Il valore dell’imprevedibile

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

I colloqui con i genitori di allieve e allievi di quinta si concentrano spesso sul dopo-liceo, sulle prospettive future: frequentemente raccolgo la preoccupazione di chi non ha ancora deciso, di chi è perplesso, di chi teme la scelta di una strada “sbagliata”. Allora mi capita di raccontare il mio anno e mezzo di scienze geologiche prima di comprendere quale fosse il mio cammino; racconto anche quanto in realtà la strada “giusta” fosse ben delineata dentro di me, nascosta però da mille rovi e arbusti che, nel tempo, l’avevano coperta. Forse sarebbe stato comodo incontrare quel personaggio di cui Alessandro D’Avenia parla spesso quando affronta l’Odissea: un Mentore che mi sapesse consigliare, che mi aiutasse a leggere meglio dentro di me quella risposta di cui andavo cercando. D’altra parte riconosco che quello che talvolta io stesso ho considerato un anno e mezzo buttato via, è stato forse uno dei periodi più fecondi della mia esistenza, perché mi ha aiutato a vedere tutto ciò che non volevo diventare. Intuire chi si vuole diventare, ascoltare una vocazione, accogliere la risposta che noi stessi ci diamo, dare una direzione all’imprevedibile che si palesa: sono tutti verbi declinati all’infinito che richiedono però un risposta che trovi una concretezza finita nell’esistenza.

Lascio allora spazio a un articolo della pedagogista Paola Bignardi, scritto la scorsa settimana su Avvenire.

“Una riflessione dedicata al rapporto dei giovani con il tempo potrebbe avere per titolo semplicemente “I giovani e il futuro”; questa è infatti l’unica dimensione temporale che essi percepiscono: il tempo che hanno davanti a sé. D’altra parte, quello che hanno alle loro spalle è troppo breve per poter costituire una memoria significativa. E il presente? In esso sono immersi, e lo vivono – forse al pari di molti adulti – come una realtà così scontata da non rendersi conto di essa. Se ne rendono conto quando è troppo disordinato, arruffato; in quelle situazioni allora appare che la libertà di occupare il tempo secondo il desiderio del momento o i propri capricci non è per niente appagante. Anche l’istante nel quale sono immersi ha bisogno di ordine, di ritmo, per diventare veramente esperienza di serenità e di crescita. La necessità di una disciplina per la propria vita è difficile da proporre alle nuove generazioni, al di fuori di un contesto che mostri di essa l’utilità e il valore come stile di vita che può restituire tranquillità e armonia alle proprie giornate.
Il tempo verso cui la tensione dei giovani è protesa è il futuro; questa è la dimensione attesa, desiderata. Il futuro è la vita in cui ha inizio l’autonomia, la realizzazione dei propri progetti, dei propri desideri. Non ci sono ancora delusioni e quindi ci si può orientare verso il domani caricandolo di aspettative e di idealità. Anche i ragazzi e le ragazze di oggi guardano al futuro con il desiderio di realizzazione personale e aspirano a una vita piena, serena, in cui poter concretizzare i propri sogni: trovare un lavoro soddisfacente, costruire relazioni autentiche e durature, e “diventare qualcuno” senza perdere la propria autenticità. Per alcuni, l’università rappresenta un passaggio decisivo, ma è anche fonte di incertezza: non sempre le idee sul percorso da intraprendere sono chiare, e prevalgono talvolta la confusione o la paura di sbagliare; ne è riprova il numero di ragazzi e ragazze che dopo il primo anno di università si accorgono di aver intrapreso una strada che non fa per loro e cambiano facoltà, oppure si trascinano lentamente in un percorso culturale che non li soddisfa. Accanto a questo slancio positivo vi è nei giovani uno sguardo preoccupato. Il tema del futuro è più facilmente comprensibile alla luce delle considerazioni svolte qualche settimana fa in queste pagine sul dolore dei giovani. In una ricerca realizzata dall’Osservatorio dell’Istituto Toniolo nel 2013 risultava un dato inquietante: il 67% dei giovani interpellati nell’ambito dell’indagine dichiarava di pensare il proprio futuro come pieno di rischi e di minacce. Si tratta di una percentuale che si è mantenuta stabile nel corso degli anni, con un peggioramento nel periodo della pandemia, quando la fiducia nel futuro si è abbassata significativamente, mostrando nella popolazione femminile la componente più fragile e più sensibile alle ragioni della paura. In una ricerca attualmente in corso sul territorio delle diocesi di Ascoli Piceno e San Benedetto del Tronto la situazione sembra essere ancor più severa. I giovani che hanno dichiarato di guardare al futuro con preoccupazione e incertezza sono il 71%, cioè quasi tre quarti degli interpellati.
La pandemia, le crisi economiche, le guerre e il cambiamento climatico incidono profondamente sulle nuove generazioni. «Ho ansia e paura per il futuro – dice un giovane diciottenne –, il mondo è a rotoli». La sottile sfiducia verso gli adulti e soprattutto verso le istituzioni accentua il senso di precarietà e l’incertezza della realizzazione dei propri progetti e obiettivi. Le cause sociali e strutturali si riflettono sul piano individuale e danno forma a un interrogativo sulla propria persona, sulla propria identità. Dice un giovane ventiduenne: «Che futuro avrò? Che persona sarò? Chi sarò tra 5-10 anni, domani? Troverò una svolta nella mia vita?». Al tempo stesso vi è nelle ragazze e nei ragazzi di oggi la consapevolezza del delicato valore della loro età e della loro condizione. Dice una giovane: «Attraverso l’adolescenza so che da una bozza di ciò che sono ora può uscire un capolavoro». È come sentirsi un prezioso vaso di cristallo che prende forma a poco a poco nelle mani di un artigiano che, per quanto esperto, corre sempre il rischio di spezzarlo. Ragioni esterne e interiori si intrecciano; per qualcuno troppo fragile questa situazione diventa una sfida insostenibile; per molti, motivo per approfondire le proprie ragioni, il proprio atteggiamento di fronte alla vita, per rendere più mature le proprie scelte. Dietro la paura del futuro c’è spesso una domanda spirituale implicita: «Perché vale la pena vivere, impegnarsi, sperare?». Anche nell’inquietudine rispetto al futuro molti giovani esprimono la loro domanda di senso, la loro inquietudine spirituale, che spesso non approda alle forme religiose tradizionali ma che rivela tratti di una nuova ricerca: di relazioni autentiche, di cura del sé, di connessione con la natura, di armonia interiore, di giustizia sociale. Pensare a un futuro pieno di rischi e di incognite non significa restare di fronte a esso passivi e rassegnati, ma piuttosto consapevoli. I giovani oggi sanno che il futuro non verrà loro incontro in maniera scontata, ma richiederà loro impegno, intelligenza, determinazione. La complessità del futuro spaventa meno quei giovani che possono far conto su una famiglia accogliente, presente, capace di dialogo; questi si sentono meno soli davanti all’ignoto e alla loro paura di fallimento. In contesti familiari fragili, soprattutto dal punto di vista relazionale, l’incertezza del futuro rischia di essere vissuta come minaccia concreta, più che come sfida potenziale.
Accanto alla famiglia, il sostegno per guardare al futuro con fiducia sono gli amici. Nella ricerca citata, che riguarda un migliaio di adolescenti, gli amici vengono continuamente riferiti come la principale fonte di sostegno emotivo, più della famiglia e spesso più delle istituzioni scolastiche o religiose. Il futuro smette di essere un nemico quando lo si affronta “insieme”. I rapporti amicali 1possono aiutare perché costituiscono la grande risorsa del mondo giovanile. L’amicizia è una delle forme principali di spiritualità vissuta: è un luogo di fiducia, di presenza, di dono reciproco. Molti giovani che si dichiarano “non religiosi” trovano proprio nell’amicizia quell’esperienza del bene gratuito che un tempo veniva mediata da contesti religiosi o comunitari. L’amicizia diventa così un luogo del bene gratuito, una via relazionale alla fiducia, in cui il futuro non appare più come una minaccia ma come un cammino condiviso. Anche attraverso l’amicizia l’inquietudine verso il domani rappresenta la porta che apre a un’esperienza spirituale. «La serenità in famiglia e il sostegno dei miei amici – dice un ragazzo – costituiscono l’aiuto più concreto per affrontare il futuro». In una società dove le istituzioni tradizionali – famiglia, scuola, religione – faticano a offrire orizzonti stabili, gli amici diventano il luogo in cui si impara che il futuro non si affronta da soli, ma si può affrontare insieme. L’orizzonte di senso dei giovani non è individualista ma relazionale. L’incertezza del futuro non è eliminabile, ma è abitabile se è possibile viverla nel sostegno reciproco. In questa prospettiva, ciò che potrebbe aiutare i giovani ad affrontare il futuro in modo più positivo non è tanto una – improbabile – promessa di stabilità, quanto la possibilità di radicarsi in legami significativi e in una visione di sé che dia direzione e valore all’imprevedibile e ne trasformi il potenziale distruttivo in una risorsa per crescere.”

Maggiore età digitale: utopia sufficiente?

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Seguo alcuni autori su Substack, anche se il tempo per leggere tutto è poco. Su Il mattinale europeo è stata pubblicata “un’analisi firmata da Camille Lamotte dedicata alla maggiore età digitale, dopo che la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha annunciato di voler agire contro la dipendenza provocata sui giovani da TikTok e altri social network”.“Per il ritorno a scuola, l’Unione europea ha suonato la carica contro i social network. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, si è detta favorevole al loro divieto per i bambini lo scorso 24 settembre, durante una conferenza a New York organizzata dall’Australia, primo paese al mondo a introdurre una misura del genere. Obiettivo dell’Ue: “Costruire un’Europa più sicura per i nostri bambini”, coinvolgendo genitori e attori del digitale in un dibattito preliminare. Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha rincarato la dose, accusando i giganti del web di alimentare odio, disinformazione e radicalizzazione politica. Ma il timido progetto di maggiore età digitale all’interno dell’Ue reggerà di fronte alla battaglia ideologica a colpi di miliardi di dollari e acquisizioni da parte di Stati Uniti, Cina o Israele per il controllo assoluto degli algoritmi?
“Cyberbullismo, istigazione all’autolesionismo, predatori online e algoritmi che creano dipendenza…”. Ursula von der Leyen ha ricordato i gravi rischi corsi dai minori online. L’Organizzazione Mondiale della Sanità segnalava un netto aumento della dipendenza (11 per cento degli adolescenti nel 2022 contro il 7 per cento quattro anni prima), oltre all’esposizione a contenuti inappropriati (pornografia, cyberbullismo, disinformazione). “Molti Stati membri ritengono che, per quanto riguarda l’accesso ai social network, sia giunto il momento di fissare una maggiore età digitale. E devo dirvi che, come madre di sette figli e nonna di cinque nipoti, sono d’accordo”.
La presidente della Commissione dovrà cercare di agganciare una serie di vagoni europei sparsi. Diversi Stati membri stanno già lavorando separatamente a progetti di regolamentazione dei social per i più giovani. Come in Francia, dove Macron si è impegnato all’inizio di giugno a vietare i social ai minori di 15 anni, se non si arriverà “entro pochi mesi” a una soluzione a livello europeo. Un rapporto parlamentare francese su TikTok aveva raccomandato il divieto, accompagnato da un “coprifuoco digitale” per i 15-18enni.
Il presidente francese ha ipotizzato un sistema di riconoscimento facciale o controlli della carta d’identità per determinare l’età degli utenti. Anche in Germania, alcuni deputati chiedono da oltre un anno una posizione più dura verso TikTok, incluso un possibile divieto generale. La Grecia, sostenuta da Francia e Spagna, ha infine proposto a giugno di fissare una maggiore età digitale per tutta l’Ue, al di sotto della quale i bambini non potrebbero accedere ai social senza il consenso dei genitori. La Danimarca, che presiede fino a fine anno il Consiglio dell’Ue, sostiene questa iniziativa.
Nel loro mirino ci sono social come X, Facebook o Instagram… ma soprattutto TikTok, con i suoi 200 milioni di utenti europei mensili (ovvero 1 cittadino su 3), principalmente giovani. Lanciata nel 2017, questa app offre contenuti video personalizzati grazie a un algoritmo potente che classifica i video in base agli interessi degli utenti. Già nel 2022, Macron aveva lanciato l’allarme durante un incontro con professionisti della salute mentale dei giovani: “Il primo perturbatore (psicologico), la piattaforma più efficace tra bambini e adolescenti, è TikTok. Dietro c’è una vera dipendenza”.
Nel podcast GDIY, a giugno 2024, Macron si era espresso contro il divieto di TikTok – una misura che era stata sostenuta dalla sua lista durante le elezioni europee – ma a favore di “una ricerca accademica libera che possa davvero dire cosa si nasconde sotto il cofano” degli algoritmi delle piattaforme. “Non è vero che in un solo paese si riuscirà a bandire questi social che, nonostante tutto, permettono di informarsi e scambiare contenuti”, aveva detto il capo di Stato francese, lui stesso affezionato alla comunicazione su TikTok. “Invece, bisognerebbe riumanizzarli e domarli, metterli nelle nostre mani”. Ovvero rafforzare la gestione dei dati personali e, soprattutto, revisionare lo status di host che permette ai social di sfuggire alla giustizia.
Nello stesso anno, la questione dei social assumeva già una piega più politica. La piattaforma, allora baluardo essenziale per la campagna elettorale dei giovani alle europee, è stata usata dai candidati di estrema destra come Jordan Bardella, l’account più seguito del Parlamento europeo. Ursula von der Leyen, in lizza come principale candidata del Partito Popolare Europeo di centro-destra, aveva rifiutato di usare TikTok, per coerenza. Dal 2023, la Commissione europea, il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Ue hanno vietato la piattaforma sui dispositivi dei funzionari europei usati a fini professionali. Commentando la decisione del presidente Biden di firmare un progetto di legge che avrebbe potuto vietare TikTok, von der Leyen aveva usato queste parole: “Non è escluso. Conosciamo perfettamente il pericolo”.
Minacce di ingerenze cinesi, elezioni in Romania nel 2024 e inondazione di contenuti digitali di estrema destra… Bruxelles ha fatto pressione sulla piattaforma. La Commissione ha aperto un’indagine ufficiale per timore di danni alla salute mentale dei minori – la seconda indagine su TikTok nell’ambito del Digital Services Act (DSA). Il gruppo, già sotto altre procedure, rischia una multa e un controllo rafforzato fino all’attuazione di misure correttive.
Certo, la protezione dei minori online – regolamentata dal DSA entrato in vigore nel 2023 e applicabile dal febbraio 2024 – obbliga già i fornitori a garantire riservatezza, sicurezza e protezione per i bambini. Il DSA vieta la pubblicità mirata basata sul profiling dei dati personali dei minori. Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) rende lecito il trattamento dei dati personali di un minore a partire dai 16 anni, lasciando agli Stati membri la libertà di fissare un’età compresa tra 13 e 16 anni. Ma questa forbice di maggiore età digitale2 piuttosto ampia – 13 anni in Belgio, nei Paesi nordici, nel Regno Unito, in Irlanda e Spagna, 15 in Francia, 16 in Germania e Paesi Bassi – crea un mosaico normativo invece che un mercato digitale unificato per la tutela dell’infanzia.
La “minaccia” francese di un’azione unilaterale a giugno mira quindi a introdurre un nuovo limite d’età, ma anche ad accelerare l’attuazione di soluzioni concrete per la verifica dell’età. Parallelamente, il governo australiano – attualmente il più severo – ha però ammesso che “nessun paese al mondo ha ancora risolto questo problema”. Eppure, secondo uno studio inedito sul ruolo dei social tra 2000 bambini, pubblicato il 25 settembre, l’Arcom (Autorità francese per la regolamentazione della comunicazione audiovisiva) evidenzia che il 22 per cento si iscrive prima dei 10 anni e il 62 per cento mente sull’età, con una prima iscrizione media a 12 anni. La famosa maggioranza digitale, pietra angolare ideale per iniziare a regolamentare i contenuti in Europa, sarebbe dunque un miraggio tecnico prima ancora di trovare un accordo?
Non solo. Vittima della sua lentezza nel cambiare rotta, il colosso europeo viene anche travolto da un’attualità sempre più galoppante. Mentre i Ventisette faticano a mettersi in ordine di marcia sulla sovranità digitale, su un altro pianeta politico, gli Usa di Trump finalizzano a marce forzate la nazionalizzazione di TikTok, avviata grazie al braccio di ferro con la Cina reso possibile da un Biden tentato da un divieto puro e semplice. Lo scorso 25 settembre, Donald Trump ha firmato il decreto che permette a TikTok di continuare a operare negli Stati Uniti, autorizzando un gruppo di investitori guidato da americani ad acquistare l’app da ByteDance, la società cinese – accordo che richiede ancora l’approvazione della Cina.
Il colpo di forza permette a Trump di accontentare un elettorato giovane molto legato alla piattaforma – il 43 per cento degli adulti americani sotto i 30 anni ottiene regolarmente notizie da TikTok, più che da qualsiasi altra app di social, secondo un rapporto del Pew Research Center – aprendo al contempo la strada a un controllo ideologicamente orientato (filone MAGA) dell’algoritmo. I nuovi proprietari di TikTok, tra cui il cofondatore di Oracle Larry Ellison e Rupert Murdoch, hanno interessi commerciali e/o politici legati a Trump. La loro influenza sulla piattaforma non sarà neutrale. Dopo Twitter, Facebook e Instagram, anche TikTok – piattaforma sociale di primo piano con 170 milioni di utenti – cade così sotto il controllo del presidente americano, che ora domina i principali social.
Sulle orme della piattaforma Douyin – versione esclusivamente cinese di TikTok, la più censurata al mondo – il potere americano conta di sfruttare il ruolo fondamentale dei social nella sua battaglia ideologica interna. Grazie a uno strumento che combina localizzazione e social, l’ICE annuncia di poter presto tracciare in tempo reale i movimenti di centinaia di milioni di persone tramite il telefono… senza mandato.
Tra strumento utile per un autoritarismo sfacciato e strumento di guerra culturale, i social rischiano di allargare il divario delle realtà parallele. La risposta europea a un futuro alla Minority Report può davvero ridursi a una maggiore età digitale?”

Stupore, meraviglia, incanto

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Negli ultimi mesi, in vari confronti con colleghe e colleghi, ho messo in evidenza una difficoltà nella quale mi imbatto da circa due-tre anni a questa parte: faccio fatica a destare lo stupore in classe. Non voglio certo generalizzare, ma mi capita sempre più spesso di incrociare sguardi attoniti o volti inespressivi davanti a racconti o testi o filmati che dovrebbero far esclamare “oooooooh” (ricordo la meraviglia di qualche tempo fa quando mostravo uno di quei filmati che mostrano il passaggio dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande e viceversa). Ho attribuito la colpa alla disponibilità, cresciuta moltissimo negli ultimi anni, di tutto questo materiale on-line e alla sua facile fruibilità: insomma la sensazione che tutto è già stato visto, tutto è già stato detto. Magari non ci si è soffermati a riflettere, e ora, che è venuto il momento di farlo, è un ragionare “a freddo”, senza la spinta emozionale. Poi, però, mi capita di leggere in una classe prima, il testo scritto da una ragazza appena uscita dalla quinta, un testo che parla di amicizia, di vita, di morte, di amore e di passione per la vita. E molte/i si emozionano e hanno gli occhi rossi. Allora mi è venuto in mente quel testo di Alessandro D’Avenia scritto un mesetto fa per il primo giorno di scuola e che mi ero promesso di riprendere. E’ venuto il momento… Lo prendo dal suo blog (è stato pubblicato sul Corriere della Sera nella rubrica settimanale “Ultimo banco”).

“Non sembra ma la scuola e le ferie hanno la stessa essenza: l’incontro con la meraviglia. Durante le ferie è lo stupore che cerchiamo. In montagna o al mare, in campagna o in città, in un libro, panorama, volto, vogliamo incantarci. In queste occasioni, che non a caso poi ricordiamo e raccontiamo, tratteniamo il respiro (si dice «mozzafiato»), per ricevere più vita. Quale? Quella che appunto ci ispira: ci dà più respiro. Per questo abbiamo un senso da cui dipendono gli altri cinque: il senso della meraviglia. Se non funziona questo senso, la realtà diventa muta, insensata, neutra. Infatti è la qualità delle relazioni che abbiamo con il mondo che orienta il nostro individuarci, cioè scoprire in che cosa siamo unici e irripetibili. E proprio il senso della meraviglia detta la qualità di queste relazioni: si chiama «attenzione selettiva», un potenziamento dei nostri circuiti neurali diverso per tutti. Chi non prova stupore cerca stupefacenti: sostanze, non relazioni ma dipendenze. Pur di appartenere (sentirsi amato) sparisce nelle cose o negli altri, fino a non sapere più chi è e che cosa vuole. Chi invece conosce e allena il «suo» stupore trova sostanza (al singolare), cioè vita che lo sostiene, legami che lo ispirano e lo individuano, non sparisce nelle cose e negli altri ma sa stare di fronte al mondo, da protagonista. A scuola è difficile rendersene conto, piena com’è di grigiore e disincanto, ma in fondo la scuola finisce o comincia proprio se finisce o comincia l’incanto. Perché?
La scuola non è un edificio (sarebbe troppo poco) ma ogni spazio-tempo della storia in cui incontriamo ciò che ci meraviglia. Si dà scuola – a volte anche a scuola – ovunque accada lo stupore, cioè un incontro reale con il mondo. Il primo giorno di scuola non è quindi l’inizio di un susseguirsi di ore a cui resistere in vista del prossimo ponte, ma una metafora del «senso della meraviglia». Come allenarlo? Cominciamo con un appello in cui a ciascuno sia chiesto: per raccontare quale stupore sei venuto al mondo? A scuola possiamo dare il buon esempio raccontando l’incanto che ci ha portato a voler raccontare ad altri la gioia della chimica, della filosofia, della cucina, dell’arte, dell’elettronica, della biologia, della meccanica, della matematica e tutte quelle che possiamo definire «materie della meraviglia», «sostanza del mondo» e non sostanze senza mondo, dipendenze senza gioia. Così avremo un primo appello di «incanti», ogni nome associato al pezzetto di mondo verso cui sente attrazione e quindi attenzione. Conoscere come e quando un ragazzo (e in generale una persona) sente di appartenere alla vita e che la vita gli appartiene è ascoltare una profezia sul suo destino. Per questo amo il titolo che l’astrofisica canadese Rebecca Elson ha usato per il suo libro di poesie «A Responsibilty to Awe», responsabilità dell’incanto, perché quando veniamo toccati da qualcosa stiamo già rispondendo (da cui responsabilità) a una chiamata della vita che vuole cura da noi, alla maniera che ci è più congeniale. Chi non prova incanto non può provare amore verso sé stesso e verso la vita, perché non sa cosa ama e non sa cosa lo chiama. Per questo bisogna raccontare ai figli e agli studenti dove l’incanto ci ha afferrati, perché loro cercano in noi prima che una lezione una elezione: scelta, vocazione, destino, responsabilità. Perché avremmo mai dedicato tempo e sforzi a qualcosa purché diventasse la nostra strada? Per questo un primo appello ben fatto chiede ai ragazzi dove l’incanto li abbia già afferrati, perché dal «senso della meraviglia» nasce il loro personalissimo «sentimento della vita»: l’amore per il mondo, per gli altri e per se stessi, unica reale difesa dalle dipendenze. Un ragazzo «irresponsabile» è semplicemente un ragazzo che non è mai stato chiamato alla vita e dalla vita, e quindi non ha mai potuto rispondere. Per questo l’appello è il momento più importante dell’orario scolastico: tu, proprio tu, per quale pezzetto di mondo sarai insostituibile? E quindi: per quale stupore sei qui? In fondo quando ci siamo innamorati di qualcuno, non è stato il suo modo unico di «stare» al mondo che ci ha sedotto? Alexandra Horowitz, docente di psicologia alla Columbia University, ha scritto un libro, On looking: eleven walks with expert eyes (Sul vedere: undici passeggiate con occhi esperti), in cui descrive il medesimo ripetuto e ignorato percorso, da casa alla scuola della figlia, in undici modi diversi, semplicemente perché lo percorre ogni volta insieme a una persona con una vocazione diversa, occhi diversi: un architetto, un biologo… un cane. Lo stesso tragitto di sempre diventa memorabile grazie ai modi unici, stupefatti e quindi stupefacenti, di percorrerlo, cioè di stare al mondo, di prendersene cura. Come diceva Chesterton non esistono argomenti poco interessanti, ma persone poco interessate. E allora mi viene da pensare a Van Gogh che abbracciò tardi la sua vocazione e imparò a dipingere da solo, e in dieci anni il suo sguardo rivoluzionò l’arte perché nessuno come lui sapeva stare davanti a girasoli, cipressi, volti, stelle… la stessa «materia» che tutti vedevano da secoli, ma senza il suo incanto. In una lettera del giugno 1888 chiedeva al fratello Theo i soldi per comprare tele e colori: «Non è forse la sincerità della natura a guidarci? E queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora – senza accorgersi che si sta lavorando – e talvolta le pennellate vengono in successione e con rapporti tra loro come le parole in un discorso o in una lettera. Ecco perché chiedo sfacciatamente tela e colori. Solo così sento la vita, quando lavoro a pieno ritmo» (giugno 1888). Lo stupore di un solo uomo, divenuto vocazione e opere, continua a risvegliare milioni di addormentati o di ciechi (per questo a scuola facciamo studiare Van Gogh). E allora facciamolo bene questo primo appello. Nome per nome, stupore per stupore, destino per destino, vocazione per vocazione. Chiedere «per raccontare quale stupore sei venuto al mondo?» a un adolescente è un dovere per noi, come diciamo che lo è la scuola per lui.”

Un prof tra mare, terra e cielo

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Sono su Facebook dal 2008, su Twitter dal 2010 (ora non più, preferisco bluesky o threads) e su Instagram dal 2014 (da un po’ con un secondo account specificatamente dedicato al lavoro), su Flickr dal 2009, su Whatsapp e Telegram con un canale Oradireli, sono anobiano dal 2013 e goodreader dal 2014 (Ask, GuruShots, 500px, Snapchat, Pinterest, LinkedIn, Tiktok e altri li ho usati per capire come funzionano). Youtube lo utilizzo senza interagire con gli altri utenti. Non amo il gioco online, non ho conoscenze dirette del settore. Da anni utilizzo Netflix, Prime e Infinity. Utilizzo Spotify da tempo. In casa c’è quell’antipatica di Alexa.
Scrivo un blog dal 2007, ho prodotto podcast e video, condiviso un hard disk virtuale che però non aggiorno più. Non riporto piattaforme e strumenti tipici della didattica.
Ho sperimentato vari chatbot e, per il concorso che ho recentemente affrontato, ho fatto presentare una piccola parte di esposizione da un mio avatar.
Ho voluto scrivere questa sottospecie di curriculum per vari motivi:

  • mi piacciono queste cose e capire come funzionano
  • queste cose appaiono e spariscono in un amen o possono persistere a lungo, di sicuro cambiano molto frequentemente
  • la grande maggioranza di studentesse e studenti vi sono immerse/i, e stanno arrivando in classe coloro che sono nati già in quel mondo e tristemente utilizzano queste cose fin dalla più tenera età
  • queste cose influenzano la nostra vita, il nostro modo di esprimerci e di relazionarci, il nostro stesso modo di pensare
  • se desideriamo capire il perché di certi meccanismi abbiamo due possibilità: entrare in quel mondo o farci raccontare quel mondo da chi vi è dentro o l’ha abitato per un certo periodo.

Quello che mi sembra poco utile è lo scontro tra due opposte fazioni che Matteo Lancini in “Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa” (2019, Raffaello Cortina Editore) definisce così:

  • I tecno-ottimisti: gli studiosi che “spingono verso un’accelerazione della diffusione dei dispositivi tecnologici, fino ad arrivare a promuovere persino la loro integrazione nel corpo umano, come protesi in grado di potenziare la dotazione biologica naturale, ritenendo che la tecnologia possa prima o poi riuscire nella promessa di eliminare limiti e sofferenze umane” (pag. 21)
  • I tecno-pessimisti: sono coloro che sottolineano i “rischi legati alla tentazione di cedere alla promessa dello strapotere tecnologico, generatore di un uomo diminuito, anziché potenziato di capacità e dotazioni. Rischi ancora da studiare sui cambiamenti del sistema nervoso, ma che, sommandosi ai pericoli di un utilizzo poco responsabile dei mezzi informatici, alimentano un clima di aspra condanna e timore nei confronti di Internet. Il mondo adulto sembra spaventato dall’ipotesi che i più giovani possano trovarsi intrappolati tra le maglie della rete, incapaci di gestire il tempo della connessione e di difendersi da truffe, ricatti e situazioni pericolose” (pag.21)

Mi ritrovo nelle parole immediatamente successive di Lancini: “Prendere posizione nella disputa tra sostenitori e avversari della tecnologia è un’operazione poco utile per aiutare gli adolescenti a farsi strada nell’intricato mondo in cui vivono fuori e dentro la rete” (posto che esista un fuori e dentro la rete, aggiungerei) (pagg. 21-22).
Ultimamente, soprattutto davanti agli strumenti dell’AI, faccio più fatica. Sento che mi manca un aspetto che prima comunque caratterizzava il mio lavoro e l’accompagnamento all’utilizzo degli strumenti tecnologici da parte di allieve e allievi: il dominio di quello strumento. Forse perché non è solo uno strumento. E’ un po’ come se fossi sempre andato per mare, abituato al mare calmo o anche tempestoso, ma fiducioso delle possibilità della barca su cui navigavo; in questo momento però ho la sensazione di essere nell’oceano e le onde mi incutono timore. Mi preoccupa la rotta che può prendere lo sviluppo dell’AI, mi preoccupa il dispendio di energie che richiede, mi preoccupa il modo in cui è stato costruita e si sta costruendo, mi preoccupa l’opacità e la mancanza di trasparenza del processo. Si tratta di dubbi che riguardano l’etica, la coscienza: di solito, quando li incrocio nella mia vita, ho l’abitudine, per capire meglio la situazione, di prendere le distanze, perché da lontano si ha uno sguardo d’insieme (come quegli allenatori che talvolta scelgono di guardare una partita della loro squadra dalla tribuna). Questa volta però sono molto indeciso, restando nella metafora dell’oceano, tra una modifica dell’equipaggiamento o dell’intera imbarcazione (fare corsi, sperimentare, modificare la didattica, cambiare il setting delle lezioni) e la ricerca di un orizzonte diverso (prendere le distanze, appunto): ma quale orizzonte? Uno più stabile, come la terra? O uno più imprevedibile, come l’aria? Andare alla ricerca di sicurezze? Adoro viaggiare in treno, ma riconosco che il binario è una strada tracciata, posso solo scendere e prendere altri treni, non posso fare andare il treno dove binario non c’è. O andare alla ricerca di cose mai sperimentate? Provare l’ebrezza del volo, la sensazione di essere sostenuto dall’aria senza una base sotto i piedi, mi attira. Quale mi piacerebbe che fosse l’orizzonte del mio lavoro educativo?
Penso che intanto mi convenga equipaggiare la mia imbarcazione, dotarla di tutto ciò che serve per affrontare l’oceano. Nel frattempo, mentre sono a terra, mi tolgo lo sfizio di qualche viaggio in treno e di qualche prova di volo (delle prese di distanza provvisorie, insomma). Chissà se alla fine canterò insieme a Jovanotti la parte finale de La linea d’ombra:
“Mi offrono un incarico di responsabilità
Non so cos’è il coraggio se prendere e mollare tutto
Se scegliere la fuga o affrontare questa realtà difficile da interpretare
Ma bella da esplorare
Provare a immaginare come sarò quando avrò attraversato il mare
Portato questo carico importante a destinazione
Dove sarò al riparo dal prossimo monsone
Mi offrono un incarico di responsabilità
Domani andrò giù al porto e gli dirò che sono pronto per partire
Getterò i bagagli in mare studierò le carte
E aspetterò di sapere per dove si parte quando si parte
E quando passerà il monsone dirò “levate l’ancora
Diritta avanti tutta questa è la rotta questa è la direzione
Questa è la decisione”.”

Gemma n° 2761

“Era il 2017… mese e giorno non ricordo, però ricordo che eravamo io e mia sorella in cucina a scegliere un programma su Netflix da guardare in famiglia mentre la mamma cucinava e mio padre apparecchiava la tavola.
Sicuramente come al solito sarò stata in disaccordo su cosa guardare, infatti sin da piccola è difficile accontentarmi… è uno dei miei più grandi difetti e purtroppo ci sto ancora lavorando.
Sulla home scorrevano titoli su titoli ed era incredibile come niente ci ispirasse.
Stavamo per mollare ma all’improvviso abbiamo trovato una serie di 6 stagioni del 2009 di nome Glee che parlava di un gruppo di canto (o glee club) ritenuto da tutti gli studenti del liceo McKinley (dove è ambientata la storia) un luogo per disagiati.
Sarà William Schuester, uno dei protagonisti e professori, a reclutare vari studenti con un incredibile talento canoro e con dell’incredibile potenziale e a fare del Glee club un’eccellenza canora portando i ragazzi a superare numerose difficoltà e portando l’immagine della scuola e del club a poco a poco a livelli nazionali.
Negli episodi della serie, essendo in una scuola superiore, oltre a canzoni ci saranno anche drammi amorosi, scolastici e personali molto coinvolgenti.
Quello che mi piace di questa serie è che, nonostante sia girata nel 2009, tratta molti temi ancora oggi attuali, soprattutto tra i giovani adolescenti: bullismo, maternità precoce, sessualità, razzismo, individualismo, fare la differenza, fare squadra e altri…
Quello che mi ha dato questa serie è stato un sogno e una passione per il mondo dello spettacolo, una cultura musicale in quanto mi ha fatto conoscere parecchie canzoni anche datate e ha anche costruito un grande tratto della mia personalità.
In conclusione, vorrei consigliarvela perché secondo me questa serie apre una porta… e quindi offre un aiuto non solo psicologico ma anche emotivo”.
(E. classe terza).

Gemma n° 2757

Immagine creata con ChatGPT®

“Di solito la scelta della gemma non mi è mai stata difficile ma quest’anno volevo portare qualcosa di veramente caro a me. Ho sempre portato come gemme cose materiali, quest’anno invece non saprei come nominare la mia gemma. Potrei dire che la mia gemma è stata la mia estate 2024, o anche tutto l’anno intero, ma in verità quello che intendo dire è che la mia gemma di quest’anno sono io. Sono io perché sono cresciuta e ho realizzato delle cose che ora sono diventate dei valori fissi nella mia vita.
Per esempio
Quest’estate mi sono lasciata andare, ho esagerato, ho sbagliato, ho perso la pazienza e mi sono arrabbiata. Ma quest’estate ho anche riscoperto l’amore per il mare, l’amore per le risate serali tra amici ma soprattutto l’amore per me stessa.
Quest’estate ho imparato a raccogliere il buono e il cattivo da tutte le cose. Che sia un bel concerto o un brutto litigio ho imparato a masticare le delusioni e a trasformarle in  lezioni di vita senza le quali adesso sarei ancora totalmente persa.
Prima di quest’anno ero una persona molto arrabbiata e chiusa. Arrabbiata con me e con gli altri. Questo mi impediva di essere felice. Invece mese per mese ho imparato a vivere delle piccole cose e questa è stata come una medicina per me. Imparare a notare il canto degli uccellini la domenica mattina o le foglie che poco a poco iniziano a cadere dagli alberi. Anche semplicemente sentire la risata di un bambino, prima mi passava inosservato perché vedevo solo il colore nero intorno a me.
Il modo in cui sono cambiata nell’ultimo anno è stato il cambiamento più radicale della mia vita e nonostante tutti gli errori che ho commesso risbaglierei tutto da capo.
Mi sono guardata dentro per mesi e mesi non comprendendo nulla della mia persona ma alla fine sono riuscita per la prima volta in tutta la mia vita a far uscire parti di me nascoste da sempre.
Potrei dire di essere maturata quest’anno ma mi sento di aver ancora tanta strada da fare. Sì, perché in verità non vedo l’ora di sbagliare ancora, arrabbiarmi, perdermi se serve. Ma soprattutto di sentire i brividi quando i miei piedi toccano la sabbia del mare per la prima volta, di scoprire nuovi posti con le mie amiche e di ricordare il rumore delle nostre risate.
La mia visione del mondo è cambiata radicalmente insieme a quella della mia persona, e a volte mi piace ricordare i momenti di totale spensieratezza insieme ai miei amici e quelli di riflessione in solitudine.
La mia gemma di quest’anno sono io, ma non la me di adesso che é solo risultato dei miei 17 anni di vita. La mia gemma sono le esperienze che mi hanno fatto soffrire ma scoprire la felicità dietro a tutto come se fossi tornata bambina.”
(A. classe quarta).

Gemma n° 2688

“Per questa gemma, che purtroppo è l’ultima, vorrei riprendere da dove avevo lasciato l’anno scorso, quando terminai il mio discorso scrivendo : «…perché ce lo meritiamo, noi meritiamo di stare bene. Durante quei mesi sono riuscita a piantare delle radici, da cui sta crescendo una piccola piantina, che diventa ogni giorno più forte, che si lascia piegare ma non abbattere dalle intemperie. Perché i momenti di tristezza e difficoltà sono indispensabili, ma servono soprattutto tanti tanti momenti di spensieratezza e serenità. Ho capito insomma che devo “colorare la mia vita con il caos dei problemi”».
Dall’anno scorso ne è passato di tempo: qualche ramo di quella piantina purtroppo si è spezzato, ma in compenso ne sono spuntati un paio nuovi; poi l’autunno è arrivato, le foglie della piantina sono cadute e tra poco sbocceranno quelle nuove, più verdi e resistenti.
Questi anni di liceo sono stati un viaggio tanto complicato quanto straordinario. Quando mi guardo indietro, vedo una versione di me stessa che, a volte, non riconosco. Ho attraversato montagne russe emotive, fasi di crescita che sembrano infinite, e il tutto sotto un cielo che cambiava ogni giorno, inesorabile. Ricordo ancora quando la scuola sembrava un mondo parallelo, un luogo dove entravo ogni giorno senza sapere chi sarei diventata. E ora, a pochi passi dalla fine, mi ritrovo a chiedermi: chi sono, davvero? Come faccio a sapere dove sto andando?
Crescerà sempre con me questa sensazione di incertezza. È come se fossimo sempre sospesi tra il passato e il futuro, cercando di raccogliere ciò che c’è di bello nelle cose di oggi, ma con il cuore che corre verso domani, nel timore di non essere abbastanza preparati. La paura di crescere è davvero il filo conduttore di tutto. Sembra che da un momento all’altro ti venga chiesto di capire chi sei, di compiere delle scelte, ma come possiamo davvero sapere che stiamo facendo la cosa giusta quando la vita è così confusa e tutto cambia così in fretta?
Quando ero più piccola, pensavo che crescendo avrei trovato una risposta, avrei capito chi ero, ma adesso, più che mai, mi sembra che le risposte siano sempre più sfuggenti. Ho paura che non ci siano risposte assolute, che tutto sia un grande puzzle che si fa sempre più difficile da completare.
E poi c’è quella paura che sembra essere sempre dietro l’angolo: la paura di non essere pronta, la paura di lasciare indietro parti di me stessa per diventare qualcosa di diverso. Forse è proprio quella che Sylvia Plath descrive nell’analogia dell’albero di fico, nel suo racconto The Bell Jar: “Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto. Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l’Europa e l’Africa e il Sud America, un altro fico era Constantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n’erano molti altri che non riuscivo a distinguere.
E vidi me stessa seduta sulla biforcazione dell’albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finché, uno dopo l’altro, si spiaccicarono a terra ai miei piedi. Non aveva senso alzarsi. Cosa aveva da offrirmi la giornata?”
Dal mio albero si diramano molti fichi. Ogni fico è una possibilità, un sogno che potrei inseguire, ma l’albero cresce ed io non riesco a afferrare tutti i fichi. L’incertezza si fa realtà, perché, alla fine, devo fare una scelta. E il dolore di non poter avere tutto, di dover lasciare andare alcune speranze, mi ha accompagnato spesso in questi anni. Ed è così che fichi, ormai maturi, iniziano pian piano a cadere e a spiaccicarsi per terra.
Il futuro è uno spazio misterioso, pieno di promesse ma anche di paure. Forse ho paura di non essere all’altezza, di non sapere come affrontarlo quando arriverà davvero, quando busserà alla mia porta.
Mi sento come se stessi camminando su una corda, in equilibrio con le braccia tese, cercando di non cadere, procedendo passo per passo, con molta cautela, ma il terreno sotto di me è troppo incerto per stare tranquilla.
Ma, nel bel mezzo di tutta questa paura, c’è anche una consapevolezza che sta crescendo: che il futuro non è solo una strada dritta da percorrere, ma una serie di scelte che dipendono da chi sono oggi. E questo pensiero, anche se spaventoso, mi fa sentire un po’ più pronta ad affrontarlo, perché, alla fine, forse non dobbiamo avere tutte le risposte. L’importante è continuare a camminare. Ogni passo che faccio mi sembra un piccolo frammento di qualcosa di più grande.
È quella scena di “Lady Bird” quando Christine, davanti al suo volo verso un futuro che non sa bene come sarà, dice alla madre: “I want to go where I can be somebody”. Forse siamo tutti un po’ come Lady Bird, cercando il nostro posto nel mondo, e a volte, anche quando non sappiamo bene dove andiamo, sappiamo che dobbiamo semplicemente partire.
Mi rendo conto ora che crescere non significa giungere ad una meta fissa. Non ci sarà mai un momento in cui tutto sarà completamente chiaro. La vita, con tutte le sue difficoltà, mi ha insegnato che la bellezza risiede nell’incertezza. Crescere è imparare a fare pace con l’idea che non possiamo avere il controllo su tutto, ma che possiamo scegliere come affrontare le tempeste e le calme. Forse, alla fine, la cosa più difficile ma più importante da capire è che non è necessario avere tutto sotto controllo per andare avanti.
Alla fine, ciò che mi consola è pensare che, sebbene la paura di crescere e l’incertezza del futuro siano reali, sono anche ciò che ci rende vivi. Beh, in questo vivere, tra paura e speranza, ci troviamo. Anche se non so dove sto andando, so che sto camminando. E, a volte, camminare è semplicemente abbastanza.
Crescerò, ma non credo che finirò mai di cercare di capire chi sono. Perché quando guardo a questi anni, mi accorgo che sono stati anche anni di insicurezze profonde, quelle che ti fanno sentire come se ti stessi perdendo in un mare di dubbi, di domande senza risposta. L’adolescenza è quella fase in cui ti svegli ogni giorno con una versione di te stesso che cambia, e ogni riflesso nello specchio sembra mostrarti qualcuno di diverso. Eppure, c’è quella ridondante sensazione di non essere mai abbastanza, di non appartenere mai completamente a nessun gruppo, di non rientrare in nessuna definizione.
Le insicurezze sono quei fantasmi che ci seguono ovunque: “Mi accetteranno? Sono abbastanza per gli altri? Sono abbastanza per me stessa?” Queste domande mi accompagnano spesso, come un’ombra che non riesco a scrollarmi di dosso. È quella sensazione che cantano i Mazzy Star in Fade Into You: “I want to hold the hand inside you, I want to take the breath that’s true”. E’ il desiderio di sentirsi visti, di appartenere, di far parte di qualcosa. Ma c’è sempre quella distanza, quella separazione, che ti fa sentire incompleto.
La paura costante di non bastare mai, di non riuscire mai a eccellere nonostante tutti gli sforzi, è una presenza fissa nella mia vita. Tant’è che la canzone Not Strong Enough delle Boygenius è diventata la colonna sonora di tutto ciò che sono. Nella mia mente, la frase “Always an angel, never a god” continua a ripetersi, come un eco che non trova mai pace.
“Quando meno te lo aspetti, la natura ha astuti metodi per trovare il tuo punto più debole. Tu ricordati che sono qui. Adesso magari non vuoi provare niente, magari non vorrai mai provare niente e, sai, magari non è con me che vorrai parlare di queste cose. Però prova qualcosa, perché l’hai già provata. […] Strappiamo via così tanto di noi per guarire in fretta dalle ferite che finiamo in bancarotta già a trent’anni. E abbiamo meno da offrire ogni volta che troviamo una persona nuova, ma forzarsi a non provare niente per non provare qualcosa…che spreco. […] Come vivrai saranno affari tuoi, però ricordati: il cuore e il corpo ci vengono dati soltanto una volta e, in men che non si dica, il tuo cuore è consumato e, quanto al tuo corpo, a un certo punto nessuno più lo guarda e ancor meno ci si avvicina. Tu adesso senti tristezza, dolore. Non ucciderli, al pari della gioia che hai provato.” Queste sono le parole che il padre di Elio usa per confortarlo in Chiamami col tuo nome, dopo un momento struggente. Ma quella paura di esprimersi, di essere vulnerabile, è sempre lì, invisibile ma pesante. La fragilità del cuore adolescente, quel bisogno di amore che può sembrare così lontano e irraggiungibile, è un peso che non si lascia mai troppo facilmente. Ogni piccolo rifiuto, ogni parola non detta, ogni silenzio che sembra far crescere il distacco, sono prove che sembrano troppo grandi da affrontare.
Anche nel film Noi siamo infinito c’è questa esplorazione delle insicurezze giovanili, quando Patrick dice a Charlie: “We accept the love we think we deserve.” Questo mi fa pensare a quanto siamo disposti ad accettare, a quanta poca fiducia abbiamo in noi stessi, e come spesso accettiamo la mediocrità nelle nostre relazioni, come se non meritassimo nulla di meglio. Non ci riteniamo mai abbastanza forti, abbastanza belli o abbastanza amabili. Peró alla fine, siamo tutti un po’ “uguali”, con le stesse paure e le stesse insicurezze. Ma la crescita avviene proprio nel momento in cui cominciamo a liberarci di quelle etichette e aspettative che ci siamo imposti.
Crescere non è mai facile, e la solitudine che accompagna l’adolescenza è, spesso, un silenzioso compagno di viaggio. Le canzoni degli Smiths, come Asleep, descrivono perfettamente questa solitudine: “Sing me to sleep, Sing me to sleep, I’m tired and I, I want to go to bed”, una solitudine così profonda che a volte sembra solo sfociare nella voglia di chiudere gli occhi e scomparire. È quella stessa solitudine che sembra accompagnarci nei giorni più difficili, dove tutto sembra grigio e le risposte non arrivano mai.
A volte, mi immergo come nei passi de L’attimo fuggente, quando il professor Keating, con la sua passione travolgente, dice ai suoi studenti: “Carpe Diem. Cogli l’attimo, cogli la rosa quand’è il momento. Siamo cibo per i vermi, ragazzi. Perché, strano a dirsi, ognuno di noi in questa stanza un giorno smetterà di respirare: diventerà freddo e morirà. Cogliete l’attimo ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita.” In quei momenti, mentre il mondo sembra sfuggirmi di mano, cerco di ricordare che ogni momento è prezioso, che ogni passo fatto è un atto di coraggio, nonostante la paura che ci paralizza.
Siamo destinati a fare scelte, e quelle scelte ci definiscono. Non posso fermare il tempo, ma posso decidere come voglio viverlo.
E in quei momenti di disperazione, come quando Harry Styles canta in Sign of the Times, “Just stop your crying, It’s a sign of the times”, mi ricordo che il dolore, la solitudine e l’incertezza sono parte del cammino, ma non sono il cammino stesso. E che, forse, la crescita non è altro che una serie di piccoli attimi di coraggio, in cui impariamo ad affrontare i nostri fantasmi e a lasciarli andare. Così, nonostante tutto, cammino, un passo dopo l’altro. Con paura, con speranza, ma sempre in movimento, come se ci fosse qualcosa di più grande che ci sfida, ma ci invita anche a non arrenderci, a continuare a cercare la nostra strada, anche quando tutto sembra sfuggente.
Crescere non è un processo lineare, e non possiamo sempre tenerlo sotto controllo. Ma è in quei momenti di caos, di confusione, che impariamo a vivere. E forse questo è ciò che l’adolescenza ci insegna: ad accettare che le risposte non arriveranno tutte, che saremo sempre in parte imperfetti, ma che questo non ci rende meno meritevoli di essere amati, di essere vissuti.
Penso a tutte le volte in cui ho sentito quel peso, quel “non essere abbastanza”, ma poi mi rendo conto che la vera bellezza di crescere è proprio nell’accettare le nostre imperfezioni, nel capire che non dobbiamo essere pronti per tutto, che il futuro non è qualcosa che si deve conquistare subito, ma qualcosa che si costruisce, passo dopo passo, errore dopo errore.
E alla fine, forse, la cosa che più mi tocca, è la consapevolezza che questo viaggio, con tutte le sue difficoltà, le sue insicurezze, le sue delusioni, mi sta trasformando in qualcuno di nuovo. Non so chi sarò, non so cosa mi aspetta, ma so che c’è una parte di me che sta iniziando a trovare la sua strada, anche se a piccoli passi. E, per quanto io abbia paura, per quanto io sia in lotta con le mie paure, sento che posso farcela, che posso essere finalmente qualcuno che accetta sé stessa, con tutte le sue fragilità e tutte le sue speranze.
E, in fondo, credo che sia proprio questo il cuore di ogni canzone, di ogni film, di ogni libro che ci ha fatto sentire meno soli: che non siamo mai veramente soli, anche se a volte sembra che lo siamo. Siamo in compagnia delle nostre paure, dei nostri sogni e delle nostre incertezze, ma anche in compagnia di chi ci è accanto, anche se non sempre lo vediamo. E forse, alla fine, è questa compagnia invisibile che ci aiuterà a crescere, e a diventare finalmente chi siamo destinati a essere.

1593 giorni; 38232 ore
È il tempo che è passato dalla prima volta che ci siamo visti.
L’ho contato ieri. La prima volta era il primo giorno di scuola.
Ogni tanto mi chiedo se ci vedremo ancora dopo la maturità. Chi lo sa. Chissà se ci rivedremo dopo che saremo in università diverse, in città diverse, strade diverse.
Probabilmente ci perderemo piano piano, senza accorgercene. Saremo convinti di rimanere in contatto solo perché guarderemo le nostre storie e ogni tanto organizzeremo delle uscite per cui alla fine – e date le persone – qualcuno ‘balzerà’ all’ultimo secondo.
Però proviamo a non farlo succedere, a non sprecare tutto quello che abbiamo fatto. Tutti i pianti, i litigi, gli scherzi. Tutti i casini che abbiamo fatto insieme. Proviamoci.
Sarà strano, quando la campanella a settembre suonerà e noi non varcheremo più quella porta, non saremo più tra questi banchi. So che tutti abbiamo una gran voglia di uscire da qua, di iniziare un nuovo capitolo. Non posso che sperare che vada tutto per il meglio. Vi auguro di sfondare questo soffitto che ci tiene prigionieri e ci soffoca e di tuffarvi in un nuovo mondo, pieno di sorprese e avventure che aspettano solo di essere vissute”.
(S. classe quinta).

Gemma n° 2593

“Noi abbiamo deciso di portare come gemma l’adolescenza e tutti gli aspetti positivi di essa.
Abbiamo rilevato tre punti di riferimento fondamentali durante questo periodo della vita di ciascuno e sono le amicizie, le passioni e la famiglia.
Le amicizie rispecchiano un po’ la persona che siamo, incidono anche molto sulle nostre decisioni e sui nostri comportamenti e spesso fungono da ancora in situazioni difficili: si dice anche che in particolare tutte le persone che ci stanno vicino durante questo periodo della nostra vita, rimangono per sempre. Questi rapporti possono essere coltivati anche nell’ambito scolastico, cosa non scontata.
Il secondo aspetto riguarda le passioni, lato importante di questi anni, che permettono non solo lo sviluppo di attività appaganti che possono poi guidarci verso la  nostra carriera futura, ma rappresentano soprattutto uno sfogo mentale da tutto ciò che può creare stress.
Per ultimo, ma non per importanza, diamo molto peso alla famiglia: nonostante non tutti abbiano l’amore e la sicurezza di una famiglia solida, ci teniamo a sottolineare questo aspetto adolescenziale dato che ha particolarmente contribuito alla formazione di chi siamo oggi e dato il grande impatto che determinati componenti della nostra famiglia hanno avuto come punti di riferimento.
Infine, abbiamo voluto portare questo argomento come gemma, data anche la sua particolare astrattezza: per quanto noi personalmente siamo entusiaste di entrare a contatto col mondo adulto, dall’altro lato proviamo parecchia malinconia al pensiero di dover lasciare andare gli anni più belli della nostra vita, i quali proprio per questo motivo dovrebbero essere sfruttati al massimo e vissuti intensamente”.
(V. e R. classe quinta).

Gemma n° 2510

“Questa è l’ultima gemma e questo mi dispiace molto in quanto pensare che l’anno prossimo non avrò più un momento così bello, intimo e profondo mi rattrista parecchio e quindi voglio subito lasciare un messaggio a chi leggerà questa gemma: godetevi ogni anno questo momento e portate veramente qualcosa di significativo per voi perché è veramente un bel momento, non sprecatelo.
Questa gemma è iniziata molto tempo fa, l’ho iniziata a scrivere a luglio del 2023, prima del concerto di Blanco del 20 luglio, poi l’ho lasciata in sospeso per un po’, l’ho ripresa a scrivere verso fine agosto e poi l’ho conclusa pochi giorni prima di presentarla in classe.
I temi erano vari e non sapevo di cosa parlare, se della mia famiglia, se dell’amore e dell’amicizia, se del valore della vita o dei problemi di essa… alla fine ho deciso di parlare un po’ di me stesso con l’intento di lasciarvi un messaggio e ho deciso di portare 2 canzoni, con la speranza attraverso questa gemma di lasciare un messaggio almeno a qualcuno e di far riflettere.
La prima si intitola Mezz’ora di sole di Blanco e riporterò qua di seguito una parte del testo, non tutto, che poi commenterò.

“Mi sento rinato
Sono figlio del tempo
Sono in quel parco, nel 2018
Sporco di fango, mi volevo ammazzare”
Mi sento rinato nel senso che in questo percorso delle superiori mi sento cresciuto e maturato e mi reputo una persona migliore, soprattutto rispetto al 2018 che Blanco cita, anno in cui i miei genitori si sono lasciati ed è stato un periodo veramente brutto per me, in cui ho pensato veramente di volermi ammazzare in quanto ero piccolo e pensavo di essere io il problema. Alla fine però questa separazione è servita in quanto ora sia i miei genitori che io stiamo bene. Inoltre Blanco si definisce figlio del tempo, e in un certo senso anche io. C’è un aspetto positivo ossia il fatto che mi lascio trasportare dal tempo e mi vivo la vita così come va (Blanco in una sua canzone dice “Vada come vada, la vita è un’autostrada”), invece l’aspetto negativo è che il tempo scorre e non me ne rendo conto. Questo lasciar trascorrere ti porta sempre a non preoccuparti, a dire che c’è tempo, che sono giovane e ho una vita davanti (grande cazzata). La vita è molto breve e non si può sempre rimandare e lasciarsi trasportare.
“E ti porto con me
Dove il cielo si fa buio
Dove BLANCO è poi cresciuto
Dove tutto è maledetto, eh, eh
E ti porto con me
Perché ho paura da solo
Perché violenti il mio sfogo
Però ne ho troppo bisogno, oh”
Questo pezzo di canzone è dedicato alla gemma, nel senso che attraverso essa vi porto con me, nella mia parte più intima e personale “dove il cielo si fa buio e dove sono cresciuto” e inoltre la gemma “violenta il mio sfogo” anche se poi mi rendo conto che forse esporre questi problemi non serve a nulla se non a sfogarmi, serve appunto a liberarmi per quella “mezz’ora” in classe però poi una volta finito tutto devo fare i conti con me stesso e rendermi conto che questi problemi ci sono ancora.
“Dammi mezz’ora di sole
A peso morto nel mare, tra le, tra le onde
Mezz’ora di sole, chiuso in questa prigione
Da-dammi libertà, ah”
Questa canzone è una richiesta di libertà, che io al momento, nonostante sia maggiorenne e dunque certe scelte possa compierle da solo, non mi sento di avere; non mi sento libero da me stesso e dalle scelte che faccio e dunque mi sento chiuso come in una prigione.
“Ho toccato il fondale
Senza mai respirare
Strillando in labiale mentre andavo giù
Fanculo a questo dolore
La gente non lo capisce”
Questo ultimo pezzo della canzone invece è sempre collegato all’episodio che ho raccontato all’inizio, ed è vero che la gente non capisce ancora il dolore che ho provato e quanto io “abbia toccato il fondale” più volte nel corso della mia vita, ma questo è anche dovuto al fatto che sono una persona molto riservata, che non condivide molto della sua vita e mi faccio conoscere veramente solo da poche persone.
Infine trovo il video della canzone molto simbolico in quanto vedo il faro del video come una prigione, da dove lui è scappato per avere solo mezz’ora di sole, per sentirsi un momento libero, però poi ci rendiamo conto che non si può scappare dai nostri problemi e bisogna affrontarli e risolverli e dunque verso la fine del video torna verso la prigione per probabilmente chiudere i conti con se stesso e con il passato.

Poi ho deciso di portare una seconda canzone che si intitola Essere me ed è di Villabanks e Tananai.

Prima di analizzare parte del testo (non tutto)  ci tenevo solo a dire che per me questa canzone è qualcosa di veramente speciale e profondo, con un testo molto bello e maturo che fa riflettere e piangere.
“Perché stare qua mi chiedevo a cosa serve
Sicuramente a un cazzo se scordo le cose belle”
Spesso tendiamo a trascurare i momenti belli della vita, soprattutto quando abbiamo dei momenti no, ma è proprio in quei momenti che dobbiamo avere la forza, in mezzo a tutto quel nero, di tirare fuori le cose belle che ci circondano per uscirne fuori e stare meglio. Credo che i momenti no ci servano a crescere e a maturare come persone, però non si può sempre stare male e come dice Villa, non serve a nulla chiedersi a cosa serve la vita se ci dimentichiamo il vero valore di essa e le cose belle.
“Ho dato un senso alla mia vita, miro a qualcosa d’eterno
Me ne fotto d’avere un Range Rover
E spero mi capisca almeno la mia generazione
Credo lo vogliano anche loro un mondo migliore
E se lo creano con ogni singola azione
Molti sono persi
È facile farsi tentare dal male”
Questa parte di testo forse è un po’ scollegata dal resto della canzone e dal suo significato principale e anche dal tema un po’ variegato che io vorrei portare con questa gemma, però come ho detto all’inizio, mi sento di dover dare un messaggio alla mia generazione e vorrei dirvi di costruirvi da soli il vostro futuro, con le vostre mani, anche se cadrete e vi farete male, alzatevi e andate avanti mirando a qualcosa che possa durare in eterno, lo so che è difficile. Createvi il vostro mondo con ogni singola azione e non fatevi tentare da ciò che vi potrebbe allontanare dal vostro obiettivo principale. Infine mirate a qualcosa di veramente significativo e non a un semplice “Range Rover” che è qualcosa di effimero, che non vi serve, ed è solo uno strumento per apparire e per farvi vedere, ma così farete vedere quello che non siete veramente, farete vedere la vostra maschera e non il vostro “io interiore”.
“Quando ero piccolo non sapevi chi ero
Perso nel sentiero perché in fondo anch’io non lo sapevo
Non mi sono permesso di essere fragile, vulnerabile
Di essere me”
Spesso quando siamo piccoli siamo immaturi e non ci rendiamo conto di chi eravamo. Io a 14 anni ero perso nel sentiero e ora che ci ripenso mi sentivo piccolo, non capivo molte cose. Però allo stesso tempo sono stato sempre me stesso, nonostante tutto, sia per le cose giuste che per quelle sbagliate.
“Non cercarti mai dentro gli occhi che
Che non sono i tuoi, non cercarti in me
Ci vedremo poi dentro ville che
Sognavamo che avremmo avuto da grandi
E so che ce le avremo (te lo giuro)
Quelle certezze che avrebbero reso la vita più facile
Meno piena di domande (perché?)Un giorno ce ne andremo (lontano)
E lasceremo dietro solo tante pagine
Di testi che fan piangere (no)
Ringrazio il cielo (il cielo)
Che fai parte della mia esistenza
Non so stare in tua assenza
Anche se in fondo è quello il senso
Dare tutto, tutto se stesso”
Questa è la parte finale della canzone ed è anche quella più triste, più malinconica, che fa piangere.
Parte dicendo che non bisogna mai cercarsi dentro gli occhi degli altri, perché sì, nella vita non si può stare soli ed è vero, abbiamo bisogno per forza di qualcuno al nostro fianco, che sia un amico o fidanzato… ma bisogna sempre avere le spalle larghe perché nella vita ho imparato che non si sa mai… e i miei genitori ne sono stati la prova… alla fine non esiste un per sempre e quindi non bisogna mai fare affidamento sugli altri al 100%, ma bisogna anche imparare ad essere forti da soli ove dovesse andare male e ci dovessimo ritrovare a rialzarci da soli senza nessuno. Infine credo che le ultime frasi non abbiano bisogno di spiegazione… la vita non è sempre facile e a tutti farebbe comodo avere quelle certezze soprattutto sul futuro che ci renderebbero tutto più facile, però la vita è una sfida e va vissuta e ci sono momenti sì e momenti no.
Per concludere volevo ringraziare il prof. Del Mondo per avermi dato durante questi 5 anni l’opportunità di aprirmi in questa maniera così profonda con la classe e con “gli altri” che leggono.
Porterò sempre con me questo bel ricordo della gemma che mi ha fatto in un certo senso riflettere molto su vari aspetti della vita e di me stesso e posso dire di essere cresciuto anche grazie ad essa”.
(G. classe quinta).

Gemma n° 2416

“La gemma che ho deciso di portare quest’anno è il mio migliore amico, F.
Lui è come un piccolo raggio di sole che illumina le giornate grigie della mia difficile adolescenza,è il compagno di mille risate, il confidente dei segreti più profondi e il pilastro su cui posso contare in ogni situazione.
Insieme abbiamo condiviso risate alle volte incontrollabili ma anche lacrime silenziose nei momenti che per l’uno o per l’altro erano complicati.
Abbiamo vissuto molte “avventure”, se così possiamo definirle, ma anche momenti duri e tristi ed è forse proprio grazie a quelli che il nostro legame si è rafforzato.
F. è il tipo di amico che non giudica mai, ma che ti sostiene sempre, anche quando commetti gli errori più banali e la cosa più bella di lui è che nonostante mi dia dei consigli ed io chiaramente non gli do retta non mi rinfaccia il fatto che ciò che mi aveva detto lui era corretto.
Lui è l’unica persona che riesce a capirmi anche solo con uno semplice sguardo, che capisce subito se sono giù di morale e che mi conosce veramente.
Non c’è momento troppo piccolo o problema troppo grande che non possiamo affrontare purché sia insieme.
La sua presenza in questo periodo è fondamentale perché è un rifugio in cui posso essere completamente me stessa senza paura di essere giudicata”.
(A. classe seconda).

Gemma n° 2358

Twice.
Quest’anno come gemma, ho deciso di portare un gruppo veramente importante per me.
Ma perché è così tanto importante?
Nel 2020 non mi sarei mai aspettata che questo gruppo sarebbe diventato la mia terapia per tutte le medie e oltre.
Le medie sono un periodo che vorrei cancellare dal mio archivio.
Ogni scusa era buona per buttarmi giù: i vestiti di marca, perché non avevo l’ultimo modello di scarpe o non indossavo dei vestiti di un costo maggiore ai 70 euro, perché ero sempre pronta ad aiutare, perché ascoltavo il K-pop, perché ero diversa.
In quel periodo mi passavano continuamente pensieri oscuri e drastici.
Nessuno mi aiutava e nessuno mi capiva, il mondo lo vedevo grigio scuro e incolore.
Nell’agosto del 2020, dopo molto tempo che ne avevo sentito parlare, conobbi le Twice, un gruppo femminile coreano nato nel 2015 composto da 9 ragazze.
Non so né come né perché ma quelle ragazze riportarono nel mondo… i colori che alle elementari vedevo e tutt’oggi sono tornata a vedere.
Nel 2021 le Twice pubblicarono la canzone che, ancora oggi, è la mia preferita: Alcohol-Free la canzone dell’estate 2021 per eccellenza. Ricordo ancora la faccia di mia madre quando dicevo i nomi dei cocktail presenti nel testo della canzone e cantavo in una lingua straniera… CHE SICURAMENTE NON ERA COREANO!

E come in una relazione sana, il nostro rapporto era benevolo e non ero una di quei fan tossici e possessivi, anzi volevo condividere questo mio amore con qualcuno.
Nel 2022 il mio bellissimo mondo colorato stava perdendo di nuovo colore, la terza media è stato un periodo di bullismo che non scorderò mai, sono stata più di qualche volta ferita e… in quel periodo la musica, ma in particolare modo le Twice con i loro time to twice (i loro vlog), mi hanno veramente salvato la vita.
Ed è grazie a loro e ad alcune persone, amici e famiglia, se oggi sono qui, in classe a raccontarvi di come 5 ragazze coreane, 3 giapponesi e una taiwanese hanno impedito atti estremi, improvvisi e disperati.
Il 2023 è agli sgoccioli e anche quest’anno, anche se ascoltate di meno, le Twice con il loro album Ready to be mi hanno dato la forza e la gioia.
Loro non mi hanno solo donato la felicità che oggi tutti vedono, ma mi hanno anche regalato un sogno, la danza, il salire sul palco e rendere le persone felici e in pace.
Spero tanto di vederle dal vivo un giorno, se in Italia o all’estero non mi interessa, spero al prossimo tour mondiale di esserci.
Quindi si, amo le Twice, il K-pop e dopo molto tempo posso affermare apertamente che non me ne vergogno… d’altronde ognuno ha i propri gusti!”
(E. classe seconda).

Gemma n° 2136

“Dato che ormai siamo a fine novembre, ho pensato di portare come gemma un’immagine che possa rappresentare in qualche modo l’anno quasi giunto al termine.
Nel corso di questi mesi mi sono divertita un sacco, ho riso, mi sono emozionata, ho pianto tanto, ho conosciuto molte persone nuove, alcune delle quali sono rimaste fino a ora, altre invece se ne sono andate, ma soprattutto ho pensato. Forse troppo.
Ricordo che a febbraio ho portato come Gemma una nota scritta in un momento di debolezza in cui mi sentivo sopraffatta da tutto quello che stava succedendo, ma soprattutto che era successo e con cui non mi ero mai interfacciata, perché se c’è una cosa che ho capito, probabilmente con le cattive, è che tutto ciò che la vita ci presenta, ogni avvenimento, bello o brutto che sia, non può semplicemente essere ignorato nella speranza che passi da solo e che ce ne dimentichiamo, dato che prima o poi ritornerà, pronto a schiacciarci con il doppio, il triplo della potenza, fino a che non ci decidiamo finalmente a combatterlo una volta per tutte.
Ed è un po’ quello che è successo a me.
Io ho sempre amato passare del tempo da sola: per tutta la vita sono sempre stata abituata a gestire i miei tempi e spazi in armonia con me stessa e quando ciò è venuto a mancare, quando quell’equilibrio per qualche ragione si è spezzato, sono precipitata.
Inizialmente ho cercato di ignorare il problema nella vana speranza che se ne andasse da solo, ma quest’anno, ad un certo punto, quest’inutile fuga mi aveva talmente sfinito che ho dovuto dire basta.
Così ho iniziato a pensare, a riflettere, ad interrogarmi sul perché fossi arrivata fino a quel punto. Mi sono chiesta se avessi fatto qualche cosa di male, attribuendo inizialmente alle mie sensazione il titolo di “punizione”, per poi comprendere come stessi solamente cercando in tutti i modi di scappare da episodi che mi sono capitati e su cui non mi sono mai soffermata perché convinta che non avessero importanza o per cui non mi sentissi in diritto di stare male perché in fondo: “…tutti abbiamo i nostri demoni e chi sono io per lamentarmi dei miei quando ci sono persone che magari vivono cose più gravi della mia? Non ho assolutamente il diritto di lamentarmi!”.
Insomma, non mi sono mai presa del tempo per me stessa, per guarire ferite passate che hanno così, d’un tratto, sfondato la porta del mio cuore tutte in un colpo solo, senza nemmeno suonare il campanello e senza aspettare che io dessi loro il permesso per entrare.
Ho provato ad affrontare questa situazione da sola e ho dovuto combattere contro tutta me stessa per accettare il fatto che questo non sarebbe bastato, che non ce l’avrei fatta senza l’appoggio di qualcuno, così ho iniziato piano piano ad aprirmi con la mia migliore amica e, casualità, il destino mi ha fatto incontrare diverse persone che nel corso dei mesi ho cominciato a conoscere e con cui ho parlato come mai avevo fatto prima. Grazie a queste conoscenze ho cominciato a coltivare il rapporto più importante della mia vita, ossia quello con me stessa, andando alla scoperta di questa persona che ormai era diventata una completa estranea, a cui forse non avevo mai dato importanza, ponendola costantemente in secondo piano rispetto all’aiutare le persone che la circondavano, lasciando che la ferissero e incolpandola sempre e comunque per errori altrui.
Ebbene, penso che quello introspettivo sia il viaggio più terrificante che abbia mai fatto e che sto tuttora compiendo. Esso mi sfinisce, prosciuga tutte le tue energie, distoglie la mia concentrazione da altri ambiti della mia vita, come per esempio le amicizie, la scuola, lo sport, le relazioni, ma al momento non riesco a non essere egoista, perché per volersi bene, per capire di avere un valore, per comprendere che anche io merito di stare male e prendere del tempo per guarire dalle ferite, devo fare delle scelte e chiedermi quali siano davvero le mie priorità, a rischio di allentare la presa negli altri settori per mettermi al primo posto.
I pensieri sono qualcosa di veramente potente, che possono arrivare a schiacciarti, facendoti pensare di non potercela fare, di non essere abbastanza, ma con l’impegno e tanta forza di volontà, è possibile affrontare la tempesta, un passo dopo l’altro, senza farsi spaventare dalle aspettative o senza convincersi di dover soddisfare requisiti e obiettivi imposti da terzi, ma facendolo solo per se stessi e nessun altro, dedicandosi del tempo, tutto quello necessario, perché quando si tratta di stare bene non esistono scadenze e soprattutto non ci si può paragonare agli altri. E se un giorno lo passiamo nel letto sotto le coperte perché mancano le forze per fare qualsiasi cosa di “produttivo”, per così dire, va bene lo stesso, non dobbiamo pensare di essere una delusione per questo, perché non siano degli automi, ma proviamo delle emozioni che hanno tutto il diritto e la necessità di essere ascoltate, analizzate e interiorizzate.
Come ho già detto, quest’anno ho conosciuto un sacco di persone nuove, e non solo…sono anche entrata in contatto con dei lati di me che si sono manifestati in maniera sempre più invasiva nel corso dei mesi e con cui mi sono dovuta, e mi sto tutt’ora interfacciando, con non poca fatica.
Uno di questi tratti è sicuramente l’ansia. Tutto è iniziato con episodi sporadici in cui prima c’era un’alternarsi di emozioni, il respiro si faceva pesante e sempre più ravvicinato, la testa mi scoppiava e il cuore sembrava esplodere nel petto. Ad un certo punto però le cose hanno cominciato a cambiare, perché questi sintomi che sembravano spaventosi hanno lasciato il posto ad altri che mi hanno disorientata, mi hanno fatto completamente perdere la percezione della mia stessa esistenza, anche se devo dire che con il passare del tempo ho imparato perlomeno a riconoscerli. Al posto dell’iperventilazione e della tachicardia infatti gli occhi mi si sbarrano, ho bisogno di sedermi o di distendermi. Nella testa tuttavia questa volta non c’è un susseguirsi frettoloso e irrefrenabile di pensieri, ma essa risulta essere vuota. Provo a pensare a qualcosa, una cosa qualsiasi, anche la più stupida, ma niente, ciò mi risulta impossibile. Anche il cuore che prima batteva all’impazzata ora non lo riesco più a sentire. Metto una mano su di esso, ma inutilmente, non riesco a percepirlo, così mi tocco il polso, cerco l’arteria, ma ancora niente. NIENTE. Il nulla assoluto. Sono diventata improvvisamente un corpo che occupa un determinato spazio nel mondo, mi limito ad esistere in qualche modo.
Ho pensato molto a cosa possa innescare questi episodi che si presentano nelle maniere e nei momenti più svariati. Io non credo che le mani mi inizino a tremare a causa delle troppe cose da fare, di un compito da consegnare, di una partita da giocare, poiché sono tutti eventi che in sé non hanno nulla di particolarmente preoccupante, ma che in quel momento sembrano essere l’ostacolo più grande della mia vita. Anche adesso, ad esempio, mentre sto seguendo il flusso di pensieri che mi scorre nella mente, le mani hanno iniziato a tremare e sento crescere dentro di me quella sensazione d’ansia che oramai è diventata parte integrante delle mie giornate. Solamente l’idea, il lontano pensiero di dover guardarmi dentro mi mette una paura immensa e quello che mi terrorizza maggiormente è che non ho una vera risposta a queste reazioni, dunque non riuscendo ad individuarne chiaramente la causa profonda, non sto facendo altro che subire. Non riesco a fare niente perché tutto diventa un problema e fonte di preoccupazione, anche solo alzarmi per bere un po’ d’acqua, così preferisco restare ferma nella speranza che la sensazione passi.
Oltre agli attacchi di panico, ultimamente un’altra riflessione che mi scombussola la mente è il fatto che non riesco a pensare al futuro, a fare programmi che si spingono più in là di una settimana. Non penso che sia una problematica che concerne solamente me, anzi tutt’altro. Ritengo che sia un’incognita abbastanza diffusa tra i miei coetanei e solo il pensiero di trovarmi in una fase della mia vita in cui sono tenuta a compiere delle scelte che determineranno il mio futuro mi paralizza. Sono domande come “cosa farai all’università? Che lavoro vuoi fare?” che mi fanno impazzire a tal punto da immobilizzarmi, ma più che la mancanza di una risposta a questi quesiti, ciò che mi fa più male è la consapevolezza di non poter essere capita, perché vai tu a spiegargliela ai mie genitori questa assenza di speranza nel futuro, spiegagli tu come non conosco nemmeno il significato di tale termine che più che una speranza mi sembra un’utopia. Per loro la vita è sempre stata molto concreta, hanno sempre avuto la certezza che in qualche modo ce l’avrebbero fatta. Dopo la scuola si sarebbero trovati un lavoro, poi una moglie o un marito, avrebbero fatto una famiglia e una casa dove abitare con i bambini. Per la nostra generazione invece è tutto estremamente astratto e inafferrabile, abbiamo la testa piena di false promesse che non vengono mai seguite effettivamente dai fatti. La società oggigiorno ci impone un percorso prestabilito da seguire se vogliamo la possibilità di condurre una vita quantomeno dignitosa: asilo, elementari, medie, superiori, università, tirocinio, e poi… E poi? Poi la guerra, l’epidemia, il rintanarci sempre più in noi stessi e il trovarsi più a proprio agio a parlare tramite uno schermo perché il confronto reale genera panico e disagio. E allora che senso ha tutto questo? Ogni giorno veniamo bombardati da notizie di disordini sociali, catastrofi ambientali, conflitti imminenti, migliaia di vite spezzate perché uomini potenti fanno i capirci e giocano a farsi la guerra. È davvero questo il mondo in cui vogliamo vivere? L’essere umano fa davvero paura, ma se questo è la realtà odierna, a cosa mi serve sapere che quando è stata scoperta l’America o come si risolve un’equazione? “Ad imparare dagli errori passati ed evitare che essi vengano ripetuti”, risponde un adulto nella maggior parte dei casi, ma sono gli stessi adulti che stanno commettendo proprio in questo momento gli errori di cui hanno letto sui libri e discusso tra i banchi di scuola.
Forse sono pensieri più grandi di noi, di me, ma sono lì, nella mia testa e non posso ignorarli, anche perché spuntano continuamente facendomi perdere piano piano l’entusiasmo e la voglia di fare qualunque cosa, perché la risposta a tutto diventa: che senso ha?
Tutte queste preoccupazioni spesso mi portano a passare pomeriggi interi distesa sul divano a fissare il soffitto, incapace di fare o provare nulla perché in fondo che senso ha tutto questo? Cosa importa prendere dei bei voti se non riesco nemmeno a stare con me stessa? A cosa mi serve prendere un otto a scuola su un argomento che mi dimenticherò il giorno seguente se nella mia testa è inconcepibile anche solo pensare a cosa farò tra una settimana?
Per tanto tempo sono scappata da queste sensazioni devastanti e ora le sto affrontando tutte assieme. Non mi riconosco, non faccio nulla, “spreco” un sacco di tempo, non sono “produttiva”, ma cosa vuol dire in fondo essere produttivi? Svolgere compiti impartiti da terzi per sentirsi dire bravo o essere in pace con la propria coscienza, ma a che prezzo? A costo di perdere se stessi, di toccare il fondo e non sapere nemmeno di esserci perché c’è sempre qualcosa di più importante da fare piuttosto che curare se stessi?
Perché sì, non esiste solamente lo star male fisico, ma soprattutto quello mentale, cosa che ho impiegato tantissimo tempo anche solo ad ammettere a me stessa e che, non avendolo mai minimamente ascoltato, adesso mi ritrovo a chiedermi anche se sia reale o meno.
A volte l’unica cosa che vorrei è vomitare in faccia alle persone tutto il mio dolore, ma mi fermo sempre prima perché chi sono io per aggiungere pesantezza alla vita altrui? Tutti hanno i loro problemi, i loro demoni da gestire, non potrei mai essere così egoista, quindi in questo momento DEVO prendermi cura dell’unica persona che può salvarmi: me stessa. E se per fare questo devo rinunciare a rispettare le aspettative altrui su altri ambiti della mia vita, va bene. È arrivata l’ora di dare importanza anche a me, perché se non lo faccio io come posso solo minimamente pensare che lo facciano gli altri?” (R. classe quinta).

Gemma n° 1885

“Ho portato due film come gemme.

Il primo è Noi siamo infinito, parla di un ragazzo che inizia le superiori e viene preso sotto l’ala protettrice di ragazzi più grandi e di come reagirà quando poi loro andranno al College. 

Il secondo è Le parole non dette, la storia di una ragazza molestata durante l’estate che quando entra al Liceo decide di non parlare: tutti pensano sia strana e la bullizzano quando in realtà lei ha solo paura di parlare di quanto le è successo e si chiude in se stessa”.

Quelli presentati da S. (classe seconda) sono due film che affrontano temi importanti, difficilmente sintetizzabili in poche parole o in un trailer. E non me la sento di trattarli qui ora. Hanno a che fare con vissuti importanti; tutti i vissuti ci condizionano, ma forse alcuni lo fanno più pesantemente di altri. Charlie, il protagonista di Noi siamo infinito, dice però ad un certo punto: Non possiamo scegliere da dove veniamo ma possiamo decidere dove andiamo, da lì in poi… Ecco: di certo non facile, ma è l’unica via.

Gemma n° 1857

“Io ho portato il mio diario segreto: lo scrivo da quando ero piccola e ho sempre scritto tutte le cose, quelle belle, quelle più importanti, e anche quelle brutte. Mi piace scrivere, mi aiuta a mettere in chiaro le mie idee a me stessa”.

L’ho detto anche in classe a S. (classe terza): conservo ancora i miei diari di quando ero al liceo, in particolare tra la seconda e la quarta ho scritto molto. Con la stessa identica funzione descritta da S. Rileggerli ora è altra cosa, è guardarmi con tenerezza a quel che sono stato, è guardare con tenerezza chi ho davanti agli occhi ogni giorno, ciò che ciascuno di noi è stato.

Gemma n° 1824

E’ una gemma senza testo quella di G. (classe seconda), o meglio, il testo è “solo” quello della canzone Solamente unico che ha voluto proporre in classe come gemma, non ha voluto né commentarlo né dire il motivo della scelta. Ho messo le virgolette a “solo” perché basta ascoltare il pezzo per capire quanto racconti. Però mi voglio attenere al dato di fatto, non voglio immaginare o ipotizzare cosa ci sia dietro alla scelta di G. E per farlo cambio destinatario: il mio commento alle gemme è praticamente fatto tenendo in mente ragazze e ragazzi che incontro ogni giorno. Ora invece penso al mondo degli adulti e il perché è presto detto. Prima di entrare nella classe di G. stavo leggendo delle pagine del libro L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti di Matteo Lancini (2021, Raffaello Cortina Editore).

In famiglia è necessaria “una nuova propensione affettiva e relazionale, che consenta sin da bambini di esprimere fatiche e sofferenze, non chiedendo loro di farsi carico di sguardi troppo angoscianti provenienti da mamma e papà. L’inciampo e il fallimento sono parte costituente della vita, della crescita, dello sviluppo in direzione della costruzione del vero sé e di una propria identità autentica. Non si tratta certo di ricercare dolori e sofferenze nella vita, ma di evitare grandiosità e decessi che illudono sulla possibilità di essere felici senza accettazione ed elaborazione dei fallimenti e della morte come elementi fondanti della nostra esistenza”.
In adolescenza “la qualità di un ascolto identificato e la capacità di interessarsi al figlio reale, ormai divenuto altro da sé e delle proprie aspettative, rappresentano l’unica via d’accesso per lo svolgimento di un ruolo materno e di un ruolo paterno davvero autorevoli e di sostegno alla crescita. Laddove prevalgano discorsi infantilizzanti, alimentati dal rimpianto per la straordinarietà dei tratti affettivi e relazionali dell’ex bambino, e contenuti ciclici standardizzati sulla necessità di un maggiore impegno scolastico, comportamentale, etico, sacrificale, non solo il ruolo affettivo adulto non riesce a incidere, ma rischia di innalzare il livello del conflitto in atto, se non di accrescere i sentimenti di tristezza e di vergogna, già sperimentati dal figlio o dalla figlia, negli stati depressivi legati al fallimento narcisistico.
Gli adolescenti odierni hanno sensibilità non comuni, sviluppate proprio grazie alla mamma e al papà e alla trama affettiva che ha dominato la loro crescita. Solo se percepiscono una capacità di ascolto e rispecchiamento realmente identificata con le loro esigenze e difficoltà evolutive possono rivolgersi al proprio adulto di riferimento, condividere i propri stati affettivi, chiedere aiuto e conforto. Oggi i ragazzi e le ragazze non parlano con i propri genitori perché hanno paura di deluderli o di incontrare reazioni emotive materne e paterne spropositate. E i genitori temono a loro volta le paure e le sofferenze dei figli, cosa che gli adolescenti avvertono sin da quando sono nati. Madri e padri di ragazzi tristi, mutacici non dovrebbero mai temere di introdurre il tema della morte volontaria a tavola, la sera o in qualunque altra occasione di incontro possibile. Chiedere se ci si pensa e se ci si è mai pensato, nominare il suicidio senza alcun timore. Un altro luogo comune da sfatare è quello che sostiene che parlare di suicidio possa istigare, promuovere l’idea del nostro giovane interlocutore di mettere in atto il gesto insensato. E’ vero esattamente l’opposto. Parlarne consente di abbassare il rischio, di dare senso al pensiero sviluppato sulla morte volontaria, di rendere meno attrattiva l’eventuale ipotesi e intenzione suicidaria. Ovviamente, ciò che vale per l’espressione più terribile del disagio di un figlio, vale per tutti i sentimenti, le sofferenze e i dolori sperimentati. Conviene sforzarsi in questa direzione, allenarsi per essere in grado di percepire, ascoltare e sostenere l’elaborazione delle emozioni negative. Continuare ad allontanarle e rimuoverle è oggi davvero molto pericoloso”.
(estratti dalle pagg. 147-150).

Questo leggevo ieri in aula insegnanti, mi sono alzato, ho messo via il libro, ho salito le scale, sono entrato in aula e la prima cosa successa è stata ascoltare la canzone proposta da G. Di quali ulteriori segni avrei bisogno per non toccare questi temi? Cosa mi serve ancora per far sì che emergano quelle prove “del sole intorno a te”, per far sperimentare che “la luce non muore”?

Amati de-costellanti

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Sento l’esigenza di tornare sui temi toccati dalla gemma 1809 e provo a rivolgermi a chi per lavoro (insegnanti, educatori, psicologi, sociologi, antropologi, psichiatri, allenatori, animatori…) o per famiglia (genitori, zii, nonni, amici di famiglia) si trova ad aver a che fare con gli adolescenti, in particolare quelli di 4a e 5a superiore. Lo faccio perché le parole di V. sono state condivise e apprezzate da molte compagne e molti compagni che si sono rispecchiate/i profondamente in esse. Lo faccio anche perché è in aumento il numero di studenti che si piantano all’ultimo o penultimo anno, si bloccano, inchiodano l’auto su cui stanno viaggiando e né mettono in folle né schiacciano la frizione con la marcia inserita. E l’auto, con un sussulto, muore. 

Il filosofo Guido Cusinato nel libro Periagoge scrive: “Il verbo latino «desiderare» deriva dal composto latino della particella de – che può indicare una mancanza oppure un’azione distruttiva -con il termine sidus, sideris (plurale sidera), che significa «stella». Ora è risaputo che fin dall’antichità, per decifrare il cielo stellato, le stelle (sidera) venivano raggruppate in costellazioni e queste servivano a orientarsi e es. nella navigazione nel mare. De-siderare esprime pertanto due significati a seconda di come viene interpretata la particella de: 1) Sentimento di una «mancanza di costellazioni», cioè di punti di orientamento. In questo caso il desiderio esprimerebbe la nostalgia verso i punti di riferimento che sono venuti a mancare. 2) «De-costellare» nel senso del tentativo di distruggere (de– come nel caso di «de-costruire») la costellazione che imprigiona, come un destino, la mia esistenza attuale. In questo secondo caso non ho nostalgia della costellazione che aveva orientato la mia esistenza e che ora non vedo più, perché magari coperta dalle nuvole, ma al contrario provo una profonda insoddisfazione nei confronti della costellazione che mi orienta e questa insoddisfazione mi spinge ad allontanarmi da essa per cercare una nuova costellazione che ancora non vedo. Nel desiderare provo un’insoddisfazione nei confronti del mio attuale destino (la costellazione che ha guidato la mia esistenza) e lo de-costruisco per pormi alla ricerca di una nuova costellazione, di un nuovo inizio della mia esistenza. Nel superare la costellazione che ha orientato la mia esistenza, in realtà permetto alla mia esistenza di deragliare dai binari del fatalismo” (G. Cusinato, Periagoge. Teoria della singolarità e filosofia come esercizio di trasformazione, Verona, QuiEdit, 2017, p. 144).

Ecco, a me capita di vedere tante studentesse e tanti studenti  che stanno de-costellando (penso che lo facciamo tutti nella vita e non una volta sola). Ripenso a quando ho lasciato la facoltà di scienze geologiche per cambiare completamente percorso e riconsiderare tanti valori e tante priorità della mia vita. Solo che, tornando alla metafora dell’auto inchiodata, alcuni studenti poi trovano il modo di rimettere in moto e cercare la nuova costellazione, come ha fatto e sta facendo V. della gemma 1809, altri restano fermi in auto in attesa che la nuova costellazione passi e rischiano che il tutto si trasformi nella prima accezione del termine desiderio, la nostalgia per qualcosa che manca. Cosa possiamo fare noi? Come possiamo far sì che decidano di girare quella chiave? Quali strategie mettere in campo per far sì che riprendano il movimento alla ricerca di una nuova costellazione?

Davanti ai nostri occhi

pexels-photo-459971.jpegPropongo un articolo piuttosto vivace e non molto lungo scritto da Vincenzo Brancatisano su Orizzonte Scuola. Ragiono su questi temi molto spesso e frequentemente mi confronto con colleghe e colleghi; poco più di un anno fa, mentre partecipavo ad un convegno sull’adolescenza a Rimini, mi ponevo proprio la questione della preparazione pedagogica e didattica del corpo docente italiano. Mi sentirei di fare solo una puntualizzazione in merito all’accenno che viene fatto all’alternanza scuola lavoro, ma la rimando ad un futuro post.
“Leggo i titoli di centinaia di corsi di formazione per docenti. La maggior parte dei medesimi riguarda la disabilità degli studenti, i loro disturbi specifici di apprendimento (dsa), che meritano la giusta attenzione, le nuove tecnologie da usare in classe, le classi rovesciate o da rovesciare al più presto, Google drive dove infilare alla rinfusa la didattica appena offerta in classe o magari mai proposta in aula e spedita a casa come un pacco di Amazon a beneficio di genitori imbestialiti.
E invece c’è una grande emergenza che meriterebbe la giusta attenzione e che non occupa né sembra preoccupare la categoria dei formatori e degli insegnanti, almeno non nei grandi numeri. E si tratta di un’emergenza forse proprio perché non attiva la giusta attenzione dei docenti.
Questa emergenza si chiama preadolescenza e adolescenza. Quanti sono i docenti che si son dotati della giusta formazione per essere in grado di interpretare le dinamiche psicologiche, psicosociali, neurologiche, affettive dello studente che vive questa epoca ispirata al massimo nichilismo, alla mancanza diffusa di scopo, al desiderio di automutilarsi pur di attirare l’attenzione dei pari, al disastro causato dai genitori che si propongono loro come amici invece che come nomos, alla dipendenza dalle tecnologie talmente devastante che vien voglia di pensare: ma perché non si drogano con le sostanze (è un’iperbole, ovvio, tesa a sottolineare la cifra del fenomeno) invece che con gli smartphone, con le attese ansiosissime e distruttive di una risposta a un messaggino, che dev’essere brevissima (“Perché non risponde? Avrà ricevuto? Sì, c’è la doppia sbarretta blu, forse non ha capito…”) con l’esercizio fisico compulsivo nelle mille palestre sempre più affollate di giovanissimi in cerca di identità (la nuova dipendenza di cui non si parla ancora), con i giochi d’azzardo online.
Tra le tante ricadute positive (si parla invece solo dei lati negativi) dell’alternanza scuola lavoro, una ricaduta apprezzabile emerge dai tanti recenti colloqui con i genitori. Tutti mettono in evidenza il sollievo momentaneo ma intenso indotto in loro dal vedere i propri figli staccati per ore e ore e per settimane dal telefonino e dalle cuffiette, una sorta di disintossicazione involontaria che fa il paio per fortuna con quella che si ripeterà più avanti, quando i nostri ragazzi saranno assunti in aziende per svolgere mansioni che non si conciliano con lo zombismo che abbiamo tutti davanti agli occhi. Ma intanto, questi zombie li abbiamo, appunto davanti agli occhi.
Tutti o quasi tutti ipnotizzati da un nulla cosmico talmente potente che si fa fatica, nei grandi numeri, a farlo sopravanzare dall’interesse per quello che viene proposto in classe da docenti che continuano a proporsi loro come avrebbero fatto vent’anni orsono, senza capire che la connessione di massa alla rete, avvenuta solo di recente, ha cambiato l’assetto sociale, quello antropologico e quello neuronale dei giovanissimi.
Basterebbero i dati sulle crisi d’ansia, sugli attacchi di panico che richiedono ogni giorno il soccorso delle ambulanze nelle nostre scuole, gli occhi assonnati di ragazzi e ragazze che si vede da lontano che hanno trascorso la notte davanti a un mini schermo luminoso, con tutti i danni cerebrali connessi alla privazione di sonno importante a quell’età.
Eppure si continua a minimizzare la dimensione del fenomeno. Continuiamo a preoccuparci, e giustamente, di handicap, di sostegno, di alunni diversamente abili, di alunni neoarrivati e di alunni con bisogni speciali. Ma non dimentichiamoci dell’adolescenza, cari formatori e organizzatori della formazione, né degli strumenti, e ce ne sono, capaci di rendere gli insegnanti capaci di affrontarla nel modo più appropriato e proficuo”.

iGen, generazione in rovina?

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Gli smartphone con i loro social stanno rovinando o hanno rovinato una generazione? Questa domanda e le relative risposte sono al centro di questo articolo pubblicato oggi su Il Post.
“Jwan M. Twenge, docente di psicologia all’Università di San Diego, ha scritto per l’Atlantic un articolo molto complesso e discusso che analizza l’uso e le conseguenze degli smartphone e dei social media da parte degli e delle adolescenti. Il pezzo riprende i contenuti un recente libro di Twenge, è documentato, cita diverse ricerche e, sebbene con una certa cautela, arriva a conclusioni piuttosto preoccupanti: non è un’esagerazione, dice la studiosa, descrivere gli adolescenti di oggi come sull’orlo della peggiore crisi di salute mentale degli ultimi decenni, e non è un’esagerazione ipotizzare che gran parte di questa situazione possa essere ricondotta ai loro telefonini. L’articolo, sia per i contenuti che per la parzialità del metodo, è stato però anche molto contestato e criticato.
Twenge precisa che lo scopo dei suoi studi non è cedere alla nostalgia per un mondo in cui le cose erano differenti, ma capire come sono le cose ora: alcuni cambiamenti sono positivi, alcuni sono negativi, e molti sono entrambe le cose insieme. Twenge racconta di aver studiato e lavorato molto sulle differenze tra generazioni e che, tipicamente, le caratteristiche che definiscono un gruppo di persone nate in un determinato periodo appaiono per gradi e lungo un continuum. I cosiddetti “Millennials”, di cui fa parte chi è nato tra la metà degli anni Ottanta e i primi anni del Duemila, sono considerati per esempio una generazione individualista: ma questa caratteristica era cominciata a comparire già all’epoca dei “Baby Boomers”, i nati dopo la Seconda guerra mondiale, e della “Generazione X” degli anni Sessanta e Ottanta. I grafici delle ricerche di Twenge sulle tendenze delle diverse generazioni avevano dunque curve ascendenti e discendenti morbide e graduali. Almeno finora.
Quando Twenge ha iniziato a studiare la generazione di Athena, una 13enne che vive a Houston, Texas, e che le ha spiegato di aver trascorso la maggior parte della propria estate da sola in camera in chat con i propri amici, la studiosa ha notato degli spostamenti bruschi e dei picchi nelle tendenze dei propri grafici: molte delle caratteristiche distintive della generazione dei Millenials stavano scomparendo. Twenge dice di non aver mai visto niente di simile e che i cambiamenti non erano solo di grado, ma anche di natura. La differenza più grande tra i Millennials e i loro predecessori era nel modo di considerare il mondo; gli adolescenti di oggi si differenziano dai Millennials non solo per i nuovi punti di vista ma anche per come trascorrono il tempo: le esperienze che hanno nella loro quotidianità sono radicalmente diverse rispetto a quelle della generazione che li ha preceduti.
Twenge si occupa degli adolescenti americani, ma riscontra tendenze e abitudini che – in misure diverse, ovviamente – esistono in molti contesti e città occidentali, e in cui probabilmente molti genitori di adolescenti europei riconosceranno almeno in parte i propri figli. L’anno in cui sono avvenuti questi cambiamenti così significativi, secondo Twenge, è il 2012: c’entra probabilmente la grande recessione, dice, cioè la crisi economica mondiale iniziata nel 2007 e terminata circa due anni dopo, ma il 2012 è stato soprattutto l’anno in cui la percentuale di statunitensi che avevano uno smartphone ha superato il 50 per cento. A chi è nato tra il 1995 e il 2012 Twenge ha dato quindi un nome: iGen. Sono gli adolescenti che sono cresciuti possedendo uno smartphone, che avevano un account Instagram prima di iniziare la scuola superiore e che non si ricorda un tempo prima di Internet. I Millennials si sono formati con una grande familiarità con la tecnologia digitale che, però, non è mai stata presente nelle loro vite a un livello così elevato, cioè in ogni momento, giorno e notte.
Secondo Twenge le conseguenze della cosiddetta “età degli schermi” vengono spesso sottovalutate. Ci si concentra molto su specifici aspetti, per esempio la riduzione dell’attenzione, ma la diffusione degli smartphone ha invece cambiato radicalmente ogni aspetto delle vite degli adolescenti, dalla natura delle loro relazioni sociali alla loro salute mentale. E questi cambiamenti, dice la studiosa, riguardano tutti i giovani americani, a prescindere da dove vivano, in ogni tipo di famiglia: coinvolgono le persone benestanti e quelle non benestanti, quelle di ogni etnia, che vivono nelle città oppure nelle periferie. Anche quando in passato un evento significativo ha svolto un ruolo fondamentale ed estremo nella formazione e nella crescita di un gruppo di giovani, per esempio una guerra, non è mai accaduto prima che un singolo fattore definisse un’intera generazione e che avesse conseguenze così pervasive: «Ci sono prove convincenti che i dispositivi che abbiamo messo nelle mani dei giovani stiano avendo profondi effetti sulla loro vita e li rendano gravemente infelici».
Gli iGen, scrive Twenge, si sentono più a loro agio in camera loro che in una macchina o a una festa, nonostante siano più sicuri e informati rispetto al passato: hanno meno probabilità di fare un incidente automobilistico rispetto ai loro omologhi del passato, per esempio, e sono più a conoscenza dei rischi dell’alcol. Da un punto di vista psicologico, però, sono più vulnerabili rispetto ai Millennials. La prima caratteristica degli iGen è che la ricerca dell’indipendenza, così potente nelle generazioni precedenti, è meno forte. La patente di guida, simbolo di libertà inscritto nella cultura popolare americana, ha perso il proprio appeal: quasi tutti i Baby Boomers avevano la patente di guida pochi mesi dopo il compimento dell’età necessaria; oggi in America più di un adolescente su quattro non ha la patente alla fine della scuola superiore. Sono madri e padri ad accompagnare i figli a scuola o altrove, e dalle ricerche emerge che la patente viene descritta dagli adolescenti come qualcosa che importa soprattutto ai loro genitori, un concetto «impensabile per le generazioni precedenti», commenta Twenge.
È diminuita anche la percentuale di chi ha una frequentazione sentimentale: parte del corteggiamento avviene attraverso le chat e non è detto che poi si arrivi a un incontro reale. Nel 2015 solo il 56 per cento di chi frequenta l’ultimo anno delle scuole superiori ha avuto degli appuntamenti, mentre tra i Baby Boomers e i membri della Generazione X la percentuale era pari a circa l’85 per cento. Questo ha ovviamente delle conseguenze sulla vita sessuale degli iGen: secondo i dati citati da Twenge, i quindicenni che hanno una vita sessualmente attiva sono diminuiti del 40 per cento rispetto al 1991 e l’adolescente medio di oggi ha fatto sesso per la prima volta circa un anno dopo rispetto alla media di chi appartiene alla Generazione X.
Nelle generazioni precedenti, poi, gli adolescenti lavoravano di più in estate o nel tempo libero, desiderosi di finanziare la loro libertà: in questo erano stimolati anche dalle famiglie, che volevano insegnare loro il valore del denaro e la sua gestione. Gli adolescenti iGen invece non lavorano: alla fine degli anni Settanta, il 77 per cento dei ragazzi dell’ultimo anno delle scuole superiori aveva una qualche occupazione, entro la metà del 2010 la percentuale si è abbassata al 55 per cento e ora il numero è diminuito ancora. La tendenza a ritardare l’entrata nell’età adulta era già in atto anche nelle generazioni precedenti, dice Twenge, ma ciò che caratterizza gli iGen è in particolare il ritardo dell’inizio dell’adolescenza: i ragazzi che oggi hanno 18 anni agiscono come dei quindicenni e quelli di quindici anni sono più simili a dei ragazzini di tredici anni. L’infanzia si è cioè estesa. Perché, si chiede la studiosa, gli adolescenti di oggi aspettano più a lungo ad assumersi sia le responsabilità che i piaceri dell’età adulta?
I cambiamenti culturali, l’economia e il rapporto con la famiglia hanno certamente un ruolo: l’istruzione superiore è considerata più importante di trovarsi presto un lavoro, i genitori sono inclini a incoraggiare i loro figli a rimanere a casa e a studiare piuttosto che a cercarsi un’occupazione part-time e gli adolescenti, a loro volta, sembrano soddisfatti di questo accordo, «non perché siano particolarmente studiosi ma perché la loro vita sociale è vissuta sul telefono. Non hanno bisogno di lasciare la casa per trascorrere del tempo con i loro amici». I dati dicono che gli adolescenti iGen hanno più tempo libero rispetto agli adolescenti della generazione precedente. «E che cosa fanno con tutto quel tempo?» si chiede Twenge: «Sono al telefono, nella loro stanza». Si potrebbe allora pensare che gli adolescenti passino così tanto tempo in questi nuovi spazi virtuali perché questo li rende felici, ma la maggior parte dei dati suggerisce che non è così.
Nel suo articolo Twenge cita diverse ricerche. Una ha che fare con il tempo del sonno e dice che dal 2012 le ore dedicate dagli adolescenti al dormire sono diminuite: usare il telefonino per diverse ore e anche subito prima di andare a letto ha conseguenze sulla quantità ma anche sulla qualità del riposo, e dormire poco e male ha a sua volta conseguenze sia fisiche che psicologiche. Da un’altra ricerca citata risulta che tutte le attività svolte davanti a uno schermo siano legate a una minore felicità e che tutte le attività alternative siano associate invece a una maggiore felicità. Le indagini riportate da Twenge dicono poi che più i ragazzi passano il tempo guardando uno schermo, più probabilità hanno di segnalare sintomi di depressione e di presentare maggiori fattori di rischio di suicidio (dal 2007 il tasso di omicidio tra adolescenti è diminuito, ma è aumentato quello dei suicidi: gli adolescenti hanno cioè iniziato a trascorrere meno tempo insieme ed è dunque diminuita la probabilità che si uccidano tra loro, spiega, ma è aumentata la probabilità che si facciano del male da soli): «Nel 2011, per la prima volta in 24 anni, il tasso di suicidio tra adolescenti era superiore al tasso di omicidio sempre fra persone della stessa età».
Naturalmente, precisa Twenge, queste analisi non dimostrano inequivocabilmente che il tempo passato davanti a uno schermo causi infelicità: è possibile infatti che gli adolescenti infelici spendano più tempo in rete e la studiosa, nel proprio articolo, ribadisce che è difficile comprendere con esattezza cosa venga prima e cosa dopo, cioè tracciare con precisione i nessi di causalità. Gli smartphone potrebbero causare la mancanza di sonno che porta alla depressione, o i cellulari potrebbero causare la depressione che porta alla mancanza di sonno. Ma cita un altro esperimento a cui sono stati sottoposti degli studenti del college con un account Facebook che sembra confermare la prima ipotesi, e cioè la sua tesi: per due settimane agli studenti sono stati inviati dei link cinque volte al giorno e loro dovevano rendere conto dello stato d’animo al momento della ricezione e di quanto avessero usato Facebook a partire da quei link. Più avevano usato Facebook, più segnalavano il loro stato d’animo come infelice. Il contrario però non valeva: il sentimento di infelicità non determinava cioè un maggior uso di Facebook.
Twenge scrive che «la depressione e il suicidio hanno molte cause» e che «troppa tecnologia non è chiaramente l’unica». Introduce però un concetto: poiché nell’età degli schermi è tutto documentato, lo è anche ogni occasione di ritrovo o aggregazione. Di conseguenza è aumentato il numero degli adolescenti che si sentono esclusi da quei momenti. Al sentimento di esclusione si unisce poi un’altra preoccupazione: la ricerca costante e ossessiva dell’approvazione tramite commenti, like e cuoricini vari. L’aspettativa dell’approvazione è diventata quotidiana e puntuale e questo genera ansia e un nuovo peso a cui l’adolescente è costantemente sottoposto. Questo vale soprattutto per le ragazze. I sintomi depressivi dei maschi sono aumentati del 21 per cento dal 2012 al 2015, mentre tra le giovani donne sono aumentati del 50 per cento, più del doppio. Twenge parla di una possibile spiegazione che ha a che fare con le modalità con cui i maschi e le femmine esprimono la loro aggressività o le loro reazioni di dissenso: i ragazzi tendono a scontrarsi fisicamente, mentre le ragazze hanno maggiori probabilità di farlo influenzando lo status sociale o le relazioni della persona con cui sono in contrasto in quel momento. I social media offrono quindi alle ragazze uno strumento perfetto su cui mettere in pratica lo stile di aggressione e di dissenso che favoriscono, potendo denigrare ed escludere altre ragazze 24 ore su 24.
Alla fine del suo articolo Twenge dice di rendersi conto che la limitazione della tecnologia potrebbe essere una richiesta irrealistica da imporre a una generazione di bambini e di ragazzini abituati ad essere sempre online, ma raccomanda anche che il semplice invito a un uso più responsabile e moderato della tecnologia potrebbe essere molto più necessario e importante di quanto non si possa pensare.
L’articolo di Twenge ha ricevuto diverse critiche. Su Psychology Today, mensile di psicologia pubblicato negli Stati Uniti, si dice innanzitutto che la studiosa ha scelto di citare solamente le ricerche che supportano la sua tesi e che ha tralasciato invece le indagini che hanno portato a risultati differenti: e che dicono, per esempio, che stare davanti a uno schermo non sia direttamente associato a depressione e solitudine, o che suggeriscono che l’uso attivo dei social media sia legato a risultati positivi come la resilienza. Ci sono poi studi che mostrano come la tecnologia possa sviluppare l’intelligenza, la produttività e la “coscienza ambientale”, e che mostrano come per un adolescente sia fondamentale connettersi con i suoi simili in tutto il mondo per condividere interessi, facendolo sentire incluso in una rete sociale piena di significato. Gli studi ripresi da Twenge si basano poi su metodi correlazionali che indagano cioè la misura in cui due determinati eventi o variabili sono in relazione tra loro. Questi metodi si occupano dunque dell’associazione tra i fenomeni senza stabilire se uno sia la causa dell’altro: lo precisa la stessa Twenge che però, ed è questa la critica, arriva in alcuni punti del suo pezzo a trarre da queste stesse ricerche delle conseguenze definitive.
Gli studi ripresi da Twenge sono poi troppo generali, dice chi la critica: ignorano in gran parte i contesti sociali e le differenze tra quelle stesse persone che stanno cercando di analizzare. L’uso dello schermo e la sua associazione con il benessere psicologico cambia invece in base a una moltitudine di variabili sia di contesto che personali e di questo non viene dato conto. Infine: il bias, cioè le deviazioni dai valori medi che fanno parte delle ricerche citate da Twenge sono scartate o riportate di passaggio come parte irrilevante della tesi che lei intende sostenere. Eppure si dice nel suo stesso pezzo che questa generazione ha il tasso di abuso di alcol, di gravidanze in giovane età, di sesso non protetto, di fumo e di incidenti automobilistici più basso rispetto a quello delle generazioni precedenti. Secondo Psychology Today questa non sembra esattamente la descrizione di una generazione distrutta.
In altri articoli di commento al pezzo dell’Atlantic si dice che è eccessivamente allarmistico e si citano dei dati (per esempio quelli che hanno a che fare con l’indice di felicità degli adolescenti) che o non mostrano una situazione di urgenza o che sono anzi in contrasto con quelli considerati da Twenge. La studiosa pone delle questioni fondamentali, si dice, ed è vero: ma è proprio per questo che è necessario essere molto attenti a trarre le giuste conclusioni. Inoltre, secondo i critici, Twenge non affronta alcune questioni importanti: non cita per esempio il fatto che la diffusione degli smartphone e dei social network ha riguardato negli anni Duemila sì gli adolescenti ma anche le persone più adulte, compresi i genitori di quegli stessi adolescenti.
Si suggerisce dunque di non “incolpare la tecnologia”, ma di cominciare a considerare un’altra spiegazione possibile per la condizione degli adolescenti di oggi: il disimpegno e la distrazione dei genitori stessi o, come è stata definita in alcuni studi di psicologia, la cosiddetta “genitorialità minima”. Questo offrirebbe una spiegazione alla crisi di indipendenza degli adolescenti di cui scrive Twenge. Promuovere l’indipendenza comporta infatti tempo e fatica da parte dei genitori e il lavoro di incoraggiamento a un comportamento positivo è altrettanto importante di quello che ha a che fare con la punizione di un comportamento negativo. Alcuni esperimenti di psicologia mostrano però che quando i genitori sono distratti è proprio l’incoraggiamento a risentirne, più che il controllo.
Su Slate, Lisa Guernsey – che si occupa di politiche educative e nuove tecnologie per il think tank New America – spiega che la strada suggerita da Twenge (togliere gli smartphone ai propri figli e suggerire loro di tornare nel 1985) sembra impossibile da praticare e che, d’altra parte, nemmeno l’atteggiamento del “lasciar fare” sembra essere promettente. Trovare una terza soluzione sembra fondamentale e può significare, tra le altre cose, ampliare le ricerche per avere una maggiore conoscenza dei dati e dei fenomeni e, soprattutto, «parlare con i nostri ragazzi».”

Riorganizzare la speranza

neet

Ho letto su La Stampa l’articolo di Niccolò Zancan su Ernesto Grasso, ventunenne torinese la cui esperienza viene brevemente raccontata come emblema dei Neet, acronimo inglese inventato nel 1999 che sta per Not in employement, education or training. Fa parte di quei “giovani fra i 15 e i 24 anni che non studiano, non lavorano e non stanno facendo percorsi di formazione”: in Italia sono il 19%. Alcune delle sue parole mi hanno colpito “I pomeriggi sono la cosa più difficile. Gioco alla PlayStation. Vado a camminare. Ma non passano mai” […] “Mi sono iscritto a sette centri per l’impiego. Fino a qualche mese fa, ogni giorno andavo al centro commerciale a vedere se mettevano degli annunci. Ho provato all’Ikea, a Leroy Merlin. L’ultimo tentativo è stato per un posto da commesso in un negozio di videogiochi. Non servo. Mi scartano sempre. Dopo un po’, ti chiudi. Ci rinunci. Vivi dentro la tua stanza, aspetti che passi il pomeriggio”…

Nei mesi di maggio e giugno ho letto vari libri di psicologi, psichiatri, antropologi su adolescenti e giovani e ho partecipato a convegni e incontri. In Abbiamo bisogno di genitori autorevoli lo psicoterapeuta Matteo Lancini scrive: “Sostenere la speranza di un futuro possibile è il compito fondamentale di ogni genitore e di qualsiasi figura adulta significativa, impegnata in un ruolo affettivo o professionale con gli adolescenti. Il futuro rappresenta infatti lo spazio e il tempo della realizzazione di sé dell’adolescente, l’ambito dove potranno affermarsi il suo talento e la sua originalità. Se manca questa prospettiva, se l’adolescente si rappresenta senza futuro, in assenza di avvenire, c’è la crisi adolescenziale. Il disagio dell’adolescente dipende soprattutto da questo.” E ancora “gli adolescenti necessitano di un adulto non troppo angosciato, sufficientemente preoccupato e autorevole da restituire loro uno sguardo di ritorno pieno di fiducia e capace di avvicinare le risorse necessarie alla realizzazione di sé in una società davvero complessa. Tutto ciò richiede agli adulti più creatività di quanto ne fosse necessaria in un passato neanche troppo lontano”.

L’articolo citato in apertura di questo post portava questo sottotitolo: “Un giorno con un Neet: gioco alla playstation perché ho smesso di guardare al futuro”. Penso che per dare concretezza al futuro di Ernesto, o di un qualsiasi adolescente la cui visione sul domani sbatte contro un muro, sia necessario lavorare sul presente, sull’oggi (che poi è la stessa cosa che scrive Lancini). E’ proprio la preoccupazione per un domani impossibile da immaginare che impedisce di vivere, apprezzare e abbracciare il presente che diventa quindi a sua volta tempo di frustrazione.
Mi vengono in mente le preoccupazioni e le angosce dei discepoli di Gesù, sempre in ansia. Vedono Gesù placare la tempesta e camminare sull’acqua, ne fanno diretta esperienza (Pietro), vengono sfamati quando pare loro impossibile… Si stupiscono di tutto questo, eppure le preoccupazioni restano. I discepoli temono, Pietro inizia ad affondare, dopo la moltiplicazione e la mangiata a sazietà sono preoccupati per non aver preso i pani… E l’accusa che muove loro Gesù è sempre la stessa: “uomini di poca fede”. La paura blocca la fede, quella che nasce dall’esperienza di un Dio vicino, buono e amorevole, che sa le necessità dell’uomo prima ancora che queste vengano esplicitate (Mt 6,7-8: Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate). Ancora Lancini: “Se si vuole aiutare l’adolescente in crisi bisogna essere in grado di «raggiungere» il ragazzo o la ragazza là dove sono. La clinica dell’adolescente richiede di arrivare alla mente del paziente là dove è, là dove si trova adesso, con un profondo rispetto per come il soggetto prova a gestire l’insopportabile crisi evolutiva, il fatto di vivere in una quotidianità senza prospettive visibili dal suo punto di vista. Su queste basi è possibile costruire un’alleanza con l’adolescente che consenta a noi, e ai suoi adulti di riferimento, di avvicinargli le risorse utili alla ripresa evolutiva, alla scoperta del proprio vero Sé, del proprio talento, come unica possibilità per riorganizzare la speranza e investire in un futuro possibile”.