L’Afghanistan tra Isis e talebani

Prendo dal Post un articolo molto interessante di Elena Zacchetti sullo scontro che si sta sviluppando in Afghanistan tra talebani e Isis e sui possibili (nefasti) esiti.

“Negli ultimi due mesi e mezzo, da quando Kabul è stata conquistata dai talebani, in Afghanistan si è intensificata una rivalità pericolosa e a tratti poco comprensibile, vista da qui: quella tra i talebani e l’ISIS, due gruppi sunniti estremisti, considerati terroristici da molti paesi occidentali, che condividono l’obiettivo di costruire un qualche tipo di stato islamico basato su un’interpretazione molto rigida della sharia (la legge islamica). È una rivalità che arriva da lontano e che si sta mostrando in tutta la sua violenza tramite attentati – come quello di martedì a un ospedale di Kabul –, esibizione di cadaveri per le strade e uccisioni “extra-giudiziali”, cioè omicidi compiuti o autorizzati da un’autorità statale senza essere preceduti da un procedimento giudiziario.

I rapporti tra i due gruppi sono entrati in «una nuova fase», ha scritto il sito specializzato War on the Rocks, iniziata dopo il ritiro dei soldati statunitensi dall’Afghanistan e che «sarà quasi certamente sanguinosa e violenta».

Si parla di «nuova fase» perché questa inimicizia in Afghanistan non è una cosa nuova. Iniziò a svilupparsi nel 2015, cioè fin dalla nascita dell’ISIS-K (o Provincia del Khorasan dello Stato Islamico), che in maniera un po’ approssimativa si può definire la divisione afghana dello Stato Islamico.

Già allora (ma anche oggi) i talebani erano alleati con al Qaida, grande organizzazione sunnita che si contendeva con l’ISIS la supremazia del mondo jihadista globale, e già allora ISIS e talebani avevano differenze ideologiche significative. Mentre l’ISIS-K, così come il nucleo principale dell’organizzazione (poi sconfitto in Iraq e in Siria), auspicava la creazione di un Califfato islamico esteso oltre i confini di un unico stato, i talebani avevano obiettivi più locali: volevano riconquistare il potere in Afghanistan e imporre un’interpretazione radicale della sharia dentro i confini nazionali. L’ISIS accusava inoltre i talebani di essere «apostati» per adottare posizioni troppo morbide nell’applicare le norme dell’Islam; i talebani sostenevano che l’ISIS fosse un gruppo estremista eretico.

Con il ritiro dei soldati americani, e con il rapido sgretolamento delle forze di sicurezza afghane, lo scorso agosto i talebani sono riusciti a riconquistare l’Afghanistan e allo stesso tempo si sono aperti nuovi spazi d’azione per l’ISIS-K, che ha approfittato fin da subito della nuova instabilità, oltre che delle evasioni di massa dalle carceri afghane che si sono verificate durante la presa di Kabul. In quei giorni confusi di metà agosto erano stati infatti liberati migliaia di detenuti, tra cui molte persone accusate di terrorismo e di essere affiliate all’ISIS.

L’inizio di una «nuova fase» si era già visto già lo scorso 26 agosto, quando l’ISIS-K aveva ucciso quasi 200 civili afghani radunati fuori dall’aeroporto di Kabul nel tentativo di salire a bordo di uno degli aerei impegnati nelle operazioni di evacuazione di stranieri e afghani da Kabul.

Nelle settimane successive l’ISIS-K ha compiuto numerosi attacchi sia nelle zone del paese dove la sua presenza è considerata più solida, come la città di Jalalabad (nell’est), sia in aree che fino a quel momento erano state abbastanza fuori dal suo raggio d’azione, come le città di Kandahar e Kunduz.

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Le maggiori violenze si stanno verificando proprio nella provincia di Nangarhar (in rosso nella mappa), dove si trova Jalalabad e dove da settimane sembra essere in corso una specie di guerra segreta ed estremamente cruenta.

Secunder Kermani, inviato di BBC a Jalalabad, ha raccontato quello che sta succedendo in città e le estese violenze di cui sono testimoni gli abitanti locali. Kermani ha scritto che quasi ogni giorno corpi di persone uccise vengono trovati ai lati delle strade, «alcuni colpiti da spari o impiccati, alcuni decapitati. Molti hanno biglietti scritti a mano nelle tasche che li accusano di essere membri della divisione afghana dello Stato Islamico». Nessuno sta rivendicando gli omicidi e molti ritengono che si tratti di uccisioni extra-giudiziali compiute dai talebani contro persone sospettate di far parte dell’ISIS-K: «I due gruppi hanno iniziato una guerra sporca e sanguinosa. Jalalabad è il fronte di questa guerra», ha scritto Kermani.

Il sospetto deriva anche dal fatto che a capo dei servizi di intelligence della provincia di Nangarhar c’è un uomo conosciuto con il nome di Dr Bashir, che già in passato aveva combattuto e sconfitto l’ISIS e che si era fatto una reputazione di grande ferocia e violenza. Dr Bashir ha negato di essere coinvolto nelle molte uccisioni delle ultime settimane e ha sostenuto che i talebani non abbiano motivo di preoccuparsi per la presenza dell’ISIS in Afghanistan.

Nonostante le affermazione di Dr Bashir, sembra che l’ISIS stia riuscendo a ottenere qualche successo e a mettere in difficoltà il nuovo governo talebano, per esempio attaccando la minoranza degli Hazara, di orientamento sciita, a lungo perseguitata in Afghanistan ma con cui ora i talebani stanno cercando di costruire rapporti pacifici. Avinash Paliwal, vicedirettore del SOAS South Asia Institute dell’Università di Londra ed esperto di Afghanistan, ha detto al Financial Times che questi attacchi compiuti dall’ISIS-K «esacerberanno una faglia settaria che non è nell’interesse dei talebani che si infiammi davvero», e ha aggiunto che «la violenza aumenterà e sarà un “tutti contro tutti”».

Con i suoi attentati, l’ISIS sta provocando anche un’erosione di fiducia della popolazione afghana nei confronti dei talebani e della loro capacità di riportare la pace e la sicurezza nel paese. Per anni, infatti, i talebani avevano sostenuto di essere l’unico gruppo in grado di stabilizzare l’Afghanistan. Le cose però si stanno dimostrando più complicate di quanto avessero previsto i leader del gruppo, anche perché i comandanti talebani locali stanno avendo parecchie difficoltà a contrastare le tattiche terroristiche e di guerriglia adottate dall’ISIS.

È difficile prevedere come si svilupperà la rivalità tra i due gruppi, e con che livello di violenza.Il timore, ha scritto War on the Rocks, è che la divisione afghana dell’ISIS provi a diventare ancora più attiva ed efficace reclutando combattenti talebani delusi dal nuovo regime, che in un certo senso sta cercando di ottenere legittimità a livello internazionale collaborando con diversi paesi e diventando allo stesso tempo più attaccabile dalle frange più radicali ed estremiste. Con il ritiro degli americani e delle forze della NATO, inoltre, l’ISIS-K è ora in grado di concentrare tutte le sue forze direttamente contro i talebani, compiendo attacchi ancora più frequenti e violenti rispetto al passato”.

Giù

Sto leggendo, ascoltando e guardando notizie, immagini, video cha arrivano dall’Afghanistan. Fa male e per questo ho deciso di non mettere nulla qui sul blog di quanto visto: ho preferito un quadro nero. Lascio spazio alle parole che il giornalista Toni Capuozzo ha scritto sul suo profilo fb: “Prima accompagnano l’aereo , un corteo disperato e festoso. Qualcuno riesce ad aggrapparvisi. Ci sono delle immagini che non se ne vanno più. Dell’11 settembre, visto e rivisto, non sono, nel mio album, quelle degli aerei che si conficcano nelle torri. Ho comprato, a New York, il libro che raccoglie le storie di ogni vittima. Ma non è quello che si apre, nei miei ricordi. E’ un libro di letteratura, un romanzo. “Molto forte, incredibilmente vicino”. E’ la storia di Oskar, orfano di un padre ucciso nel crollo delle torri gemelle. Nel libro ci sono le fotografie delle persone che si lanciarono dagli ultimi piani. Il bambino le scorre all’indietro – come facevamo noi da bambini con certi libriccini – come se fosse possibile tornare indietro nella storia, far risalire agli ultimi piani quelle silhouette nere, che scivolano per sempre lontano. E’ quella l’immagine che non cancellerò mai: il tempo di caduta, la scelta di morire per mano propria, piuttosto che soffocare nel buio…… oggi a Kabul altre figurine…. si erano aggrappati ai portelloni di un aereo in decollo. Quando i portelloni si sono chiusi, sono precipitati. Il tempo di caduta, l’ignoranza del volo aereo, la scelta di morire così, non lo so. Ma nella grande mappa delle vittorie e delle sconfitte, nel mappamondo della geopolitica, resteranno queste piccole tracce nere.”

Gemme n° 480

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La mia gemma è il libro «Mille splendidi soli»: mi ha fatto molto riflettere sulla situazione delle donne protagoniste, sottomesse agli uomini del regime talebano. Nonostante io sia una persona che si lamenta di continuo, penso a loro e alla loro situazione e penso che le mie siano stupidaggini. L’altro aspetto che voglio sottolineare è che in una storia di dolore, violenza e sofferenza possono nascere amicizie e amori: anche dalle cose tragiche possono nascere cose belle.” Con queste parole A. (classe quarta) ha presentato la sua gemma.
Ecco uno dei passi in cui si descrive la situazione delle donne: “Donne, attenzione: Dovete stare dentro casa a qualsiasi ora del giorno. Non è decoroso per una donna vagare oziosamente per le strade. Se uscite, dovete essere accompagnate da un mahram, un parente di sesso maschile. La donna che verrà sorpresa da sola per la strada sarà bastonata e rispedita a casa. Non dovete mostrare il volto in nessuna circostanza. Quando uscite, dovete indossare il burqa. Altrimenti verrete duramente percosse. Sono proibiti i cosmetici. Sono proibiti i gioielli. Non dovete indossare abiti attraenti. Non dovete parlare se non per rispondere. Non dovete guardare negli occhi gli uomini. Non dovete ridere in pubblico. In caso contrario verrete bastonate.” Una delle conseguenze? “L’amore era un errore pericoloso e la sua complice, la speranza, un’illusione insidiosa.” La negazione dell’essere umano.

Finestra sull’Isis, anzi sul Daesh

Un’interessante intervista di Francesca Miglio al professor Filiu, insegnante di Studi Mediorientali, pubblicato PARIS: emission "Ce soir ou jamais" sur France 3qualche giorno fa su Oasis.

Qual è il rapporto tra Isis e Paesi del Golfo? È possibile rintracciare i flussi di finanziamento diretti verso l’Isis?

Innanzitutto è importante chiamarla Daesh, con l’acronimo arabo (al-dawla al-islâmiyya fi l-‘Irâq wa l-shâm, Stato Islamico di Iraq e Siria), e chiarire che non si tratta di uno stato ma di una macchina del terrore. Per quanto riguarda la domanda su chi lo sostiene economicamente, c’è un’incomprensione di fondo. Si cerca sempre di cogliere la logica del fenomeno rintracciandone l’origine nell’aspetto finanziario, illudendosi che bloccare la fonte possa esaurire anche il fenomeno. Questo non è del tutto sbagliato, ma bisogna ricordare che la lotta finanziaria contro il terrorismo non è servita a molto neppure in passato, al tempo di al-Qaeda, quando questo tipo di approccio aveva finito per finanziare i burocrati che lavoravano sugli aiuti monetari al terrorismo. Per questo non credo che possa avere un grande effetto su Daesh. Quest’idea inoltre ha impedito di porsi le domande giuste e Daesh è stato erroneamente identificato con il Golfo. Ma Daesh non è il Golfo, è il mondo, è un fenomeno globale. Daesh rappresenta oggi l’organizzazione terroristica più ricca: i proventi del petrolio locale le permettono di autofinanziarsi e conta su un budget che va da uno a due miliardi di dollari. È Daesh che può finanziare più che farsi finanziare. Se si vogliono individuare i flussi di denaro, questi sono rintracciabili perlopiù verso singoli individui.

Daesh è un fenomeno nuovo o si colloca nel solco di altri movimenti terroristici?

Sono ormai più di venticinque anni che studio i movimenti jihadisti e non ho mai avuto così tanta paura. La mia paura è ragionevole, ragionata e ben argomentata. Solo per dare un’idea: Daesh ha un esercito di circa trentamila partigiani armati, senza parlare del supporto politico, mentre nel 2001 al-Qaeda ne aveva meno di un migliaio; oltretutto hanno un budget da cinquecento a mille volte superiore a quello a disposizione degli attentatori dell’11 settembre. La base dell’organizzazione si situa in un crocevia strategico, che risuona simbolicamente a tutti i musulmani, al contrario di al-Qaeda che stava in periferia, in Afghanistan. Ciò che più mi rende inquieto è che spesso si cerca di analizzare Daesh come se fosse al-Qaeda, ma il nuovo arrivato è senza dubbio più pericoloso. C’è tuttavia una filiazione evidente tra i due gruppi terroristici per due aspetti in particolare. Il primo è sui nessi tra terra e jihad: il jihad non è condotto per liberare o conquistare un territorio preciso, ma per il jihad stesso. Qui non si tratta di Islam, stiamo parlando di qualcos’altro, questa è una religione del jihad. È la setta del jihad. Era vero per al-Qaeda ed è vero per Daesh. Il secondo aspetto è che per progettare il jihad ci vuole una base solida. La “base” è appunto il significato di al-Qaeda; ora essa è il Califfato per Daesh. E il jihad che progetta, a mio parere, ha come obiettivo l’Europa.

Che cosa spinge numerosi combattenti a unirsi a Daesh? Molti di questi provengono dall’Europa e spesso non hanno un background religioso o etnico comune.

Quello che sta succedendo in Iraq non ha niente a che vedere con l’Islam, come ho già detto si tratta di un’altra religione. Le persone entrano a far parte dei ranghi di Daesh come se si convertissero a una religione, sia perché non ne avevano una propria in precedenza, sia perché, provenendo da una famiglia musulmana, abbandonano l’Islam dei loro genitori, famiglie, culture per volgersi a un presunto “vero Islam” che in realtà è una nuova religione. Non credo quindi che si possa comprendere il fenomeno solamente da un punto di vista musulmano. Daesh parla a dei giovani ribelli, “in rottura”, presenti nel mondo intero, non solo in Europa e nei paesi arabi, ma anche in Australia, Singapore, Canada… Olivier Roy ha fatto un paragone molto giusto, a mio avviso, tra quanto succede in Iraq e i movimenti di estrema sinistra degli anni ’60 e ’70. Daesh attrae una frangia che è già radicale. Non ci si radicalizza per mezzo di Daesh, lo si è già in partenza. L’Islam è l’Islam. Daesh è un’altra cosa.

Nel suo acronimo Daesh fa riferimento alla Grande Siria, Sham, che comprende anche Giordania, Libano e Palestina. Che percezione hanno questi Paesi di Daesh?

Sono preoccupati tanto quanto noi. Il significato di Sham si trova nelle profezie apocalittiche. Nel mio libro L’apocalisse nell’islam (2011) viene già descritta la roadmap di Daesh. In alcuni racconti della fine dei tempi, il territorio di Sham è soprattutto il luogo della “grande battaglia” della fine dei tempi. Noi percepiamo quanto sta avvenendo come la semplice espansione di un califfato, ma per loro siamo alla vigilia della fine dei tempi, per questo le persone aderiscono così numerose, perché sono convinte che la fine è vicina. Se non partecipano alla grande battaglia, perdono. Ma se partecipano nello schieramento giusto, vincono, guadagnano tutto e saranno i migliori musulmani per l’eternità. Il territorio di Sham va dunque visto come il posto in cui avverrà la fine del mondo. Secondo questa tradizione, la grande battaglia sarà a Dabq, a nord di Aleppo, dove i bizantini (Rûm), ovvero gli occidentali, schiereranno il loro esercito contro quello dello stato islamico proveniente da Medina, ovvero Mossul, dove ha sede il califfato appunto. Un terzo dei combattenti morirà, un terzo si arrenderà e l’ultimo terzo avrà la vittoria e sarà considerato giusto nella fede. La dichiarazione secondo cui Daesh vorrebbe arrivare a Roma è in realtà una traduzione sbagliata: dicono Costantinopoli, la nuova Roma, la città dei Rûm. Noi abbiamo tradotto Roma, ma la città dei Rûm può essere Roma così come Parigi, Madrid o New York. Nella tradizione la città dei Rûm dovrà essere conquistata. Non è quindi una questione di conquistare questo o quel Paese, ma di avanzare, perché avanzando le profezie si realizzano. Perciò vanno fermati.

Ritiene che la reazione occidentale sia efficace per combattere il fondamentalismo di Daesh? Non rischia di generare sostegno al califfato da parte di altri gruppi jihadisti?

La reazione dell’Europa e degli Stati Uniti è stata sbagliata per due ragioni. Innanzitutto hanno pensato che il problema potesse essere risolto interrogandosi sulle ragioni che spingono i volontari a partire per la Siria. Certamente è importante domandarselo, a scuola, in carcere, nei tribunali, ma l’idea che per capire Daesh si debba guardare all’Europa e alle sue istituzioni è già fare il gioco di Daesh. La risposta è laggiù, ma noi occidentali non l’abbiamo ancora voluto capire, perché non abbiamo capito completamente la rivoluzione siriana. Non era una guerra tra tribù o comunità, ma la creazione di un nuovo ordine. Dalla storia passata sappiamo che quando una rivoluzione ha successo non è sempre tutto perfetto, ma quando essa è soffocata, quello che ne risulta è anche peggio. L’insuccesso della rivoluzione ha favorito Daesh e Assad contro la rivoluzione. In Siria il punto è che Assad ha usato e sta usando Daesh contro la rivoluzione stessa. Oggi si crede, gli americani in primis, che si possa lottare contro Daesh senza lottare contro Assad e il risultato è che Daesh non è mai stata così forte. Abbiamo sbagliato e la chiave si trova in Siria: deve essere applicata una vera politica sulla rivoluzione siriana e non soltanto su Daesh. E qui diventa necessaria una reale collaborazione con la Turchia, che sa meglio di ogni altro come lottare contro questa minaccia.

Come interpreta l’ideale della costruzione di uno “stato islamico” nel panorama dei movimenti islamisti?

Daesh non costruisce niente, è una banda che non produce nulla. Anche la sua costituzione elaborata tra il 2006 e il 2007 non è altro che una serie di divieti. È un’organizzazione che si è estesa su un territorio e quindi si trova a dover gestire milioni di persone, a differenza di al-Qaeda. Quest’ultima era sottomessa ai talebani e l’amministrazione era in mano ai talebani. Le persone che hanno negoziato a proposito dei Budda in Afghanistan hanno trascorso settimane senza sapere dove fosse il centro del potere, proprio perché in effetti era un’organizzazione e non uno stato. Quando mi trovavo ad Aleppo la gente parlava di dawla (stato), non dicevano “Daesh”, allo stesso modo in cui si dice nizâm (regime) parlando di Assad. Tutti sanno che il nizâm di Assad è unicamente la repressione. Per Daesh l’introduzione dell’idea di stato non indica affatto un’evoluzione ideologica, significa soltanto che Abu Bakr al-Baghdadi vuole essere il signore indisturbato delle zone che controlla. Le uniche zone omogenee in Siria sono il nizâm di Assad e Daesh: la dimensione totalitaria conta più di quella statale.

Alcuni media e alcuni intellettuali dicono che si tratta di un complotto. Cosa ne pensa?

Parlando da storico, è interessante notare che si pensa quando si fa la rivoluzione, mentre quando questa finisce, non si pensa più e si immaginano cospirazioni e complotti. La rivoluzione è razionale; durante la rivoluzione non si parla mai della fine dei tempi, ma se ne parla in continuazione durante la contro-rivoluzione. Naturalmente ci sono domande irrisolte su Daesh, in particolare come mai Abu Bakr al-Baghdadi sia stato imprigionato dagli americani, secondo il Pentagono nel 2004, secondo il capo della prigione nel 2005-2009; non si sa perché non c’è stato un processo o un’inchiesta… Tuttavia coloro che credono alla cospirazione non capiscono una cosa che gli storici conoscono bene: l’immensa stupidità degli uomini. Molte cose si spiegano più per la stupidità, l’incompetenza e la mancanza di coordinazione che per la volontà di manipolare. Gli americani non controllano più niente. Non dico che sia una notizia buona o cattiva, dico solo che ci sono molte persone, in Medio Oriente e altrove, che continuano a pensare che gli americani controllino tutto e interpretano i fatti a partire da questo presupposto. Nel mondo arabo la dietrologia è frequente e il luogo dove si crede di più alla teoria del complotto è l’Egitto. Qui si arriva a spiegare che i Fratelli Musulmani, così come Daesh, sarebbero una creazione degli americani. Ma è ora di finirla con questa logica.”

Vittoria o sconfitta?

Mi sono preso una pausetta dal blog per una serie di impegni personali (sistemazione giardino, casa, anniversari, battesimi, caldo…). L’ultimo post che ho messo venerdì è sull’Afghanistan. Ecco che ho appena letto su Limes questo articolo di Francesca Marino che dà fondamento geopolitico e cronicistico alle paure della cantante Aryana Sayeed: un intreccio in cui sono coinvolti soprattuttoAfghanistan, Usa, Pakistan, India, Iran.

“L’apertura dell’ufficio dei Taliban a Doha ha ottenuto il solo effetto di “fare apparire i Taliban più forti, gli americani disperati e rendere furibondo Karzai”. A sintetizzare così la vicenda dai contorni ormai tragicamente farseschi è Kate Clark, rispettata analista del think-tank Afghanistan Analyst Network. E non è la sola a pensarla così. È opinione quasi unanime, difatti, che a beneficiare dall’apertura dell’ufficio e dagli eventuali colloqui sia una parte sola, che politicamente ha già di fatto vinto: i Taliban. Dopo 12 anni di guerra il mullah Omar e soci si ritrovano ad aver decisamente vinto sul campo, checché ne pensino gli americani e le forze Nato, e a beneficiare della ritirata strategica travestita da vittoria inscenata da Washington. Il riconoscimento politico implicitamente ottenuto a Doha, nonostante la Casa Bianca abbia decisamente negato che di ciò si tratti, ha proiettato sulla scena internazionale i Taliban come parte legittima del cosiddetto ‘processo di riconciliazione nazionale’ . L’etichetta di ‘terroristi’ che ha per anni giustificato l’occupazione militare dell’Afghanistan è stata di fatto cancellata. In pratica, impantanata ormai da troppo tempo tra i monti e i complessi meccanismi sociali e politici dell’Afghanistan, Washington ha deciso di ricorrere alla teoria del buon vecchio Kissinger elaborata ai tempi della debacle vietnamita. Dichiarando vittoria a Kabul, dove l’Occidente ha portato democrazia e libertà, annunciando di conseguenza il ritiro delle truppe ormai inutili dell’operazione Enduring Freedom e sponsorizzando un processo di ‘riconciliazione nazionale’ nel travagliato paese.

Traduzione: riportando nelle intenzioni i Taliban al governo a Kabul all’interno di ‘un processo democratico’. I colloqui di pace con mullah Omar e compagni sono, secondo Washington e secondo alcuni analisti, un passo fondamentale per assicurare la definitiva pacificazione del paese. Le trattative, condotte segretamente da un paio d’anni, sono infine sfociate nell’apertura dell’ufficio di Doha come sede dei colloqui a cui dovrebbero 1-3792-989c5-3-d4703.jpgpartecipare gli Usa, il governo afghano e gli stessi Taliban. L’ufficio di Doha è stato aperto giorni fa tra le fanfare dei media di tutto il mondo ma, non appena le immagini hanno cominciato ad apparire sugli schermi televisivi, a Karzai è venuto un colpo apoplettico: sull’edificio, moderatamente lussuoso, sventolava la bandiera del governo dei Taliban e la targa d’ottone all’ingresso recitava: “Emirato Islamico dell’Afghanistan”. Come se si trattasse, e di fatto si trattava, dell’ambasciata di un governo in esilio. Il governo dei Taliban, appunto, quello guidato dal Mullah Omar e compagni. Kabul si è affrettata a rilasciare dichiarazioni di fuoco, ritirandosi dai colloqui fino a quando la bandiera dei Taliban e la targa fossero rimaste al loro posto. Dal punto di vista di Karzai, il ragionamento non fa una piega: la legittimazione di fatto dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan delegittima il governo di Kabul, eletto in modo più o meno democratico sotto l’occhio benedicente dell’Occidente tutto. Il presidente dichiara inoltre che i colloqui devono essere condotti dal governo democratico dell’Afghanistan, sottolineando che Washington ha mancato agli accordi presi in via preventiva con il suo esecutivo. Dopo frenetiche trattative e lunghe telefonate tra Washington e Kabul e Washington e Doha, i Taliban hanno accettato di ammainare la bandiera: prima per finta, tagliando l’asta a metà in modo che non si vedesse da fuori. Poi davvero, minacciando però di ritirare la loro disponibilità ai colloqui. Dopo un lungo braccio di ferro, i Taliban hanno infine ottenuto ciò che volevano: intavolare trattative dirette con gli Usa e non con Karzai, che disprezzano perché lo considerano un “burattino di Washington”. Non solo: hanno ottenuto di arrivare al tavolo delle trattative senza condizioni. Non hanno deposto le armi, non si sono dissociati dalle posizioni di al Qaida, non si sognano neanche di rinunciare all’uso della violenza, prova ne sia che lo stesso giorno dell’apertura dell’ufficio di Doha hanno ucciso 4 americani a Baghram. Si sono limitati a generiche quanto ambigue dichiarazioni sulla “rinuncia a usare l’Afghanistan come base per attacchi verso altri paesi” e ad aderire al processo di riconciliazione nazionale qualora i colloqui si dimostrino fruttuosi. Inutile ricordare qui che i Taliban non hanno mai attaccato altri paesi. Da Doha, forti della vicinanza fisica oltre che politica ormai dei loro principali sponsor, fanno sapere che gli Usa hanno mancato agli accordi presi alla vigilia e che l’uso della famosa bandiera e della targa era stato concordato con Washington. Che a sua volta cerca di fare la voce grossa riuscendo però soltanto ad apparire sempre più disperata. L’inviato speciale per l’Afghanistan Dobbin vola a Doha ufficialmente per incontrare John Kerry e le autorità del Qatar. John Kerry, che ufficialmente era a Doha per incontrare i ribelli siriani e non i Taliban, minaccia a sua volta la chiusura dell’ufficio-ambasciata se i colloqui, come sembra al momento, non cominceranno davvero.

Al tavolo delle trattative, però, c’è un altro giocatore, nemmeno tanto occulto: il Pakistan. L’annuncio che i Taliban potrebbero ritirare la loro disponibilità ai colloqui viene infatti dato per telefono da un portavoce che parla da Quetta, in Baluchistan. Non è un segreto, d’altra parte, che Islamabad tiene sottochiave (o meglio, sotto protezione) da qualche anno i Taliban disposti a intavolare trattative dirette con Kabul. Il mullah Baradar in testa, arrestato si dice perché aveva cominciato a parlare con il fratello di Karzai. Il governo afghano domanda al Pakistan il rilascio dei Taliban prigionieri, ma Islamabad fa sapere, per via più o meno ufficiosa, che Baradar è più utile da prigioniero che a Doha e che ha giocato un ruolo fondamentale nel convincere i suoi compagni a partecipare ai colloqui e a far sedere al tavolo delle trattative anche i rappresentanti del network Haqqani, fino a ieri odiatissimo dagli Usa. D’altra parte, gira voce che trattative personali e segrete tra John Kerry e Kayani (il capo di Stato maggiore dell’esercito pakistano), per una volta tanto d’accordo sulle reciproche convenienze, hanno fatto ottenere al Pakistan la posizione strategica giudicata fondamentale: il processo di riconciliazione dovrà passare per Islamabad, che riuscirà così ad assicurarsi un certo numero di posti chiave nel governo di Kabul all’indomani dell’abbandono delle truppe americane. Queste stanno attualmente trattando con Karzai, e probabilmente anche con Islamabad, l’ottenimento di un certo numero di basi permanenti nella regione. Il fatto che sia il Pakistan, alla fine, a gestire le trattative non fa piacere a Karzai e preoccupa non poco l’India. Delhi non ha nessuna intenzione di vedere ancora una volta a Kabul i pupilli dell’Isi e dell’esercito pakistano. Intanto Tayyeb Agha, che guida le trattative per conto del mullah Omar, è volato in Iran per rassicurare Tehran sulla sicurezza degli sciiti hazara nel momento in cui i Taliban rientreranno al governo. E rilascia dichiarazioni che fanno intuire un ammorbidimento delle posizioni nei confronti dei diritti delle donne. Non gli crede nessuno, ovviamente, men che meno i cittadini afghani, ma tutti fanno finta di credergli. La farsa continua e i cittadini pakistani e afghani aspettano, con una buona dose di cinismo mista a disperazione, la comica finale.”

La morte come privilegio

aryana-sayeed-kareena-kapoor-32860123-640-960.jpgSul Corriere di oggi Lorenzo Cremonesi racconta la paura di Aryana Sayeed, cantante afghana, che teme, all’uscita dell’esercito statunitense dal suo paese, il ritorno dei talebani e delle loro regole rigide e asfissianti: “Ma ve ne rendete conto? Rischiamo di tornare ai tempi della musica vietata, delle donne che non vanno a scuola, della gente arrestata se canta per la strada! Una tragedia per tutto l’Afghanistan. E un mio problema personale. I talebani al potere mi daranno la caccia. Non potrò lavorare. Dovrò tornare in esilio … E’ un errore dare credito ai talebani. Appena la coalizione internazionale se ne sarà andata si rimangeranno qualsiasi promessa e torneranno a imporre la loro folle teocrazia islamica”. Già oggi il clima attorno a lei si sta facendo pesante: “Da circa un anno mi mandano messaggi minatori. Mi hanno accusato di corrompere i giovani e le donne. Così non ho una dimora fissa. Viaggio di continuo tra Londra e Kabul. Ogni volta sto in una lodge diversa. E non so proprio come andrà a finire. Nel 2014 le truppe Nato-Isaf dovrebbero andarsene. Ma non credo che i nostri soldati siano in grado di rimpiazzarle”. Sta componendo una nuova canzone: “Ho un tal numero di sofferenze che la morte mi sembra un privilegio. Sono un peso per mio figlio, una schiava come moglie e un fardello come sorella”.

Cercavo taumaturghi erranti

Un articolo di quelli che raccontano di umanità altre, così distanti dalla nostra quotidianità. E’ di Monika Bulaj, l’originale è qui.

Ho incontrato la donna kamikaze un giorno di sole e di polvere, in un piccolo santuario,kamikaze-donna.jpg oltre una piccola porta di legno, in una strada che non saprei ritrovare nel labirinto della vecchia Kabul. Mi si è avvicinata tra una folla di donne, accanto al sarcofago di un santo, una tomba di marmo coperta di tessuti con scritture dorate. Da quel momento non ho avuto pace, lei mi segue ancora nel pensiero. Non so se sia viva o morta. Le sfuggo e la cerco, mi spaventa e mi attrae. La ritrovo negli sguardi di tante donne in Afghanistan. Immagino la sua ombra magra, allucinata, sgomitare nelle strade intasate, infilarsi tra i carretti e il filo spinato, saltare sugli autobus in partenza infilandosi tra le porte appena socchiuse. È successo dopo mesi di viaggio dal confine dell’Iran a quello cinese sulle nevi del Pamir, un viaggio compiuto da sola, affidandomi al buon senso della gente del posto ed evitando con cura i luoghi pattugliati dai militari. Cercavo luoghi sacri, taumaturghi erranti, nomadi e storie di donne, e in quella porticina che dà sulla strada della vecchia Kabul vedo entrare donne, fagotti plissettati che vanno sotto il nome di burqa. La soglia è piccola, devo chinarmi, l’ambiente è soffocante ma si riempie di altri corpi ancora. Dentro è penombra ma fuori il sole è allo zenith, i muezzin chiamano alla preghiera di mezzogiorno. L’ora in cui Kabul respira di sollievo. L’incubo quotidiano è finito. Qui i kamikaze si fanno esplodere al mattino. Lo fanno per arrivare in paradiso all’ora di pranzo, in tempo per banchettare col Profeta. Sono vestita all’afgana, ho una veste lunga e nera, col velo che copre i capelli ma lascia libero l’ovale della faccia. Sotto ho il mio taccuino e la mia Leica. Non oso toccarli. Le donne mormorano preghiere, scoprono i volti bruciati dal sole d’alta quota, si tolgono il burqa, mostrano bellezza e sofferenza, si cercano, si toccano, liberano tra loro una complicità sensuale. Poi, dopo qualche minuto, una bambina col velo bianco, la divisa della scuola, mi nota, tocca il mio viso e si mette a piangere. «Perché piangi?» le chiedo in lingua dari. «Perché sei straniera e porti il velo, come noi». È allora che la diga si rompe, la voce corre, sono una cristiana che ama l’Islam, e tra le altre donne si innesca una reazione a catena fuori misura. Il mio corpo è già reliquia, vi strisciano contro, lo baciano, vi depongono caramelle e banconote per santificare qualcosa di loro e poi infilarsela nelle tasche o nei reggiseni. Cercano barakà, la benedizione, perché sono un’ospite e mi sono fidata. Piangono, asciugano le lacrime, si soffiano il naso nei burqa, mi infilano le dita inanellate nei capelli, mi sfiorano la guancia col dorso delle mani. Una di loro esige da me la grazia speciale di avere figli. Come in un sogno. Sono in ostaggio, ma non mi oppongo, mi affido. Sono in imbarazzo, ma sorrido. Tutto quello che ho cercato in mesi di lavoro mi piomba addosso all’improvviso. Dal ruolo di testimone invisibile a quello, non voluto, di protagonista al centro di un culto. “Volevi gli uomini di Dio? Guaritori erranti? Donne in estasi?” chiedo a me stessa quasi ad alta voce. “Eccoti accontentata…”. Credendo che io stia pregando le donne alzano le mani al cielo. Tra le tante che mi stanno addosso ce n’è una che non sorride né piange. Il suo velo è buttato senza cura sopra i capelli maltinti di hennè. Un corpo magro, le sopracciglia accentuate da un segno maldestro di kajal. Cerco di sottrarmi al suo contatto fisico. Ma lei mi stringe verso il muro, come per isolarmi dalle altre e si sbottona il vestito per mostrarmi qualcosa. Mi aspetto una ferita, e invece vedo il suo corpo magro impacchettato in una maglia di cilindri verticali legati da fili elettrici. Non capisco, forse non voglio capire. Penso alle armi di un agente segreto, all’autodifesa di una donna più emancipata. Ma le cose che ha intorno alla pancia non sono pistole, è dinamite. Sembra un’insegnante delle elementari invecchiata troppo presto. Quanti anni avrà: trenta? Cinquanta? Da dove viene? Dove sta andando? Perché mostra proprio a me la sua macchina di morte? Fingo di non aver capito. Le chiedo: «Dove sono i tuoi figli?». Il modo con cui volta la testa mi gela. Vuol dire che non ne ha più. Forse sono morti. Smetto di chiedere. Le domande si fermano sulle labbra. Ho paura, guardo altrove. Dico a mia volta:«Man se farzand daram », ho tre figli maschi. È la frase che meglio mi protegge in questo Paese. Il mio mantra, il mio lasciapassare, il mio elmetto in kevlar, la mia personale guardia del corpo. La donna che fa figli maschi qui è una donna vera, rispettata. Nella valle di Khost, durante un matrimonio, mi hanno quasi festeggiata per questo. Ora la pelle della donna è sudata, pallida, gli occhi sono folli, stanchi, freddi, asciutti. Sento il suo gomito ossuto, i muscoli duri delle cosce. La guerra ha portato a questo. La morte è un affare fiorente in Afghanistan. La carne umana è in vendita, diventa arma che si fa esplodere. Stragi a opera di kamikaze. Rapimenti di bambini e di adulti sospettati di avere risparmi. Omicidi su richiesta. «Duemila dollari – mi hanno detto amici afgani – sono la tariffa per uccidere qualcuno, e tutti sanno come trovare un sicario». Anche i kamikaze fanno lo stesso, per comprare la casa alla famiglia o saldare un debito. Economia di guerra, non martirio. Sento ogni fibra del mio corpo e ho la certezza incosciente che non accadrà nulla. Eppure temo che le parole possano svegliare qualcosa, far tremare la corda di un nervo, spezzare il filo della sua follia. Così cerco di esprimere uno sguardo indifferente per sorvolare la sua faccia piatta piena di rughe, le mezzelune nere delle unghie, la cintura sfatta della borsetta, l’odore del sapone e l’acido del suo respiro. Intorno le altre donne non si sono accorte di nulla. Continuano a ignorare il santo per guardare me, affascinate, piangendo. Esco a fatica. Lei mi segue, mi aderisce come un’ombra. Fuori, una barriera di burqa in nylon con macchie di respiro all’altezza delle labbra. Anche queste mi stringono. «Guardatela- dice una di loro – una issawì che ama l’Islam! Una haredzì che ama l’Afghanistan!». Issawi vuol dire “seguace di Issa”, il Cristo. Haredzi significa straniero. Ecco, io sono questo per loro. Infedele e straniera, eppure ho una faccia, odore, occhi, voce. Sono occidentale, eppure non sono chiusa in un blindato, non sto dietro il mirino di un mitra. Mi allontano senza salutare, come per dire “non c’ entro”, “non c’ero”. Non dico nemmeno “Khoda Hafez”, che Dio si ricordi di te, l’arrivederci degli afgani. Ma lei mi segue. Cammino lentamente per comunicare una tranquillità che non ho, lo faccio con passi lunghi, per seminarla. Ne esce una camminata abnorme. Scherzo con venditori ambulanti, mi infilo nella folla senza voltarmi e senza fretta apparente, per non far vedere che la mia è una fuga. Passo davanti agli ultimi Sikh della città che, con dadi e conchiglie, predicono il futuro alle musulmane al riparo di grandi ombrelli. Stavolta mi giro, lei non c’è. E Kabul ridiventa reale, con la sua puzza di fogna, le grida dei bambini di strada che danno manate sui blindati che passano come sul culo degli asini, il ronzio degli elicotteri d’assalto che volano così bassi che il soffio delle loro eliche spaventa i pappagalli verdi sugli eucalipti. Kabul, con i carillon dei gelatai ambulanti che strillano Per Elisa e Jingle Bells, vittoria sui divieti talebani contro la musica. Cerco di mimetizzarmi nel passo disinvolto delle donne afgane, un linguaggio mimetico del corpo che ho imparato ad assumere in fretta, anche per la mia incolumità. Ma stavolta la paura si è insinuata in me senza che me ne rendessi conto, è già diventata riflesso fisiologico. Bagnerò il mio letto quella notte, e da allora non riuscirò a dormire che a brevi intervalli. Ora riconosco i luoghi. Torno d’ istinto nel quartiere dei musicisti, dove ho il mio dentista privato. Un santuario con chiodi magici piantati sullo stipite della porta, ogni chiodo guarisce un dente. Poi trovo un barbiere con una foresta di capelli abramitica che mi invita a bere un tè e mi svela allegramente di avere interpretato Osama Bin Laden in un film. L’Afghanistanè così, dalla tragedia alla farsa nel giro di un’ora. Non so più dove ho fatto quel terribile incontro. Il mio sentimento per quella donna è un grumo fatto di pietà, condanna e paura. So che se la denunciassi non mi crederebbero, oppure partirebbe una rappresaglia di sangue. Sparisce l’ultimo raggio porpora sulle cime immacolate dell’Hindukush. Le luci tenui nelle case d’argilla si accendono sui colli che ora paiono il presepe di Betlemme. Un asino porta in salita una donna incinta con un’ombra accanto. Pare quella di Giuseppe, il falegname. E intanto la donna imbottita d’esplosivo, da qualche parte, si toglie la “cintura del martirio”, come la chiamano gli estremisti dell’Islam, e srotola per terra la trapunta colorata nella sua casa senza figli. Ma non dorme.

Ignoranti di tutto il mondo

Eccone un’altra. Un’altra di quelle cose che leggo la mattina e poi mi ritrovo in altro modo nel pomeriggio… Sto leggendo il bel libro di Fabio Geda “Nel mare ci sono i coccodrilli”. A pag. 24 scrive

“A questo tengo molto Fabio.

A cosa?

Al fatto di dire che afghani e talebani sono diversi. Desidero che la gente lo sappia. Sai di quante nazionalità erano, quelli che hanno ucciso il mio maestro?

No. Di quante?

Erano venti, queli arrivati con la jeep, giusto? Be’ non saranno stati di venti nazionalità diverse, ma quasi. Alcuni non riuscivano nemmeno a comunicare tra loro. Pakistan, Senegal, Marocco, Egitto. Tanti pensano che i talebani sino afghani, Fabio, ma non è così. Ci sono anche afghani tra di loro, ovvio, ma non solo: sono ignoranti, ignoranti di tutto il mondo che impediscono ai bambini di studiare perché temono che possano capire che non fanno ciò che fanno nel nome di Dio, ma per i loro affari.”

Oggi pomeriggio arriva a casa e su twitter leggo il titolo di un articolo che mi attira. Tratta di globalizzazione e Africa, è di Chiara Zappa ed è preso da Avvenire. Evidenzio in grassetto il tratto in comune con il libro di Geda.

breve storia africa.jpg“Il Mali ostaggio dei fondamentalisti, la Nigeria dei kamikaze nelle chiese, ma anche il Maghreb, dove l’ascesa dei gruppi salafiti – dall’Egitto alla Tunisia alla Libia – sta raffreddando le speranze seguite alle primavere arabe: l’Africa è la nuova frontiera dello scontro di civiltà? Per Catherine Coquery-Vidrovitch, nota africanista professore emerito all’Università Paris-VII, il quadro non è questo. Anzi, «ci sono ben altri fronti su cui il continente, oggi, si sta davvero dimostrando protagonista ». Un esempio? «Mentre tutto il mondo soffre i contraccolpi della crisi economica, l’Africa fa registrare una crescita senza precedenti». La studiosa francese invita a ribaltare la prospettiva. E lo fa, lei per prima, nel suo libro Breve storia dell’Africa, da poco uscito per Il Mulino (pp. 170, euro 14). In cui, ripercorrendo le tappe salienti di un passato antichissimo («gli antenati degli uomini hanno fatto la loro comparsa in Africa parecchi milioni di anni fa», ricorda), fa notare come il continente rappresenti «una straordinaria terra di sintesi» che «non ha mai vissuto, contrariamente a quanto hanno creduto e raccontato gli europei, nell’isolamento». Non c’è da stupirsi, dunque, che tutti i grandi fenomeni di portata globale – in questo caso l’acuirsi di tensioni che strumentalizzano la sensibilità religiosa – si riverberino nelle dinamiche interne all’Africa.

Ma le immagini di violenza che ci arrivano dal Sahel o dalla Nigeria non la preoccupano?

Naturalmente si tratta di fenomeni gravi, eppure dobbiamo ricordare che l’islam, a sud del Sahara, è in maggioranza molto tollerante. Le forme religiose estremiste sono minoritarie, anche se sono quelle che fanno più rumore. In Mali, i jihadisti che stanno seminando il terrore vengono dalla Libia, mentre in vari contesti, in primo luogo la Nigeria, i conflitti in corso hanno ben altre ragioni – terre contese, scontri per le risorse, su una base di povertà e mancanza di prospettive – e non possono affatto essere ridotti a tensioni religiose.

Dunque non vede una rinascita dell’islam militante?

Non dimentichiamo che il fondamentalismo non è appannaggio dei musulmani, ma, per esempio nella Nigeria meridionale e sulla costa occidentale del continente, interessa anche le sette ultrareligiose cristiane evangeliche e pentecostali. L’estremismo e il ricorso al soprannaturale per giustificare la violenza riguardano musulmani, cristiani e anche animisti: non siamo di fronte a scontri di civiltà, ma a scontri per lo sviluppo.

A proposito di sviluppo, lei enfatizza l’attuale boom economico in Africa: quali sono le potenzialità e i limiti di questo fenomeno?

Le potenzialità sono enormi. Il continente possiede riserve importanti di tutte le risorse più preziose: diamanti, oro, uranio e soprattutto petrolio, il che la rende una terra strategica, con tutti i vantaggi, e i rischi, del caso. L’Africa, in particolare quella subsahariana, rappresenta l’unica regione che, mentre il resto del mondo è in crisi, continua a fare registrare una rapida crescita del Pil (con il record di sei dei Paesi a sviluppo più rapido degli ultimi dieci anni, ndr). Certo, questi dati dipendono anche dal fatto che il punto di partenza, a livello di sviluppo economico e industriale, era molto basso. Senza contare alcune contraddizioni: in certi Stati resistono élite corrotte e inadeguate che impediscono che i benefici della crescita ricadano sulla maggioranza della popolazione. Si creano così forti diseguaglianze sociali. C’è uno scollamento tra i progressi di una società civile vivace e una democratizzazione lenta. Eppure, negli ultimi anni assistiamo all’ascesa di una nuova, rilevante classe media.

Oltre 300 milioni di persone, secondo la Banca africana di sviluppo: qual è il ruolo di questa classe media?

Notevole. Si tratta di un processo accelerato negli ultimi vent’anni. Se nel periodo coloniale solo una piccola maggioranza frequentava la scuola, già negli anni Novanta lo scenario si era rivoluzionato, e l’istruzione ha portato con sé un’importante diversificazione e modernizzazione delle attività professionali. Oggi, soprattutto nelle città, esiste una fascia sociale fatta di funzionari statali, insegnanti, imprenditori, operatori dei servizi, che si sono moltiplicati grazie all’arrivo delle grandi società multinazionali, che hanno aperto sul continente le loro filiali e vi hanno riversato i propri capitali. La nuova borghesia africana rappresenta un mercato molto appetibile, in prospettiva il più grande mercato al mondo.

Le conseguenze dell’urbanizzazione sono solo economiche?

Non solo. Se è vero che in Africa l’urbanizzazione è stata tardiva, oggi ci sono città che sono passate in dieci anni da qualche migliaio a qualche milione di abitanti. Pensiamo a Libreville, in Gabon, al Sudafrica, al Senegal, o anche a un Paese come il Ruanda, fino a pochi anni fa quasi esclusivamente rurale. A livello continentale, la popolazione delle città è pari o addirittura superiore a quella delle campagne. E le città costituiscono non solo contesti con maggiori opportunità formative, sanitarie e professionali, ma anche i centri della coscienza e dell’attivismo politico. Le classi medie urbane sono sempre meno disposte a supportare i regimi dittatoriali del passato.

Che ne pensa dell’esplosione delle nuove tecnologie della comunicazione?

È un fenomeno estremamente importante. Oggi, in Africa, praticamente tutti hanno un cellulare, gli internet point si sono moltiplicati: la comunicazione e l’informazione sono chiavi per lo sviluppo e per la crescita della coscienza sociale e politica. Gli intellettuali africani sono sempre più permeabili agli apporti dell’estero, e anche la gente comune ha aperto i propri orizzonti. Abbiamo visto il ruolo dei social network nelle rivoluzioni nordafricane: ebbene, anche a sud del Sahara il cambiamento sta arrivando.”

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