Cosa far entrare dentro di noi

Immagine creata con Gemini®

Il 7 ottobre avevo pubblicato un post in fondo al quale c’erano dei riferimenti bibliografici. Era citato un articolo che oggi ho deciso di pubblicare per intero e che parla dei rischi psicologici della continua esposizione alle scene di violenza sui social. E’ preso dal sito della Dott.ssa Viviana Chinello, ma la fonte originale è quello della Dott.ssa Anna Maria Sepe, autrice del libro “Il mondo con i tuoi occhi”.

“Ti sei mai chiesto perché, scorrendo i social, il tuo sguardo si ferma più facilmente davanti a scene di violenza, conflitto o tragedia piuttosto che a immagini serene e rassicuranti? Perché il tuo dito resta sospeso sullo schermo, incapace di andare oltre, anche se dentro provi disagio?
Scene di guerra, bambini uccisi, tuffi estremi e pericolosi, litigi ripresi con il telefono, immagini crude che mostrano dolore o distruzione: tutto questo si insinua nel nostro feed, interrompendo la quotidianità con un impatto emotivo immediato.
Non è solo curiosità morbosa. È qualcosa di più antico, radicato, viscerale.
La violenza — nei telegiornali, nei video virali, nei commenti pieni di rabbia — tocca corde profonde del nostro sistema nervoso, molto prima che la nostra mente cosciente abbia il tempo di elaborare. È come se il corpo reagisse da sé, mettendoci in allerta, costringendoci a guardare, come se da quello sguardo dipendesse la nostra sopravvivenza.
Eppure sappiamo che quelle immagini ci turbano, ci logorano, ci lasciano addosso scorie emotive. È il grande paradosso dei social: la violenza ci cattura subito, ma spesso ci impoverisce dentro. In questo articolo cercheremo di capire perché succede, cosa accade nel cervello quando siamo esposti a contenuti violenti online, e soprattutto perché — nonostante tutto — la parte più profonda di noi tende a restare.

La radice evolutiva: il cervello orientato al pericolo
Per milioni di anni la sopravvivenza dell’essere umano è dipesa dalla capacità di riconoscere e reagire rapidamente alle minacce. Questo ha plasmato il cervello in modo da dare priorità assoluta agli stimoli negativi, un fenomeno noto come negativity bias.
In pratica, tutto ciò che segnala rischio — aggressioni, conflitti, dolore — viene registrato più velocemente e con più forza rispetto agli stimoli neutri o positivi. Non è una scelta consapevole: è il retaggio di un meccanismo adattivo che ha garantito la nostra protezione.
Ecco perché una scena violenta, anche se vista attraverso lo schermo, cattura immediatamente l’attenzione: il cervello la interpreta come potenzialmente vitale, mentre un contenuto sereno o rassicurante richiede più tempo e più risorse cognitive per attivare interesse.

L’amigdala e il cervello emotivo
Quando siamo esposti a una scena violenta, la prima a reagire è l’amigdala, la piccola struttura del sistema limbico che funziona come un rilevatore di minacce. In pochi millisecondi valuta lo stimolo e, se lo percepisce come pericoloso, attiva la risposta di allerta: aumento della frequenza cardiaca, rilascio di adrenalina e cortisolo, orientamento totale dell’attenzione verso la fonte dello stimolo.
La corteccia prefrontale, deputata all’analisi razionale, interviene solo dopo, con tempi più lenti. È per questo che possiamo restare incollati a immagini disturbanti anche quando vorremmo distogliere lo sguardo: la parte riflessiva del cervello arriva in ritardo rispetto al sistema di allarme, che ha già deciso per noi.

Social e iper-esposizione: la violenza a portata di dito
Un tempo le immagini di violenza arrivavano solo attraverso il filtro dei giornali o della televisione, quindi con tempi e modalità più contenute. Oggi i social hanno cambiato radicalmente lo scenario: i contenuti violenti appaiono in maniera continua, rapida e imprevedibile.
Dal punto di vista neurobiologico, questo ha un impatto specifico. Il cervello è molto sensibile alla sorpresa: quando uno stimolo arriva in modo inaspettato, l’amigdala e i sistemi di allerta si attivano con maggiore intensità.
Ecco perché, scorrendo un feed, un video violento improvviso cattura più attenzione rispetto a un contenuto atteso.
Il problema è che questa esposizione non è episodica, ma costante. Ogni scroll può trasformarsi in un “mini-trauma visivo”, che mantiene il cervello in stato di allerta cronica. In questo senso, i social non solo amplificano la frequenza degli stimoli violenti, ma ne potenziano l’effetto emotivo, proprio grazie alla loro imprevedibilità.

Violenza e dopamina: il paradosso della ricerca
Può sembrare inquietante, ma la violenza non solo attira la nostra attenzione: spesso la mantiene agganciata. Questo accade perché stimoli intensi inducono un rilascio di dopamina, che non è la molecola del piacere, ma quella della motivazione e dell’anticipazione. È questo segnale a spingerci a restare: non è la violenza in sé a essere gratificante, ma l’aspettativa che genera, come se il cervello fosse convinto di dover cogliere un’informazione cruciale.
È lo stesso meccanismo che rende avvincenti le serie crime o i film thriller: non li guardiamo per la crudeltà, ma per la tensione che ci tiene sospesi. Sui social, però, questo processo diventa una trappola, perché non c’è un epilogo narrativo che sciolga la tensione: c’è solo una sequenza infinita di shock che mantiene il cervello agganciato.

L’effetto specchio: il corpo reagisce come se fosse dentro la scena
Il cervello non si limita a osservare: tende a “replicare dentro” ciò che vede fuori. Questo accade grazie ai neuroni specchio, che si attivano sia quando compiamo un’azione, sia quando osserviamo qualcun altro compierla.
Quando guardiamo una scena di violenza, il nostro sistema specchio entra in gioco: i circuiti motori ed emotivi si attivano come se stessimo vivendo in prima persona quella situazione. È per questo che, dopo aver visto un video crudo, possiamo avvertire il cuore accelerato, lo stomaco contratto o una sensazione di tensione muscolare.
Non è suggestione: è il corpo che reagisce in modo coerente con ciò che percepisce. Nei social questo effetto è amplificato dall’immediatezza delle immagini, spesso ravvicinate e realistiche, che riducono la distanza psicologica e ci fanno sentire “dentro” la scena.

Violenza ed emozioni positive: cattura immediata vs memoria duratura
Gli stimoli violenti catturano l’attenzione in modo rapido e potente, ma tendono a lasciare soprattutto tracce sensoriali e intrusive: immagini che ritornano, sensazioni di disagio, stati di allerta. Al contrario, le esperienze positive, pur richiedendo più tempo per catturare lo sguardo, hanno una maggiore probabilità di consolidarsi nella memoria affettiva.
Questo avviene perché la violenza attiva prevalentemente i circuiti limbici legati alla minaccia, mentre i contenuti che evocano cura, tenerezza o commozione coinvolgono anche i sistemi legati all’ossitocina e alla serotonina, neurotrasmettitori che favoriscono connessione e benessere.
In altre parole, la violenza ha un impatto immediato ma superficiale; le emozioni positive hanno un impatto più lento ma radicato, capace di costruire legami e significati duraturi.

I rischi psicologici della continua esposizione
Esporsi ripetutamente a contenuti violenti non è neutro per il cervello. Gli studi mostrano tre effetti principali:

  • Desensibilizzazione: con il tempo, la risposta emotiva si attenua. Questo riduce l’impatto soggettivo delle immagini violente, ma rischia di normalizzarle, facendo percepire la violenza come qualcosa di “ordinario”.
  • Iperattivazione limbica: l’amigdala costantemente sollecitata mantiene elevati i livelli di stress, con conseguenze come ansia, irritabilità, disturbi del sonno.
  • Alterazione dei circuiti empatici: l’esposizione cronica a scene di violenza può ridurre l’attività delle aree prefrontali coinvolte nella regolazione emotiva, rendendo più difficile modulare le proprie reazioni e aumentando l’impulsività.

In sintesi, ciò che nasce come una semplice visione “da spettatori” può trasformarsi in un fattore che influenza profondamente il tono emotivo, le relazioni e il modo in cui percepiamo la realtà quotidiana.

I social hanno reso la violenza una presenza costante
Basta un gesto, uno scroll, e ci troviamo davanti a immagini o parole che attivano il nostro sistema di allerta. Non è debolezza se restiamo agganciati, è il cervello che risponde come ha sempre fatto di fronte a un potenziale pericolo: attivando l’amigdala, rilasciando dopamina, mantenendo alta l’attenzione.
Il punto è che questo meccanismo, utile in un contesto evolutivo, oggi rischia di trasformarsi in una trappola. La violenza cattura lo sguardo, ma non ci nutre. Al contrario, lascia spesso turbamento, senso di vuoto, un’eco che ci accompagna senza darci davvero qualcosa in cui riconoscerci. Al contrario, le emozioni positive — più lente, più silenziose, ma profonde — hanno la capacità di radicarsi nella memoria affettiva, di costruire significati, di dare forma a legami duraturi.
Ed è proprio qui che entra in gioco un lavoro su di sé: imparare a scegliere cosa far entrare dentro di noi, allenare lo sguardo a non fermarsi solo su ciò che ci scuote, ma anche su ciò che ci nutre. Non è un processo immediato: richiede consapevolezza, cura, esercizio interiore […], il primo passo per costruire un mondo che rifletta davvero chi siamo e non solo ciò che ci turba.”

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

Davanti a “quelle” immagini

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

In quinta, ad un certo punto dell’anno, trattando il tema del male, porto in classe un libro fotografico sui gulag. Racconto che, quando l’ho acquistato, una quindicina di anni fa, forse anche più, ero reduce da una lunga ricerca, tanta era stata la difficoltà a trovare una raccolta fotografica su Glavnoye Upravleniye lagerey (Direzione Principale dei Campi). Un altro aspetto su cui ci soffermiamo è la quasi totale assenza di immagini crude, violente: l’effetto “cazzotto nello stomaco” da libro sui lager non si ha. A quel punto approfondiamo le ragioni e inizia la discussione.
Mi capita anche di riflettere con le classi sull’impatto che ha su di noi l’esposizione a immagini forti? In questi anni ho suggerito a chi segue sui social giornalisti, fotoreporter, inviati in paesi di guerra, di creare un doppio profilo: uno personale e uno su cui andare quando ci si vuole informare, in modo da evitare di passare in pochi istanti dalle immagini di una serata con gli amici alle foto di un massacro in Ucraina o a Gaza.
Stamattina mi sono imbattuto in un interessante articolo della psicologa Rosella De Leonibus su Rocca.

“Durante la persecuzione degli ebrei da parte del nazismo, le immagini più crude dell’orrore sono arrivate agli occhi del mondo solo al momento della liberazione dei campi di concentramento. Oggi, nel contesto delle guerre attuali, come nel genocidio di Gaza, la narrazione visiva è profondamente cambiata: sono le stesse vittime a diffondere video e notizie in tempo reale, portando la realtà della sofferenza direttamente nelle case di miliardi di persone.
Eppure, malgrado la mole infinita di immagini e testimonianze, persiste uno zoccolo duro di indifferenza. Apparentemente sembra inspiegabile questa reazione, però trova spiegazioni profonde nel campo della psicologia. La mente, esposta in modo continuo e intensivo a immagini traumatiche, finisce per mettersi in una sorta di “modalità protettiva”, riducendo la sensibilità emotiva attraverso un processo noto come compassion fatigue. È un meccanismo di autodifesa, che protegge il nostro equilibrio psicologico, ma anestetizza l’empatia e spegne l’urgenza morale insieme alla spinta a reagire.
La compassion fatigue (Joinson, 1992; Figley, 1995), o fatica da compassione, è una condizione psicologica tipica di chi, come operatori sanitari, psicoterapeuti, assistenti sociali o altri professionisti dell’aiuto, si espone in modo continuativo e prolungato alla sofferenza altrui. Questo stato si manifesta come un esaurimento fisico, emotivo e mentale causato dalla tensione empatica legata all’assistenza a persone in grave difficoltà o in condizioni traumatiche, si riduce la capacità di provare compassione e arrivano sintomi emotivi come ansia, depressione, rabbia, senso di colpa e apatia. Ma tutto ciò non accade solo a chi direttamente opera in ambiti di tragedia: anche chi assiste ripetutamente o è esposto a immagini e racconti traumatici ne è colpito. A livello cognitivo ci sarà confusione, perdita di concentrazione e senso di vuoto, mentre a livello fisico ci sarà affaticamento, dolori, tachicardia o problemi gastrointestinali. A livello sociale vedremo tendenza a ritirarsi, intolleranza o indifferenza.
Così, mentre il mondo assiste in tempo reale a scene di devastazione, diventa muto davanti a una sofferenza troppo grande per essere elaborata e si distacca emotivamente davanti a ciò che dovrebbe invece scuotere le coscienze. I bambini di Gaza, uccisi brutalmente in quantità indescrivibili, amputati, affamati, assetati, orfani di tutto, sono il confine ultimo della nostra umanità. La sfida è urgente: come realizzare modalità nuove e consapevoli per riconnetterci con l’umanità reale che soffre dietro ogni immagine, per superare l’indifferenza e trasformare le testimonianze di dolore in impegno e solidarietà reali?

IL SILENZIO DELLE NOSTRE MENTI DAVANTI ALLA VIOLENZA
Ogni giorno i nostri occhi si posano su immagini che raccontano l’orrore: guerre, aggressioni, crudeltà senza fine. All’inizio lo sguardo sostiene un peso insopportabile, un nodo alla gola che ci spinge a reagire, a indignarci. Ma col tempo quella stessa esposizione ripetuta diventa un rumore di fondo, un’eco lontana che la mente impara a ignorare. È così che nasce la desensibilizzazione: un lento spegnersi delle emozioni, un’assuefazione che riduce il dolore, ma anche la nostra umanità. Il cervello sottrae emozione per sopravvivere.
In condizioni di stress entra in gioco l’amigdala, la parte più antica e istintiva del nostro cervello, che regola la paura e la risposta allo stress. Quando siamo di fronte a immagini violente, l’amigdala si attiva, generando una scarica emotiva intensa. Ma se questa attivazione diventa continua, il cervello sviluppa una sorta di difesa: la risposta emotiva si attenua, come per proteggersi da un sovraccarico di dolore inutile e paralizzante (Wikipedia, 2024). L’iperstimolazione può compromettere le aree prefrontali, responsabili del controllo razionale e della regolazione dell’empatia, mentre si perde la capacità di sentire il dolore dell’altro e la compassione svanisce (Chinello, 2025).
Le conseguenze umane e sociali di una mente assuefatta sono devastanti. Se da un lato questo meccanismo ci protegge, dall’altro ci allontana dal sentire autentico e dalla solidarietà. La violenza, nell’esperienza diretta o mediatica, perde la sua carica di urgenza emotiva, e il nostro sguardo diventa più freddo e distaccato. L’abitudine al dolore altrui può trasformarsi in indifferenza, abbassando quella soglia che ci fa agire per la giustizia e la cura.

ZIMBARDO: LA VIOLENZA DELLA SITUAZIONE
Uno degli studi più emblematici per comprendere come la mente possa adattarsi a scenari di violenza e sopraffazione è l’esperimento della prigione di Stanford, condotto da Philip Zimbardo nel 1971. Qui emerge con chiarezza quanto il contesto sociale e i ruoli imposti possano guidare comportamenti crudeli, persino in individui ordinari e psicologicamente sani.
I partecipanti, divisi in “guardie” e “prigionieri”, subirono una rapida trasformazione: le guardie, investite di potere, iniziarono a esercitare forme di violenza psicologica e fisica, mentre i prigionieri caddero in uno stato di passività e sottomissione. Entra in campo un processo di deindividuazione: l’identità personale si dissolve all’interno del gruppo, il senso di responsabilità individuale diminuisce e si abbassano le difese morali (Zimbardo, 2007). In questo contesto, la deumanizzazione delle vittime e la loro colpevolizzazione giustificano l’abuso, attenuando il senso di colpa di chi esercita il potere. Dall’altra parte, il senso di impotenza vissuto dalle vittime genera difese psicologiche come la dissociazione e l’assuefazione, la desensibilizzazione necessaria a sopportare il dolore (Campanale, 2023).

Immagine creata con ChatGPT®

LA MENTE SI PROTEGGE DAL DOLORE
Il senso di impotenza nasce quando ci troviamo di fronte a situazioni che ci appaiono incontrollabili, dove ogni tentativo di cambiare o influenzare gli eventi sembra inutile e vano. Se abbiamo accumulato esperienze di insuccesso o di sopraffazione, avremo interiorizzato un’idea profonda di incapacità personale, l’“impotenza appresa” (Seligman, 1975). Arriva un pesante senso di rassegnazione, una sorta di rinuncia passiva che protegge la mente dall’angoscia di sentirsi totalmente esposti e vulnerabili. Sul piano comportamentale, ci sarà evitamento, inibizione dell’azione e abbassamento della motivazione.
Per sopravvivere al dolore, la psiche mette in atto una serie di meccanismi di difesa che, in modo automatico e inconscio, contengono l’angoscia e preservano l’equilibrio interno: la negazione, cioè il rifiuto di riconoscere la realtà dolorosa, consente di distanziarsi temporaneamente da ciò che sembra insopportabile; la rimozione, con l’occultamento di ricordi o emozioni traumatiche nella parte inconscia della mente; la proiezione, per cui si attribuiscono ad altri sentimenti o impulsi propri difficili da accettare (Agostini, 2019).
In origine sono forme di adattamento sane, ci aiutano a sopravvivere in condizioni estreme, ma diventano disfunzionali quando si radicano profondamente, perché impediscono che il trauma venga elaborato e quindi bloccano la riconnessione emotiva con sé e con gli altri.
Il dolore nascosto deve trovare espressione per poter farci riscoprire la nostra umanità ferita, e trasformarsi in strumento di resilienza e crescita. È essenziale una consapevolezza collettiva rispetto a questi meccanismi, per non ridurre la violenza a un fatto ordinario e lontano.

PER NON VOLTARCI DALL’ALTRA PARTE
È urgente promuovere a livello sociale e di comunità una maggiore sensibilità verso le tragedie del mondo e superare la desensibilizzazione, è necessario mettere in campo strategie integrate che coinvolgano educazione, cultura, media. Educazione fin dalla prima infanzia: introdurre programmi scolastici che insegnino empatia, rispetto, consapevolezza del dolore altrui e cultura della non violenza, in modo da preparare le nuove generazioni a gestire con responsabilità il confronto con la violenza e l’ingiustizia. Coinvolgimento responsabile dei media e sensibilizzazione pubblica: i media devono adottare un approccio etico nella rappresentazione delle violenze, evitando spettacolarizzazioni e sensazionalismi, e integrare i contenuti con dati scientifici e analisi sociologiche, perché la narrazione sia anche strumento di conoscenza e prevenzione. I media stessi possono modellare comportamenti positivi con campagne di storytelling, mostrare esempi di solidarietà, interventi efficaci e trasformazioni positive per stimolare empatia e azioni concrete, fare focus sulle persone e non solo sui fatti, raccontare storie umane, coinvolgenti e autentiche di vittime, sopravvissuti e attivisti, mettendo in luce le emozioni, i vissuti e i cambiamenti personali, anziché limitarsi a dettagli cruenti o fredde statistiche.
Insieme al racconto della tragedia, è necessaria una chiamata all’azione chiara e concreta: ogni storia o testo o video dovrebbe invitare a iniziative che coinvolgano il pubblico nel creare contenuti positivi e condividere messaggi di solidarietà, supportare la costruzione di una comunità attiva e consapevole, e invitare a compiere un gesto concreto – firmare una petizione, partecipare a un evento, sostenere un’associazione – trasformando l’empatia in impegno attivo. Non più volti spenti e braccia conserte, ma cuori sensibili e menti lucide, esseri umani pronti a impegnarsi per fermare l’orrore.”

Riferimenti bibliografici
Agostini M. (2019), Meccanismi di difesa: cosa sono e come li utilizziamo, https://www.guidapsicologi.it/articoli/meccanismi-di-difesa-cosa-sono-e-come-li-utilizziamo (consultato il 15 settembre 2025)
Campanale G. (2023), L’Effetto Lucifero e la labilità della dicotomia Bene-Male, https://www.stateofmind.it/2023/01/effetto-lucifero-esperimento/ (consultato il 15 settembre 2025)
Chinello V. (2025), I rischi psicologici della continua esposizione delle scene di violenza sui social, https://vivianachinellopsicologa.com/2025/09/06/i-rischi-psicologici-della-continua-esposizione-delle-scene-di-violenza-sui-social/ (consultato il 15 settembre 2025)
Figley C.R. (Ed.) (1995), Compassion fatigue: Coping with secondary traumatic stress disorder in those who treat the traumatized, Brunner/Mazel.
Joinson C. (1992), Coping with compassion fatigue, Nursing, 22, 4, pp. 116-120.
Seligman M.E.P. (1975), Helplessness: On Depression, Development, and Death, W. H. Freeman, San Francisco.
Wikipedia (2024), Desensibilizzazione (psicologia), https://it.wikipedia.org/wiki/Desensibilizzazione_(psicologia) (consultato il 15 settembre 2025)
Zimbardo P. (2007), L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina Editore, Milano.