“Come gemma, ho deciso di portare un’esperienza indimenticabile che ho vissuto quest’estate: il concerto di Billie Eilish. Insieme ad altri due miei cari amici, l’8 giugno di quest’anno sono andata a Bologna, al mio primissimo concerto. Da quando ho iniziato ad ascoltare quest’artista, ho sempre giurato a me stessa che il mio primo concerto sarebbe stato suo, e così è stato. Per quanto molti la possano considerare una cantante come altre, io la considero come un vero e proprio posto sicuro; la sua musica mi accompagna da molti anni, e mi ha sempre aiutato e consolato nei momenti difficili. Sono molto grata di aver avuto la possibilità di sentirla dal vivo, con persone che condividono la mia medesima passione. Porterò quel giorno per sempre nel cuore!” (B. classe quinta).
“Come prima gemma ho deciso di portare la frase di una canzone che a parer mio è una vera e propria poesia. La canzone è “Quel filo che ci unisce” di Ultimo ed è diventata la colonna sonora della mia vita. Innanzitutto vorrei raccontarvi com’è nata: Ultimo l’ha scritta per una ragazza totalmente sconosciuta con cui ha passato un pomeriggio parlando e passeggiando per Trastevere. Lei poi è ritornata a Los Angeles dove viveva e lui, rimasto a Roma, dopo due settimane le ha inviato in una scatolina rossa una chiavetta USB e un testo di una canzone scritta a mano che era proprio “Quel filo che ci unisce”. Dopo 4 anni Ultimo e questa stessa ragazza hanno avuto un bambino. Questa canzone fa parte di un album che per il cantante è molto importante cioè “Solo”. È stato pubblicato dopo due anni di pandemia in cui eravamo tutti isolati gli uni dagli altri e questo ha permesso a molti di mettersi a confronto con le proprie fragilità e insicurezze. Ecco, Quel filo che ci unisce è una speranza, uno spiraglio di luce in fondo ad un tunnel buio da cui, se sei da solo, fatichi ad uscire, ma se trovi la persona giusta tutto diventa luce. Già questo, per me, è un motivo per cui questa canzone è magica. Inoltre, qualche anno fa, dopo aver vissuto un lutto familiare molto importante, le sue parole mi hanno accompagnata in quei giorni di sofferenza e dolore, diventando parte del mio cuore e della mia anima. La perdita che la mia famiglia ha vissuto è stata improvvisa, ingiusta e priva di una spiegazione… Tuttavia Niccolò ci ha insegnato ad andare oltre, a capire che, nonostante ciò che avevamo perduto, potevamo ancora contare su quel filo che ci unisce: un filo che va oltre gli oceani, oltre le montagne, oltre qualsiasi cielo. Qualcosa di ultraterreno, di magico. C’è una frase in particolare che dice: “tanto sai che tutto è un gioco e vince chi sorride”. Un giorno l’avevo scritta nelle mie note di Instagram perché, dopo aver letto un post della fidanzata di Ultimo in cui parlava di come sarebbe stata da mamma, avevo davvero compreso il significato profondo di questo verso.
La mattina seguente, a quella nota aveva risposto mia sorella M. chiedendomi se fosse tutto ok. Quello che le ho risposto io è arrivato direttamente dal mio cuore. Non ho usato parole dotte o significati complessi, semplicemente il mio pensiero.
Io e lei ci siamo promesse di tatuarci questa frase non appena avrò compiuto 18 anni nella parte sinistra del torace, vicino al cuore. Mia sorella ha vissuto tante battaglie, forse troppe per un’unica persona. È una donna esile ma ha una forza che potrebbe smuovere le montagne. Non posso definirla una semplice amica. Lei è la mia anima gemella: l’estensione della mia anima. La parte migliore di me. Un pezzo del mio cuore. La mia medicina. Il mio rifugio. La mia casa. Il mio Sole. Non hanno ancora inventato le parole giuste per definire ciò che è lei per me. O forse sono io ignorante, perciò faccio un passo indietro nel provare a descrivere il nostro legame perché qualsiasi cosa io possa dire non sarebbe mai abbastanza per Lei. Quando ero piccola M. mi portava sempre in giro e faceva quello che la mamma e il papà non riuscivano a fare avendo tanti figli a cui badare. È stata la prima a portarmi nel luogo che è diventata la mia seconda casa cioè la palestra dove ballo; è stata la prima a farmi capire cosa significhi essere forti e superare le battaglie che la vita ci pone davanti, talvolta anche lasciandosi distruggere dal dolore perché è proprio da quel dolore che si può ricominciare. Quando sarò vecchia racconterò di lei ai miei nipoti e non dirò “mia sorella”, ma il mio primo vero amore. Forse alla fine questa mia gemma non è per la frase di Ultimo in sé, ma per la persona a cui penso quando la leggo: la mia anima gemella. L’augurio che posso fare a ognuno è quello di trovare una persona come Lei. Tutti meritano di essere amati come lo sono io da mia sorella.” (A. classe quarta).
“Quest’anno ho deciso di portare qualcosa che sento davvero mio: un duo musicale, gli Psicologi. Questa foto è di qualche mese fa, quando sono andata al loro concerto. Per me è stato un momento davvero speciale, perché finalmente ho potuto vederli dal vivo e ascoltarli davvero, non solo dalle cuffiette. La cosa più bella è che, nonostante fossi in mezzo a tantissime persone, sembrava che ci fossimo solo io e loro. Era la stessa sensazione che provavo anni fa, quando li ascoltavo da sola in camera mia. Non credo di essermi mai sentita così al sicuro: ero circondata da persone che, anche se per motivi diversi, provavano la mia stessa passione e lo stesso amore per ciò che stavamo ascoltando. Il vero motivo per cui sono così importanti per me è perché sono gli unici artisti che ascolto ancora dalle medie, quindi da più di cinque anni. Per me non è una cosa da niente, perché in tutto questo tempo sono cambiata un sacco: ho cambiato gusti musicali, modo di vestire, di truccarmi, persino come porto i capelli… e soprattutto sono cambiata io. Eppure loro sono rimasti lì, e la loro musica continua a rappresentarmi, forse anche più di prima. È un po’ come se fossero cresciuti con me. Sono quelli che ascolto quando ho bisogno di stare un po’ per conto mio o quando devo sfogarmi. E spero che continuerà a essere così ancora per molto” (B. classe quarta).
Qualche giorno fa, subito dopo essersi svegliato dal pisolino pomeridiano, Fra ha iniziato a ridere. “Perché ridi?” gli ho chiesto. E’ vero che non ha neanche due anni, ma riesce a farsi capire bene. Solo che ha continuato a ridere. E più ripetevo la domanda, più continuava a ridere. Ridevo con lui, perché in quella risata era di una bellezza indefinibile. Siamo andati avanti una decina di minuti. Una scena che mi è tornata alla mente alla fine del terzo articolo di Gabriella Greison per la rubrica Interferenze di Avvenire (mi sa che li proporrò tutti, li trovo estremamente interessanti e fecondi).
“Oggi vi parlo di Werner Heisenberg, uno dei creatori della fisica quantistica. Werner Heisenberg non aveva bisogno di dogmi, ma di armonie. Non entrava nei templi, ma saliva sulle montagne della Baviera, violino sotto braccio, per contemplare l’alba come fosse un’equazione che si lascia intuire solo per pochi istanti, e poi svanisce. La sua preghiera era fatta di musica e matematica, di silenzi e formule, di ipotesi scritte di notte e cancellate al mattino. Il suo altare non aveva icone, ma lavagne piene di simboli che solo pochi al mondo potevano comprendere, e che lui difendeva come un linguaggio sacro. La sua vita è la prova che si può credere senza possedere, che ci si può dedicare a qualcosa di invisibile senza mai vederlo direttamente. Perché questo fa un fisico: dedica la vita a entità che non compariranno mai a occhio nudo, ma che sente presenti come presenze concrete, reali, più solide del legno dei banchi su cui scrive. La scienza, per lui, era una forma di contemplazione, non un’appropriazione. Guardava il mondo non per domarlo, ma per comprenderne la musica segreta. Quando Heisenberg formulò il principio di indeterminazione, disse al mondo una cosa che nessuno voleva sentire: che non possiamo conoscere tutto, che non esiste la certezza assoluta. Possiamo dire dove sta una particella, oppure quanto corre, ma non entrambe le cose insieme. Non è un limite dei nostri strumenti, ma un limite della realtà stessa. Era come dichiarare che il cuore dell’universo è velato, che esiste una soglia che la mente umana non può oltrepassare. E questo, se ci pensate, ha la stessa radicalità di un annuncio religioso: non tutto ci è dato. Il mistero non è un incidente, è una struttura. Non siamo noi a decidere dove finisce la conoscenza: è la realtà stessa che ci pone un confine, e ci chiede rispetto. Non era un mistico convenzionale, Heisenberg. Non lo trovavi inginocchiato davanti a un altare, ma potevi trovarlo in silenzio davanti a un tramonto, o al banco di un laboratorio, a osservare un esperimento che sembrava non obbedire a nessuna regola. C’era qualcosa di profondamente spirituale nel suo modo di guardare al cosmo. Credeva che l’universo fosse costruito su una bellezza matematica, e che quella bellezza non fosse un dettaglio estetico, ma una firma. Come se ogni legge fosse una frase di un poema invisibile, scritto da una mano che non smette mai di scrivere. E quando quella mano tace, resta l’eco. L’eco di un ordine che non riusciamo a spiegare, ma che riconosciamo come familiare. C’è una sua immagine che resta scolpita: il bicchiere delle scienze naturali. Disse: “Il primo sorso ci rende atei, ma sul fondo del bicchiere ci aspetta Dio.” È la sua maniera di dirci che la scienza ci disillude, ci toglie certezze facili, ci fa scendere dal trono dell’onniscienza… ma se abbiamo il coraggio di bere fino in fondo, quello che troviamo non è il nulla: è un fondamento che ci supera. Non un Dio dei dogmi, ma un Dio delle profondità, delle domande, dell’incompletezza. La scienza, per lui, era il viaggio dell’uomo che non smette di interrogarsi, e Dio era il nome che dava al mistero che resta, anche dopo aver spiegato tutto il resto. Heisenberg aveva due passioni parallele: la fisica e la musica. Passava ore al pianoforte, convinto che Bach e Mozart stessero dicendo con le note ciò che la fisica dice con gli integrali: che l’universo non è un ammasso caotico, ma un ordine segreto, una trama nascosta che ci avvolge. La musica era per lui una sorella della scienza: entrambe gli restituivano l’intuizione che il mondo non è mai muto, ma vibra di senso. Suonava e scriveva come chi cerca lo stesso accordo in linguaggi diversi. Diceva che un’equazione è come una fuga di Bach: inizia con un tema, poi si ripete, si intreccia, si trasforma, fino a ritrovare se stessa. Era il suo modo di dire che la verità, prima di essere capita, va ascoltata. Ma la vita di Heisenberg non fu solo contemplazione. Venne attraversata da dilemmi morali che lo marchiarono per sempre: lavorare o no sul progetto atomico durante la guerra, scendere a compromessi con un regime che pretendeva obbedienza, salvare la scienza tedesca senza macchiarsi di sangue. Era un uomo diviso, e sapeva che nessuna formula avrebbe potuto cancellare quella divisione. Quando fu interrogato dagli alleati dopo la guerra, rispose con un’idea che ancora oggi fa discutere: che la conoscenza non è mai neutrale, ma porta con sé una responsabilità. La sua spiritualità non era evasione, ma coscienza vigile: la consapevolezza che ogni scelta scientifica è anche una scelta etica. Heisenberg ci ha insegnato che il mistero non è quello che resta quando la scienza fallisce, ma quello che incontriamo anche quando la scienza riesce. Ogni volta che una teoria funziona, ogni volta che una previsione coincide con un esperimento, lì non troviamo la fine del mistero, ma un nuovo inizio. Ogni conquista della conoscenza apre un’altra finestra sull’infinito, e ogni risposta genera nuove domande. È come una montagna: sali, credendo di arrivare in vetta, e scopri che dietro c’è un’altra vetta, più alta e più luminosa. La conoscenza autentica non elimina la sete, anzi la accresce. Forse la sua eredità più grande non è il principio di indeterminazione, né il Nobel che lo consacrò giovanissimo. Forse tra i suoi meriti c’è quello di averci ricordato che la conoscenza non è possesso, ma umiltà. Che non si arriva mai, ma si cammina. Che la scienza e la spiritualità non sono due opposti, ma due sguardi diversi sullo stesso orizzonte. Heisenberg è la prova che si può essere razionali e mistici, rigorosi e sognatori, precisi e pieni di stupore. E allora la sua frase sul bicchiere non è solo un gioco di spirito. È un invito: a bere fino in fondo, a non fermarsi al primo sorso di scienza, a non accontentarsi delle semplificazioni. Perché in fondo a quel bicchiere non c’è la fine del pensiero, ma il suo inizio più radicale. Bere fino in fondo, in fondo, vuol dire accettare di non sapere tutto, ma continuare a voler capire. Domanda per voi, per tutti noi: se la realtà, come ci ha insegnato Heisenberg, non si lascia mai catturare del tutto, se c’è sempre un margine di indeterminazione, siete disposti a vivere accanto a quel margine? A convivere con un mondo che non si lascia possedere ma solo contemplare? Forse la vera spiritualità, e la vera scienza, cominciano proprio lì: nel coraggio di abitare l’incertezza senza smettere di cercare. E magari, se ogni tanto l’universo ci sembra incomprensibile, ricordiamoci che anche lui, laggiù tra le montagne bavaresi, davanti a un’alba che cambiava colore ogni minuto, sorrideva. Sapendo che la bellezza più grande è quella che non si lascia definire.”
Quando si parla di tradizioni il mio pensiero va sempre al 1° novembre: da bambino il pomeriggio (da poco diventato più breve con il cambio d’ora) lo passavo in visita ai cimiteri (Palmanova, Bagnaria e Campolonghetto di solito) e a qualche parente (di quelli che si vedevano meno) e la sera rosario in latino a casa dei nonni insieme a zii e cugini. I due ricordi più vividi sono le risate trattenute a stento per quella lingua oscura di cui non capivamo niente (in particolare il De Profundis) e il crepitio del fuoco che cucinava le castagne. Poi presto a casa perché il giorno dopo c’era scuola. Helloween non c’era, è arrivato molto dopo. Oggi però, da papà di una bimba che si vestirà da Mercoledì Addams e di un bimbo che sarà uno scheletro, ci faccio i conti e la scelta che cerchiamo di portare avanti Sara ed io è quella di tenere insieme le due cose: l’elemento nuovo e la tradizione. In questo post notturno voglio dare una colonna sonora a questo intento e mi affido ad un autore poco conosciuto ai più: Pédro Kouyaté. Lui è un griot, un poeta e cantore maliano con il ruolo di conservare la tradizione orale degli avi. Nel 2024 ha pubblicato l’album Followinge a giugno 2025 ha rilasciato una bellissima intervista a Nadia Addezio di Confronti: vi si parla di memoria, tradizione, cultura, amore, blues, antropologia, nomi, morte, vita, bambini, esilio. Eccola.
“Musicista, cantante, autore, compositore, attore, produttore, musicoterapista. Sono molteplici le anime e professioni che qualificano Pédro Kouyaté, classe 1972. Cresciuto in Mali, incarna la figura del griot – figura centrale nella cultura dell’Africa occidentale, custode della memoria collettiva e narratore musicale – e si forma nell’ambiente musicale della Symmetric Orchestra di Toumani Diabaté, leggenda della kora. Parallelamente, si laurea in socio-antropologia a Bamako, unendo l’approccio accademico alla sua vocazione artistica. Dopo un’importante collaborazione con il bluesman Boubacar Traoré, che lo porta a esibirsi in Africa, Europa e Stati Uniti, si stabilisce a Parigi nel 2006 e fonda il proprio gruppo, Pédro Kouyaté & Band. Nella capitale francese si afferma come interprete e divulgatore della tradizione musicale africana, con esibizioni al Musée de la Musique della Philharmonie de Paris e collaborazioni con nomi del calibro di Archie Shepp e Jean Philippe Ryckiel. Negli ultimi anni, Kouyaté ha spinto la sua ricerca musicale verso nuove direzioni, mescolando sonorità tradizionali con elementi elettronici. Il suo nuovo progetto, Following, prodotto dall’etichetta discografica Quai Son Records, rappresenta un omaggio agli antenati e un’ulteriore tappa nella sua incessante esplorazione artistica.
Il cognome Kouyaté appartiene a un’antica stirpe di griot dell’epoca Mandinka. La sua discendenza ha segnato il suo destino di musicista e paroliere? Quando si nasce in una famiglia griot, la madre fin dal concepimento è educata a portare in grembo il futuro nascituro con l’idea che quel neonato sarà un griot. Segue i consigli dei medici tradizionali, compie abluzioni rituali e parla alla luna. Ciò significa che sei preparato sin dal principio della tua vita alla tua funzione.
Lei ha collaborato con il leggendario Toumani Diabaté e la Symmetric Orchestra. Che impatto ha avuto sulla sua crescita artistica? Toumani è l’equivalente dei grandi filosofi che hanno lavorato in modo empirico. Con lui puoi incrociare Martin Scorsese. Nel cortile di Toumani, puoi incontrare il musicista statunitense Taj Mahal. È stata una fortuna essere il suo compagno di viaggio. Toumani ha notato subito qualcosa in me: ha visto che il mio interesse era diverso da quello dei miei amici, che ero attratto dalla musica e dalla lettura. Toumani mi ha insegnato tutto, proprio come Michelangelo e Leonardo da Vinci trasmettevano il loro sapere ai loro allievi. Ci sono i grandi maestri e ci sono i discepoli, e io credo molto in questa relazione di subordinazione. Mi ha insegnato tutto sulla musica: come respirare, come sentirla. È stato la mia prima grande scuola, nonché il mio padre spirituale, poiché ero orfano di padre. Insomma, da lui ho imparato tutto. Indimenticabile.
Da questa esperienza, di fatto, è iniziata la sua carriera europea. La mia carriera europea inizia con Boubacar Traoré, uno dei più grandi bluesman del Mali e del mondo. Mi aveva notato quando ero con Toumani. Mi ha preso sotto la sua ala e insieme abbiamo fatto sei volte il giro del mondo. Così, decisi di trasferirmi in Europa per imparare. Frequentai scuole di musica, studiai le origini del jazz. Imparare divenne quasi un’ossessione per me, una necessità vitale. Studiai i canti che venivano intonati nei campi di grano. Da lì provengono i Negro Spirituals. Da quell’esperienza di duro lavoro, le persone iniziarono a suonare musica, a cantare. È in quei momenti che il blues ha preso vita, ed è stato Boubacar Traoré a insegnarmelo. Con lui ho viaggiato per l’Italia, specialmente nel Nord, e ho avuto l’occasione di osservare come gli artisti che praticano musica tradizionale lavorano e provano. Ho scoperto il fado, i canti popolari italiani, la musica classica. Ho imparato moltissimo. È stata davvero una fortuna immensa.
La sua musica fonde tradizione ed elettronica, un ponte tra mondi ed epoche diverse. Da dove nasce questa spinta alla sperimentazione? Perché per me la vita è mescolanza. È come il giorno, che si avvale della mattina, del pomeriggio e della notte. Ho quindi scelto di mantenere salde le mie radici e di offrire agli altri una cartolina del mio Paese. Non posso fare musica senza invitare gli altri a farne parte. Amo questa apertura. E poi vengo dal Mali, che è un Paese multietnico. Io stesso sono il frutto di un incrocio: mia madre era fulani, mio padre mandinka. Io sono “meticcio”.
Come integra la sua formazione in socio-antropologia nella sua musica? Basta guardare il mio ultimo album: ho invitato persone come il trombettista franco-svizzero Erik Truffaz, il cantautore afroamericano Big Daddy Wilson, il musicista francese Arthur H. Il mio interesse si esprime, dunque, invitando persone di background musicali e culturali differenti a condividere il loro amore per la mia terra. L’Africa è amata, ma spesso noi africani crediamo che il resto del mondo ci consideri “esotici” quando non “inferiori”. La mia prospettiva, quindi, si basa sull’accoglienza di culture diverse. Grazie all’antropologia ho avuto un alibi e un’opportunità straordinaria per lasciare il mio Paese, conoscere altre persone e scoprire come vivono. Tuttavia, l’antropologia è anche una scelta, che si riduce nel voler avere l’incontro con l’altro.
Quali artisti hanno influenzato maggiormente il suo percorso? Luciano Pavarotti, Miles Davis, Aretha Franklin, Ry Cooder, Ahmad Jamal, Yusef Lateef. Tutte persone che hanno avuto il coraggio di aprire nuove strade e che hanno aperto la musica al cambiamento. Il pianista e compositore Bill Evans, per esempio, ha inserito la musica classica nel jazz. Poi ancora: James Brown, Prince, fino ad arrivare a Michael Jackson e Thelonious Monk. Come per me, per questi artisti la musica tradizionale è stata alla base della loro creazione artistica.
Quando ha capito che blues e jazz sarebbero stati i capisaldi del suo linguaggio artistico? Se penso alle mie origini, l’essere umano è sempre partito alla ricerca di migliori “risorse vitali”. Ciò dettato anche dalla peculiare posizione geografica in cui si trova il continente africano tutto. Il Mali, in particolare, si trova in una zona del pianeta dove l’acqua è scarsa e la siccità è una realtà. Tale penuria spinge a spostarsi e intraprendere un viaggio, che è l’esilio: una necessità per sopravvivere, più che una scelta. E cos’è questo se non il blues? Tu lasci il tuo Paese, ma il tuo Paese non abbandona te. L’esilio è universale. Siamo sempre stranieri in qualche parte del mondo che non sia casa nostra. E il blues non è mai lontano dalla storia dell’umanità.
Ci racconti il suo ultimo disco, Following, partendo dalla nona traccia, Sahara Blues. Sahara Blues è un brano eseguito con Arthur H. dove affrontiamo i temi dell’ambiente e dell’ecologia, tematiche che toccano molto da vicino il Mali. Ma non solo: se il deserto è un luogo particolarmente ostile alla vita della fauna e della flora, oggi impera un “deserto umano” poiché il Mali è assediato dai jihadisti. Oggi nel Sahara ci sono povertà intellettuale e armi. Sahara Blues vuole essere un richiamo alla memoria culturale. Del resto la funzione del griot è ripetere e raccontare la Storia affinché non venga mai dimenticata. La storia, il passato, l’ecologia sono una chiave per comprendere le nostre terre e per mettere ordine, nelle nostre terre come nelle nostre menti.
Come è nato Following e cosa l’ha spinta a renderlo un omaggio agli antenati? Ero in isolamento durante la pandemia da Covid-19 nella mia camera buia quando ho pensato: «Dove sono gli antenati? Cosa sta succedendo? Non abbiamo rispettato la vita e siamo stati colpiti in questo modo». Del resto, in tutti i libri sacri si parla di un tempo in cui gli uomini si perderanno. Se passeranno accanto all’amore senza riconoscerlo, se ignoreranno l’essenziale. Se il virtuale diventerà più importante del reale. E mi sono detto: «Wow! Ringrazio gli antenati per avercelo detto!». Quei messaggi sono rimasti nei canti che loro intonavano, quando subivano i colpi di frusta nei campi di grano, quando una persona resa schiava veniva portata via costretta ad abbandonare il suo villaggio e lavorare in campi che non erano i suoi. Pur non dimenticando mai da dove veniva. A quel tempi, venivano ripetute tutte le storie, le leggende, i nomi delle famiglie del villaggio di origine. Questo è rimasto vivo. E lì ho capito: Following significa “ciò che segue”. Questo disco vuole essere la continuazione dei nostri antenati e di ciò che viviamo oggi. L’urgenza di rendere omaggio agli antenati nasce dal fatto che io, come detto, sono un griot. I griot devono restituire, tramandare, recitare e perpetuare il passato, come si fa con i riti religiosi. Se una persona è virtuosa, sono i griot a doverlo raccontare. Sono la radiografia della società. Following è dedicato al Mali, ma anche a tutti i Paesi del mondo: non bisogna dimenticare la propria cultura, la propria famiglia, il nome di battesimo, il nome di famiglia. Perché anche il nome e cognome non sono casuali. Rispondendo alla prima domanda di questa intervista, o siamo attesi o abbiamo scelto di arrivare su questo pianeta. Non bisogna mai dimenticare il passato perché è tutto lì. Ogni popolo ha una storia. E la storia esiste per permetterci di risvegliarci e ritrovare il desiderio di vivere.
In Mabo, dedicata all’attore Mabô Kouyaté scomparso nel 2019, lei esplora il tema della morte. Qual è la sua visione? Nel nostro Paese i defunti non muoiono per davvero: sono tra le nostre mura, scorrono nel nostro sangue, abitano nel nostro ventre, nei nostri sogni, nella nostra rabbia. Si muore due volte: la prima, quando si lascia questa vita; la seconda, quando l’ultima persona sulla Terra dimentica il tuo nome. I morti devono essere rispettati, perché dall’alto ci osservano.
A quali delle sue canzoni è più legato? È difficile scegliere una sola canzone, come se avessi dieci figli e dovessi indicarne uno solo. Amo tutte le mie canzoni. Sa perché? Perché quando compongo, non impongo la mia volontà al cuore. È l’album che detta le sue regole. Non controllo il processo, non amo chi vuole controllare tutto. Bisogna lasciar andare, aspettare che la magia si crei da sola. Una volta che si stabilisce, è come una perla, una successione di armonie perfette. Amo ogni pezzo, ma vorrei che almeno le persone ricordassero il nome dell’album: Following.
C’è il rischio che l’eredità culturale dei griot vada perduta? Non perderemo mai la cultura, non c’è alcun rischio. Questo perché esistono i griot, custodi della memoria collettiva, che ripetono e tramandano la cultura ogni giorno: nei matrimoni, persino durante le cerimonie funebri, i griot cantano. Finché ci sarà amore, ci saranno bambini. E finché ci saranno i bambini, ci saranno i griot. Tutto ruota intorno all’amore.”
“Ho scelto la canzone Il mondo insieme a te degli 883 perché mi è stata dedicata ed è stato inaspettato, poiché la persona che l’ha fatto non è da gesti romantici. Mi ricorda molti momenti belli passati insieme e avrà sempre un posto speciale nel mio cuore” (K. classe quarta).
“Quest’anno come gemma ho deciso di portare la musica. La musica è sempre stata una parte molto importante della mia vita, ma soprattutto da due anni a questa parte è diventata del tutto indispensabile. Io sono cresciuta in una famiglia in cui fin da piccola mi hanno esposto a qualunque tipo musica: non c’era un giorno in cui mio nonno non ascoltasse l’orchestra della Rai alla televisione, e mio padre mi faceva ascoltare più generi di musica possibile, insegnandomi anche a suonare il pianoforte. Da piccola non mi piaceva abbastanza e quindi ho suonato per cinque anni, per poi smettere per un po’. In quella pausa relativamente breve ho capito quanto effettivamente fosse importante per me. Ogni volta che sentivo suonare mi si creava un vuoto dentro, come se mi mancasse qualcosa di veramente importante, e così ho ripreso. Adesso per certi versi rimpiango quel periodo, perché se non avessi smesso di suonare per quell’anno e mezzo/due adesso sarei di sicuro più brava. Però mi sono anche accorta che se non avessi smesso adesso non sarei così attaccata dalla musica: infatti da sei anni suono più o meno tutti i giorni, e anche se non ho tempo trovo sempre dieci minuti anche solo per ripassare il brano che mi piace di più. Negli ultimi due anni ho effettivamente notato quanto la musica mi faccia stare bene. E’ come un cerotto che ripara i buchi dell’anima e pian piano li fa riassorbire. Inoltre la musica è un modo per unire le persone. C’è stato infatti un periodo in cui io e mio padre non andavamo molto d’accordo, ma grazie alla musica ci siamo ritrovati. La musica è infinite cose per me, ottantotto tasti che racchiudono l’universo e la felicità” (G. classe quarta).
“Come gemma di quest’anno, ho deciso di portare il primo concerto della mia vita, un’esperienza che non dimenticherò mai. Ho scelto di assistere al live dei Cigarettes After Sex a Milano, senza sapere che quella serata avrebbe lasciato un segno così profondo dentro di me. Non avevo mai capito davvero la magia dei concerti, fino a quando non mi sono ritrovata in uno stadio gremito di persone, tutte pronte a cantare all’unisono le stesse canzoni, a condividere emozioni pure e intense. È stato un momento unico, quasi surreale, che ho avuto la fortuna di vivere accanto a una delle mie migliori amiche, S. Lei è una persona speciale, una di quelle che restano, che ti accompagnano nelle follie e nei momenti difficili, che c’è sempre, anche quando non serve parlare. Quel concerto è stato più di una semplice serata di musica: è stato un viaggio emotivo, un turbine di sensazioni nuove e profonde. Mi sono sentita sopraffatta dalla felicità, dall’emozione pura di essere lì, di vivere quell’istante che sapevo sarebbe rimasto impresso nel cuore. Sono infinitamente grata a S. per aver condiviso con me questa esperienza, una delle più significative della mia vita. Senza di lei, quel momento non sarebbe stato lo stesso” (G. classe quarta).
“Come gemma ho deciso di portare Undisclosed desires dei Muse perché rappresenta la parte di me che tendo a mostrare di meno e anche perché la collego a V, una delle persone a me più care e che mi è stata vicina nei momenti migliori e peggiori della mia vita e con cui ho trascorso momenti indimenticabili e provato tantissimi sentimenti. Penso che se non l’avessi conosciuta non sarei come sono adesso ed è per questo che le voglio un mondo di bene” (G. classe seconda).
“Quest’ anno come gemma ho deciso di portare la musica, perché la musica è una parte fondamentale della mia vita. Mi accompagna ogni giorno, sia per rilassarmi, concentrarmi o semplicemente per divertirmi. Ogni genere ha qualcosa di speciale per me, e mi piace scoprire nuovi artisti e suoni. Mi aiuta a scaricare lo stress e a migliorare l’umore, ed è sempre presente quando ho bisogno di compagnia. La musica per me è anche un ricordo, perché quando ascolto una canzone ripenso sempre al periodo in cui la ascoltavo più frequentemente, come le canzoni R&B dei cd di mio padre che cantavo a squarciagola durante i tragitti più lunghi quando ero più piccola (anche se lo faccio ancora). Non importa dove mi trovi o cosa stia facendo, la musica è sempre lì, a rendere ogni momento un po’ più speciale. Non potrei mai farne a meno, perché la musica, con ogni suo genere diverso, mi fa sentire a casa ovunque io sia perché mi porta conforto e mi comprende anche quando non so spiegare i miei sentimenti e mi sento sola” (C. classe seconda).
“Questa canzone per me ha un significato molto importante perché simboleggia un po’ in generale la musica che più mi caratterizza e la ricollego anche ad un persona molto importante per me. Nonostante sia una canzone un po’ triste per me ha un significato molto forte e rispecchia ciò che amo” (B. classe quarta).
“Come gemma ho deciso di portare questa foto che rappresenta un po’ il legame tra me e mia cugina. Per il mio quindicesimo compleanno i miei genitori mi hanno regalato due biglietti per il concerto di Alfa. Ho deciso di chiedere a mia cugina A. di venire con me dato che condivide la stessa passione per le canzoni di Alfa. Da quando ho ricevuto il regalo, non aspettavo altro che quel giorno da vivere insieme a lei, per cantare a squarciagola tutte le canzoni, dall’inizio alla fine. Quella sera è stata una delle più belle della scorsa estate, trascorsa con una persona davvero speciale, una delle persone a cui tengo di più. Ci siamo ritrovate in un mondo tutto nostro, dove ogni canzone di Alfa sembrava parlare direttamente a noi, come se fossimo le uniche due persone presenti. A. mi è sempre stata vicina. I miei genitori mi hanno raccontato che quando sono nata lei, ancora piccolina, aveva 7 anni, è venuta in ospedale a farmi visita e mi ha donato uno dei suoi peluches preferiti, Panciotto, un adorabile orsetto con qualche toppa che ho consumato a forza di abbracci. Su lei posso sempre contare, mi ha sempre supportato anche nei momenti in cui avevo più paura e ansia come quando da bambina sono andata a fare il buco per gli orecchini e lei, che ce l’aveva già, ne ha fatto un altro insieme a me per darmi coraggio; oppure come il giorno dell’orale di terza media quando sono uscita da scuola e si è presentata con un magnifico e variopinto mazzo di fiori. A. c’è e c’è sempre stata, con lei al mio fianco mi sento più sicura. È la sorella maggiore che non ho, non smetterò mai di volerle un mondo di bene”. (E. classe seconda).
“Quest’anno ho scelto come gemma questa foto. Qua eravamo al concerto di Taylor Swift quest’estate, ed è stata scattata a nostra insaputa da una ragazza seduta dietro di noi, che poi ci ha chiesto di airdropparcela perché eravamo “troppo carine”. È stato uno dei momenti più belli della mia vita fino ad ora, non solo perché sono riuscita a vedere finalmente dal vivo una dei miei artisti preferiti, ma anche perché ero insieme ad una delle mie migliori amiche. Perciò per me questa foto rappresenta un ricordo molto importante per questi diversi motivi” (S. classe quarta).
“A inizio anno scolastico non avevo idea di che cosa portare come gemma, ma verso la fine di ottobre, Tyler, The Creator ha rilasciato un nuovo album: Chromakopia. Nell’album, una delle canzoni che mi ha colpito di più è stata St. Chroma. I temi della canzone sono la fiducia in se stessi e la determinazione. Secondo il mio punto di vista, la canzone in sé è un inno verso i propri trionfi passati, presenti e futuri, e insegna ad essere più sicuri di se stessi. Ormai ascolto questa canzone ogni giorno, e mi ha fatto capire che c’è sempre un modo per uscire dal tunnel e trovare la luce. «You are the light, It’s not on you, it’s in you»” (L. classe terza).
“In famiglia siamo otto. Io, M, C, Mamma, N, P, Papà e R. C, detta Lella (non sapevo dire la R) l’unica sorella, è una grande ma qualche volta abbiamo un beef. N, in realtà S, il più piccolo, è un grande ma è spericolato, io e lui siamo i fratelli più cool (dipende se fai quello che vuole). P, mio fratello che ho sempre visto come ispirazione, siamo dei gamer insieme e abbiamo molte passioni in comune. M, il più grande, studia molto e lavora duro. Ora vive a Milano e a casa si sente la sua mancanza, è sempre stato molto serio R è sempre stato il più piccolo, è simpatico e gioco sempre con lui. Infine ci sono i miei. Severi ma giusti, hanno sempre fatto di tutto per concederci una vita serena, anche se molte volte dico che sono un po’ too much alla fine sono corretti. Spero di aver preso molto da loro (tranne i capelli di papà).
Ogni estate viaggiamo con il nostro camper, che ci ha porta in giro per l’Europa e l’Italia dal 2016, ha vissuto tante avventure da sparatorie al Sud a biglietti persi a Parigi. Spesso in famiglia facciamo giochi insieme o da carte, come Kobo, o giochi da tavolo, come Carcassone, ticket to ride e farmerrancho. Ascolto molta musica e in tanti momenti diversi della giornata sulle mie cuffie o con la cassa, mi piace avere un sottofondo per le faccende domestiche o mentre mi alleno. Ma cosa diamine ascolto? KanYe West. Kanye, mi ispira a migliorare ed essere la versione migliore di me, e come ha detto in un’intervista la sua musica è un espresso di autostima. Consiglio: -Jesus walks -Come to life -Runaway TYLER, THE CREATOR. Tyler mi fa sempre riflettere su importanti temi della vita come le relazioni sociali, l’amore. La sua musica mi fa entrare nel suo mondo e ogni canzone è unica. Consiglio: -Are we still friends? -Gone, gone/ thank you -Hot winds blows Kendrick Lamar. Kendrick mischia la poesia al rap, alternando canzoni su problemi sociali a quelle più introspettive, mi aiuta a riflettere e i suoi testi possono essere così profondi da avere svariate interpretazioni. Consiglio: -Pride -Alright -i Clipse/Pusha T. I clipse sono un duo di fratelli, che accompagnati dalle incredibili basi di Pharaphel Williams parlano di vita di strada. Si sono poi divisi e Pusha T ha continuato da solista, le energie dei beat e le loro rime pungenti mi danno una sensazione unica! Consiglio: -I pray for you -Cot damn -Rock N’ Roll Il Jazz. È da pochi mesi che l’ascolto quotidianamente ma lo trovo molto bello, mi è sempre piaciuto soprattutto grazie a film come La La land o La principessa e il ranocchio. Penso che il fatto che sia solo strumentale permetta di apprezzare molto di più il suono singolo degli strumenti e come questi si sposino, ma anche di riflettere con una base rilassante. Lo ascolto principalmente o per cambiare aria, per rilassarmi oppure fare lavori di scuola come temi. Lo ascolto da questa playlist che ho conosciuto grazie ad uno youtuber.
E infine l’ultima gemma, la mia squadra: la Roma. Sono Romanista, perché le altre squadre erano troppo banali e semplici da tifare, perché non vinciamo mai.
Sono Romanista, perché ho visto giocare Totti e mi sono innamorato. Per la tradizione dei capitani romani e romanisti. Sono Romanista, perché c’ho il sangue romano e i più cari parenti a Roma, a casa vive la tradizione. Sono Romanista, perché solo noi cantiamo 90 minuti e c’abbiamo un inno così Sono Romanista, perché è vero come dice Venditti cos’è che ci fa sentire amici anche se non ci conosciamo? Uniti anche se lontani? Che batte forte forte in fondo al cuore? GRAZIE E DAJE ROMA DAJE” (G. classe quarta).
“Da tre anni io suono il violino che apparteneva al mio bisnonno. Il mio bisnonno ha svolto la leva militare per poi andare in guerra, durante la quale fu catturato e imprigionato in un campo di lavoro. Il campo si chiamava “Alma” nome della località in cui era situato. Al suo rientro in Italia nel 1946, ha acquistato il violino che è stato conservato dai miei nonni” (M. classe prima).
“Ho deciso di portare questa canzone che ho scritto quando ero ancora alle medie. Nella mia vecchia scuola facevamo teatro e, essendo l’ultimo anno, dovevamo mettere in scena il nostro spettacolo per l’ultima volta. Ci tenevo molto a scrivere una canzone e dedicarla alla mia classe, un modo per rappresentarci. All’inizio l’avevo buttata sullo scherzo e avevo detto alla mia migliore amica che, se un giorno il nostro professore (quello con cui facevamo teatro) ci avesse lasciati, avrei voluto che lei suonasse la chitarra e io cantassi. Quando ne abbiamo parlato con lui, però, la prese seriamente e ci aiutò: supportò molto la mia migliore amica con gli accordi e aiutò me a cantare a tempo. Quando arrivò il giorno dello spettacolo, tutto accadde molto velocemente e, quando mi resi conto che era finito, sono scoppiata a piangere. Per me, tutto ciò che mi rendeva felice era ormai finito: il teatro, la scuola e i rapporti con i miei compagni. Ancora oggi vorrei tornare a quei giorni, perché ero felice. La panchina e la chitarra sono i simboli del mio professore, che è una delle persone più importanti per me” (I. classe prima).
“Ecco la mia gemma di quest’anno, ultima gemma (si spera) di questo percorso scolastico (non perché è l’ultima, ma perché mi auguro di poter passare la maturità!). C’è chi penserà che possa essere una canzone, chi una foto, un video, una poesia…niente di tutto questo. Ciò che voglio celebrare oggi sono “COINCIDENZE”, nel significato stesso della parola: numeri, persone, luoghi, avvenimenti giusti al momento giusto. Le COINCIDENZE stanno caratterizzando costantemente e continuamente gli ultimi due anni della mia vita, che sinceramente reputo i più belli, precisi e felici della mia esistenza. L’1, il 2 e il 4, numeri che ritrovo costantemente in combinazione tra loro, che portano fortuna, oppure certi cognomi (non li riporto, mi sta a cuore la privacy!) spesso ricorrenti, pienamente in positivo. Certe persone, amici e non, spesso incontrati per puro caso proprio dopo aver pensato a loro; certe azioni, con la stessa modalità, successe “a comando”. Ma, soprattutto, certe canzoni, che passano alla mia radio preferita nei momenti giusti (“Freed from Desire” come primo brano dell’anno nuovo, “Bittersweet Symphony” dei Verve nei giorni un po’ più tristi, “Right on Track” del Breakfast Club per quando serve un po’ di energia)… tutto questo senza alcun mio intervento fisico, semplicemente sono cose che accadono, semplicemente, COINCIDENZE”. (L. classe quinta).
“Come gemma di quest’anno ho voluto portare Can’t Help Falling In Love di Elvis ed Elvis stesso. Da piccola sentivo spesso la musica di Elvis perché a mio papà e a mio fratello piaceva molto, soprattutto a mio padre, ma non l’ho mai seguito fino a maggio 2024, quando ho visto il film “Elvis” su Netflix. Mi sono immediatamente innamorata di questa persona e del suo modo di cantare e atteggiarsi durante i concerti, mi sono appassionata tantissimo, specialmente alla sua voce stupenda; qualcuno potrà dire “ma è morto e non l’hai mai conosciuto, come fai ad essere così affezionata a lui?”. Ebbene la verità è che Elvis con la sua musica e la sua voce mi ha fatto staccare la spina dal mondo più di una volta; inoltre dopo aver saputo tutte le cose brutte che ha passato nella sua vita mi ci sono affezionata ancora di più. Ho scelto questa canzone perché è la mia preferita e ha una melodia fantastica; spero un giorno di riuscire ad andare a Memphis a visitare casa sua che ora è un museo” (B. classe terza).
“Per questa gemma, che purtroppo è l’ultima, vorrei riprendere da dove avevo lasciato l’anno scorso, quando terminai il mio discorso scrivendo : «…perché ce lo meritiamo, noi meritiamo di stare bene. Durante quei mesi sono riuscita a piantare delle radici, da cui sta crescendo una piccola piantina, che diventa ogni giorno più forte, che si lascia piegare ma non abbattere dalle intemperie. Perché i momenti di tristezza e difficoltà sono indispensabili, ma servono soprattutto tanti tanti momenti di spensieratezza e serenità. Ho capito insomma che devo “colorare la mia vita con il caos dei problemi”». Dall’anno scorso ne è passato di tempo: qualche ramo di quella piantina purtroppo si è spezzato, ma in compenso ne sono spuntati un paio nuovi; poi l’autunno è arrivato, le foglie della piantina sono cadute e tra poco sbocceranno quelle nuove, più verdi e resistenti. Questi anni di liceo sono stati un viaggio tanto complicato quanto straordinario. Quando mi guardo indietro, vedo una versione di me stessa che, a volte, non riconosco. Ho attraversato montagne russe emotive, fasi di crescita che sembrano infinite, e il tutto sotto un cielo che cambiava ogni giorno, inesorabile. Ricordo ancora quando la scuola sembrava un mondo parallelo, un luogo dove entravo ogni giorno senza sapere chi sarei diventata. E ora, a pochi passi dalla fine, mi ritrovo a chiedermi: chi sono, davvero? Come faccio a sapere dove sto andando? Crescerà sempre con me questa sensazione di incertezza. È come se fossimo sempre sospesi tra il passato e il futuro, cercando di raccogliere ciò che c’è di bello nelle cose di oggi, ma con il cuore che corre verso domani, nel timore di non essere abbastanza preparati. La paura di crescere è davvero il filo conduttore di tutto. Sembra che da un momento all’altro ti venga chiesto di capire chi sei, di compiere delle scelte, ma come possiamo davvero sapere che stiamo facendo la cosa giusta quando la vita è così confusa e tutto cambia così in fretta? Quando ero più piccola, pensavo che crescendo avrei trovato una risposta, avrei capito chi ero, ma adesso, più che mai, mi sembra che le risposte siano sempre più sfuggenti. Ho paura che non ci siano risposte assolute, che tutto sia un grande puzzle che si fa sempre più difficile da completare. E poi c’è quella paura che sembra essere sempre dietro l’angolo: la paura di non essere pronta, la paura di lasciare indietro parti di me stessa per diventare qualcosa di diverso. Forse è proprio quella che Sylvia Plath descrive nell’analogia dell’albero di fico, nel suo racconto The Bell Jar: “Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto. Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l’Europa e l’Africa e il Sud America, un altro fico era Constantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n’erano molti altri che non riuscivo a distinguere. E vidi me stessa seduta sulla biforcazione dell’albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finché, uno dopo l’altro, si spiaccicarono a terra ai miei piedi. Non aveva senso alzarsi. Cosa aveva da offrirmi la giornata?” Dal mio albero si diramano molti fichi. Ogni fico è una possibilità, un sogno che potrei inseguire, ma l’albero cresce ed io non riesco a afferrare tutti i fichi. L’incertezza si fa realtà, perché, alla fine, devo fare una scelta. E il dolore di non poter avere tutto, di dover lasciare andare alcune speranze, mi ha accompagnato spesso in questi anni. Ed è così che fichi, ormai maturi, iniziano pian piano a cadere e a spiaccicarsi per terra. Il futuro è uno spazio misterioso, pieno di promesse ma anche di paure. Forse ho paura di non essere all’altezza, di non sapere come affrontarlo quando arriverà davvero, quando busserà alla mia porta. Mi sento come se stessi camminando su una corda, in equilibrio con le braccia tese, cercando di non cadere, procedendo passo per passo, con molta cautela, ma il terreno sotto di me è troppo incerto per stare tranquilla. Ma, nel bel mezzo di tutta questa paura, c’è anche una consapevolezza che sta crescendo: che il futuro non è solo una strada dritta da percorrere, ma una serie di scelte che dipendono da chi sono oggi. E questo pensiero, anche se spaventoso, mi fa sentire un po’ più pronta ad affrontarlo, perché, alla fine, forse non dobbiamo avere tutte le risposte. L’importante è continuare a camminare. Ogni passo che faccio mi sembra un piccolo frammento di qualcosa di più grande. È quella scena di “Lady Bird” quando Christine, davanti al suo volo verso un futuro che non sa bene come sarà, dice alla madre: “I want to go where I can be somebody”. Forse siamo tutti un po’ come Lady Bird, cercando il nostro posto nel mondo, e a volte, anche quando non sappiamo bene dove andiamo, sappiamo che dobbiamo semplicemente partire. Mi rendo conto ora che crescere non significa giungere ad una meta fissa. Non ci sarà mai un momento in cui tutto sarà completamente chiaro. La vita, con tutte le sue difficoltà, mi ha insegnato che la bellezza risiede nell’incertezza. Crescere è imparare a fare pace con l’idea che non possiamo avere il controllo su tutto, ma che possiamo scegliere come affrontare le tempeste e le calme. Forse, alla fine, la cosa più difficile ma più importante da capire è che non è necessario avere tutto sotto controllo per andare avanti. Alla fine, ciò che mi consola è pensare che, sebbene la paura di crescere e l’incertezza del futuro siano reali, sono anche ciò che ci rende vivi. Beh, in questo vivere, tra paura e speranza, ci troviamo. Anche se non so dove sto andando, so che sto camminando. E, a volte, camminare è semplicemente abbastanza. Crescerò, ma non credo che finirò mai di cercare di capire chi sono. Perché quando guardo a questi anni, mi accorgo che sono stati anche anni di insicurezze profonde, quelle che ti fanno sentire come se ti stessi perdendo in un mare di dubbi, di domande senza risposta. L’adolescenza è quella fase in cui ti svegli ogni giorno con una versione di te stesso che cambia, e ogni riflesso nello specchio sembra mostrarti qualcuno di diverso. Eppure, c’è quella ridondante sensazione di non essere mai abbastanza, di non appartenere mai completamente a nessun gruppo, di non rientrare in nessuna definizione. Le insicurezze sono quei fantasmi che ci seguono ovunque: “Mi accetteranno? Sono abbastanza per gli altri? Sono abbastanza per me stessa?” Queste domande mi accompagnano spesso, come un’ombra che non riesco a scrollarmi di dosso. È quella sensazione che cantano i Mazzy Star in Fade Into You: “I want to hold the hand inside you, I want to take the breath that’s true”. E’ il desiderio di sentirsi visti, di appartenere, di far parte di qualcosa. Ma c’è sempre quella distanza, quella separazione, che ti fa sentire incompleto. La paura costante di non bastare mai, di non riuscire mai a eccellere nonostante tutti gli sforzi, è una presenza fissa nella mia vita. Tant’è che la canzone Not Strong Enough delle Boygenius è diventata la colonna sonora di tutto ciò che sono. Nella mia mente, la frase “Always an angel, never a god” continua a ripetersi, come un eco che non trova mai pace. “Quando meno te lo aspetti, la natura ha astuti metodi per trovare il tuo punto più debole. Tu ricordati che sono qui. Adesso magari non vuoi provare niente, magari non vorrai mai provare niente e, sai, magari non è con me che vorrai parlare di queste cose. Però prova qualcosa, perché l’hai già provata. […] Strappiamo via così tanto di noi per guarire in fretta dalle ferite che finiamo in bancarotta già a trent’anni. E abbiamo meno da offrire ogni volta che troviamo una persona nuova, ma forzarsi a non provare niente per non provare qualcosa…che spreco. […] Come vivrai saranno affari tuoi, però ricordati: il cuore e il corpo ci vengono dati soltanto una volta e, in men che non si dica, il tuo cuore è consumato e, quanto al tuo corpo, a un certo punto nessuno più lo guarda e ancor meno ci si avvicina. Tu adesso senti tristezza, dolore. Non ucciderli, al pari della gioia che hai provato.” Queste sono le parole che il padre di Elio usa per confortarlo in Chiamami col tuo nome, dopo un momento struggente. Ma quella paura di esprimersi, di essere vulnerabile, è sempre lì, invisibile ma pesante. La fragilità del cuore adolescente, quel bisogno di amore che può sembrare così lontano e irraggiungibile, è un peso che non si lascia mai troppo facilmente. Ogni piccolo rifiuto, ogni parola non detta, ogni silenzio che sembra far crescere il distacco, sono prove che sembrano troppo grandi da affrontare. Anche nel film Noi siamo infinito c’è questa esplorazione delle insicurezze giovanili, quando Patrick dice a Charlie: “We accept the love we think we deserve.” Questo mi fa pensare a quanto siamo disposti ad accettare, a quanta poca fiducia abbiamo in noi stessi, e come spesso accettiamo la mediocrità nelle nostre relazioni, come se non meritassimo nulla di meglio. Non ci riteniamo mai abbastanza forti, abbastanza belli o abbastanza amabili. Peró alla fine, siamo tutti un po’ “uguali”, con le stesse paure e le stesse insicurezze. Ma la crescita avviene proprio nel momento in cui cominciamo a liberarci di quelle etichette e aspettative che ci siamo imposti. Crescere non è mai facile, e la solitudine che accompagna l’adolescenza è, spesso, un silenzioso compagno di viaggio. Le canzoni degli Smiths, come Asleep, descrivono perfettamente questa solitudine: “Sing me to sleep, Sing me to sleep, I’m tired and I, I want to go to bed”, una solitudine così profonda che a volte sembra solo sfociare nella voglia di chiudere gli occhi e scomparire. È quella stessa solitudine che sembra accompagnarci nei giorni più difficili, dove tutto sembra grigio e le risposte non arrivano mai. A volte, mi immergo come nei passi de L’attimo fuggente, quando il professor Keating, con la sua passione travolgente, dice ai suoi studenti: “Carpe Diem. Cogli l’attimo, cogli la rosa quand’è il momento. Siamo cibo per i vermi, ragazzi. Perché, strano a dirsi, ognuno di noi in questa stanza un giorno smetterà di respirare: diventerà freddo e morirà. Cogliete l’attimo ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita.” In quei momenti, mentre il mondo sembra sfuggirmi di mano, cerco di ricordare che ogni momento è prezioso, che ogni passo fatto è un atto di coraggio, nonostante la paura che ci paralizza. Siamo destinati a fare scelte, e quelle scelte ci definiscono. Non posso fermare il tempo, ma posso decidere come voglio viverlo. E in quei momenti di disperazione, come quando Harry Styles canta in Sign of the Times, “Just stop your crying, It’s a sign of the times”, mi ricordo che il dolore, la solitudine e l’incertezza sono parte del cammino, ma non sono il cammino stesso. E che, forse, la crescita non è altro che una serie di piccoli attimi di coraggio, in cui impariamo ad affrontare i nostri fantasmi e a lasciarli andare. Così, nonostante tutto, cammino, un passo dopo l’altro. Con paura, con speranza, ma sempre in movimento, come se ci fosse qualcosa di più grande che ci sfida, ma ci invita anche a non arrenderci, a continuare a cercare la nostra strada, anche quando tutto sembra sfuggente. Crescere non è un processo lineare, e non possiamo sempre tenerlo sotto controllo. Ma è in quei momenti di caos, di confusione, che impariamo a vivere. E forse questo è ciò che l’adolescenza ci insegna: ad accettare che le risposte non arriveranno tutte, che saremo sempre in parte imperfetti, ma che questo non ci rende meno meritevoli di essere amati, di essere vissuti. Penso a tutte le volte in cui ho sentito quel peso, quel “non essere abbastanza”, ma poi mi rendo conto che la vera bellezza di crescere è proprio nell’accettare le nostre imperfezioni, nel capire che non dobbiamo essere pronti per tutto, che il futuro non è qualcosa che si deve conquistare subito, ma qualcosa che si costruisce, passo dopo passo, errore dopo errore. E alla fine, forse, la cosa che più mi tocca, è la consapevolezza che questo viaggio, con tutte le sue difficoltà, le sue insicurezze, le sue delusioni, mi sta trasformando in qualcuno di nuovo. Non so chi sarò, non so cosa mi aspetta, ma so che c’è una parte di me che sta iniziando a trovare la sua strada, anche se a piccoli passi. E, per quanto io abbia paura, per quanto io sia in lotta con le mie paure, sento che posso farcela, che posso essere finalmente qualcuno che accetta sé stessa, con tutte le sue fragilità e tutte le sue speranze. E, in fondo, credo che sia proprio questo il cuore di ogni canzone, di ogni film, di ogni libro che ci ha fatto sentire meno soli: che non siamo mai veramente soli, anche se a volte sembra che lo siamo. Siamo in compagnia delle nostre paure, dei nostri sogni e delle nostre incertezze, ma anche in compagnia di chi ci è accanto, anche se non sempre lo vediamo. E forse, alla fine, è questa compagnia invisibile che ci aiuterà a crescere, e a diventare finalmente chi siamo destinati a essere.
1593 giorni; 38232 ore È il tempo che è passato dalla prima volta che ci siamo visti. L’ho contato ieri. La prima volta era il primo giorno di scuola. Ogni tanto mi chiedo se ci vedremo ancora dopo la maturità. Chi lo sa. Chissà se ci rivedremo dopo che saremo in università diverse, in città diverse, strade diverse. Probabilmente ci perderemo piano piano, senza accorgercene. Saremo convinti di rimanere in contatto solo perché guarderemo le nostre storie e ogni tanto organizzeremo delle uscite per cui alla fine – e date le persone – qualcuno ‘balzerà’ all’ultimo secondo. Però proviamo a non farlo succedere, a non sprecare tutto quello che abbiamo fatto. Tutti i pianti, i litigi, gli scherzi. Tutti i casini che abbiamo fatto insieme. Proviamoci. Sarà strano, quando la campanella a settembre suonerà e noi non varcheremo più quella porta, non saremo più tra questi banchi. So che tutti abbiamo una gran voglia di uscire da qua, di iniziare un nuovo capitolo. Non posso che sperare che vada tutto per il meglio. Vi auguro di sfondare questo soffitto che ci tiene prigionieri e ci soffoca e di tuffarvi in un nuovo mondo, pieno di sorprese e avventure che aspettano solo di essere vissute”. (S. classe quinta).