Gemme n° 185

bardoDopo le lezioni sul buddhismo ho voluto approfondire l’argomento con la lettura del Bardo todol, Il “Libro tibetano dei morti”; l’ho portato come gemma perché al di là di quello che pensavo prima, lo ritengo interessante per chi sente di non trovare abbastanza nella cultura occidentale. E’ il viaggio dell’anima che non si separa solo dal corpo ma anche dal mondo in cui vive. Nella nostra società materialista penso sia importante per l’anima liberarsi da tutto, compresa la concezione di se stessa. Ne ho ricavato anche che il rapporto tra le persone è sempre molto importante e dovrebbe essere sempre disinteressato; l’aiuto reciproco è fondamentale: nel libro si spiega che i parenti del defunto hanno un ruolo di rilievo in quanto dovrebbero aiutarlo nel viaggio di liberazione.” Questa la gemma di D. (classe quarta).
Mi sposto di poco (Cina) e pesco alcune parole di Chuang Tzu:
Quando Lao Tzu morì, Ch’in Yi si recò al funerale. Urlò tre vole e se ne andò. Un discepolo gli chiese: «Non eri amico del nostro maestro?».
«Lo ero», rispose Ch’in Yi.
«Se è così, credi che quella sia una sufficiente espressione di dolore per la sua morte?», aggiunse il discepolo.
«Sì», disse Ch’in Yi. «Pensavo che egli fosse un uomo [mortale], ma ora so che non lo era… Il maestro giunse perché era il momento in cui doveva nascere; e partì perché era il momento di andare. Coloro che accettano il corso naturale e la sequenza delle cose e vivono obbedendovi sono oltre la gioia e il dolore».” (La conservazione della vita).

Il tempo del digiuno

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Ieri, oltre che essere il giorno dopo martedì grasso, per i credenti cristiani era il mercoledì delle ceneri che ha dato inizio alla Quaresima. Enzo Bianchi, sul sito della Comunità di Bose, ha proposto questa riflessione che aiuta a comprendere il senso cristiano del digiuno.
Il mangiare appartiene al registro del desiderio, deborda la semplice funzione nutritiva per rivestire rilevanti connotazioni affettive e simboliche. L’uomo, in quanto uomo, non si nutre di solo cibo, ma di parole e gesti scambiati, di relazioni, di amore, cioè di tutto ciò che dà senso alla vita nutrita e sostentata dal cibo. Il mangiare del resto dovrebbe avvenire insieme, in una dimensione di convivialità, di scambio che invece, purtroppo e non a caso, sta a sua volta scomparendo in una società in cui il cibo è ridotto a carburante da assimilare il più sbrigativamente possibile.
Il digiuno svolge allora la fondamentale funzione di farci sapere qual è la nostra fame, di che cosa viviamo, di che cosa ci nutriamo e di ordinare i nostri appetiti intorno a ciò che è veramente centrale. E tuttavia sarebbe profondamente ingannevole pensare che il digiuno – nella varietà di forme e gradi che la tradizione cristiana ha sviluppato: digiuno totale, astinenza dalle carni, assunzione di cibi vegetali o soltanto di pane e acqua -, sia sostituibile con qualsiasi altra mortificazione o privazione. Il mangiare rinvia al primo modo di relazione del bambino con il mondo esterno: il bambino non si nutre solo del latte materno, ma inizialmente conosce l’indistinzione fra madre e cibo; quindi si nutre delle presenze che lo attorniano: egli “mangia”, introietta voci, odori, forme, visi, e così, pian piano, si edifica la sua personalità relazionale e affettiva. Questo significa che la valenza simbolica del digiuno è assolutamente peculiare e che esso non può trovare “equivalenti” in altre forme di rinuncia: gli esercizi ascetici non sono interscambiabili! Con il digiuno noi impariamo a conoscere e a moderare i nostri molteplici appetiti attraverso la moderazione di quello primordiale e vitale: la fame, e impariamo a disciplinare le nostre relazioni con gli altri, con la realtà esterna e con Dio, relazioni sempre tentate di voracità.
Il digiuno è ascesi del bisogno ed educazione del desiderio. Solo un cristianesimo insipido e stolto che si comprende sempre più come morale sociale può liquidare il digiuno come irrilevante e pensare che qualsiasi privazione di cose superflue (dunque non vitali come il mangiare) possa essergli sostituita: è questa una tendenza che dimentica lo spessore del corpo e il suo essere tempio dello Spirito santo. In verità il digiuno è la forma con cui il credente confessa la fede nel Signore con il suo stesso corpo, è antidoto alla riduzione intellettualistica della vita spirituale o alla sua confusione con lo psicologico.
Certamente, poiché il rischio di fare del digiuno un’opera meritoria, una performance ascetica è presente, la tradizione cristiana ricorda che esso deve avvenire nel segreto, nell’umiltà, con uno scopo preciso: la giustizia, la condivisione, l’amore per Dio e per il prossimo. Ecco perché la tradizione cristiana è molto equilibrata e sapiente su questo tema: “Il digiuno è inutile e anche dannoso per chi non ne conosce i caratteri e le condizioni” (Giovanni Crisostomo); “E’ meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli” (Abba Iperechio); “Se praticate l’ascesi di un regolare digiuno, non inorgoglitevi. Se per questo vi insuperbite, piuttosto mangiate carne, perché è meglio mangiare carne che gonfiarsi e vantarsi” (Isidoro il Presbitero).
Sì, noi siamo ciò che mangiamo, e il credente non vive di solo pane, ma soprattutto della Parola e del Pane eucaristici, della vita divina: una prassi personale ed ecclesiale di digiuno fa parte della sequela di Gesù che ha digiunato, è obbedienza al Signore che ha chiesto ai suoi discepoli la preghiera e il digiuno, è confessione di fede fatta con il corpo, è pedagogia che porta la totalità della persona all’adorazione di Dio.
In un tempo in cui il consumismo ottunde la capacità di discernere tra veri e falsi bisogni, in cui lo stesso digiuno e le terapie dietetiche divengono oggetto di business, in cui pratiche orientali di ascesi ripropongono il digiuno, e la quaresima è sbrigativamente letta come l’equivalente del ramadan musulmano, il cristiano ricordi il fondamento antropologico e la specificità cristiana del digiuno: esso è in relazione alla fede perché fonda la domanda: “Cristiano, di cosa nutri la tua vita?” e, nel contempo, pone un interrogativo lacerante: “Che ne hai fatto di tuo fratello che non ha cibo a sufficienza?”.”

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