio, chiamo giù mio padre e tutti insieme decidiamo che forse è meglio chiamare un’ambulanza e farlo visitare in ospedale. Lunedì i miei vanno a trovarlo e dicono a me e mia sorella che non sta benissimo ma neanche male. Dal giorno dopo andiamo anche noi a trovarlo, non siamo mai stati così felici di vederlo. E così mercoledì e giovedì. Poi arriva venerdì, il giorno prima di partire per il Canada: sono le 8, mi alzo, vado in cucina e trovo un biglietto dei miei: “siamo in ospedale”. Era strano che fossero andati a quell’ora, avevo già capito cos’era successo. Passano 10 minuti, i miei tornano a casa e li vedo entrare pieni di lacrime agli occhi, so cosa stanno per dirmi, ma non ho il coraggio di chiederlo. Si avvicina mio padre: “Il nonno se n’è andato”. Io scoppio a piangere e abbraccio mio padre così forte come non ho mai fatto in tutta la vita. Ma ora come faccio a partire, ad andare a migliaia di chilometri di distanza, da solo, in queste condizioni, non andando neanche al suo funerale? Nonostante ciò, i miei mi dicono di andare, perché in fondo anche mio nonno l’avrebbe voluto per me. E allora parto, vivo un mese incredibile, pieno di emozioni, conosco gente stupenda da tutto il mondo e visito posti unici. Torno a casa e continuo a vivere la mia estate come meglio posso, certo con un vuoto dentro. Poi arriva domenica 25 agosto. Il giorno prima avevo finalmente compiuto 18 anni ed ero felicissimo. La mattina mentre vado alla sagra del paese per aiutare, scrivo sul gruppo del calcetto “Martedì calcetto?”. Spengo il telefono e lo riprendo solo dopo pranzo dopo aver finito di lavorare. Il primo messaggio che trovo è quello di un mio amico: “R, non so se è il caso di andare martedì, L. non c’è più”. Rimango paralizzato, in mezzo alla sagra, in mezzo a centinaia di persone. Non ci posso credere. Dopo qualche settimana, riportano su il corpo dalla Puglia, dov’era in vacanza quando se n’è andato. Andare al funerale di un tuo amico che conosci dalla terza elementare, un ragazzo di soli 20 anni, con tutti i tuoi amici, non era qualcosa che avrei voluto vivere. Vederli tutti piangere, abbracciarsi, cercando di farsi forza a vicenda, è straziante e non lo augurerei nemmeno al mio peggior nemico.
Ora capisco perché siamo esseri fragili, deboli ramoscelli attaccati fievolmente al grande albero della vita, pronti a spezzarsi da un momento all’altro.
Ora capisco che bisogna vivere ogni giorno al meglio, come fosse l’ultimo, o almeno anche solo provarci, infatti io non ci riesco sempre, guardarsi allo specchio e sentirsi realizzati, andare a dormire la sera ed essere contenti di chi si è e di cosa si è fatto. Per se stessi. Per gli altri. Per chi non c’è più.”
(R. classe quinta).

Gemma n° 2737

“Come gemma di quest’anno ho deciso di portare la mia esperienza da animatrice. Questa esperienza è iniziata grazie a un pcto. Ho partecipato per tre settimane a giugno al centro estivo di Paderno. Poi, a fine agosto, ho deciso di aiutare anche nel centro estivo del mio paese e ora, dopo che, a suon di “animatrice posso andare a bere” “ho un regalo per te” “mi manca la mamma” “ho paura mi dai la mano”, è finita la mia estate, posso dire di non sapere più cosa voglio fare veramente nella mia vita. Se prima ero certa della strada che avrei voluto percorrere, ora non sono più sicura se questa strada sia giusta per me, se aver scelto questa scuola sia stata la scelta giusta e se so veramente che cosa mi piace fare. Prima di entrare in questa scuola infatti ero convinta di voler fare la maestra o comunque di voler lavorare con i bambini ma poi, non so nemmeno io per quale ragione, ho scelto il linguistico dimenticandomi come mi sentivo quando stavo con dei bambini. Inoltre, quest’estate ho perso una mia amica d’infanzia che non so per quale motivo si è allontanata, io ci sono stata parecchio male, ma durante questa esperienza ho avuto la fortuna di conoscere persone che sono veramente pure e genuine e che nonostante non le conosca da tanto mi sembra di conoscerle da sempre” (E. classe quarta).

Gemma n° 2736

Immagine creata con ChatGPT®

“Questa gemma voglio dedicarla a mia nonna perché è una delle persone più importanti della mia vita.
Lei c’è sempre stata e non mi ha mai fatto mancare nulla.
Ha sempre creduto in me e mi ha sempre incoraggiata e sostenuta. Mi ha vista ridere, mi ha vista piangere, mi ha vista sbagliare, mi ha vista crescere.
Riesce sempre a farmi sorridere, anche nei momenti difficili, anche quando penso di non farcela” (G. classe seconda).

Gemma n° 2735

“Questo è lo stadio della mia città in brasile (Belo Horizonte): ho scelto di portarlo come gemma perché oltre ad essere lo stadio della mia squadra del cuore mi dà anche bei ricordi sull’ultima volta che sono stato in Brasile due anni fa” (T. classe quarta).

Gemma n° 2734

“Questa canzone per me ha un significato molto importante perché simboleggia un po’ in generale la musica che più mi caratterizza e la ricollego anche ad un persona molto importante per me.
Nonostante sia una canzone un po’ triste per me ha un significato molto forte e rispecchia ciò che amo” (B. classe quarta).

Gemma n° 2733

“Quando si tratta di un rapporto stretto, io sono sicura che il tempo non gioca un fattore importante.
Per molti anni della mia vita non ero al corrente dell’esistenza dei miei stessi zii (di secondo grado). Mia nonna per qualche ragione aveva preferito allontanare me ed i miei fratelli da loro. Ha sempre tenuto il motivo nascosto e non abbiamo mai avuto modo di sapere il perché. Il rapporto con suo fratello (mio zio) è sempre stato d’amore e odio, crescendo hanno preso strade molto diverse ma erano comunque rimasti in contatto. Ho conosciuto i miei zii per la prima volta alla mia comunione, allora non avevo compreso fossero miei parenti. In quell’occasione mi regalarono questo bracciale, la collezione a cui appartiene viene venduta con un libricino che descrive la personalità che ognuno possiede. Senza conoscermi l’avevano azzeccata alla perfezione. Solo due anni dopo mia nonna ha iniziato a portarmi a casa degli zii e quando è venuta a mancare le visite sono diventate più e più frequenti. In famiglia avevamo bisogno di sostegno e loro ci hanno aiutato a lavorare sul nostro dolore. Ho imparato a conoscerli e a volergli bene ed ora sono infinitamente grata del rapporto genuino che condividiamo. Quindi, sì, posso dire con certezza che il tempo non è rilevante quando delle persone si capiscono così bene” (E. classe seconda).