Gemma n° 2814

“Questa foto l’abbiamo scattata lo scorso anno io e il mio gruppo di amici. Ho deciso di portare loro come gemma di quest’anno già verso la fine della seconda. E ciò perché loro sono stati per me un punto di riferimento in questi 5 anni di liceo. Nella foto però manca un membro perché ha cambiato scuola qualche anno fa e purtroppo non avevo foto col gruppo intero. Nonostante ciò, ogni singolo membro è estremamente importante per me e tengo tantissimo ad ognuno di loro e spero vivamente che dopo il diploma resteremo in contatto e riusciremo a ritrovarci in futuro” (V. classe quinta).

Un allenamento alla sorpresa (e alla gratitudine)

Ma perché le gemme? Spesso mi succede di imbattermi in esperienze o in testi che danno una risposta a questa domanda. E’ capitato con l’Ultimo banco 263 pubblicato sul Corriere da Alessandro D’Avenia e poi pubblicato sul suo blog.

“L’infelicità è carenza di sorprese. La vita ne è piena ma siamo noi a dormire: l’educazione in fondo è allenamento a star svegli e pronti a riceverle. Per questo al mattino cerco di inventare un appello diverso per «ri-svegliare» corpo e anima dei ragazzi. Qualche giorno fa ho fatto ascoltare il primo movimento del concerto per violino n.1 di Vivaldi: La primavera. Il famosissimo Allegro, forse il brano più noto al mondo, dura 3 minuti e 20, come la Donna cannone. I ragazzi l’hanno subito riconosciuto anche se magari non ricordavano nome e autore. Su una cosa però concordavano tutti: li aveva messi di buon umore in soli tre minuti.

Come ci era riuscito? Sorprendendoli. La sorpresa è infatti il primo gradino della felicità, purché per sorpresa non s’intenda la sua riduzione odierna: il bisogno continuo di choc dopaminergici da post e video per dimenticare quanto siamo insoddisfatti della vita, «sorprese» che invece di renderci vivi ci addormentano, perché sono dipendenze. Le vere sorprese (dal latino super prendere: afferrare dall’alto, esser «elevati», «sollevati») donano invece una leggerezza che non è fuga ma pieno possesso della vita, liberano perché «sorprendersi» è fare esperienza della gratuità, cioè sentire che la vita è data, gratis, anche nel ripetersi. Un arcobaleno è sempre sorprendente, così come l’Allegro della Primavera di Vivaldi.
Come fare allora a essere ordinariamente aperti all’effetto sorpresa della realtà senza il quale esser felici è impossibile?
Quest’anno quel concerto di Vivaldi compie 300 anni. Era il 1725 quando ad Amsterdam furono pubblicati gli spartiti del «Cimento dell’armonia e dell’invenzione», 12 concerti (in origine una forma musicale in tre tempi in cui il solista dialoga-contende, con-certa, con gli altri strumenti) per violino solista e archi, di cui i primi quattro sono le celeberrime Stagioni. Allora non essendoci supporti di registrazione, la musica rimaneva solo quando veniva pubblicata e accadeva solo ai più grandi. Eppure la prima esecuzione era avvenuta qualche anno prima a Venezia, in un orfanotrofio, «sorprendendo» tutti. Infatti Vivaldi, sacerdote cattolico, insegnava violino alle giovani accolte in una delle istituzioni di carità per orfani e poveri della città: l’Ospedale della Pietà, specifico per le ragazze, altrimenti destinate alla strada. In questo contesto venivano educate nel canto e nello strumento (perché nelle nostre scuole quest’arte indispensabile all’educazione è ridotta al flauto o alla melodica delle medie?), raggiungendo esiti passati alla storia (ascoltate lo Stabat Mater o il Gloria di Vivaldi). Vivaldi, detto «il prete rosso», per i capelli o per l’abito indossato da lui e dalle musiciste, dirigeva le ragazze celate da grate lignee al pubblico proveniente da tutta Europa (ne parlano anche Goethe e Rousseau) per ascoltarne l’incanto. Nelle Stagioni in particolare il musicista si era divertito a imitare i suoni naturali: uccelli, tuoni, cani, foglie, venti gelidi… tanto da stupire tutti per genialità compositiva, esecutiva e sociale, un fenomeno unico in un’epoca in cui alle donne era vietato suonare in chiese e teatri.
I miei studenti, benché fossero le 8 del mattino, erano anche loro «sorpresi», cioè elevati a un livello di vita gioioso e sollevati dalle zavorre del XXI secolo: facevano esperienza del «gratuito». Il contrario di questa esperienza è infatti il «dare per scontato», espressione nata per indicare qualcosa di acquisito (nel senso di acquistato) perché pagato subito a fronte di uno sconto: saldato vs regalato. Solo l’esperienza della vita data «gratis» e non «per scontata» (che infatti è diventato sinonimo di: «non mi sorprende più») provoca risveglio e unione, i due elementi della gratitudine, senza la quale non è possibile esser felici. Il giorno in cui si dà qualcosa o qualcuno per scontato finisce la gioia, perché la felicità è tanta quanta lo stupore: la sorpresa di un volto o un oggetto si spengono. Allora non è la felicità a renderci grati, ma è la gratitudine a renderci felici. Ci sono persone che, pur avendo tutto, non sono felici, e persone che, avendo poco, lo sono. Come mai? La differenza sta nella pratica (è un’azione) della gratitudine, che rende capaci di ricevere l’istante come un dono, cosa che purtroppo spesso ci riesce solo quando perdiamo qualcosa o qualcuno (chi ha sofferto per amore o per un lutto lo sa). Questo significa che la capacità di sorprendersi è in noi: è interiore e va allenata. Infatti tradizioni spirituali e filosofiche millenarie e molto diverse tra loro invitano a svegliarsi e vegliare, e non perché ci vogliano insonni e ansiosi come accade oggi salvo poi invocare un po’ di mindfulness a buon mercato, ma perché ci vogliono grati, cioè felici. Il cristianesimo dovrebbe produrre un’etica della gioia (la parabola delle vergini addormentate che devono partecipare alla festa lo racconta bene), perché tutto è grazia per chi ha fiducia (fede) nella vita che è infatti «eucarestia» (in greco «ringraziamento»), rito nel quale la vita stessa di Dio è data gratis, risolto spesso in una pratica da sbrigare.
Ma torniamo alle sorprese: possono riguardare anche cose brutte o consuete, perché ciò che conta è che stanno capitando a noi che siamo liberi, cioè capaci di decidere che cosa farci. Il problema non è il cosa accade ma il che cosa ci faccio. Ad esempio: che cosa ci fa un geniale musicista con delle ragazze abbandonate? Le fa diventare una Primavera immortale: Anna Maria della Pietà – violinista, clavicembalista e compositrice – fu la solista più celebrata dell’Ospedale della Pietà, a lei Vivaldi dedicò 28 concerti per violino, molti venivano a Venezia solo per ascoltarla (dopo la morte del maestro, fu lei a dirigere); Chiara della Pietà, detta «la meraviglia di Venezia» per la versatilità, suonava tutti gli strumenti a corda e a fiato; per Candida della Pietà, nota per purezza ed estensione di voce, Vivaldi scrisse arie con l’indicazione specifica «per Candida»; Apollonia della Pietà, per lei il maestro compose i suoi concerti per fagotto, strumento raro all’epoca ma che lei maneggiava come nessuno; di Barbara e Pellegrina della Pietà, cantanti soliste, le cronache riferiscono che «i forestieri, udendo le loro voci, giuravano di trovarsi in paradiso». Per queste ragazze senza cognome se non l’appellativo «della Pietà» la musica fu salvezza e riscatto. Chi le aveva ascoltate senza vederle dietro le paratie di legno, quando poi le incontrava di persona si stupiva di trovarsi davanti popolane non troppo aggraziate e dai modi semplici. Una vera «sorpresa».
La tomba della felicità è il «dato per scontato» o «dato per scartato». Chi dà per «scontato» o «scartato» non riceve, chi non riceve non è grato, chi non è grato non è felice. E la scuola è proprio il luogo in cui si impara a essere sempre aperti alla vita, dove ci si allena quindi a essere, in sequenza: svegli, sorpresi, grati, felici, vivi. A cominciare dall’appello o da un po’ di buona musica. Magari un Allegro di Vivaldi.”

Gemma n° 2789

“Quest’anno come gemma ho deciso di portare l’esperienza fatta a Paestum questo settembre.
Ancora in seconda, una prof ci aveva parlato di questo progetto e ci aveva consigliato di partecipare, ed io non ci ho pensato due volte e mi sono iscritta appena è uscita la circolare.
I mesi precedenti all’esperienza, ne parlavo con le mie compagne e pensavo a quanto ci saremmo potute divertire, e così è stato.
Non avevo alcun dubbio, abbiamo passato 6 giorni faticosi ma divertenti allo stesso tempo, abbiamo avuto la possibilità di lavorare dentro ai templi greci e tra le antiche vie di Paestum, alcuni di noi (tra cui me) hanno avuto inoltre la possibilità di far parte del team di restauro del sito, perciò hanno pulito degli oggetti tra cui dei piccoli vasi ritrovati durante gli scavi.
Durante il progetto abbiamo avuto anche la possibilità di visitare il sito di Pompei e quello di Velia per conoscere ancora meglio la storia di quell’epoca.
Dopo le attività, avevamo sempre un po’ di tempo libero, di solito andavamo in spiaggia a fare un tuffo insieme per parlare della giornata che avevamo trascorso.
Ho trovato questa esperienza fantastica perché abbiamo avuto la possibilità di lavorare in maniera diversa e in luoghi affascinanti, ma soprattutto perché ho conosciuto meglio le mie compagne di classe e le mie amiche.
Spero che chi ci andrà l’anno prossimo si diverta come mi sono divertita io, o semplicemente che a qualcuno, leggendo la mia gemma, venga voglia di fare questa esperienza”.
(V. classe terza).

Sull’errore

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“Nella mia carriera ho sbagliato più di 9000 tiri. Ho perso quasi 300 partite. 26 volte mi è stato affidato il compito di tirare il canestro decisivo e ho fallito. Ho fallito più e più volte nella mia vita. Ed è per questo che ho vinto”. Inizia con queste parole di Michael Jordan l’ultima mail delle newsletter del giornalista Mario Calabresi. Mi passano davanti agli occhi tutte le studentesse e gli studenti che fanno fatica a gestire un insuccesso, mi passa davanti agli occhi la difficoltà di Mariasole ad ammettere un errore, mi viene in mente Pietro mortificato dopo il canto del gallo. Analizzo quanta fatica faccia io stesso nella mia relazione con gli sbagli che commetto. Mi consolo con il resto del testo e ci rifletto su.

“Ogni mattina Renzo Piano, mentre va a piedi nel suo studio a Parigi, si ferma a salutare il Beaubourg, il grande centro culturale che ha progettato quando aveva solo 34 anni. Ne vede uno scorcio da lontano, al fondo di una via, ma il successo di quell’immenso edificio colorato, che rivoluzionò i cardini dell’architettura, gli ricorda che nella vita bisogna avere il coraggio di osare. Non se lo è mai dimenticato e lo preoccupa vedere che oggi «i ragazzi hanno paura di gettarsi e di sbagliare». Per questo, nel corso che tiene ogni anno a un gruppo di studenti di architettura al Politecnico di Milano, li invita a studiare i suoi grandi progetti, a trovare errori e a fare proposte per correggerli o migliorarli. «Per riuscire a volare – ripete con convinzione – non bisogna avere troppa paura dell’errore».
Quando entro in quella nave che è la Fondazione Renzo Piano al Polimi, con i muri coperti dai suoi disegni di aeroporti, musei, grattacieli, ponti e università, capisco la potenza del messaggio che trasmette nel suo corso “L’arte del costruire”. Nel momento in cui chiede agli studenti di intervenire sui suoi progetti, evidenziando difetti, mancanze, lacune o problemi, sta dicendo loro che tutti possiamo sbagliare e che questo non è un dramma.
Per questo quando ho pensato a una serie podcast sull’errore non potevo non partire da lui.
E poi l’idea è nata proprio al Politecnico in un dialogo con Donatella Sciuto, la Rettrice, che mi raccontava della preoccupazione per la crescita delle ansie in una società iper-performante e competitiva come quella in cui viviamo.
I numeri dicono che circa un terzo degli studenti e delle studentesse universitarie in Italia ha disturbi di ansia, e che più di uno su quattro soffre di depressione. La paura di sbagliare, di non essere abbastanza, di deludere, è un peso che attraversa le generazioni, ma che oggi sembra avere un’intensità nuova.
Così abbiamo immaginato di fare un viaggio per provare a sdrammatizzare il fallimento, aiutare i giovani ad accettare l’errore, a elaborarlo e a superarlo. Questo viaggio è una serie podcast che si intitola “Sull’errore”, in cui intervisto psicologi, scienziati, manager, scrittori per dare la giusta dimensione ai nostri sbagli.
La prima a mettersi in gioco è stata proprio la Rettrice che mi ha raccontato di essere stata bocciata al suo primo esame di Ingegneria, ma che suo padre si mise a ridere e questo impedì a quella caduta di diventare una crisi e di fermare il suo percorso. «Quando io ero studente – racconta Donatella Sciuto – ho avuto tanti compagni che sono stati bocciati cinque o sei volte in esami come Analisi 1, ma questo non li ha frenati dal continuare a studiare e alla fine sono diventati ingegneri».
La Rettrice, che sente l’urgenza di offrire strumenti ai più giovani perché non si scoraggino e non si perdano di fronte alle difficoltà, nella prima puntata riflette sul contesto culturale che spinge a immaginare percorsi perfetti e senza sbavature.
Ma per andare alla radice del problema ho incontrato Sandra Sassaroli, psichiatra e psicoterapeuta, che nel suo lavoro si è occupata molto dell’errore, dello sbaglio e del rimuginio, quella forma di pensiero negativo e ripetitivo che ci porta a soffermarci sugli errori commessi, piuttosto che superarli cogliendone anche i lati positivi.
La sua analisi è sorprendente e sposta l’attenzione sul rapporto che i figli oggi hanno con i genitori, sulle aspettative e sulla paura di deludere.
«Se io sono così protettiva con mio figlio che non può prendersi a pugni, non può sbucciarsi un ginocchio e io vado a difenderlo se sta litigando con qualcuno, allora – sottolinea – non gli insegno a rialzarsi. Se ci pensa bene, in questa iperprotezione si trasmette ai figli un’idea di fragilità. Dovremmo cominciare a insegnare ai genitori ad essere meno protettivi e ad avere più coraggio di lasciarli liberi di sbagliare».
Il lungo dialogo che ho fatto con Sandra Sassaroli è stato uno degli incontri più utili e fertili che abbia avuto su questo tempo di ansie e paure. Su cosa fare o non fare con i nostri figli e su come affrontare i nostri fallimenti.
«C’è una grande differenza tra elaborare e rimuginare. Rimuginare vuol dire continuare a pensare, dopo una caduta, che tutto andrà male, ed è un pensiero ripetitivo, ansioso e negativo. Elaborare vuol dire, invece, accettare il dolore e trovare una soluzione creativa. O se quella soluzione non esiste, spostarsi su un altro problema».
Anche lei ricorda una dolorosa bocciatura, all’esame di Anatomia, con il pianto sui gradini della Sapienza a Roma, la sensazione di fallimento ma anche il percorso di riprendere in mano migliaia di pagine e ricominciare a studiare. Oggi pensa che quella bocciatura sia stata molto salutare: «Non sbagliare mai un esame, prendere tutti trenta e lode, non è sempre un segno di benessere psicologico. È molto meglio ogni tanto farsi un brutto esame e rialzarsi anche piangendo un po’».

Le immagini del mondo

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Una delle lezioni che desta più stupore in quinta è quella in cui confrontiamo alcune carte geografiche. Recupero retaggi dell’esame di cartografia fatto all’università e premetto che non esiste la cartina perfetta, adatta a ogni scopo, ma conta lo scopo che ci si prefigge, dal quale dipende l’adattamento che si decide di accettare. “E’ però importante” aggiungo “che, quando la prossima estate, dopo la Maturità, sarete indecisi se fare il giro della Groenlandia o dell’Africa, siate consapevoli che non è proprio indifferente cosa scegliere”. Se ne parla su AfricaRivista in un articolo di Cèline Nadler.

“L’Unione Africana (Ua) ha ufficialmente approvato una campagna per sostituire la mappa di Mercatore, ampiamente utilizzata fin dal XVI secolo, con una proiezione geograficamente più accurata. L’obiettivo, secondo l’organizzazione continentale, è quello di correggere una distorsione storica che riduce artificialmente le dimensioni dell’Africa e di rafforzare la posizione del continente sulla scena internazionale.
Creata nel 1599 dal cartografo fiammingo Gerardus Mercator per la navigazione marittima, questa proiezione fu una delle prime in assoluto a rappresentare rotte di navigazione immaginarie e arcuate come linee rette visibili. La sua semplicità per la navigazione marittima ne consolidò la popolarità all’epoca, ma i suoi enormi errori divennero presto difficili da ignorare. In effetti, la proiezione di Mercatore ingrandisce le regioni vicine ai poli, come il Nord America e la Groenlandia, mentre riduce significativamente quelle lungo l’equatore, come l’Africa e il Sud America, al fine di garantire una direzione costante.
“Può sembrare solo una mappa, ma in realtà non lo è”, ha affermato a Reuters Selma Malika Haddadi, vicepresidente della Commissione dell’Ua. “Questa proiezione ha dato l’illusione che l’Africa sia marginale”, in quanto il continente appare leggermente più piccolo del territorio artico della Groenlandia. L’Africa è invece il secondo continente più grande del mondo, più di 14 volte la Groenlandia, e ospita oltre un miliardo di persone e decine di nazioni. Anche l’Europa, rappresentata come più grande del Sud America sulla mappa di Mercatore, è in realtà la metà.
La campagna “Correct The Map”, guidata dalle organizzazioni Africa No Filter e Speak Up Africa, sta promuovendo l’adozione della proiezione Equal Earth, introdotta nel 2018 e progettata per rappresentare i continenti in base alle loro dimensioni reali. “Le dimensioni attuali dell’Africa sulla mappa sono sbagliate”, ha denunciato Moky Makura, direttore esecutivo di Africa No Filter. “Questa è la campagna di disinformazione più longeva al mondo e deve cessare”.

Al di là di una semplice questione cartografica, i sostenitori della riforma ritengono che questa distorsione influenzi l’istruzione, i media e le politiche pubbliche. Fara Ndiaye, co-fondatrice di Speak Up Africa, ha sottolineato che l’uso della mappa di Mercatore incide sull’identità e l’orgoglio degli africani.
L’Unione Africana, che conta 55 Stati membri, ha confermato che questa lotta fa parte della sua ambizione di “ripristinare il giusto posto dell’Africa sulla scena globale”, facendo eco alle crescenti richieste di risarcimento per il colonialismo e la schiavitù.
La campagna si estende oltre il continente. Anche la Commissione per le Riparazioni della Comunità Caraibica (Caricom) ha sostenuto la proiezione Equal Earth, vedendola come un rifiuto dell’”ideologia di potere e dominio” veicolata dalla mappa di Mercatore.

Mentre alcune istituzioni come la Banca Mondiale utilizzano già le proiezioni Winkel-Tripel o Equal Earth per le loro mappe statiche, le mappe di Mercatore rimangono lo standard in molti contesti, tra cui scuole e applicazioni digitali [devo dire che nella mia scuola da anni non ne vedo: la proiezione più diffusa è la azimutale equivalente di Hammer con polo equivalente di Wagner, ndr]. Google Maps, ad esempio, ha abbandonato la visione Mercatore solo nel 2018 sulla sua versione desktop, ma continua a utilizzarla di default sui dispositivi mobili. Anche il Goddard Institute for Space Studies (Giss) della Nasa, agenzia spaziale statunitense, ha adottato la proiezione Equal Earth, per evitare distorsioni dimensionali grossolane.
Per secoli, gli esperti hanno dibattuto la questione: è possibile rappresentare accuratamente un mondo tridimensionale e sferico su una superficie piana? È possibile prendere un oggetto arrotondato, come ad esempio un pallone da calcio, tagliarlo, incollarlo su una tavola e ottenerne una rappresentazione precisa? Molti esperti concludono che la risposta è un netto no. Le mappe, sostengono, sono intrinsecamente una menzogna, sempre a compromessi su qualcosa: area, distanza o altro. Altri, invece, sostengono che esistano mappe quasi perfette e che debbano essere evidenziate.
Nel corso del tempo, diverse proiezioni cartografiche hanno cercato di colmare le lacune di Mercatore, ma tutte hanno compromesso uno o più fattori. Ciò ha reso difficile per i sostenitori della giustizia sociale sostenere una proiezione che rappresentasse meglio il Sud del mondo.”

Il valore dell’imprevedibile

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

I colloqui con i genitori di allieve e allievi di quinta si concentrano spesso sul dopo-liceo, sulle prospettive future: frequentemente raccolgo la preoccupazione di chi non ha ancora deciso, di chi è perplesso, di chi teme la scelta di una strada “sbagliata”. Allora mi capita di raccontare il mio anno e mezzo di scienze geologiche prima di comprendere quale fosse il mio cammino; racconto anche quanto in realtà la strada “giusta” fosse ben delineata dentro di me, nascosta però da mille rovi e arbusti che, nel tempo, l’avevano coperta. Forse sarebbe stato comodo incontrare quel personaggio di cui Alessandro D’Avenia parla spesso quando affronta l’Odissea: un Mentore che mi sapesse consigliare, che mi aiutasse a leggere meglio dentro di me quella risposta di cui andavo cercando. D’altra parte riconosco che quello che talvolta io stesso ho considerato un anno e mezzo buttato via, è stato forse uno dei periodi più fecondi della mia esistenza, perché mi ha aiutato a vedere tutto ciò che non volevo diventare. Intuire chi si vuole diventare, ascoltare una vocazione, accogliere la risposta che noi stessi ci diamo, dare una direzione all’imprevedibile che si palesa: sono tutti verbi declinati all’infinito che richiedono però un risposta che trovi una concretezza finita nell’esistenza.

Lascio allora spazio a un articolo della pedagogista Paola Bignardi, scritto la scorsa settimana su Avvenire.

“Una riflessione dedicata al rapporto dei giovani con il tempo potrebbe avere per titolo semplicemente “I giovani e il futuro”; questa è infatti l’unica dimensione temporale che essi percepiscono: il tempo che hanno davanti a sé. D’altra parte, quello che hanno alle loro spalle è troppo breve per poter costituire una memoria significativa. E il presente? In esso sono immersi, e lo vivono – forse al pari di molti adulti – come una realtà così scontata da non rendersi conto di essa. Se ne rendono conto quando è troppo disordinato, arruffato; in quelle situazioni allora appare che la libertà di occupare il tempo secondo il desiderio del momento o i propri capricci non è per niente appagante. Anche l’istante nel quale sono immersi ha bisogno di ordine, di ritmo, per diventare veramente esperienza di serenità e di crescita. La necessità di una disciplina per la propria vita è difficile da proporre alle nuove generazioni, al di fuori di un contesto che mostri di essa l’utilità e il valore come stile di vita che può restituire tranquillità e armonia alle proprie giornate.
Il tempo verso cui la tensione dei giovani è protesa è il futuro; questa è la dimensione attesa, desiderata. Il futuro è la vita in cui ha inizio l’autonomia, la realizzazione dei propri progetti, dei propri desideri. Non ci sono ancora delusioni e quindi ci si può orientare verso il domani caricandolo di aspettative e di idealità. Anche i ragazzi e le ragazze di oggi guardano al futuro con il desiderio di realizzazione personale e aspirano a una vita piena, serena, in cui poter concretizzare i propri sogni: trovare un lavoro soddisfacente, costruire relazioni autentiche e durature, e “diventare qualcuno” senza perdere la propria autenticità. Per alcuni, l’università rappresenta un passaggio decisivo, ma è anche fonte di incertezza: non sempre le idee sul percorso da intraprendere sono chiare, e prevalgono talvolta la confusione o la paura di sbagliare; ne è riprova il numero di ragazzi e ragazze che dopo il primo anno di università si accorgono di aver intrapreso una strada che non fa per loro e cambiano facoltà, oppure si trascinano lentamente in un percorso culturale che non li soddisfa. Accanto a questo slancio positivo vi è nei giovani uno sguardo preoccupato. Il tema del futuro è più facilmente comprensibile alla luce delle considerazioni svolte qualche settimana fa in queste pagine sul dolore dei giovani. In una ricerca realizzata dall’Osservatorio dell’Istituto Toniolo nel 2013 risultava un dato inquietante: il 67% dei giovani interpellati nell’ambito dell’indagine dichiarava di pensare il proprio futuro come pieno di rischi e di minacce. Si tratta di una percentuale che si è mantenuta stabile nel corso degli anni, con un peggioramento nel periodo della pandemia, quando la fiducia nel futuro si è abbassata significativamente, mostrando nella popolazione femminile la componente più fragile e più sensibile alle ragioni della paura. In una ricerca attualmente in corso sul territorio delle diocesi di Ascoli Piceno e San Benedetto del Tronto la situazione sembra essere ancor più severa. I giovani che hanno dichiarato di guardare al futuro con preoccupazione e incertezza sono il 71%, cioè quasi tre quarti degli interpellati.
La pandemia, le crisi economiche, le guerre e il cambiamento climatico incidono profondamente sulle nuove generazioni. «Ho ansia e paura per il futuro – dice un giovane diciottenne –, il mondo è a rotoli». La sottile sfiducia verso gli adulti e soprattutto verso le istituzioni accentua il senso di precarietà e l’incertezza della realizzazione dei propri progetti e obiettivi. Le cause sociali e strutturali si riflettono sul piano individuale e danno forma a un interrogativo sulla propria persona, sulla propria identità. Dice un giovane ventiduenne: «Che futuro avrò? Che persona sarò? Chi sarò tra 5-10 anni, domani? Troverò una svolta nella mia vita?». Al tempo stesso vi è nelle ragazze e nei ragazzi di oggi la consapevolezza del delicato valore della loro età e della loro condizione. Dice una giovane: «Attraverso l’adolescenza so che da una bozza di ciò che sono ora può uscire un capolavoro». È come sentirsi un prezioso vaso di cristallo che prende forma a poco a poco nelle mani di un artigiano che, per quanto esperto, corre sempre il rischio di spezzarlo. Ragioni esterne e interiori si intrecciano; per qualcuno troppo fragile questa situazione diventa una sfida insostenibile; per molti, motivo per approfondire le proprie ragioni, il proprio atteggiamento di fronte alla vita, per rendere più mature le proprie scelte. Dietro la paura del futuro c’è spesso una domanda spirituale implicita: «Perché vale la pena vivere, impegnarsi, sperare?». Anche nell’inquietudine rispetto al futuro molti giovani esprimono la loro domanda di senso, la loro inquietudine spirituale, che spesso non approda alle forme religiose tradizionali ma che rivela tratti di una nuova ricerca: di relazioni autentiche, di cura del sé, di connessione con la natura, di armonia interiore, di giustizia sociale. Pensare a un futuro pieno di rischi e di incognite non significa restare di fronte a esso passivi e rassegnati, ma piuttosto consapevoli. I giovani oggi sanno che il futuro non verrà loro incontro in maniera scontata, ma richiederà loro impegno, intelligenza, determinazione. La complessità del futuro spaventa meno quei giovani che possono far conto su una famiglia accogliente, presente, capace di dialogo; questi si sentono meno soli davanti all’ignoto e alla loro paura di fallimento. In contesti familiari fragili, soprattutto dal punto di vista relazionale, l’incertezza del futuro rischia di essere vissuta come minaccia concreta, più che come sfida potenziale.
Accanto alla famiglia, il sostegno per guardare al futuro con fiducia sono gli amici. Nella ricerca citata, che riguarda un migliaio di adolescenti, gli amici vengono continuamente riferiti come la principale fonte di sostegno emotivo, più della famiglia e spesso più delle istituzioni scolastiche o religiose. Il futuro smette di essere un nemico quando lo si affronta “insieme”. I rapporti amicali 1possono aiutare perché costituiscono la grande risorsa del mondo giovanile. L’amicizia è una delle forme principali di spiritualità vissuta: è un luogo di fiducia, di presenza, di dono reciproco. Molti giovani che si dichiarano “non religiosi” trovano proprio nell’amicizia quell’esperienza del bene gratuito che un tempo veniva mediata da contesti religiosi o comunitari. L’amicizia diventa così un luogo del bene gratuito, una via relazionale alla fiducia, in cui il futuro non appare più come una minaccia ma come un cammino condiviso. Anche attraverso l’amicizia l’inquietudine verso il domani rappresenta la porta che apre a un’esperienza spirituale. «La serenità in famiglia e il sostegno dei miei amici – dice un ragazzo – costituiscono l’aiuto più concreto per affrontare il futuro». In una società dove le istituzioni tradizionali – famiglia, scuola, religione – faticano a offrire orizzonti stabili, gli amici diventano il luogo in cui si impara che il futuro non si affronta da soli, ma si può affrontare insieme. L’orizzonte di senso dei giovani non è individualista ma relazionale. L’incertezza del futuro non è eliminabile, ma è abitabile se è possibile viverla nel sostegno reciproco. In questa prospettiva, ciò che potrebbe aiutare i giovani ad affrontare il futuro in modo più positivo non è tanto una – improbabile – promessa di stabilità, quanto la possibilità di radicarsi in legami significativi e in una visione di sé che dia direzione e valore all’imprevedibile e ne trasformi il potenziale distruttivo in una risorsa per crescere.”

Mi ameresti anche se fossi me stesso?

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

Mignolo del piede versus qualsiasi spigolo. Inizio questo post con questa dolorosa immagine evocativa. Anche molto reale, visto che è quello che ho provato ieri sera, quando ho sbattuto contro una scatola di plastica che tengo sotto la scrivania. Dentro la scatola c’è qualcosa di legato al passato, a un’abitudine che avevo e che poi ho perso: i ritagli di giornali, riviste, mensili che ritenevo interessanti e che sarebbero potuti tornarmi utili. Ho smesso di raccoglierli quando mi sono reso conto che non li andavo più a cercare perché avrei dovuto digitalizzarli e poi perché, in fin dei conti, li trovavo già digitalizzati in rete (tutti gli abbonamenti che ho li possiedo anche in versione digitale). Mi sono anche accorto che ciò che salvo digitalmente mi resta molto meno in mente rispetto a quello che sottolineo e ritaglio materialmente, ma tant’è. Infine ammetto che internet mi ha messo a disposizione molto, ma molto di più, di quello di cui potevo disporre nel passato senza web. Basta pensare agli archivi: mi servirebbero due case se dovessi conservare tutto… O alla comodità di recuperare un articolo di un quotidiano anche solo di una settimana prima. Senza internet mi sarei, ad esempio, perso un pezzo come quello che ho appena finito di leggere di Alessandro D’Avenia, uscito una settimana fa sul Corriere della Sera e reperibile anche sul blog del professore. Credo che lo leggeremo insieme in più di qualche classe. Eccolo.

“Ho chiesto ai miei studenti la loro paura più grande. La maggioranza ha risposto: rimanere soli. Un timore connaturato all’uomo, ma che stupisce nell’epoca della condivisione costante. Sebbene iper-connessi siamo iper-slegati, e “social” non è sinonimo di relazione significativa ma di solitudine di massa. E questo perché l’unico modo per non sentirsi soli è il riconoscimento della propria unicità: volersi ed essere voluti al mondo come si è. Se ciò non accade non dipende dai social ma dalle relazioni primarie (personali, familiari, amicali). L’onlife, come Luciano Floridi (La quarta rivoluzione) definisce l’identità oggi, si sposta fuori dalla vita spirituale che è il luogo dell’amarsi e del sentirsi amati, e si affida a rappresentazioni (“Chi sono per te?” diventa “Chi sono online?”).
Ma se ad essere amata è la rappresentazione di me e non io, allora ci si sente soli anche in mezzo alla folla (o ai follower). Il concetto di auto-stima, oggi tanto diffuso, è l’ingannevole correttivo di questa mascherata, perché non può auto-amarsi chi non si sente amato, e non esiste doping spirituale per una identità relazionale come quella umana: l’io nasce e rinasce da un tu che ci fa sentire voluti. I social non possono darci l’amore, perché non arrivano al sé, possono darcene l’impressione, ma amata è la post-produzione che facciamo di noi, non noi. Figuriamoci per un ragazzo che sta cercando di dare alla luce il sé autentico e viene invece allenato a farsi “un profilo”, cioè a identificarsi con l’ego voluto dal mondo. Questo alimenta la paura della solitudine. Che fare?
Il sé è una nascita graduale che richiede parti dolorosi. Quando mi è capitato di perdermi, sono riuscito a dare alla luce un sé più autentico solo rinunciando alle rappresentazioni rassicuranti dell’ego, compromessi d’amore che amore non erano, e ci sono riuscito grazie alla forza ricevuta da persone che non amavano quelle rappresentazioni, ma me: mi vogliono bene “a prescindere”, cioè per loro è un bene che io ci sia, a prescindere da cosa io rappresenti.
Ci accade come nel Cyrano de Bergerac di Rostand in cui il protagonista, innamorato di Rossana, non ha il coraggio di dichiararsi a causa della bruttezza del suo volto deturpato da un naso gigantesco, e si limita a prestare le parole del corteggiamento al giovane spasimante di lei, Cristiano, bello quanto vuoto. Cristiano è come il profilo social di Cyrano. A un certo punto Cyrano, nella scena memorabile in cui, nascosto, detta le parole d’amore a Cristiano, fa chiedere alla donna: “Mi ameresti anche se fossi orrendo?”. Tradotto: anche se fossi me stesso?
Ecco il punto: i ragazzi oggi hanno bisogno più che mai di sapere se c’è qualcuno che li ama (li vuole al mondo, si impegna per il loro esserci) così come sono e non così come il mondo li vuole. A quell’età poi ci si sente brutti non tanto o non solo per l’aspetto fisico in trasformazione, ma perché, messi da parte i genitori, ci si scopre “soli”, cioè unici, ma si teme che questa unicità non interessi a nessuno là fuori. E così si cerca approvazione (non amore) ovunque, anche a costo di vendersi, tradirsi, nascondersi. La paura di rimanere soli non è la paura di non trovare qualcuno, ma di non essere “belli” abbastanza perché qualcuno ami proprio noi, anche perché l’unicità, scambiata per “farsi vedere”, è fatta proprio di ciò che nascondiamo: i nostri limiti. In una cultura della performance, auto-promozione e post-produzione di se stessi, si teme di non essere amabili e farsi amare diventa un lavoro. Tutti i ragazzi sono generati biologicamente ma pochi spiritualmente, cioè non riescono a contattare il sé, quel nucleo della persona che non è frutto di costruzioni, prestazioni, risultati, ma che si scopre e si abita se è amato gratuitamente, a prescindere da qualsiasi risultato.
La domanda di Cyrano è la domanda di tutti: “Posso essere amato anche se sono brutto?”, dove “brutto” non è estetica ma la verità di chi io sono, l’unicità dei miei limiti. I social che parlano il linguaggio del mondo, cioè dove gli umani ricevono attenzione solo perché se lo meritano o perché ti seducono, non possono nutrire la vita spirituale, che è vita amata gratuitamente. Nessuno di noi si è dato la vita e quindi per sentirsi amato ha bisogno di sapere che quella vita è stata voluta a prescindere da tutto (per questo i ragazzi adottati hanno la cosiddetta ferita dell’origine e prima o poi vanno alla ricerca dei genitori biologici, per sapere quella verità oscurata dal fatto di essere stati “abbandonati”). Ma un amore che ci ama anche “brutti”, che ci vuole esistenti a prescindere è una chimera? No, se il poeta può così testimoniare della sua amata: “Possesso di me tu mi davi, dandoti a me” (Pedro Salinas, La voce a te dovuta). Ecco la vita spirituale: il possesso di sé che nasce dall’amore gratuito.
Questo amore è stato da sempre ritenuto “divino” da noi umani perché noi non riusciamo ad amare così, eppure si dà anche nel quotidiano quando qualcosa o qualcuno smette di farmi sentire un mezzo e mi rende un fine: “sei il fine e quindi la fine del mondo!”. Può accadere in un bosco, in un quadro, in un angolo di città, in un volto, in una carezza, in una parola… insomma in tutte quelle situazioni in cui cose e persone non “si aspettano” nulla ma “ci aspettano”, lasciano “in pace” (danno pace al-) la nostra alterità (unicità), non ci manipolano, non ci rendono oggetti ma soggetti, ci rendono liberi, in ultima istanza ci testimoniano un amore che ci vuole esistenti, a prescindere da quanto siamo belli e bravi. Questo amore è la vita vera, la vita che non muore, la vita eterna, l’unica realtà che vince la paura di rimanere soli. E se in noi troviamo questo desiderio, allora questo amore c’è, altrimenti non ne avremmo notizia o nostalgia. La paura della solitudine dei ragazzi si rivela per quello che è: desiderio di spogliarsi delle rappresentazioni con cui l’ego crede di meritarsi di esistere ed essere amato, per far nascere il sé, che è dove la vita limitata che abbiamo si sente amata a prescindere.
Abbiamo appena festeggiato San Francesco che comincia la sua vita nuova proprio da giovane, con un denudamento sulla pubblica piazza: rinuncia a tutte le finzioni dell’ego per abbracciare la vita vera, quella in cui tutti sono figli e quindi fratelli e sorelle, dal fuoco alla morte. Non fa altro che seguire la frase paradossale di Cristo secondo cui chi perde la vita la trova, cioè solo chi smette di nascondersi e si libera dalle illusioni d’amore trova l’amore. Cyrano, alla fatidica domanda sul poter essere amato anche brutto (convinto com’è che la sua vita sia tutta definita dal naso deforme) si sente rispondere da Rossana: «Ma certo! E ti amerei ancora di più». Solo quando mi vengono restituite amate le mie insufficienze, le cose di cui io stesso mi vergogno, allora mi sento amato, e la mia vita è in pace, perché è voluta sino alle sue fondamenta. La paura di rimanere soli di questa generazione non è altro che la ricerca dell’amore “a prescindere”, non sotto condizione, che Social, dio delle inesauribili aspettative e solitudini, non potrà mai dare.”

Prof, è lunedì…

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“Come state?”. Ho iniziato l’ora nel mio solito modo.
“Prof, è lunedì…” è stata la risposta lasciata in sospeso ma sufficientemente esplicativa.
Mi sono venute in mente una canzone, un’immagine, una riflessione.
La canzone è Lunedì di Vasco, in cui si sente “Sono stato anche beccato dalla Polizia; mi han detto, “Prego, si accomodi lì; passerà qualche giorno qui, ma vedrà che probabilmente uscirà certo prima di lunedì” Voglio restare qui, odio quel giorni lì!”.
L’immagine è quella di Miele, il cane che è con noi da luglio. Credo che abbia già capito la routine: inizio di settimana con molto tempo a casa da solo, per poi passare in compagnia e mille attività la parte dal giovedì alla domenica. Ecco, la sua espressione di stamattina, quando l’ho lasciato in cucina, diceva “… è lunedì…”.
La breve riflessione che mi è venuta in mente è stata scritta in un pezzo di Alessandro Dehò pubblicato su Avvenire proprio oggi. E’ un testo che certamente parla di fede, ma è anche un testo che parla di tenerezza e che è in grado di dire molto anche a chi non ha fede e di metterci in connessione con le altre persone. Mi piace augurarvi con esso buon lunedì! Eccolo.

“Dulcinea, il mio cane, entra di corsa mentre io, inginocchiato davanti al crocifisso tento di pregare, lei trema, mi cerca, chiede rifugio tra le mie braccia, ha paura. Non so cosa abbia visto, non so cosa le sia successo, probabilmente l’incontro ravvicinato e inaspettato con qualche animale selvatico, non so e non lo saprò mai, so solo che la mia mano si apre naturalmente, e piano, e con grazia, e inizia ad accarezzarle il pelo, lentamente, e lei rimane e si lascia fare, diventa piccola sulle mie ginocchia e rimane lì, come su una zattera di salvataggio, come avesse trovato lo spazio per poter continuare a vivere.
Intanto gli occhi scorrono le righe dei salmi della giornata nel tentativo di risvegliare il cuore alla preghiera, mentre la mano destra continua il suo rosario di carezze all’animale impaurito esplode nei miei occhi una passaggio del salmo 30, è come una piccola illuminazione: “Mi affido alle tue mani…”.
Di colpo mi sento come Dulcinea, sento fisicamente che ho bisogno della carezza di Dio su di me e in quell’attimo mi pare di percepire anche tutta la felicità di un Dio che finalmente può permettersi di aprire le sue dita e perdersi in un mare di carezze d’affetto per la sua creatura. Sentirsi cercati è commovente. Mentre questo piccolo inutile indispensabile gesto si compie in una casa dispersa tra i monti dell’Appennino la mia preghiera si apre al pensiero per tutte le mani che come fiori stanno sbocciando in ogni parte del mondo.
È lunedì e milioni di mani sono ingranaggi per tenere in vita la complessità dell’esistere, mani che stringono, spingono, aprono, mani che digitano messaggi sui telefoni, mani che curano, mani che guidano, mani che stringono altre mani, mani sicure e mani impaurite, mani che accolgono vite nuove e mani che scivolano via per l’ultima volta… “mi affido alle tue mani”.
Forse tanti nostri affanni derivano dalla distanza creata tra i nostri gesti ordinari e un corpo vivo, magari un corpo tremante, un corpo bisognoso da accudire, forse tanti nostri affanni derivano dal fatto che non sentiamo più distintamente che qualcuno si affida anche alle nostre mani. Penso sarebbe salvifico per ognuno di noi percepire distintamente che ogni gesto appassionato sul mondo non è altro che il nostro tentativo per rendere affidabile l’esistenza, atto di fede. Nella trama infinita di mani che provano a ripetere l’infinito tentativo di tenere in vita la vita ci siamo anche noi, con il nostro piccolissimo tentativo di carezza. Ci siamo anche noi, e siamo divini, siamo segno visibile di un Invisibile che dal cuore del Mistero prega la sua creatura: “mi affido alle tue mani” per stare, vivo e risorto, nella trama della città degli uomini.”

Davanti a “quelle” immagini

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

In quinta, ad un certo punto dell’anno, trattando il tema del male, porto in classe un libro fotografico sui gulag. Racconto che, quando l’ho acquistato, una quindicina di anni fa, forse anche più, ero reduce da una lunga ricerca, tanta era stata la difficoltà a trovare una raccolta fotografica su Glavnoye Upravleniye lagerey (Direzione Principale dei Campi). Un altro aspetto su cui ci soffermiamo è la quasi totale assenza di immagini crude, violente: l’effetto “cazzotto nello stomaco” da libro sui lager non si ha. A quel punto approfondiamo le ragioni e inizia la discussione.
Mi capita anche di riflettere con le classi sull’impatto che ha su di noi l’esposizione a immagini forti? In questi anni ho suggerito a chi segue sui social giornalisti, fotoreporter, inviati in paesi di guerra, di creare un doppio profilo: uno personale e uno su cui andare quando ci si vuole informare, in modo da evitare di passare in pochi istanti dalle immagini di una serata con gli amici alle foto di un massacro in Ucraina o a Gaza.
Stamattina mi sono imbattuto in un interessante articolo della psicologa Rosella De Leonibus su Rocca.

“Durante la persecuzione degli ebrei da parte del nazismo, le immagini più crude dell’orrore sono arrivate agli occhi del mondo solo al momento della liberazione dei campi di concentramento. Oggi, nel contesto delle guerre attuali, come nel genocidio di Gaza, la narrazione visiva è profondamente cambiata: sono le stesse vittime a diffondere video e notizie in tempo reale, portando la realtà della sofferenza direttamente nelle case di miliardi di persone.
Eppure, malgrado la mole infinita di immagini e testimonianze, persiste uno zoccolo duro di indifferenza. Apparentemente sembra inspiegabile questa reazione, però trova spiegazioni profonde nel campo della psicologia. La mente, esposta in modo continuo e intensivo a immagini traumatiche, finisce per mettersi in una sorta di “modalità protettiva”, riducendo la sensibilità emotiva attraverso un processo noto come compassion fatigue. È un meccanismo di autodifesa, che protegge il nostro equilibrio psicologico, ma anestetizza l’empatia e spegne l’urgenza morale insieme alla spinta a reagire.
La compassion fatigue (Joinson, 1992; Figley, 1995), o fatica da compassione, è una condizione psicologica tipica di chi, come operatori sanitari, psicoterapeuti, assistenti sociali o altri professionisti dell’aiuto, si espone in modo continuativo e prolungato alla sofferenza altrui. Questo stato si manifesta come un esaurimento fisico, emotivo e mentale causato dalla tensione empatica legata all’assistenza a persone in grave difficoltà o in condizioni traumatiche, si riduce la capacità di provare compassione e arrivano sintomi emotivi come ansia, depressione, rabbia, senso di colpa e apatia. Ma tutto ciò non accade solo a chi direttamente opera in ambiti di tragedia: anche chi assiste ripetutamente o è esposto a immagini e racconti traumatici ne è colpito. A livello cognitivo ci sarà confusione, perdita di concentrazione e senso di vuoto, mentre a livello fisico ci sarà affaticamento, dolori, tachicardia o problemi gastrointestinali. A livello sociale vedremo tendenza a ritirarsi, intolleranza o indifferenza.
Così, mentre il mondo assiste in tempo reale a scene di devastazione, diventa muto davanti a una sofferenza troppo grande per essere elaborata e si distacca emotivamente davanti a ciò che dovrebbe invece scuotere le coscienze. I bambini di Gaza, uccisi brutalmente in quantità indescrivibili, amputati, affamati, assetati, orfani di tutto, sono il confine ultimo della nostra umanità. La sfida è urgente: come realizzare modalità nuove e consapevoli per riconnetterci con l’umanità reale che soffre dietro ogni immagine, per superare l’indifferenza e trasformare le testimonianze di dolore in impegno e solidarietà reali?

IL SILENZIO DELLE NOSTRE MENTI DAVANTI ALLA VIOLENZA
Ogni giorno i nostri occhi si posano su immagini che raccontano l’orrore: guerre, aggressioni, crudeltà senza fine. All’inizio lo sguardo sostiene un peso insopportabile, un nodo alla gola che ci spinge a reagire, a indignarci. Ma col tempo quella stessa esposizione ripetuta diventa un rumore di fondo, un’eco lontana che la mente impara a ignorare. È così che nasce la desensibilizzazione: un lento spegnersi delle emozioni, un’assuefazione che riduce il dolore, ma anche la nostra umanità. Il cervello sottrae emozione per sopravvivere.
In condizioni di stress entra in gioco l’amigdala, la parte più antica e istintiva del nostro cervello, che regola la paura e la risposta allo stress. Quando siamo di fronte a immagini violente, l’amigdala si attiva, generando una scarica emotiva intensa. Ma se questa attivazione diventa continua, il cervello sviluppa una sorta di difesa: la risposta emotiva si attenua, come per proteggersi da un sovraccarico di dolore inutile e paralizzante (Wikipedia, 2024). L’iperstimolazione può compromettere le aree prefrontali, responsabili del controllo razionale e della regolazione dell’empatia, mentre si perde la capacità di sentire il dolore dell’altro e la compassione svanisce (Chinello, 2025).
Le conseguenze umane e sociali di una mente assuefatta sono devastanti. Se da un lato questo meccanismo ci protegge, dall’altro ci allontana dal sentire autentico e dalla solidarietà. La violenza, nell’esperienza diretta o mediatica, perde la sua carica di urgenza emotiva, e il nostro sguardo diventa più freddo e distaccato. L’abitudine al dolore altrui può trasformarsi in indifferenza, abbassando quella soglia che ci fa agire per la giustizia e la cura.

ZIMBARDO: LA VIOLENZA DELLA SITUAZIONE
Uno degli studi più emblematici per comprendere come la mente possa adattarsi a scenari di violenza e sopraffazione è l’esperimento della prigione di Stanford, condotto da Philip Zimbardo nel 1971. Qui emerge con chiarezza quanto il contesto sociale e i ruoli imposti possano guidare comportamenti crudeli, persino in individui ordinari e psicologicamente sani.
I partecipanti, divisi in “guardie” e “prigionieri”, subirono una rapida trasformazione: le guardie, investite di potere, iniziarono a esercitare forme di violenza psicologica e fisica, mentre i prigionieri caddero in uno stato di passività e sottomissione. Entra in campo un processo di deindividuazione: l’identità personale si dissolve all’interno del gruppo, il senso di responsabilità individuale diminuisce e si abbassano le difese morali (Zimbardo, 2007). In questo contesto, la deumanizzazione delle vittime e la loro colpevolizzazione giustificano l’abuso, attenuando il senso di colpa di chi esercita il potere. Dall’altra parte, il senso di impotenza vissuto dalle vittime genera difese psicologiche come la dissociazione e l’assuefazione, la desensibilizzazione necessaria a sopportare il dolore (Campanale, 2023).

Immagine creata con ChatGPT®

LA MENTE SI PROTEGGE DAL DOLORE
Il senso di impotenza nasce quando ci troviamo di fronte a situazioni che ci appaiono incontrollabili, dove ogni tentativo di cambiare o influenzare gli eventi sembra inutile e vano. Se abbiamo accumulato esperienze di insuccesso o di sopraffazione, avremo interiorizzato un’idea profonda di incapacità personale, l’“impotenza appresa” (Seligman, 1975). Arriva un pesante senso di rassegnazione, una sorta di rinuncia passiva che protegge la mente dall’angoscia di sentirsi totalmente esposti e vulnerabili. Sul piano comportamentale, ci sarà evitamento, inibizione dell’azione e abbassamento della motivazione.
Per sopravvivere al dolore, la psiche mette in atto una serie di meccanismi di difesa che, in modo automatico e inconscio, contengono l’angoscia e preservano l’equilibrio interno: la negazione, cioè il rifiuto di riconoscere la realtà dolorosa, consente di distanziarsi temporaneamente da ciò che sembra insopportabile; la rimozione, con l’occultamento di ricordi o emozioni traumatiche nella parte inconscia della mente; la proiezione, per cui si attribuiscono ad altri sentimenti o impulsi propri difficili da accettare (Agostini, 2019).
In origine sono forme di adattamento sane, ci aiutano a sopravvivere in condizioni estreme, ma diventano disfunzionali quando si radicano profondamente, perché impediscono che il trauma venga elaborato e quindi bloccano la riconnessione emotiva con sé e con gli altri.
Il dolore nascosto deve trovare espressione per poter farci riscoprire la nostra umanità ferita, e trasformarsi in strumento di resilienza e crescita. È essenziale una consapevolezza collettiva rispetto a questi meccanismi, per non ridurre la violenza a un fatto ordinario e lontano.

PER NON VOLTARCI DALL’ALTRA PARTE
È urgente promuovere a livello sociale e di comunità una maggiore sensibilità verso le tragedie del mondo e superare la desensibilizzazione, è necessario mettere in campo strategie integrate che coinvolgano educazione, cultura, media. Educazione fin dalla prima infanzia: introdurre programmi scolastici che insegnino empatia, rispetto, consapevolezza del dolore altrui e cultura della non violenza, in modo da preparare le nuove generazioni a gestire con responsabilità il confronto con la violenza e l’ingiustizia. Coinvolgimento responsabile dei media e sensibilizzazione pubblica: i media devono adottare un approccio etico nella rappresentazione delle violenze, evitando spettacolarizzazioni e sensazionalismi, e integrare i contenuti con dati scientifici e analisi sociologiche, perché la narrazione sia anche strumento di conoscenza e prevenzione. I media stessi possono modellare comportamenti positivi con campagne di storytelling, mostrare esempi di solidarietà, interventi efficaci e trasformazioni positive per stimolare empatia e azioni concrete, fare focus sulle persone e non solo sui fatti, raccontare storie umane, coinvolgenti e autentiche di vittime, sopravvissuti e attivisti, mettendo in luce le emozioni, i vissuti e i cambiamenti personali, anziché limitarsi a dettagli cruenti o fredde statistiche.
Insieme al racconto della tragedia, è necessaria una chiamata all’azione chiara e concreta: ogni storia o testo o video dovrebbe invitare a iniziative che coinvolgano il pubblico nel creare contenuti positivi e condividere messaggi di solidarietà, supportare la costruzione di una comunità attiva e consapevole, e invitare a compiere un gesto concreto – firmare una petizione, partecipare a un evento, sostenere un’associazione – trasformando l’empatia in impegno attivo. Non più volti spenti e braccia conserte, ma cuori sensibili e menti lucide, esseri umani pronti a impegnarsi per fermare l’orrore.”

Riferimenti bibliografici
Agostini M. (2019), Meccanismi di difesa: cosa sono e come li utilizziamo, https://www.guidapsicologi.it/articoli/meccanismi-di-difesa-cosa-sono-e-come-li-utilizziamo (consultato il 15 settembre 2025)
Campanale G. (2023), L’Effetto Lucifero e la labilità della dicotomia Bene-Male, https://www.stateofmind.it/2023/01/effetto-lucifero-esperimento/ (consultato il 15 settembre 2025)
Chinello V. (2025), I rischi psicologici della continua esposizione delle scene di violenza sui social, https://vivianachinellopsicologa.com/2025/09/06/i-rischi-psicologici-della-continua-esposizione-delle-scene-di-violenza-sui-social/ (consultato il 15 settembre 2025)
Figley C.R. (Ed.) (1995), Compassion fatigue: Coping with secondary traumatic stress disorder in those who treat the traumatized, Brunner/Mazel.
Joinson C. (1992), Coping with compassion fatigue, Nursing, 22, 4, pp. 116-120.
Seligman M.E.P. (1975), Helplessness: On Depression, Development, and Death, W. H. Freeman, San Francisco.
Wikipedia (2024), Desensibilizzazione (psicologia), https://it.wikipedia.org/wiki/Desensibilizzazione_(psicologia) (consultato il 15 settembre 2025)
Zimbardo P. (2007), L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Contrastare l’odiocrazia con l’umanità

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Torno sul tema delle polarizzazioni o della logica binaria a cui ci stiamo purtroppo abituando, con un articolo comparso su Avvenire due giorni fa. La firma è quella di Chiara Giaccardi, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegna Sociologia e Antropologia dei media e dirige la rivista «Comunicazioni Sociali». Lo ripubblico perché ho trovato molte affinità col mio modo di vedere e anche di insegnare (quella citazione di Blake parla a tante/i ex allieve/i…).

“Il tema scelto da papa Leone XIV per la 60esima Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali – “Custodire voci e volti umani” – tocca il cuore di una questione che definisce il nostro tempo: come mantenere l’umanità al centro quando la tecnologia pervade ogni aspetto della nostra esistenza, e il confine tra macchine ed esseri umani sembra assottigliarsi sempre più.
Per Platone, e altri dopo di lui, la tecnica è un “farmaco”: da una parte ci cura e potenzia le nostre capacità, ma dall’altra ci intossica. E queste due dimensioni, con buona pace di apocalittici e integrati, sono inevitabili e inseparabili. Quello che possiamo tentare è una “farmacologia positiva”, che limiti gli effetti tossici e valorizzi quelli curativi. L’intelligenza artificiale offre certo possibilità straordinarie – dalla diagnosi medica precoce alla risoluzione di problemi complessi, dall’efficienza comunicativa all’accessibilità dell’informazione. Tuttavia, il Papa ci avverte che la stessa tecnologia può generare «contenuti accattivanti ma fuorvianti, manipolatori e dannosi», replicare pregiudizi e amplificare disinformazione.
Il linguaggio digitale traduce tutto nella logica binaria dello 0/1. Questa semplificazione sta contagiando sempre più il nostro pensiero e i nostri rapporti umani: on/off, bianco/nero, pro/contro, amico/nemico. Stiamo perdendo la capacità di abitare le sfumature, di tollerare l’ambiguità, di convivere con la complessità.
Il digitale favorisce la polarizzazione anche perché gli algoritmi amplificano i contenuti che generano ingaggio, e nulla genera più ingaggio della rabbia e dell’indignazione. Si crea così un circolo vizioso dove la moderazione viene punita e l’estremismo premiato. Questo meccanismo può portare a forme di identità e di politica basate sulla identificazione del nemico da annientare: una vera e propria “odiocrazia”.
Come proteggersi da tutto ciò? Innanzitutto, rinunciando alla comodità di delegare il pensiero alla macchina: come infatti l’industrializzazione ha privato le persone del loro “saper fare”, così oggi il digitale rischia di compromettere il nostro “saper pensare”. Lo scriveva già Bernanos a metà del secolo scorso: «Il pericolo non si trova nella moltiplicazione delle macchine, ma nel numero sempre crescente di uomini abituati, fin dall’infanzia, a non desiderare altro che ciò che le macchine possono dare».
Dal digitale, comunque, non si può più uscire: è diventato l’aria che respiriamo, l’ecosistema in cui viviamo. Non possiamo tornare a un’era pre-digitale, né sarebbe auspicabile farlo. La questione diventa: dove appoggiamo la nostra critica? Su cosa fondiamo la nostra resistenza alla colonizzazione totale del digitale?

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Il Papa suggerisce una strada: mantenere «l’umanità come agente guida». La critica deve radicarsi in ciò che il digitale non può catturare, che non è “datificabile” né automatizzabile: l’esperienza vissuta, l’interiorità, la capacità di contemplazione, il silenzio fecondo, l’intuizione che precede la razionalizzazione. Non tutto può essere tradotto in algoritmi. L’amore, la sofferenza autentica, la creatività genuina, l’esperienza del sacro, la bellezza che commuove, la giustizia che indigna mantengono una dimensione di mistero e imprevedibilità che sfugge al codice binario e alla manipolazione algoritmica. La persona umana porta in sé una dimensione di infinito che nessun sistema finito può contenere completamente. E la bussola per non smarrire la strada non sono principi astratti, ma il volto concreto dell’altro. Potremmo rileggere la celebre formulazione kantiana “il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me” come “il cielo stellato sopra di me e il volto dell’altro davanti a me”. Entrambi rappresentano l’irriducibile singolarità: ogni stella unica nel firmamento, ogni volto unico nell’umanità. L’infinito e il finito che si abbracciano e formano una unità indissolubile e irriducibile. Il volto dell’altro, come insegnava Emmanuel Lévinas, è epifania dell’infinito nel finito, appello etico che precede ogni computazione. È nel riconoscimento di questa singolarità che possiamo fondare la resistenza alla riduzione dell’umano a profilo digitale. Ma la cultura individualista di cui siamo imbevuti ci porta a vedere nell’altro una minaccia, o al massimo uno strumento per la propria realizzazione. E il digitale, coniugandosi con l’individualismo contemporaneo, ci trasforma in profili isolati, ingranaggi di una megamacchina che ci connette tecnicamente ma ci separa umanamente. Profili statistici piuttosto che persone con un nome e una storia.
La proposta di papa Leone di introdurre nei sistemi educativi l’alfabetizzazione mediatica e sull’intelligenza artificiale è fondamentale, ma non basta. Serve un’educazione più profonda: quella a riconoscere che, come scriveva papa Francesco e come le scienze ci dicono da tempo, «tutto è connesso». E che, quindi, l’individualismo radicale è un’astrazione, una ideologia che ci disumanizza e ci rende oltretutto più vulnerabili alla potenza del digitale. Serve un’educazione alla contemplazione, al silenzio, alla lentezza, alla capacità di sostare con le domande senza precipitarsi verso risposte algoritmiche immediate quanto riduttive. Serve uno spirito “poetico”, dato che la poesia è la lingua delle connessioni dell’uno e del molteplice, che ci fa vedere «il mondo in un granello di sabbia e l’eternità in un’ora», per parafrasare Blake.
Lo spirito non è qualcosa di astratto ma una forza di trasformazione, che pervade tutte le dimensioni non quantificabili, come l’arte. E come scriveva Rilke: «Essere artisti vuol dire non calcolare e contare». La sfida è mantenere viva questa dimensione umana nell’ecosistema digitale, non come nostalgia del passato ma come profezia del futuro. Un futuro dove le macchine saranno davvero «strumenti al servizio e al collegamento della vita umana», e non padroni che decidono per noi cosa pensare, desiderare, temere o amare.”

Stupore, meraviglia, incanto

Immagine creata con Gemini®

Negli ultimi mesi, in vari confronti con colleghe e colleghi, ho messo in evidenza una difficoltà nella quale mi imbatto da circa due-tre anni a questa parte: faccio fatica a destare lo stupore in classe. Non voglio certo generalizzare, ma mi capita sempre più spesso di incrociare sguardi attoniti o volti inespressivi davanti a racconti o testi o filmati che dovrebbero far esclamare “oooooooh” (ricordo la meraviglia di qualche tempo fa quando mostravo uno di quei filmati che mostrano il passaggio dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande e viceversa). Ho attribuito la colpa alla disponibilità, cresciuta moltissimo negli ultimi anni, di tutto questo materiale on-line e alla sua facile fruibilità: insomma la sensazione che tutto è già stato visto, tutto è già stato detto. Magari non ci si è soffermati a riflettere, e ora, che è venuto il momento di farlo, è un ragionare “a freddo”, senza la spinta emozionale. Poi, però, mi capita di leggere in una classe prima, il testo scritto da una ragazza appena uscita dalla quinta, un testo che parla di amicizia, di vita, di morte, di amore e di passione per la vita. E molte/i si emozionano e hanno gli occhi rossi. Allora mi è venuto in mente quel testo di Alessandro D’Avenia scritto un mesetto fa per il primo giorno di scuola e che mi ero promesso di riprendere. E’ venuto il momento… Lo prendo dal suo blog (è stato pubblicato sul Corriere della Sera nella rubrica settimanale “Ultimo banco”).

“Non sembra ma la scuola e le ferie hanno la stessa essenza: l’incontro con la meraviglia. Durante le ferie è lo stupore che cerchiamo. In montagna o al mare, in campagna o in città, in un libro, panorama, volto, vogliamo incantarci. In queste occasioni, che non a caso poi ricordiamo e raccontiamo, tratteniamo il respiro (si dice «mozzafiato»), per ricevere più vita. Quale? Quella che appunto ci ispira: ci dà più respiro. Per questo abbiamo un senso da cui dipendono gli altri cinque: il senso della meraviglia. Se non funziona questo senso, la realtà diventa muta, insensata, neutra. Infatti è la qualità delle relazioni che abbiamo con il mondo che orienta il nostro individuarci, cioè scoprire in che cosa siamo unici e irripetibili. E proprio il senso della meraviglia detta la qualità di queste relazioni: si chiama «attenzione selettiva», un potenziamento dei nostri circuiti neurali diverso per tutti. Chi non prova stupore cerca stupefacenti: sostanze, non relazioni ma dipendenze. Pur di appartenere (sentirsi amato) sparisce nelle cose o negli altri, fino a non sapere più chi è e che cosa vuole. Chi invece conosce e allena il «suo» stupore trova sostanza (al singolare), cioè vita che lo sostiene, legami che lo ispirano e lo individuano, non sparisce nelle cose e negli altri ma sa stare di fronte al mondo, da protagonista. A scuola è difficile rendersene conto, piena com’è di grigiore e disincanto, ma in fondo la scuola finisce o comincia proprio se finisce o comincia l’incanto. Perché?
La scuola non è un edificio (sarebbe troppo poco) ma ogni spazio-tempo della storia in cui incontriamo ciò che ci meraviglia. Si dà scuola – a volte anche a scuola – ovunque accada lo stupore, cioè un incontro reale con il mondo. Il primo giorno di scuola non è quindi l’inizio di un susseguirsi di ore a cui resistere in vista del prossimo ponte, ma una metafora del «senso della meraviglia». Come allenarlo? Cominciamo con un appello in cui a ciascuno sia chiesto: per raccontare quale stupore sei venuto al mondo? A scuola possiamo dare il buon esempio raccontando l’incanto che ci ha portato a voler raccontare ad altri la gioia della chimica, della filosofia, della cucina, dell’arte, dell’elettronica, della biologia, della meccanica, della matematica e tutte quelle che possiamo definire «materie della meraviglia», «sostanza del mondo» e non sostanze senza mondo, dipendenze senza gioia. Così avremo un primo appello di «incanti», ogni nome associato al pezzetto di mondo verso cui sente attrazione e quindi attenzione. Conoscere come e quando un ragazzo (e in generale una persona) sente di appartenere alla vita e che la vita gli appartiene è ascoltare una profezia sul suo destino. Per questo amo il titolo che l’astrofisica canadese Rebecca Elson ha usato per il suo libro di poesie «A Responsibilty to Awe», responsabilità dell’incanto, perché quando veniamo toccati da qualcosa stiamo già rispondendo (da cui responsabilità) a una chiamata della vita che vuole cura da noi, alla maniera che ci è più congeniale. Chi non prova incanto non può provare amore verso sé stesso e verso la vita, perché non sa cosa ama e non sa cosa lo chiama. Per questo bisogna raccontare ai figli e agli studenti dove l’incanto ci ha afferrati, perché loro cercano in noi prima che una lezione una elezione: scelta, vocazione, destino, responsabilità. Perché avremmo mai dedicato tempo e sforzi a qualcosa purché diventasse la nostra strada? Per questo un primo appello ben fatto chiede ai ragazzi dove l’incanto li abbia già afferrati, perché dal «senso della meraviglia» nasce il loro personalissimo «sentimento della vita»: l’amore per il mondo, per gli altri e per se stessi, unica reale difesa dalle dipendenze. Un ragazzo «irresponsabile» è semplicemente un ragazzo che non è mai stato chiamato alla vita e dalla vita, e quindi non ha mai potuto rispondere. Per questo l’appello è il momento più importante dell’orario scolastico: tu, proprio tu, per quale pezzetto di mondo sarai insostituibile? E quindi: per quale stupore sei qui? In fondo quando ci siamo innamorati di qualcuno, non è stato il suo modo unico di «stare» al mondo che ci ha sedotto? Alexandra Horowitz, docente di psicologia alla Columbia University, ha scritto un libro, On looking: eleven walks with expert eyes (Sul vedere: undici passeggiate con occhi esperti), in cui descrive il medesimo ripetuto e ignorato percorso, da casa alla scuola della figlia, in undici modi diversi, semplicemente perché lo percorre ogni volta insieme a una persona con una vocazione diversa, occhi diversi: un architetto, un biologo… un cane. Lo stesso tragitto di sempre diventa memorabile grazie ai modi unici, stupefatti e quindi stupefacenti, di percorrerlo, cioè di stare al mondo, di prendersene cura. Come diceva Chesterton non esistono argomenti poco interessanti, ma persone poco interessate. E allora mi viene da pensare a Van Gogh che abbracciò tardi la sua vocazione e imparò a dipingere da solo, e in dieci anni il suo sguardo rivoluzionò l’arte perché nessuno come lui sapeva stare davanti a girasoli, cipressi, volti, stelle… la stessa «materia» che tutti vedevano da secoli, ma senza il suo incanto. In una lettera del giugno 1888 chiedeva al fratello Theo i soldi per comprare tele e colori: «Non è forse la sincerità della natura a guidarci? E queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora – senza accorgersi che si sta lavorando – e talvolta le pennellate vengono in successione e con rapporti tra loro come le parole in un discorso o in una lettera. Ecco perché chiedo sfacciatamente tela e colori. Solo così sento la vita, quando lavoro a pieno ritmo» (giugno 1888). Lo stupore di un solo uomo, divenuto vocazione e opere, continua a risvegliare milioni di addormentati o di ciechi (per questo a scuola facciamo studiare Van Gogh). E allora facciamolo bene questo primo appello. Nome per nome, stupore per stupore, destino per destino, vocazione per vocazione. Chiedere «per raccontare quale stupore sei venuto al mondo?» a un adolescente è un dovere per noi, come diciamo che lo è la scuola per lui.”

Un prof tra mare, terra e cielo

Immagine creata con ChatGPT®

Sono su Facebook dal 2008, su Twitter dal 2010 (ora non più, preferisco bluesky o threads) e su Instagram dal 2014 (da un po’ con un secondo account specificatamente dedicato al lavoro), su Flickr dal 2009, su Whatsapp e Telegram con un canale Oradireli, sono anobiano dal 2013 e goodreader dal 2014 (Ask, GuruShots, 500px, Snapchat, Pinterest, LinkedIn, Tiktok e altri li ho usati per capire come funzionano). Youtube lo utilizzo senza interagire con gli altri utenti. Non amo il gioco online, non ho conoscenze dirette del settore. Da anni utilizzo Netflix, Prime e Infinity. Utilizzo Spotify da tempo. In casa c’è quell’antipatica di Alexa.
Scrivo un blog dal 2007, ho prodotto podcast e video, condiviso un hard disk virtuale che però non aggiorno più. Non riporto piattaforme e strumenti tipici della didattica.
Ho sperimentato vari chatbot e, per il concorso che ho recentemente affrontato, ho fatto presentare una piccola parte di esposizione da un mio avatar.
Ho voluto scrivere questa sottospecie di curriculum per vari motivi:

  • mi piacciono queste cose e capire come funzionano
  • queste cose appaiono e spariscono in un amen o possono persistere a lungo, di sicuro cambiano molto frequentemente
  • la grande maggioranza di studentesse e studenti vi sono immerse/i, e stanno arrivando in classe coloro che sono nati già in quel mondo e tristemente utilizzano queste cose fin dalla più tenera età
  • queste cose influenzano la nostra vita, il nostro modo di esprimerci e di relazionarci, il nostro stesso modo di pensare
  • se desideriamo capire il perché di certi meccanismi abbiamo due possibilità: entrare in quel mondo o farci raccontare quel mondo da chi vi è dentro o l’ha abitato per un certo periodo.

Quello che mi sembra poco utile è lo scontro tra due opposte fazioni che Matteo Lancini in “Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa” (2019, Raffaello Cortina Editore) definisce così:

  • I tecno-ottimisti: gli studiosi che “spingono verso un’accelerazione della diffusione dei dispositivi tecnologici, fino ad arrivare a promuovere persino la loro integrazione nel corpo umano, come protesi in grado di potenziare la dotazione biologica naturale, ritenendo che la tecnologia possa prima o poi riuscire nella promessa di eliminare limiti e sofferenze umane” (pag. 21)
  • I tecno-pessimisti: sono coloro che sottolineano i “rischi legati alla tentazione di cedere alla promessa dello strapotere tecnologico, generatore di un uomo diminuito, anziché potenziato di capacità e dotazioni. Rischi ancora da studiare sui cambiamenti del sistema nervoso, ma che, sommandosi ai pericoli di un utilizzo poco responsabile dei mezzi informatici, alimentano un clima di aspra condanna e timore nei confronti di Internet. Il mondo adulto sembra spaventato dall’ipotesi che i più giovani possano trovarsi intrappolati tra le maglie della rete, incapaci di gestire il tempo della connessione e di difendersi da truffe, ricatti e situazioni pericolose” (pag.21)

Mi ritrovo nelle parole immediatamente successive di Lancini: “Prendere posizione nella disputa tra sostenitori e avversari della tecnologia è un’operazione poco utile per aiutare gli adolescenti a farsi strada nell’intricato mondo in cui vivono fuori e dentro la rete” (posto che esista un fuori e dentro la rete, aggiungerei) (pagg. 21-22).
Ultimamente, soprattutto davanti agli strumenti dell’AI, faccio più fatica. Sento che mi manca un aspetto che prima comunque caratterizzava il mio lavoro e l’accompagnamento all’utilizzo degli strumenti tecnologici da parte di allieve e allievi: il dominio di quello strumento. Forse perché non è solo uno strumento. E’ un po’ come se fossi sempre andato per mare, abituato al mare calmo o anche tempestoso, ma fiducioso delle possibilità della barca su cui navigavo; in questo momento però ho la sensazione di essere nell’oceano e le onde mi incutono timore. Mi preoccupa la rotta che può prendere lo sviluppo dell’AI, mi preoccupa il dispendio di energie che richiede, mi preoccupa il modo in cui è stato costruita e si sta costruendo, mi preoccupa l’opacità e la mancanza di trasparenza del processo. Si tratta di dubbi che riguardano l’etica, la coscienza: di solito, quando li incrocio nella mia vita, ho l’abitudine, per capire meglio la situazione, di prendere le distanze, perché da lontano si ha uno sguardo d’insieme (come quegli allenatori che talvolta scelgono di guardare una partita della loro squadra dalla tribuna). Questa volta però sono molto indeciso, restando nella metafora dell’oceano, tra una modifica dell’equipaggiamento o dell’intera imbarcazione (fare corsi, sperimentare, modificare la didattica, cambiare il setting delle lezioni) e la ricerca di un orizzonte diverso (prendere le distanze, appunto): ma quale orizzonte? Uno più stabile, come la terra? O uno più imprevedibile, come l’aria? Andare alla ricerca di sicurezze? Adoro viaggiare in treno, ma riconosco che il binario è una strada tracciata, posso solo scendere e prendere altri treni, non posso fare andare il treno dove binario non c’è. O andare alla ricerca di cose mai sperimentate? Provare l’ebrezza del volo, la sensazione di essere sostenuto dall’aria senza una base sotto i piedi, mi attira. Quale mi piacerebbe che fosse l’orizzonte del mio lavoro educativo?
Penso che intanto mi convenga equipaggiare la mia imbarcazione, dotarla di tutto ciò che serve per affrontare l’oceano. Nel frattempo, mentre sono a terra, mi tolgo lo sfizio di qualche viaggio in treno e di qualche prova di volo (delle prese di distanza provvisorie, insomma). Chissà se alla fine canterò insieme a Jovanotti la parte finale de La linea d’ombra:
“Mi offrono un incarico di responsabilità
Non so cos’è il coraggio se prendere e mollare tutto
Se scegliere la fuga o affrontare questa realtà difficile da interpretare
Ma bella da esplorare
Provare a immaginare come sarò quando avrò attraversato il mare
Portato questo carico importante a destinazione
Dove sarò al riparo dal prossimo monsone
Mi offrono un incarico di responsabilità
Domani andrò giù al porto e gli dirò che sono pronto per partire
Getterò i bagagli in mare studierò le carte
E aspetterò di sapere per dove si parte quando si parte
E quando passerà il monsone dirò “levate l’ancora
Diritta avanti tutta questa è la rotta questa è la direzione
Questa è la decisione”.”

Qui e ora, ma anche altrove

Immagine creata con ChatGPT®

Sull’ultimo numero del settimanale diocesano La Vita Cattolica compare un editoriale del dirigente Luca Gervasutti sulla proibizione dello smartphone a scuola. Nell’istituto in cui insegno, a partire dal secondo anno è previsto l’utilizzo dell’iPad. Da molto tempo abbiamo visto succedere per i tablet quello che scrive il dirigente a proposito dello smartphone “È innegabile che gli smartphone catturino la concentrazione e che la notifica diventi un riflesso condizionato”. Quindi non sarà certo con la proibizione di uno specifico dispositivo che si risolveranno i problemi. Lascio qui l’editoriale, poi, in fondo, propongo un testo che ogni tanto leggo in classe.

“Vietare lo smartphone a scuola è diventato il mantra di questi mesi. Lo si presenta come la soluzione più rapida a problemi che angustiano genitori e insegnanti: distrazione, perdita di attenzione, difficoltà relazionali. È un discorso che funziona perché offre risposte immediate, ma proprio questa immediatezza ne rivela il limite: confonde sintomo e causa, strumento e sistema. Lo smartphone non è il nemico, è lo specchio di una società che corre senza tregua, che trasforma ogni gesto in prestazione e ogni momento in contenuto da condividere. Dentro questo orizzonte accelerato, il cellulare diventa l’interfaccia più evidente, non la radice del problema.
Il divieto rischia allora di trasformarsi in un alibi: tranquillizza gli adulti, ma non educa i ragazzi. Appena varcata la soglia scolastica, i dispositivi tornano nelle loro mani, pronti a scandire giornate fatte di notifiche e messaggi incessanti. Pensare di risolvere il problema eliminando l’oggetto è come curare la febbre rompendo il termometro. La vera sfida non è allontanare lo strumento, ma imparare a governarlo. Se la scuola non insegna l’uso consapevole di ciò che scandisce la quotidianità giovanile, chi potrà farlo?
Chi invoca il divieto lo fa spesso in nome dell’attenzione. È innegabile che gli smartphone catturino la concentrazione e che la notifica diventi un riflesso condizionato. Ma la distrazione che viviamo non nasce dal cellulare: è figlia di un sistema che ci spinge a correre sempre più veloce, a rispondere a mille stimoli contemporanei. Una distrazione sistemica, che lo smartphone amplifica senza inventarla. Vietarlo a scuola significa rimuovere il sintomo ignorando la malattia.
La scuola non può sottrarsi al compito di insegnare a gestire la velocità che caratterizza il nostro tempo, ma deve anche farsi luogo di educazione alla lentezza, alla riflessione e alla capacità di distinguere ciò che merita attenzione da ciò che è solo rumore di fondo. Leggere senza interruzioni, discutere senza notifiche, scrivere a mano non sono esercizi nostalgici, ma strumenti necessari per allenare competenze che nessun dispositivo potrà sostituire. In questo senso la scuola deve però offrire l’esperienza della lentezza non come rifiuto del digitale, ma come condizione per usarlo liberamente e con consapevolezza. L’errore più diffuso consiste nel ridurre la questione a un aut aut, come se dovessimo scegliere tra un mondo analogico da difendere e un universo digitale da respingere o, al contrario, da abbracciare senza spirito critico.
La formazione dei giovani richiede invece entrambi i linguaggi: la pazienza della scrittura a mano e la rapidità della tastiera, la concentrazione su un libro cartaceo e l’apertura offerta dalla Rete, la profondità dell’esperienza analogica e la reticolarità degli strumenti digitali. È un bilinguismo cognitivo che la scuola ha il dovere di coltivare, perché solo dalla loro coesistenza può nascere uno sviluppo armonico dei ragazzi.
Questo non significa spalancare le porte agli schermi senza regole. I limiti restano indispensabili, ma c’è una differenza profonda tra proibire ed educare. Il divieto dall’alto genera soltanto sotterfugi, mentre un contratto educativo condiviso trasforma il limite in responsabilità. Se un ragazzo comprende perché in certi momenti il cellulare va lasciato da parte, se percepisce la rinuncia come costruttiva e non punitiva, allora quel limite diventa apprendimento. È in questo equilibrio che si costruisce la cittadinanza digitale.
L’equivoco di fondo è credere che la scuola debba proteggere i ragazzi dal presente. Non è così: la scuola deve fornire strumenti per affrontarlo. Togliere lo smartphone non basta; occorre imparare a conviverci, usarlo con consapevolezza, mettergli confini, non subirne il richiamo incessante. Solo così lo si trasforma da minaccia in risorsa.
Vietare è facile, educare è difficile. Ma se la scuola rinuncia a educare proprio sugli strumenti che plasmano la vita dei ragazzi, a cosa serve? Meglio affrontare la complessità che rifugiarsi nella scorciatoia del divieto. Non è spegnendo i cellulari che renderemo gli studenti più liberi: lo diventeranno quando sapranno gestirne tempi e modi, distinguendo connessione da dipendenza, uso da abuso. In un mondo che accelera e frammenta, il vero compito educativo non è eliminare lo smartphone, ma insegnare a dominarne i ritmi e a restituire dignità all’atto di scegliere.”

Mi è capitato spesso di riflettere in classe sul potere distraente delle notifiche; mi è anche capitato di raccontare che le notifiche, io, da studente, non ce le avevo. Però tenevo sotto il banco o nello zaino libri e spesso, durante le lezioni, scrivevo poesie o racconti. Non lo facevo sempre: scappavo con la mente quando mi annoiavo, quando non provavo interesse per quello che si faceva in classe. Certo, forse il mio era un atto più consapevole e voluto rispetto alla notifica che può “venire incontro”, ma la testa comunque staccava da quello che si stava facendo. Si rifugiava in un altrove e non nascondo che quell’altrove spesso è stato salvifico: perché era mio, perché me l’ero costruito io, perché era frutto delle mie parole, delle mie paure, dei miei sogni. Non era un passare il tempo a scrollare Tiktok, a passare in rassegna la vita degli altri: quello è un altro tipo di altrove. Ecco allora un testo che a volte leggo in classe, per cercare di comprendere che esistono diversi tipi di altrove e che non tutti sono malati, che può esserci un’educazione alla consapevolezza e alla responsabilità. Che lo smartphone, in fin dei conti, è un mezzo: decidiamo noi se e quando utilizzarlo, decidiamo noi se farne uno strumento per andare verso un altrove autentico o un altrove fantomatico.
“Pensaci.
Siamo tutti malati, di un male sottile e persistente.
Una malattia che agisce in sordina, che apparentemente non fa alcun rumore.
Io la chiamo ‘la malattia dell’altrove’.
Siamo sempre in un indefinito altrove: un altro tempo, un altro luogo, altre persone.
Al tavolo con amici e siamo al cellulare a scrivere all’amica (e poi, quando siamo con quell’amica, magari scriviamo a qualcun altro).
Relazioniamo il nostro tempo ad un tempo andato. “Si stava meglio prima”, “quando ero più giovane”, “se solo avessi”, “chissà come sarebbe stato”. Oppure siamo in proiezioni future. Gli impegni del giorno dopo, le preoccupazioni per il lavoro, l’attesa spasmodica e persistente di una felicità posticipata, sempre, ad un momento “da venire”.
Quando avrò la macchina,
Quando avrò la laurea,
Quando avrò il lavoro,
Quando avrò una relazione,
Quando avrò una casa,
Quando avrò dei figli.
Per poi, inevitabilmente, spostarci in un ulteriore “altrove” quando li avremo ottenuti.
È così che schiacciamo e mortifichiamo ogni giorno il nostro tempo, la nostra vita, il respiro del nostro Adesso.
Un ‘oggi’ che ogni giorno perde energia ed entusiasmo.
Ecco.
È un modo eccellente per rendersi infelici, delegando aspettative e attese ad uno spazio “oltre” che ha la consistenza di un puro pensiero.
Domani non esiste. Domani sarà, tra 24 ore, un nuovo oggi. E oggi sarà quello che domani chiamerai ieri. Lo osserverai con nostalgico rammarico e dirai “se solo avessi..”, “chissà come sarebbe stato se..”.
E allora?
Vuoi ancora prenderti in giro, perdendoti nei meandri degli “altrove” e delle possibilità perdute o scegli di agire, oggi?
Ovunque tu sia, devi esserci davvero.
Ciascun momento è unico e, croce e delizia, non ritornerà più.
È il tuo tempo, la tua vita.
Ed è Adesso.”
Oscar Travino. Sette Secondi: Pensieri liberi di uno psicoterapeuta (pp.11-12). Edizione Kindle.

Intelligenza Artificiale e scuola, in cerca di strade da percorrere

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

Sono passati più di 27 anni dalla prima volta che ho messo il piede in un’aula scolastica come prof. Erano le scuole medie di Latisana, una supplenza breve. Finalmente quest’anno è stato indetto un concorso (non accadeva dal 2004), l’ho superato e sono diventato di ruolo; affronterò pertanto l’anno di prova (!) e lo farò con un nuovo Dirigente. Al Liceo Percoto è infatti arrivato Luca Gervasutti, che ho appena iniziato a conoscere (non abbiamo ancora parlato faccia a faccia). Ho scoperto che abbiamo una cosa in comune: l’interesse per l’Intelligenza Artificiale. Lui ha un profilo Facebook sul quale ultimamente ha pubblicato, visibili a tutti, tre testi molto interessanti. Li condivido qui perché penso possano suscitare riflessioni e approfondimenti. Lascio anche il cappello introduttivo scritto dal Dirigente stesso. Buona lettura.

“Negli ultimi tempi ho lavorato a un framework per la valutazione educativa dell’IA, pensato come bussola per dirigenti, docenti e studenti.
Lo proporrò qui, facendolo precedere da tre brevi testi che ne delineano la cornice culturale.

1 – Archeologia del remix.
Virgilio aveva un problema. Doveva scrivere l’epos della nuova Roma, ma non poteva partire dal nulla – i Greci avevano già detto tutto. Allora prese l’epopea omerica, ne riscrisse versi e temi, e la ricompose in latino con un progetto del tutto nuovo. L’Eneide è il più geniale remix della storia antica. Il gesto di Enea che fugge da Troia portando sulle spalle il padre Anchise riprende un’immagine tradizionale, ma la piega verso occidente, verso un futuro che Omero non avrebbe mai immaginato. Era già tutto lì, duemila anni fa: l’arte non nasce dal vuoto, si riscrive.
I Romani l’avevano capito istintivamente. Le loro statue riprendevano la perfezione greca, ma la adattavano ai volti concreti dei consoli; i loro templi riprendevano le proporzioni di Atene, ma li piantavano nel fango del Tevere. Non era imitazione: era traduzione. E la traduzione non è mai innocente: cambia tutto nel momento stesso in cui si illude di lasciare tutto uguale.
Diciannove secoli dopo, Duchamp prende un orinatoio, lo gira sottosopra, ci scrive una firma falsa e lo chiama arte. Stesso gesto di Virgilio, ma con una brutalità che l’Eneide non si sarebbe mai permessa. L’oggetto non cambia, cambia il contesto. E il contesto, scopriamo, è tutto. Picasso fa lo stesso con i giornali: inventa i papiers collés, ritaglia una cronaca, incolla una colonna tipografica, e quello che prima informava ora dipinge.
Il moderno inizia quando capiamo che ogni cosa può diventare materiale per ogni altra cosa. Le avanguardie lo intuiscono, ma ci vuole il computer per renderlo banale. Copia e incolla: due parole che hanno cambiato il mondo più di molte rivoluzioni. Non è solo una funzione tecnica: è una forma mentis. Tutti, improvvisamente, possono fare quello che prima era riservato agli artisti geniali – prendere un pezzo di realtà e spostarlo altrove, riscrivere il senso con un clic.
Il DJ che campiona James Brown e ci costruisce sopra una hit ripete, a suo modo, il gesto di Virgilio: prendere parole o suoni già scritti e ricomporli in una creazione nuova. Un tempo questo lavoro apparteneva a pochi; oggi con l’intelligenza artificiale, può farlo chiunque. E qui nasce il panico degli insegnanti. Perché se copiare è facile, cosa significa ancora studiare e assegnare i compiti? Se l’informazione è disponibile ovunque, perché memorizzare? Se si può assemblare un tema pescando da mille fonti, cosa resta dell’apprendimento individuale? La scuola si blinda, vieta lo smartphone, rincorre software anti-plagio. Ma sta combattendo la battaglia sbagliata: invece di proibire il remix, dovrebbe insegnare a farlo bene.
L’IA fa esattamente quello che hanno sempre fatto i buoni studenti: ricombinare, collegare, rielaborare. È come se il processo di apprendimento si mettesse a nudo, mostrasse i suoi meccanismi interni. Le chiedi di scrivere una poesia d’amore e te la costruisce pescando da Petrarca, da una canzone pop degli anni Ottanta, da miliardi di parole disperse nella rete. Tutto mescolato, tutto riconoscibile e irriconoscibile insieme. Un’IA come MidJourney crea un dipinto mixando lo stile di Van Gogh con l’estetica cyberpunk, proprio come Virgilio mescolava Omero con il destino di Roma. Ma non lo fa da sola: dietro ogni immagine c’è un prompt, un’intuizione umana che guida la macchina, un’intenzione creativa che decide cosa combinare e come. È l’uomo, con la sua capacità di immaginare e scegliere, a trasformare il remix da un processo meccanico a un atto di creazione.
Se tutto è remix, se non esiste l’originale puro, allora la missione della scuola si ribalta completamente. Non deve più proteggere l’originalità, ma insegnare a riconoscerla dentro la ricomposizione. Non deve impedire la copia, ma mostrare quando diventa tradimento e quando invece diventa traduzione.
Il compito è chiaro: trasformare l’archeologia del remix in pedagogia del remix. Insegnare che copiare, riscrivere, tradurre non sono scorciatoie da reprimere, ma gesti antichi e necessari da padroneggiare. La differenza è tutta nell’intenzione e nella consapevolezza: plagiare significa appropriarsi con inganno, mentre ricreare significa imparare trasformando.
La cultura è un grande archivio che si riscrive continuamente, un infinito gioco di ricomposizione dove ogni pezzo contiene già tutti gli altri. La scuola può continuare a fingere che non sia così, oppure può iniziare a insegnare le regole del gioco. La domanda non è più se questo sia giusto o sbagliato. La domanda è: ora che lo sappiamo, cosa e come insegniamo?

2 – Scrivere con l’IA: il brainframe del remix.
Ogni epoca pensa con gli strumenti che usa. La scrittura alfabetica ha insegnato a ragionare in sequenze ordinate; la stampa ha educato alla linearità della pagina e alla disciplina del testo; la televisione ha modellato uno sguardo rapido, frammentato, fatto di immagini che si consumano in pochi secondi. Marshall McLuhan diceva “il medium è il messaggio”; Derrick de Kerckhove – probabilmente il suo allievo prediletto – ha parlato di brainframes: cornici mentali che i media costruiscono dentro di noi, senza che ce ne accorgiamo.
Il digitale ha introdotto un brainframe nuovo, il remix. Non più il pensiero lineare del libro, né il pensiero sequenziale del cinema, ma un pensiero modulare e reticolare, che prende tasselli e li ricompone all’infinito. I software hanno educato le ultime generazioni alla logica del loop: copia, incolla, varia, modifica, ricombina. Il word processor, iMovie, GarageBand – e decine di altre app che popolano la didattica quotidiana – insegnano la stessa lezione, cioè che la realtà non è un blocco compatto, ma una serie di pezzi mobili da riassemblare ogni volta in forme diverse.
Questo brainframe abitua a guardare il sapere non come qualcosa da acquisire e conservare, ma come un materiale da manipolare, smontare, ricostruire. È un modo di pensare che può generare una creatività dirompente, ma anche una voracità superficiale: si passa da un frammento all’altro senza concedersi il tempo della sedimentazione.
Gli insegnanti ne vedono i risultati nelle aule; gli studenti compongono testi a mosaico, pensano per associazioni rapide, saltano da un argomento all’altro con una velocità che a tratti sembra intuizione geniale, a tratti superficialità insostenibile. È il loro modo di processare le informazioni. Un modo che la scuola fatica a riconoscere perché è cresciuta dentro il brainframe del libro, dove ogni cosa ha un prima e un dopo, un inizio e una fine.
Ora, con l’avvento dell’intelligenza artificiale, il remix entra in una fase nuova. I modelli neurali sono, in fondo, macchine di ricombinazione: prendono miliardi di pattern linguistici, sonori, visivi, e li restituiscono in forme sempre diverse. Non pensano: remixano. E noi, interagendo con loro, impariamo a pensare insieme a loro. È come se il brainframe non fosse più solo umano, ma ibridato: metà memoria culturale nostra, metà calcolo algoritmico.
È qui che il remix incontra la scrittura a distanza, come l’ha definita Luciano Floridi. L’IA non scrive mai da zero: rielabora miliardi di testi preesistenti e li ricompone in nuove configurazioni. Ogni risposta è già un montaggio, un dialogo invisibile con un archivio sterminato. La scrittura non è più il gesto solitario dell’autore che lascia traccia, ma un processo distribuito e condiviso. Con l’IA, ogni testo nasce sempre in relazione, sempre in risposta, sempre in ricombinazione.
In questo senso, remix e scrittura a distanza sono due facce della stessa condizione cognitiva: il primo è la logica interna – smontare e ricombinare – la seconda è il contesto relazionale, fatto di voci umane e artificiali che si intrecciano.
La scuola ora si trova di fronte a un bivio. Gli studenti vivono già dentro questo brainframe: consumano contenuti su TikTok, in un flusso continuo che privilegia la velocità e l’impatto immediato, scrivono per frammenti e studiano saltando da un contenuto all’altro. L’insegnante può fingere di non vedere, continuare a pretendere che tutti rientrino nel vecchio brainframe del libro e della lezione frontale, oppure può accettare la sfida: riconoscere che i ragazzi oggi apprendono in forma spezzata e incrociando fonti diverse, e insegnare loro a trasformare questo remix caotico in un percorso di conoscenza autentica.
Non si tratta di rinunciare alla profondità, ma di mostrare come la frammentazione possa diventare ricomposizione critica, come il salto da un contenuto all’altro possa aprire collegamenti imprevisti, e come il remix possa trasformarsi in un metodo per dare forma al pensiero.
La scuola deve allora insegnare a riconoscere le fonti, a collocarle, a dare loro un peso, affinché il testo diventi davvero nostro nella misura in cui lo costruiamo insieme all’IA, lo rielaboriamo e ce ne assumiamo la responsabilità. Solo così la frammentazione non sarà la fine del sapere, ma l’inizio di una nuova metacognizione, in cui l’utilizzo dell’intelligenza artificiale diventa occasione per esercitare, più che mai, intelligenza umana.

3 – Pedagogia della ri-creazione
Il momento più atteso dagli studenti è, probabilmente, la ricreazione. Viene dal latino re-creare: creare di nuovo, ridare vita. In quell’intervallo il corpo e la mente si distendono, le relazioni si rimescolano e si rigenerano, si impara a ricaricarsi dopo lo sforzo cognitivo e disciplinare. È un interludio che dà ritmo alla giornata e, soprattutto, è il cuore di una pedagogia della rigenerazione.
Ed è curioso che la scuola, da sempre, custodisca nel proprio lessico questa intuizione: non si impara soltanto creando, ma anche ri-creando.
Da qui lo scarto: ciò che chiamiamo ricreazione è la metafora naturale della ri-creazione culturale che l’IA pone come paradigma. L’intervallo restituisce energie al corpo; il remix restituisce senso alle parole e alle idee, rigenerandole in un contesto nuovo.
In entrambi i casi il gesto è lo stesso: rigenerare per poter andare avanti. È su questo parallelismo che si misura la scuola di oggi, chiamata a  coltivare ciò che il futuro richiederà: imparare a collaborare con sistemi intelligenti, distinguere l’aiuto dal rumore, mantenere una voce riconoscibile nella polifonia degli algoritmi.
Non è resa al copia-incolla, ma educazione alla differenza tra plagio e ri-creazione. Il plagio nasconde e inganna; la ri-creazione intreccia fonti e strumenti in un disegno nuovo, assunto con responsabilità.
Un elaborato, oggi, può nascere da un dialogo con un modello linguistico, lasciarsi rifinire da un assistente intelligente, ampliarsi con ricerche guidate, attraversare una trasformazione di registro e tornare infine alla voce di chi scrive.
Non è, di per sé, un imbroglio: è la grammatica dell’epoca del remix. Il problema non è lo strumento, ma l’opacità del processo. Pretendere l’autografia totale — come se fosse mai stata possibile — significa trasformare in colpa ciò che altrove si chiama competenza.
Qui la nozione di scrittura a distanza diventa illuminante. L’autore non scompare, cambia statuto: da esecutore unico a regista di un processo fatto di istruzioni, tentativi, scarti, revisioni. Non è la macchina a garantire il senso; è l’umano che seleziona i materiali, decide cosa entra e cosa resta fuori, firma la versione che riconosce come propria.
Perché tutto ciò diventi educativo, serve però un paratesto: una nota che accompagni il compito, in cui lo studente dichiara come ha lavorato, quali strumenti di IA ha usato e quali scelte personali ha compiuto.
Chi ha vissuto il tempo dei CD ricorda i libretti che li accompagnavano: pagine fitte di testi delle canzoni, ma anche di nomi – autore, compositore, musicisti, arrangiatore, produttore, perfino chi portava il caffè nelle notti di studio.
I credits (in italiano potremmo tradurli riconoscimenti) svelavano che ogni brano era il frutto di un lavoro collettivo, costruito dall’intreccio di molte mani e molte voci.
Allo stesso modo, uno studente può presentare il suo compito come un brano: in copertina il testo finito, dietro il libretto della sua genesi. Non solo il prodotto, ma le tracce del percorso. Non per giustificarsi, ma per mostrare la regia.
I compiti — se hanno ancora senso — lo trovano nel loro libretto interno, là dove viene descritto il processo creativo. Nella pagina dei credits lo studente dichiara come ha lavorato con l’IA: dove l’ha usata, dove l’ha scartata e perché; quali fonti ha scelto e con quale criterio; quale intuizione è sua, quale riscrittura è guidata. È trasparenza, certo, ma anche competenza nuova: saper dirigere e dichiarare la distanza tra sé e gli strumenti, tra le fonti e la propria voce. La musica lo fa da decenni senza sminuire l’artista principale; anzi, lo colloca dentro una storia più grande.
Da qui nasce la pedagogia della ri-creazione: spostare l’attenzione dal prodotto finito al processo documentato. Il compito non è più una superficie lucida, ma il racconto di come il pensiero ha preso forma. Il voto — quando serve — arriva dopo questo racconto: valuta chiarezza delle decisioni, qualità dell’argomentazione, capacità di revisione, autonomia nella scelta delle fonti, consapevolezza dei limiti degli strumenti. Il prodotto conta; ma è il processo che educa.
I credits promuovono metacognizione operativa: pensare sul proprio pensiero, distinguere l’apporto degli strumenti dal contributo personale, trasformare l’aiuto in alleanza consapevole.
In questa luce, più che chiederci se i compiti per casa sopravviveranno, dovremmo chiederci quali compiti meritano il tempo degli studenti. La risposta è quelli che chiedono di trasformare (non di ricopiare), che pretendono documentazione riflessiva e mettono in scena altri media e altre voci, con i credits come bussola etica e cognitiva. La trasparenza non è un atto di controllo per smascherare i furbi, ma un gesto che genera fiducia e responsabilità, e che per lo studente rappresenta il riconoscimento di una competenza maturata.
Nell’era della ri-creazione, l’autore è chi dirige la distanza tra sé e le proprie fonti, tra l’umano e la macchina, e la rende riconoscibile. I credits sono la partitura di questa regia, non un orpello burocratico. Adottarli educa lo studente alla complessità del sapere contemporaneo e gli insegna a firmare non solo i prodotti, ma — soprattutto — i processi.”

Gemma n° 2778

“Quest’anno come gemma ho deciso di portare l’esperienza che ho vissuto a settembre 2024. Ho avuto la possibilità di trascorrere 3 mesi in Irlanda come exchange student: sono stata ospitata da una famiglia e sono andata regolarmente a scuola. Mi sono resa conto di essere stata molto fortunata, perché sarei potuta capitare in una famiglia o in una scuola in cui non mi trovavo bene, invece in entrambe mi sono trovata molto bene. In particolare la mia host family è stata veramente come una seconda famiglia, e mi sono sentita a casa fin dal primo momento che li ho conosciuti.
Anche a scuola ho conosciuto persone meravigliose, belle sia dentro che fuori, sempre disponibili e pazienti. Alcune di queste sono diventate amicizie così profonde, che abbiamo già programmato di incontrarci quest’estate. È stata l’esperienza più bella che io abbia mai vissuto, non solo grazie a tutte le persone che l’hanno resa indimenticabile, ma anche perché mi ha aperto gli occhi da diversi punti di vista, specialmente sulle mie capacità. Porterò sempre nel cuore tutto quello che ho vissuto, che rimarrà sempre impresso nella mia memoria” (S. classe quarta).

Scuola: chatGPT è più veloce di qualsiasi riforma

Immagine creata con ChatGPT®

Pubblico un articolo di Nadir Manna pubblicato l’altroieri su Il Post per parlare di uno dei cambiamenti più evidenti che ha investito e sta investendo il mondo della scuola: i chatbot.“Per gli studenti delle scuole superiori italiane il 2024 è stato l’anno in cui i programmi di intelligenza artificiale (AI) hanno cambiato, forse per sempre, il modo di studiare e di fare i compiti a casa. Non è stato deciso da nessuno: gli alunni hanno imparato a usare ChatGPT per conto loro, in certi casi prima degli insegnanti, molto spesso a loro insaputa, e nel giro di un anno è diventato difficile trovare delle classi in cui non venga utilizzato almeno da qualcuno.
Tra i vari software e chatbot disponibili basati sull’AI, ChatGPT è quello di gran lunga più usato, in generale nel mondo e in particolare dagli studenti. In molte materie può svolgere una funzione di consulente, grazie alla sua capacità di scrivere testi, risolvere esercizi e fornire spiegazioni in base alle istruzioni che riceve, e la conseguenza più immediata è stata che i compiti a casa sono diventati meno adatti a valutare o monitorare lo studio e l’apprendimento. Nel frattempo i docenti stanno provando ad adattare e aggiornare i loro metodi didattici, ma l’impatto delle AI varia a seconda della materia d’insegnamento, e non tutti la pensano allo stesso modo su come integrarle nelle lezioni né su quanta libertà lasciare agli studenti nel loro utilizzo.
In base alle testimonianze degli studenti con cui ha parlato il Post, ChatGPT viene usato soprattutto per scrivere i temi e per fare le versioni di greco e latino. Ma anche per farsi spiegare concetti difficili, per ripassare e per fare i riassunti. I vantaggi sono notevoli: nel caso delle versioni, ad esempio, oltre a fare le traduzioni (che si trovano facilmente anche online) ChatGPT spiega i passaggi e aiuta a capire la costruzione del periodo e l’analisi logica.
All’inizio del 2024 gli alunni hanno iniziato a utilizzare ChatGPT prima che gli insegnanti avessero il tempo di conoscerlo e prenderci confidenza. «Nessuno è mai stato scoperto», dice uno studente di quinta di un liceo scientifico di Roma parlando dell’esperienza nella sua classe. Per lui e per molti suoi compagni il chatbot ha cambiato drasticamente il metodo di approccio allo studio di alcune materie: «Quando devi fare un compito a casa la prima cosa che ti passa per la testa è di chiedere a Chat, poi sicuramente lo rielabori e ci aggiungi qualcosa di tuo, ma comunque Chat è la prima cosa a cui pensi».
Anche dai suoi compagni ChatGPT viene usato regolarmente, e per farci un sacco di cose diverse: «è molto utile, può essere usato per studiare prima di una verifica, per ripetere, per sistemare gli appunti; puoi fare una foto al paragrafo di un libro e Chat te lo riassume», dice lo studente.

Immagine creata con Gemini®

Non è un caso isolato. Molti altri studenti delle scuole superiori raccontano che ormai quasi tutti i loro compagni di classe usano ChatGPT, sia per i compiti a casa che per copiare di nascosto durante le verifiche in classe (nel caso in cui i cellulari non vengano ritirati dall’insegnante, cosa che in realtà accade molto spesso). Il chatbot permette di generare risposte e spiegazioni a domande molto specifiche e spesso si rivela più versatile e molto più efficace dei motori di ricerca, specie per le materie umanistiche come storia, filosofia, italiano e latino. «Alcuni compagni di classe usano ChatGPT per farsi fare qualsiasi compito, anche quando le prove non sono valutate», racconta lo studente di Roma.
Usare le AI per studiare però non vuol dire necessariamente imbrogliare e cercare scorciatoie per studiare di meno. Una studente di un liceo delle scienze umane di Milano ha raccontato per esempio di usare spesso la modalità di interazione vocale di ChatGPT per fare conversazione in inglese e per preparare le interrogazioni. «Per qualcuno è uno strumento di supporto allo studio, utile per imparare; qualcun altro lo usa per fargli fare i compiti e per compensare il fatto che non studia», dice la studente di Milano.
Lo stesso discorso non vale per le materie scientifiche come chimica, matematica e fisica, in cui ChatGPT dà spesso delle risposte sbagliate: anche se può sembrare controintuitivo, modelli come ChatGPT infatti non fanno bene i calcoli, perché non ragionano in modo logico e matematico, ma generano le loro risposte secondo dei criteri probabilistici. In questi casi, per gli esercizi algebrici alcuni studenti si affidano ad altri software (alcuni in realtà disponibili già da tempo), come ad esempio Photomath: un’app che fa automaticamente gli esercizi di matematica a partire dalla foto di una funzione scritta sul quaderno o sulla lavagna.
In questo contesto, il modo in cui gli insegnanti assegnano e valutano i compiti a casa è inevitabilmente cambiato. Da quando si sono accorti che gli studenti usano ChatGPT, molti professori hanno deciso di smettere di valutare i compiti o di controllare se vengono fatti. Degli insegnanti raccontano di essersi accorti che alcuni studenti usavano il chatbot dal fatto che i loro scritti erano diventati poco originali e assai carenti dal punto di vista del pensiero critico. Una professoressa di un liceo di Milano racconta di essersene accorta quando, durante la correzione di un tema, ha trovato alcune citazioni di dialoghi dei Promessi Sposi di Manzoni completamente inventate (lo studente alla fine ha ammesso di avere utilizzato ChatGPT).
Molto, comunque, dipende dai metodi di insegnamento, di verifica e di valutazione, oltre che dal tipo di rapporto che gli insegnanti riescono a costruire con gli studenti. Alcuni professori raccontano di usare un metodo didattico che non prevede compiti a casa obbligatori: in questo caso le indicazioni di studio e gli esercizi assegnati servono soltanto per aiutare gli studenti a prepararsi per l’interrogazione, in cui ChatGPT è molto difficile se non impossibile da usare.
Non è semplice instaurare un dialogo tra alunni e docenti sull’uso delle AI, anche perché, a volte, la possibilità di prendere dei voti più alti dipende dal fatto che gli insegnanti non sappiano come funzionano queste tecnologie. I professori, infatti, stanno iniziando a prendere confidenza con lo strumento soltanto ultimamente. Secondo il racconto di una docente di filosofia di un liceo di Milano, quando in una delle sue classi ha provato a farsi raccontare di ChatGPT gli studenti sono diventati sospettosi, restii a parlare del modo in cui lo usavano.

Immagine creata con Poe®

Quest’anno il ministero dell’Istruzione ha reso obbligatorie per gli insegnanti 20 ore di formazione annuali, e in alcune scuole sono stati fatti dei corsi sulle intelligenze artificiali, in particolare su ChatGPT e su come usarlo come strumento di supporto alla didattica. Oltre che a capire l’uso che ne fanno gli studenti, per i professori può anche essere utile imparare a usarlo a loro volta: il chatbot può essere usato per preparare i compiti in classe, ad esempio per generare quiz e domande, oppure per organizzare e preparare le lezioni. Non tutti i docenti però hanno seguito un corso sull’AI, e anche per questo motivo ogni insegnante ha una percezione diversa dell’impatto di queste tecnologie e della diffusione di ChatGPT tra gli studenti.
Inoltre, in base ai pareri e ai racconti di alcuni docenti sentiti dal Post, ogni professore ha una sua idea su quali siano i vantaggi e gli svantaggi portati da questo cambiamento e su come andrebbe gestito. Alcuni, per esempio, si preoccupano soprattutto della possibilità che gli studenti usino ChatGPT per copiare e per aggirare lo studio, e vedono la soluzione nell’uso di software antiplagio, che in teoria permettono di scoprire quando un testo è stato scritto da un’intelligenza artificiale oppure no.
Questo approccio però presenta dei limiti. Le tecnologie su cui si basano i chatbot in grado di generare testi continuano a evolvere molto rapidamente, lasciando gli strumenti antiplagio sempre un passo indietro. Con un po’ di accorgimenti è semplice aggirarli, passando lo stesso testo per diversi chatbot e programmi di rielaborazione del testo o aggiungendo delle modifiche manuali. In più, i software antiplagio stimano la probabilità che un testo sia stato scritto con un’AI, senza dare risposte certe e con il rischio di generare dei falsi positivi, cioè di segnalare come generati dalle AI testi in realtà scritti da persone.
Altri docenti pensano che il modo migliore per evitare che gli studenti copino con ChatGPT sia quello di integrarlo nella didattica, per insegnare a usarlo in modo consapevole, come uno strumento per imparare e per assistere lo studio. «Sarebbe sciocco non utilizzarlo e non tenere in conto che gli studenti, almeno a casa, lo usano in ogni caso», dice una docente di italiano e storia di un liceo di Vimercate, in provincia di Monza.
In base ai racconti dei docenti, sono stati già pensati molti modi, anche piuttosto creativi, per usare ChatGPT durante le lezioni: la professoressa che insegna filosofia in un liceo di Milano ha raccontato di aver provato a usare il chatbot in classe per simulare una conversazione con Platone, con dei buoni risultati; mentre una docente di italiano e storia che lavora in un istituto tecnico-commerciale in provincia di Bologna ha raccontato di aver istruito i suoi studenti a usarlo per fare delle parafrasi dei testi letterari e per impostare le scalette dei temi. In alcuni libri di testo sono già stati inseriti degli esercizi che danno istruzioni agli studenti per generare un testo con un’AI e successivamente commentarlo.”

Gemma n° 2772

“9 aprile 2024
Oggi finalmente partiamo per New York. Il viaggio dei miei sogni. Questo giorno sembrava non arrivare mai, eppure i 4 mesi che separavano l’iscrizione dalla partenza sono volati in un attimo. Arriviamo a Malpensa. Era ora. Era arrivato il momento che tanto temevo. No no, non il decollo dell’aereo. La puntura che devo fare. Sono terrorizzata dagli aghi, tanto che per un attimo mi è anche passato per la testa il pensiero di non prendere l’aereo per quei 0,3 ml di liquido. Cose da pazzi. È stato disgustoso ma ce l’ho fatta. Finalmente possiamo partire e goderci l’esperienza più bella fatta finora.

19 aprile 2024
Mi sveglio, guardo l’ora. 15:42. Ieri sera siamo tornate da New York. Mi ci è voluto un quarto d’ora per metabolizzare se è stato tutto un sogno o se l’ho vissuto veramente. Apro la galleria. Le foto c’erano. Era tutto vero. Mi prendo 20 minuti per riguardare tutte le foto scattate. Sarò per sempre grata di aver avuto la fortuna di vivere un’esperienza del genere a 17 anni con le mie persone del cuore. Ma che ora è? Già le 4 e mezza??? Devo andare a ginnastica. Mi cambio subito. Questo allenamento non lo posso proprio saltare. 

24 aprile 2024
Finita una ne inizia un’altra. Oggi io e la squadra di ritmica partiamo per i campionati nazionali nelle Marche. Il viaggio è stato lungo. Sto cercato di non pensarci ma nella mia testa frulla solo un pensiero. E se questa sarà la mia ultima gara? Non riesco a capacitarmi. Non oso immaginare la mia vita senza ginnastica. 

27 aprile 2024
È il giorno della gara. Mi sono svegliata con il solito mal di pancia. Ho un mix di emozioni dentro di me che non riesco a controllare. Da una parte sono agitata, mi sento una grande responsabilità addosso. Se dovesse andare male lo rimpiangerei per tutta la vita. Però dall’altra parte sono felicissima. Ho avuto la fortuna di compiere questo bellissimo percorso durato ben 12 anni e ci tengo a dargli una degna conclusione.
S. mi schiaccia le spalle, mi alza il mento e entro in pedana. È andata. Sono contentissima, indipendentemente da quello che sarà il risultato. È l’ora delle premiazioni. Sento “e il primo posto per la categoria serie b, senior 3, attrezzo clavette va a S_________”. Non realizzo. Mi tremano le gambe, non riesco neanche a camminare dritta per andare a prendere la coppa. Non ci potevo credere. La sera mi arriva un messaggio dalla mia allenatrice che purtroppo non è potuta essere presente alle gare. “ciao S, volevo scriverti questo messaggio prima ma sono stata presa da 1000 cose. Quello che hai fatto quest’anno è stato prenderti un rischio abbastanza grande perché prendere in mano due attrezzi che hai usato poco in tutta la tua carriera di ginnastica per il fine di portarli alle nazionali, cercare di farli bene e guadagnarsi il punteggio e il posto non era un’impresa facile. poi sono comunque due attrezzi difficili perché palla devi saperla un po’ maneggiare e gestire, Clavette è difficile perché fanno paura e perché sono comunque due attrezzi da gestire quindi in realtà 2 cose non una sola quindi è difficile in generale.  Mi hai proprio stupita da un punto di vista di scelta perché ero un po’ indecisa, conoscendoti, su quello che avresti potuto scegliere però mi hai comunque stupita perché è una scelta che hai pensato, hai fatto e alla fine hai lavorato te la sei portata a casa con tutte le difficoltà del caso: le prime gare andate male, le perdite e tutto quanto che fanno parte del percorso per arrivare poi al fine della della gara. Con questo voglio dirti una cosa: hai fatto benissimo, nella vita bisogna prendersi dei rischi anche se le cose fanno paura bisogna farle e cercare di portarsele a casa a volte va bene, a volte va male, in questo è andata bene e va bene così però sei stata molto coraggiosa e questa cosa nella vita paga quindi ricordatela,  mi raccomando questa cosa deve rimanerti in testa per cui momenti in futuro in cui magari hai delle paure oppure fallisci in qualcosa perché ci sta fallire, e ti devi ricordare sempre di questa cosa come promemoria.” Mi scende una lacrima.

8 giugno 2024
Oggi è l’ultimo giorno di scuola. Finalmente libera. Adesso posso dedicarmi a scuola guida, ai miei amici che non vedo quasi mai e soprattutto a organizzare il mio diciottesimo, che aspetto da tantissimo. Domani andrò a trovare il nonno che purtroppo hanno dovuto ricoverare in ospedale. È da qualche giorno che non si muove più dal letto quindi meglio fare degli accertamenti.

30 giugno 2024
Stasera c’è il compleanno di G. Quella bambina che conosco dall’asilo domani fa 18 anni. Come è possibile che il tempo passi così in fretta? La mamma mi accompagna a casa sua prima della festa. Aveva un atteggiamento strano, frettoloso, come se dovesse scappare da qualche parte. Non le do peso. Penso a divertirmi e godermi la serata. 

1 luglio 2024
Oggi finalmente inizia il centro estivo. Sveglia presto e alle 7 e mezza siamo già al lavoro. Finalmente rincontro i miei amici, non li vedevo da 1 anno, mi erano mancati. Inizia a piovere. Non diluviava così da tanto. È pioggia fitta e pungente. Sono arrivate le 5, è ora di tornare a casa. Perché c’è la macchina della mamma e non quella del papà nel parcheggio? Salgo in macchina. “Come è andata?” Mi chiede. “Bene bene” rispondo. “Perché sei venuta tu?” “Mi hanno dato mezza giornata di ferie”. Non mi aveva convinto questa risposta. Riattivo i dati del cellulare. Mi arrivano 3 messaggi da zii e amici di famiglia che dicevano tutti la stessa cosa. “Mi dispiace S. ti sono vicina”, oppure, “ti abbraccio forte, qualsiasi cosa sono qua”. “Cos è successo?” Dico con la voce tremante. “Niente perché?” Mi risponde. “Dimmi cosa è successo” ripeto con la voce sempre più tremante. “Il nonno non ce l’ha fatta”.  Mi sento cadere nel vuoto. Scoppio a piangere. Non era uno dei soliti pianti. Non riuscivo a respirare. Parcheggia, saliamo in casa. Mi butto sul divano. Mi gira la testa. Arriva il papà e mi abbraccia. Non mi dava un abbraccio del genere da tanto, anzi forse non me ne aveva mai dato uno così. Non mi aspettavo questa notizia. Non me la aspettavo proprio. Come è possibile? Una settimana fa ero stata a trovarlo in ospedale e mi aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per farsi dimettere per il mio compleanno 15 giorni dopo. Non me ne capacito. Esco in terrazza a prendere un po’ d’aria. Vedo l’arcobaleno. È il nonno ne sono sicura.

2 luglio 2024
Vado a trovare la nonna. Occhi pieni di dolore. Una guerra che avevano combattuto insieme vinta però solo da uno dei due. “Ricordati che sei stata la soddisfazione più grande che ha avuto il nonno”. Mi dice.
Se penso che mentre lui stava tirando i suoi ultimi respiri io ero a ballare mi vengono i brividi.

17 luglio 2024
È arrivato il giorno che aspettavo da tutto l’anno. Oggi divento maggiorenne. Cos’è cambiato da ieri a oggi? Ho più responsabilità? Rispondo io delle mie azioni? Mi sento più adulta?
È stata una bella giornata, ho festeggiato con i miei amici e ho avuto l’occasione di risentirne altri. Arrivo a casa verso l’1:00. La mamma mi dà un regalo. Mi dice che è da parte della nonna. Apro la busta e leggo il biglietto. “Cara S. questo è un regalo che nonno diede a me quando ci siamo conosciuti. Voglio che tu abbia questo anello come simbolo dell’amore infinito che il nonno ed io abbiamo e che avrai per sempre da noi, ti voglio bene, tua nonna.”

21 luglio 2024
La festa dei 18 anni. Da quanto aspettavo questo giorno. Ho indossato l’anello della nonna. Mentre vado verso la villa della festa lo fisso. Alzo lo sguardo verso il finestrino e vedo un arcobaleno. Il nonno mi stava guardando. Mi aveva detto più volte che ci teneva ad essere presente alla festa, e così ha fatto.
Ho avuto Il compleanno da principessa che ho sempre sognato. Per la prima volta dopo 18 anni ho capito veramente il significato della frase qualità è meglio di quantità. È vero non avevo 100 invitati ma quelli che c’erano hanno reso veramente la mia festa indimenticabile, E quasi sicuramente se fossero venuti tutti quelli che avevo invitato non mi sarei divertita così tanto.

11 settembre 2024
Oggi ricomincia la scuola. In che senso sono già in quinta? Guardandomi indietro non mi capacito di come possano essere passati già 4 anni da quel 19 settembre 2020. Siamo arrivati all’ultimo capitolo dell’adolescenza senza neanche accorgercene. Ma me li sono goduti questi hanni? Ho fatto le mie esperienze? C’è qualcosa che potevo fare meglio? Tornassi indietro sceglierei ancora questa scuola? Non voglio pensarci, in fondo la fine è ancora lontana.

27 febbraio 2025
Finalmenteeeeeeee! È arrivata la patenteee. L’esame è stato terrificante ma l’abbiamo portata a casa. Si inizia a sentire profumo di libertà.

12 marzo 2025
Guardo l’ora. 2:14. Non riesco a dormire. Inizio a sentire il peso della quinta. Ultimo anno, ultime verifiche, ultimi sforzi. E poi tutto questo non tornerà più. Le facce che sono stata abituata a vedere ogni giorno 6 giorni su 7 dal nulla spariranno e resteranno solo un ricordo.
Mi sembra assurdo. Abbiamo passato anni a lamentarci, a contare i giorni che mancavano alla fine, a dire “non vedo l’ora che arrivi giugno”. E adesso che ci siamo, che la fine è dietro l’angolo, fa paura. Perché fino ad ora, ogni anno c’era una certezza: a settembre saremmo tornati in quella classe, con le solite lezioni, i soliti compiti e le solite verifiche. Ma questa volta no. Questa volta siamo solo noi di fronte a infinite possibilità. È una sensazione strana. Da una parte non vedo l’ora che finisca perché non ce la faccio più, sono esausta, dall’altra però spero quel momento arrivi il più tardi possibile, perché vorrebbe dire iniziare a prendere in mano la propria vita diventando responsabili a tutti gli effetti delle proprie scelte. Sono pronta? Sono abbastanza matura? Se faccio la scelta sbagliata? Mi sento infinitamente piccola rispetto al mondo fuori dalle mura della scuola. Però alla fine lo so. Anche questo passerà, usciremo tutti da quella porta una volta per tutte e questi anni rimarranno solo un ricordo lontano.”
(S. classe quinta).

Gemma n° 2767

“Quest’anno come gemma ho deciso di portare New York. In quegli otto giorni ho vissuto emozioni che difficilmente riuscirò a dimenticare. Ogni angolo della città mi ha trasmesso qualcosa di unico: l’energia di Times Square, la maestosità di Central Park, la vista mozzafiato dall’Empire State Building. Ogni passo che facevo per le strade di Manhattan mi faceva sentire parte di qualcosa di più grande, come se quella città, che avevo sempre sognato, mi stesse finalmente accogliendo a braccia aperte. Ma oltre ai luoghi, ciò che ha reso questo viaggio davvero speciale sono state le persone. Ho avuto la possibilità di condividere questa esperienza con persone straordinarie, con cui ho riso, mi sono emozionata e ho creato moltissimi ricordi indimenticabili. Alcune di loro le conoscevo già, altre le ho incontrate per la prima volta, ma con tutte ho sentito un legame sincero e profondo. Ogni sera, dopo giornate intense a esplorare la città, ci ritrovavamo nella stanza mia e di B., la 2823, a raccontarci le emozioni vissute, ridendo fino a tarda notte e rendendo ancora più speciale ogni momento. New York mi ha insegnato tanto: l’importanza di buttarsi nelle esperienze senza paura, di adattarsi alle novità e di apprezzare ogni piccolo momento. Camminare tra i grattacieli, prendere la metro senza sapere esattamente dove saremmo finite, scambiare qualche parola con perfetti sconosciuti: tutto questo mi ha fatto sentire viva e indipendente, dandomi la conferma che i sogni, con determinazione e passione, possono davvero diventare realtà. Un momento che non dimenticherò mai è stato vedere la Statua della Libertà da vicino: mi sono fermata qualche istante a osservarla, pensando a tutte le persone che l’avevano vista prima di me con la speranza di un futuro migliore. In quel momento ho realizzato quanto fossi fortunata a essere lì, a vivere quel sogno che fino a poco tempo prima sembrava irraggiungibile. New York non è solo una città, è un’emozione continua, un luogo che ti mette alla prova, ti sorprende e ti lascia senza fiato. Questo viaggio resterà sempre una gemma preziosa nel mio cuore, un simbolo di crescita, indipendenza e felicità. So che prima o poi ci tornerò, perché una parte di me è rimasta lì, tra le luci di Broadway, i taxi gialli e il cielo che si riflette nei grattacieli” (S. classe quarta).

Il dissing tra Esaù e Giacobbe

Un brain-storming sui personaggi biblici, tutti quelli che sono venuti in mente.
Un’ora per metterli in ordine di comparsa nella Bibbia (e così ripercorrere le vicende narrate).
Due ore per creare una specie di digital storytelling o, comunque, trovare un modo creativo di presentare un personaggio biblico: un’autobiografia, un’intervista impossibile, un podcast, un video, un diario…
Ebbene, Mattia Arboritanza e Sabrina Maxim, classe seconda, hanno prodotto il video che pubblico qui sotto. L’ho trovato geniale, creativo, divertente, stimolante, meravigliosamente folle.