Srebrenica 30 anni dopo

Memoriale di Srebrenica (fonte)

1995: era personalmente un’estate felice. La mia vita aveva avuto due svolte importanti. Avevo deciso di lasciare la facoltà di scienze geologiche che frequentavo a Trieste e di iscrivermi all’Istituto Superiore di Scienze Religiose a Udine e a Scienze dell’Educazione nel capoluogo giuliano. A giugno poi era iniziata la relazione con Sara e certo, in quel momento, a 21 anni, non potevo immaginare che poi lei sarebbe diventata mia moglie e madre dei nostri figli.
Ma di quell’estate ricordo ancora molto bene anche un evento tragico, legato a un nome che non mi ha più lasciato: Srebrenica. Lascio la parola a un estratto di dialogo tra Mario Calabresi e Paolo Rumiz risalente allo scorso luglio. Qui la fonte.

“«Tutti si ricordano dov’erano l’undici settembre 2001, quando sono cadute le Torri gemelle, ma pochissimi hanno presente dove erano quando è avvenuta la strage di Srebrenica che ha fatto il triplo dei morti di New York. Io ero a casa mia, ero appena stato al funerale di Alex Langer, il pacifista che per la Bosnia si era speso fuori misura fino al suicidio. Qualcuno mi telefonò e mi disse che era accaduto qualcosa di terribile da quelle parti. Ma non era ancora del tutto chiaro. Io ero stato lì alcuni mesi prima, nell’autunno del 94, e chiesi: “Ma non erano protetti?”. “No, no, li hanno chiusi dentro e li hanno fatti fuori come in una tonnara”».
Il racconto è di Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, una voce unica nel raccontare e ricordare cosa è successo nei Balcani dopo il crollo del Muro di Berlino.
L’11 luglio 1995, esattamente trent’anni fa, a Srebrenica, una cittadina situata nella Bosnia orientale – era un’enclave sotto il controllo dell’esercito bosniaco ma attorniata da città serbe -, vennero sterminati ottomila bosniaci musulmani con l’intento di una pulizia etnica che è stata poi riconosciuta come genocidio.
Due anni prima, durante la guerra che era nata con la dissoluzione della Jugoslavia, quest’area era stata posta sotto la tutela della missione Unprofor delle Nazioni Unite. Seicento caschi blu olandesi erano stati incaricati di proteggerla.
Tuttavia, nel luglio del 1995 le forze militari serbe invasero la città, uccidendo tutti gli uomini ed espellendo sistematicamente donne, bambini e anziani. I caschi blu delle Nazioni Unite assistettero al massacro senza reagire.
Una strage rimossa e dimenticata, il più grande massacro avvenuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, a cui abbiamo voluto dedicare un podcast in quattro puntate che si chiama “Srebrenica – Il genocidio dimenticato” in cui l’attrice Roberta Biagiarelli – che da oltre 20 anni porta in scena uno spettacolo teatrale dedicato a quel massacro – e Paolo Rumiz, che ha coperto quel conflitto da inviato, ricostruiscono la storia della guerra in Bosnia e del suo tragico epilogo.
«Soltanto il giorno dopo – continua a raccontare Rumiz – mi resi conto della gravità di quanto era accaduto. La cosa atroce è che si erano affidati a noi. Cioè non era una battaglia, non era un bombardamento a tappeto. No, erano entrati in una zona considerata sicura e protetta. Ricordo che la rabbia mi esplose e piansi e in preda alle lacrime e alle convulsioni, ricordo che chiamai il vescovo di Trieste per dirgli quello che era accaduto. E durò un’ora questa telefonata, tanta rabbia si era accumulata in me. Mi resi anche conto che i musulmani erano vittime di serie B. E questo me lo conferma l’attualità, perché anche oggi 100 morti a Gaza fanno notizia come cinque morti a Kiev».
Conosco Paolo da molti anni, è un grande giornalista perché è un grande osservatore e, prima di tutto, un ascoltatore. Ha bisogno di studiare e di capire e con la storia dei Balcani e dell’Europa ha un rapporto fisico, costruito attraverso un numero infinito di incontri, di viaggi e di cammini.
«Sono nato nello stesso giorno in cui il confine è stato tracciato attorno a Trieste, il 20 dicembre 1947 e questo segna il mio pedigree. E da questo confine ho registrato non soltanto il passaggio di diversi popoli, uno dopo l’altro, a conferma di questa destabilizzazione continua che dobbiamo fronteggiare soprattutto a Oriente. […]».
Nel podcast, Rumiz analizza le radici del male, la storia di come è cominciata la guerra nella ex Jugoslavia e poi racconta cosa vide lui: «All’inizio di aprile ‘92 ho attraversato il confine della Bosnia, venendo dalla Serbia, sul fiume Drina. Ero lì con la mia interprete che mi disse: “guarda a controllarci i documenti è il comandante Arkan”, uno che poi si è macchiato di orrendi delitti e che probabilmente in quegli stessi giorni stava ammazzando decine se non centinaia di musulmani».
Ma la cosa più impressionante, nei ricordi di Rumiz, è che la gente non si rendeva conto di quanto stava per accadere. «Arrivai a Sarajevo e mi dicevano: “No, sono ragazzi, vedrai. I serbi sono fatti così. Vedrai, sparano in aria, fanno festa, sono fuochi artificiali”… Ma bastava viaggiare nei dintorni per capire che in tutti i villaggi a maggioranza serba si scavavano trincee in vista di una guerra. Ricordo una famiglia che in quei giorni stava partendo per l’Italia per visitare dei parenti. Quando la figlia diciassettenne chiese di portarsi dietro l’album delle fotografie e le cose più care le dissero di no, convinti di tornare dopo pochi giorni. Quelle fotografie la ragazza, che oggi è una donna, non le ha mai più riviste. C’era un vecchio partigiano ottantenne che aveva annusato che la guerra stava venendo, aveva riempito il frigorifero di cibo. Poi vennero le figlie che lo presero in giro e lui si vergognò al punto che regalò tutto ai vicini. E invece aveva ragione lui: la guerra sarebbe arrivata di lì a poco».
Ma cos’era Sarajevo allora, cosa rappresentava? «Era un luogo dove le religioni convivevano abbastanza in pace, pur con le solite incomprensioni. Ma non era una città musulmana. Ricordo ancora lo stupore dei soldati italiani quando si trovarono davanti ragazze musulmane con le gonne corte, che mangiavano tranquillamente prosciutto e non andavano in moschea. E quello stupore mi dice quanto poco ci siamo resi conto che avevamo a disposizione un Islam europeo che poteva fare da magnifico cuscinetto contro l’islamismo che premeva da altre parti, soprattutto da Oriente. Mi chiedo spesso se ci rendiamo conto di cosa abbiamo perso, cosa ci siamo lasciati scappare dalle mani. Sarajevo era il luogo dove la coesistenza tra religioni era tale che in molte case di cristiani, si teneva una pentola che non aveva mai toccato la carne di maiale per poter essere usata nel caso fossero venuti a trovarti degli ebrei o dei musulmani. Credo che niente più di questa pignatta dica della tolleranza di questo mondo».
Per Paolo la Bosnia è molte cose e molti ricordi, parlarne gli provoca dolore e cerca di parlarne il meno possibile: «È doloroso perché lì hanno abitato molte anime care perdute. In trent’anni ho cercato di dimenticare, di farmi perdonare il fatto di non essere stato all’altezza della sua complessità. Le ho dedicato libri, ma in fondo la Bosnia è presente in tutti i miei libri, anche in quelli in cui non parlo di lei».
La Bosnia sono un serie di immagini rimaste nei suoi ricordi, a ricordarci cosa abbiamo perduto: «Un sopravvissuto al lager che mi regala i calzettoni bosgnacchi di lana grezza, uno stagnino che batte con tempo dispari in 7/8, un pentolino che sta costruendo nel cuore di Sarajevo. Un dolce che una donna mi offrì a casa sua, pieno di mandorle e di miele, quel piccolo dolce sembrava essere il cuore della resistenza contro la barbarie che circondava la città. Un ragazzo che si avvicina a due amanti che si baciano e dice loro: “Scusate, fatevi più in là perché devo rubare in questo chiosco!”.  La Bosnia sono i teatri che hanno continuato a funzionare. Ecco, per me Sarajevo, la Bosnia in generale, è stato un luogo la cui meravigliosa urbanità era Europa a tutti gli effetti. Sarajevo ha chiamato l’Europa e l’Europa non ha risposto. Era per me il centro del mondo. Era Turchia, era Austria, era Spagna sefardita, era mondo slavo, era Mitteleuropa, era Mediterraneo. Io ero innamorato della Bosnia, della sua fragile femminilità».”

Non è ancora primavera

Seguo da un po’ di tempo gli scritti di Matteo Tacconi su twitter. Da Europa prendo un suo articolo sulle proteste svoltesi in Bosnia in questi giorni, dal quale emerge chiara l’dea che bisogna stare attenti prima di attribuire comodi slogan a tali manifestazioni.
bosnia“Dopo quattro giorni di tensioni, non senza qualche finestra di violenza, la Bosnia in queste ore è tornata alla calma. Ma questo non significa né che sia tutto finito, né che non si debba riflettere su quanto accaduto. D’altronde – come annotato da Andrea Rossini su Osservatorio Balcani e Caucaso, in un articolo ripreso anche dal Manifesto – in settimana ha preso corpo il più importante movimento di protesta mai registrato dalla fine della guerra civile che, tra il 1992 e il 1995, dilaniò il paese.
Tutto è iniziato mercoledì, a Tuzla, centro urbano dall’antica vocazione industriale, oggi in fase di declino. C’è stato un corteo, a cui hanno preso parte circa diecimila persone, così si riporta, organizzato dai lavoratori di alcune aziende locali che hanno recentemente dichiarato il fallimento. I dimostranti hanno accusato le istituzioni locali di passività e immobilismo, davanti a questi casi. Non solo. S’è riavvolto il nastro degli ultimi e ci si è ricordati che la politica ha dato il via libera a processi di privatizzazione opachi e controversi, molto spesso anche in funzione dell’arricchimento personale.
Rabbia e frustrazione hanno preso il sopravvento, portando i dimostranti a recarsi davanti alla sede del governo del cantone di Tuzla, su cui è stato scagliato di tutto: dai sassi alle uova. La polizia, schierata in difesa dell’edificio, ha risposto caricando. Ci sono stati dei feriti.
L’intervento degli agenti non ha fatto che peggiorare le cose. Giovedì la gente è scesa in piazza, ancora più imbufalita, non solo a Tuzla, ma in molte altre città del paese: Brcko, Sanski Most, Bihac, Zenica, Mostar e via dicendo. In tutti i casi i manifestanti hanno preso di mira i palazzi cantonali. Venerdì alcuni sono stati addirittura dati alle fiamme. Quello di Sarajevo (ha preso fuoco anche la sede della presidenza), quello di Zenica e quello di Tuzla, il cui inquilino ha rassegnato le dimissioni.
Inevitabilmente, come ogni volta che in Bosnia succede qualcosa, qualcuno ha subito cercato una chiave di lettura etnica, attingendo a qualche memoria di guerra.
Approccio, questo, fuori misura. Di confronti etnici e vecchi conti in sospeso, neanche l’ombra. Le rivolte sono scoppiate in città dove la popolazione è in larga misura bosgnacca (musulmana). L’unica eccezione è stata Mostar, dove i croati sono in lieve maggioranza. Ma in ogni caso il sisma non è andato oltre i confini della Federacija Bosne i Hercegovine, l’entità croato-musulmana del paese. In quella serba (Republika Srpska) non s’è rilevato nulla di particolare. Nel capoluogo, Banja Luka, c’è stato un piccolo presidio di solidarietà nei confronti dei dimostranti di Sarajevo, Tuzla e delle altre città. Così riferiscono le cronache.
Con ogni probabilità il fattore che più di ogni altro ha contribuito a queste proteste è stato il pessimo stato dell’economia. La Bosnia vive una fase di stagnazione (grafico). Il Pil è sceso considerevolmente quando è scoppiata la crisi globale, poi c’è stata una ripresina (0,7% nel 2010 e 1,3% nel 2011), seguita dalla recessione del 2012 (-0,7% ) e dallo 0,5% di quest’anno. Ma non è l’unico problema. La disoccupazione ufficiale si attesta sul 25%, ma da molti è ritenuta più alta, con tassi che lambirebbero il 60% tra i giovani. Tutto questo si aggrava se analizzato in un contesto più ampio, di mancate opportunità e stallo a livello di riforme. Questa, d’altronde, è la Bosnia.
Molto dipende dal sistema istituzionale partorito dalla pace di Dayton, mediata dagli americani. Fu concepito allo scopo di tamponare l’emergenza, ma ha creato un carrozzone burocratico impressionante, con moltiplicazione di cariche, pesi e contrappesi, tutti pensati sulla base di principi etnici, che hanno reso il fluire della vita politica lento, pieno di strozzature. Ma anche la classe dirigente bosniaca ha le sue responsabilità (facile d’altronde scaricare tutto sugli “internazionali”). I serbi si sono trincerati nella loro entità, fregandosene della Bosnia in quanto tale. I bosgnacchi e i croati hanno più o meno fatto lo stesso nei loro cantoni. Tutti però hanno messo le mani nella marmellata, favorendo la sovrapposizione tra affari e politica, con benefici agli uni e all’altra. Corruzione, criminalità organizzata, assenza di trasparenza, privatizzazioni à la carte: la Bosnia è diventato un grosso pantano. In pochi si arricchiscono, in molti stentano.
La bomba sociale, già preannunciata da una recente ondata di scioperi, poteva tranquillamente scoppiare. Ed è scoppiata.
C’è chi ha subito evocato il concetto di “primavera bosniaca”, vedendo nelle rivolte una scossa della società civile, il possibile grimaldello che porta al possibile scardinamento del sistema.
Se mai primavera dovrà essere, sarà confinata a una delle due parti del corpaccione bosniaco. L’entità serba, che pure nel 2012 aveva visto diverse proteste contro le tendenze cleptomani del suo uomo forte, Milorad Dodik, è rimasta sostanzialmente ferma a guardare. Può darsi che cambi orientamento, ma al momento questa è la fotografia. E la domanda è: fino a che punto può dirsi primavera una rivolta che coinvolge solo uno dei due emisferi del paese, quando uno dei grossi problemi della Bosnia è proprio la cortina interna tra le due entità?
In ogni caso, prima di guardare in avanti e confidare in una nuova stagione, è il caso di volgersi indietro. Negli ultimi anni ogni volta che è scoccata una scintilla ci si è aggrappati alla speranza che questa stessa scintilla potesse trasformare la Bosnia, salvo poi restare delusi. È stato così anche recentemente, con la bebolucija, una protesta esplosa contro una paralisi legislativa che ha fortemente discriminato i nuovi nati. Una protesta, rarità in Bosnia, potenzialmente multietnica. Tempo poche settimane e la cosa è scemata. Insomma: anche stavolta, fino a prova contraria, è lecito nutrire qualche ragionevole dubbio sull’esito delle rivolte contro la casta. Perché di questo, fondamentalmente, si tratta.
Qualche altro dubbio viene se si considera che, come tra gli altri ha scritto anche Stefano Giantin, collaboratore del Piccolo di Trieste di base a Belgrado, negli assalti alle sedi dei governi dei cantoni a schierarsi in prima linea sono stati spesso dei giovani disoccupati, in apparenza abbastanza manovrabili. Oltre a questo, ha scritto sempre Giantin, sui social network, era stato anticipato nei giorni addietro l’arrivo della tempesta. Suona un po’ sospetta, infine, la rapida diffusione a macchia d’olio della protesta e l’assalto contemporaneo ai palazzi del potere, in quella che è sembrata una sorta di riedizione in salsa bosniaca della tattica seguita dai dimostranti ucraini, protagonisti di occupazioni di edifici governativi sia nella capitale Kiev che in periferia.
Insomma, c’è qualche elemento che indurrebbe a credere che dietro queste proteste possa esserci una regia. Ma, se davvero c’è stata, chi l’ha coordinata? C’è uno scopo elettorale, legato al voto generale di ottobre? C’è la volontà di mettere all’angolo i partiti tradizionali? C’è, in ultima analisi, una guerra di potere, al momento catacombale, ma destinata a deflagrare, in corso in Bosnia? Se la risposta a queste ultime tre domanda è sì, allora i bosniaci saranno stati ancora una volta ingannati.”

Scatto la storia

Ancora un pezzo splendido dall’Osservatorio Balcani e Caucaso: chi ama la storia, la fotografia, o semplicemente le storie lo saprà apprezzare. E’ la storia di uno scatto di 20 anni fa esatti. A scrivere è Mario Boccia, l’autore della foto.

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“Seduti fuori un piccolo bar, in via Radojka Lakić (partigiana nata nel 1917 e fucilata nel 1941) io e Edoardo aspettiamo il caffè. Qui, in piena guerra, ho gustato il miglior Nescafè della mia vita, preparato con cura maniacale, con lo zucchero sbattuto a mano, per mascherarlo da espresso con la crema. Per noi giornalisti, costa tre marchi tedeschi. Troppi, ma ben spesi.

Una giornata di lavoro sta per finire. La tregua sulla città regge. Dalle loro postazioni sulle montagne, i militari serbi non stanno sparando. La guerra sembra lontana anche se, a pochi chilometri da qui, gli ex-alleati croati e musulmani si combattono aspramente. Mostar est è allo stremo, assediata da soldati che pregano a Medjugorje. La pulizia etnica è spietata e reciproca ovunque. Nemmeno i villaggi più sperduti sono risparmiati. Perfino Pocitelj, sulla strada che costeggia la Neretva verso il mare, è rasa al suolo. Era il villaggio degli artisti e dei pittori. Hanno piantato una croce bianca alta cinque metri davanti alla moschea bruciata. Per intimidire, non per pregare.

L’altro ieri il “Bošnjacki Sabor”, un parlamento autoproclamato, tutto musulmano, ha respinto l’ennesima proposta di cessate il fuoco della diplomazia internazionale, basata sulla partizione su base etnica del paese. Oggi il parlamento bosniaco ufficiale ha ratificato quella decisione.

L’arrivo del caffè coincide con un sibilo agghiacciante sopra di noi, seguito da un’esplosione che fa male. Prendo le macchine fotografiche e corro dov’è caduta la granata, in via Maresciallo Tito (partigiano, presidente Jugoslavo e fondatore del movimento dei non allineati, nel 1961). Un altro sibilo mi paralizza le gambe. Sento vibrare il muro sul quale mi sono appiattito. Il secondo colpo ha colpito l’altro lato dell’edificio. Mi affaccio dall’angolo: la strada è deserta. Metto il ventotto e misuro la luce, piatta e senza ombre. Mi avvicino, ma un muro scheggiato e un po’ di calcinacci non significano niente. La foto non c’è. Penso ai feriti che ho visto. Non ai morti, ma alle urla dei feriti leggeri, con le schegge in corpo e le ossa fratturate.

Un uomo grida di mettermi al riparo. Vicino la “Vječna vatra” (la fiamma eterna di Sarajevo che dal 6 aprile 1946, anniversario della liberazione, ricorda i caduti nella guerra contro i nazisti), sull’altro lato della strada, c’è un androne. Una decina di persone sono lì dentro, strette in silenzio. “Rimani qui”, dice. Occhi che mi guardano, espressioni tese di gente dignitosa. Questa è la foto. Stringo la macchina, l’obiettivo è giusto, ma esito. Un’altra esplosione. Scappo fuori, senza avere avuto la forza di scattare. Lo rimpiango. Non ho retto quegli sguardi. Mi sentivo un estraneo. Privilegiato e giudicato per aver scelto di essere lì (forse sono arrossito). Almeno ora sono sotto tiro, come gli altri. Guardo quello che succede attraverso una lente. La macchina è uno scudo che protegge e tiene a distanza.

Un altro sibilo, meno forte, l’esplosione tarda (un paio di secondi?), è più lontana. Vedo movimento verso il mercato. Mi avvicino, monto il duecento, seleziono un tempo veloce, controllo la luce. Una ragazza mi corre incontro. Inquadro, scatto e maledico di non avere impostato il motore sullo scatto continuo (per non sprecare pellicola). Troppo tardi, ormai mi è addosso e mi supera, ignorandomi. E’ finita.

Scatto ancora. Una coppia che corre, una donna dall’altro lato della strada, ma tutto sembra di meno. Ho in testa lo sguardo della ragazza che corre. Quella ragazza non correva per paura, ma per rabbia. Essere entrambi sotto tiro non ci mette sullo stesso piano. La sua rabbia la posso intuire, ma non condividere. Lei è a casa sua e stanno sparando sulla sua città, le sue abitudini, la sua vita. Io sono un ospite volontario (e retribuito). Parte della sua rabbia deve essere anche per me, che ho rubato l’intimità di quella corsa. Che ci faccio qui? “Dovere di cronaca”, certo, ma ripeterselo non è sufficiente. Lo stomaco si contrae di nuovo per un’esplosione più vicina, e i pensieri spariscono.

Passano alcuni minuti. Ora c’è silenzio. Penso che uno scatto buono forse l’ho fatto. Non ho mai smesso di camminare, di guardarmi intorno. Non ho visto feriti, per fortuna. Mi sono sempre sentito uno sciacallo, dopo quelle foto.

Cerco di ragionare. Pochi giorni fa il primo ministro serbo bosniaco Vladimir Lukić, a Pale, ci aveva rilasciato un’intervista rassicurante. Sembrava estraneo a quello che succedeva nel resto della Bosnia. Per lui la guerra era una storia residua di terre contese tra croati e musulmani, poi si sarebbe ufficializzata la divisione del paese. E adesso? Perché hanno ripreso a sparare su Sarajevo? Volevano contestare la decisione del “Bošnjacki Sabor”? Qualcuno scriverà che queste granate sono solo un monito. Si può morire per un “monito”? Che pensava la ragazza che correva? Perché non intervistare lei, piuttosto che i soliti tromboni? Non devo pensarci adesso, sono qui per scattare foto e raccontare fatti.

Torno verso il bar. I caffè sono ancora sul tavolo. Edoardo mi chiama urlando e insultandomi. Per sdrammatizzare, faccio un piccolo coup de théâtre: prima di entrare prendo i piattini con le tazzine piene. Voglio dire che va tutto bene con un gesto. Anche nel bar è pieno di gente, come nell’androne. Entro e le mani iniziano a tremare forte, non posso farci niente. Il caffè, ormai freddo, schizza fuori. Tutti ridono. Almeno è servito a questo.

Edo mi abbraccia (sento ancora quella stretta). Una ragazza con un occhio bendato mi offre una grappa. Si chiama Amra. Sorride. Poi saprò che il padre le è morto davanti pochi mesi fa, proteggendola con il corpo, quando una granata esplose mentre uscivano di casa, in via Mehmed Pascià Sokolović (Gran Visir ottomano che fece costruire il ponte sulla Drina a Višegrad, nel 1571. Suo fratello era Makarije Sokolović, Patriarca cristiano ortodosso di Peć).

Le targhe stradali, color rosso bruno, raccontano storie di resistenza e inclusione. Non potrebbe essere altrimenti. Siamo a Sarajevo.”

(Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso)

Voci e frequenze che bucano i confini

Quando uno scrittore ha la capacità di farti immedesimare in quel che descrive, di farti viaggiare con la mente, di rendere vive le sue parole, merita di essere raccontato. Ho letto alcuni libri di Paolo Rumiz e mi sembra di poter dire che quello che segue è un buon compendio. Ho anche pensato: non è che all’esame di stato, dopo Claudio Magris optino per Paolo Rumiz? Beh no, un altro triestino forse no…

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso.

«Nell’ambito della manifestazione “L’Europa che non conosci. Viaggi, racconti e immagini tra il Trentino e i Balcani”, lo scorso 27 giugno si è tenuto un incontro dal titolo “Un caffé da Lutvo” con l’attrice Roberta Biagiarelli e il presidente del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani Michele Nardelli. Per l’occasione, lo scrittore Paolo Rumiz ha inviato un suo scritto inedito di grande fascino di cui è stata data lettura nella serata con l’accompagnamento musicale del violinista Mario Sehtl.»

paolo rumiz, balcani, viaggiare, confini, frontiere“Potrei parlarvi di odio e scannamenti, di profughi e kalashnikov; dirvi di una terra lacerata con l’occhio gelido della geopolitica. Invece no. Vi dirò dei suoni di un mondo inquieto, dell’acustica che nasconde l’anima dei suoi luoghi. La mia anima è piena di quelle frequenze. Essa li cerca come Orfeo e la sua cetra, gli va dietro oltre il confine del mondo dei vivi, là dove abita Persefone. Sente che quei suoni partigiani resistono alla grande omologazione globale, alla tirannia del pensiero unico.

Sono figlio della frontiera. Italiano di lingua, tedesco di cultura, slavo di stomaco e fegato, turco di canto e di cuore, ebreo di fascinazione. I Balcani abitano nel mio stesso cognome, che contiene la radice “Rum “di Rumelia, la parte europea – romana – dell’impero ottomano. Credo, di conseguenza, di avere dentro di me qualcosa che mi aiuta a sentire nel modo giusto quello spazio del mappamondo.

E allora cominciamo così a caso, là dove mi porta la memoria del lungo viaggiare. Cominciamo da due ex belle donne di Novi Sad, alte sul metro e ottanta, che si avvicinano a un fisarmonicista seduto davanti al Danubio, gli mettono in mano una banconota, gli dicono “dài, facci piangere”, gli fanno spremere dallo strumento oceani di tristezza e secoli di sradicamenti, ballano e si abbracciano senza badare ai passanti.

I Balcani sono questi lampi di immagine. Cose come un belgradese che esce per strada esultando per una buona notizia, assolda tre zingari armati di fiati e tamburi, e assieme a loro gira la città con una bottiglia di rakija in mano e un codazzo di passanti che ballano ascoltando la sua musica.

In quel mondo trionfa la condivisione teatrale di gioia e malinconia. Come quella di un greco che, in una locanda di Salonicco, festeggia un buon affare frantumando una montagna di piatti, metodicamente, uno a uno, tra gli applausi dei clienti e del taverniere, e poi, colto da improvvisa nostalgia di qualcosa, va a nascondersi in un locale “proibito” per estenuarsi in un assolo di rebetiko, ginocchia piegate, braccia larghe e sigaretta in bocca, davanti a una cantante rauca venuta da Smirne e un suonatore di buzuki rugoso come un Cheyenne.

Balcani sono una stazione austriaca con una porta a vetri che si spalanca con un colpo di vento e spinge dentro la sala d’aspetto una giovane zingara dalla magnifica treccia corvina, gonna lunga e vermiglia da flamenco, il suo neonato in un fagotto al fianco, che chiede soldi con occhi di fuoco e lascia gli astanti senza fiato.

Balcani sono una giovane turca che strappa una storia d’amore alla tua ostinata reticenza occidentale, la ascolta in silenzio col viso rigato di lacrime, alla fine ti dice “Hai la lingua di miele, straniero”, e poi per ringraziarti canta per te qualcosa che ti ara l’anima, un motivo di nome “Ayrilik”, che vuol dire “dolce mancanza”, con una voce che pare un flauto di canna nel deserto.

E ancora, il trans-danubio verso il confine della Vojvodina, con binari morti, zingari, cavalli, letamai e zucche troppo grandi sulla strada, in una nebbia in cui tutto fluttua come in un bicchiere d’acqua e Pernod; oppure una cameriera slava, capelli corti e nastro nero al collo, che ti fa l’occhiolino apertamente in una birreria lungo una strada della Pannonia.

Balcani è camminare nel fango verso le prime propaggini dei Carpazi, là dove finiscono i paolo rumiz, balcani, viaggiare, confini, frontieretreni d’Occidente e nei binari inizia lo scartamento “sovietico”, diverso di pochi ma fatali centimetri da quello europeo. Balcani sono la prima confusa percezione degli spazi dell’Est, freddo monosillabo totalitario che esclude la parola, più dolce, di “Oriente”.

Rivedo, ora, una contadina che, nonostante le unghie sporche e l’odore di aglio, mi stende con una sciabolata di occhi torbidi, fianchi inguainati di nero e maturi melagrani ansimanti; visione che dura solo un attimo, fino a quando lei non si schiarisce la voce emettendo una specie di ruggito e, dopo aver sputato, non chiama qualcuno in cucina con voce da camionista.

Ecco, ora le immagini e i suoni vengono senza più difficoltà. Sento il canto monotono dei Sufi Bektashi in Albania, nelle valli dimenticate dove i Romani tracciarono la via Egnazia. Il silenzio di una nevicata sui minareti di Sarajevo e i gridi di centinaia di rondini una sera sui Monti Rodopi, in Bulgaria; talmente tante che è impossibile prender sonno. E poi ancora un villaggio della profonda Macedonia – Strumica – dove al tramonto i contadini depongono la vanga per prendere tromba e clarino e la valle intera si riempie di musica come se Dioniso stesso la abitasse con la sua corte.

Balcani. Sono il bordone interminabile di un archimandrita in una chiesa della Dobrugia in Romania, dove a distanza vedi un nero serpente di uomini e donne affluire sulle colline, in fila per uno, al funerale di un uomo pio. Balcani sono una banda di Rom capaci di suonare 48 ore di fila a una festa di matrimonio nella polvere della Puszta ungherese; sono un’armata di duecento cornamuse – non so se avete un’idea di che cosa significa – che suonano insieme sui monti della Stara Planina, gonfie come l’otre dei venti di Odisseo.

Balcani sono il periplo mediterraneo di una parola araba, “Sevdah”, che significa “negra bile”, la grande madre dei salti umorali, della nostalgia e dell’innamoramento, parola che con l’armata islamica raggiunge la penisola iberica e si ibrida col latino trasformandosi in “Saudade”; quella “dolce malinconia” (di una terra perduta) che secoli dopo gli ebrei, esiliati dai re cattolici, porteranno con sé nella nuova terra, ancora una volta islamica, l’impero turco, per generare quegli struggenti capolavori di musicalità popolare che sono le “Sevdalinke”, parola dall’etimo trasparente, le canzoni d’amore della Bosnia.

Balcani sono una pastorella bulgara di nome Valja, che di cognome fa anche Balkanska. Una bambina di mezzo secolo fa che canta seduta su un muretto e affascina due stranieri a caccia di musiche antiche. E’ quel suo canto millenario dal ritmo impossibile che viene catturato da un registratore e spedito nello spazio in un satellite, assieme ad altre canzoni del pianeta Terra, per consegnare agli Alieni qualche testimonianza sublime delle voci del nostro mondo.

Balcani sono il frusciare delle foglie di una foresta impenetrabile di nome Perucica, persa nelle gole del più segreto Montenegro, una selva primigenia dove si dice abiti la sorgente dell’energia creatrice e distruttrice di un mondo. Sono, anche, il mormorio di Sava, Drava, Tibisco e Timis che vanno a confluire in un’unica, sterminata terra di acque e di popoli, in bilico fra Ungheria, Serbia, Croazia e Romania, paradiso dei migratori, degli anarchici e dei battellieri.

Balcani sono il greco Panaiotis che in una notte senza luna ti porta sulla montagna a vedere un uliveto più antico di Cristo e ti fa sentire lo scricchiolio delle stelle d’ottobre sopra una prateria di rosmarino; sono delfini che accompagnano in silenzio la tua vela verso il fondo del golfo di Corinto, fra l’Erimanto, l’Elicona e il Parnaso carichi di neve fuori stagione; sono lo stormire delle grandi querce di Dodoni in Epiro, alberi sacri dove il fauno si sente ancora a suo agio.

Balcani sono quella continguità di mare e montagna che scatena i venti gelidi di Borea, la scarpata che precipita sulla Dalmazia, terra di marinai scesi da valli impervie; sono le Bocche di Cattaro (Kotor), il fiordo dell’ultimo Adriatico dove i tuoni rimbombano anche quattro volte e il fondo della baia si nasconde tra le rocce come dietro un iconostasi durante la celebrazione dei santissimi misteri.

Balcani sono il canto di Ljubo, il battelliere, che entra con la chiatta lungo il Danubio fin dentro le ombrose porte di Ferro, la stretta montagnosa fra Serbia e Romania; sono il suo ritmare le note di un “kolo” per avvertire gli amici del suo arrivo, sono l’eco che cambia dopo la grande diga di Turnu Severin, col vento del Sud che invade la pianura e il fruscio delle spighe d’orzo a Brza Balanka.

Balcani sono lo sferragliare di un treno d’inverno che, passato il fiume d’Europa su un lungo ponte di ferro, entra in Bulgaria, cerca le montagne in mezzo a muraglie di neve. Un vecchio Orient Express pieno di spifferi gelidi dove una donna sui cinquanta mai vista prima, seduta di fronte, ti chiede dopo cinque minuti “sei felice?” e tu ti accorgi che erano vent’anni che nessuno ti faceva quella domanda.

Balcani sono anche il Bosforo con la neve, quando la gola si trasforma in un fiordo norvegese, tra le grida dei muezzin e il tagliente ululato del vento; sono la tramontana che spazza il ponte di Galata, e un vecchio che, nelle stradine del colle di Pera, senza una parola ti porge un thè color dell’ambra perché ha capito che hai freddo.

Balcani è accorgersi che tutto finisce e tutto si capisce lì, nelle vie segrete della seconda Roma, Costantinopoli, dove la Grande Porta ha fatto il nido con la naturalezza di un granchio che sceglie per casa una conchiglia vuota, in quella città dove si va per annusare l’odore di acciughe, di sgombri e pesce spada affumicato, solo per ascoltare la ressa sui moli, il muggire del ferry nella nebbia, il cigolio dei pontoni e le urla dei gabbiani reali sul bazar. Nella mia ballata in versi “La cotogna di Istanbul”, dico che è impossibile capire la Bosnia, intesa come quintessenza dei Balcani, se non ti immergi e non ti perdi per una volta almeno nei vicoli del Corno d’Oro.

Balcani, una terra di cui non puoi capire “il suo destino, la sua soggezione / a un potere lontano e imperscrutabile / il suo odore di cuoio e sigarette / l’occhio caucasico delle sue donne / la sua vitalità e la sua tristezza / non puoi capire, se sei forestiero / la pazienza infinita dei suoi vecchi / e il rito misterioso del caffè / che va centellinato sul divano / se non vieni sul Bosforo e non guardi / dai moli di Beyoğlu e Karaköy / il fiume umano che arriva dall’Asia / e nella notte non vedi il pulsare / intermittente del piccolo faro / di Kandilli Feneri, appena oltre / le luminose vetrate e il giardino / del palazzo reale di çiragan”.

E davvero non puoi capire nulla dei Balcani, se non vedi quel piccolo lume che ti chiama, luce dispersa alla fine del mondo, la sola cosa immobile in un traffico di navi, pesci, uomini e gabbiani.

Per me, e non solo per me, quel mondo è riassunto ancora da uno stato che non c’è più, di cui si pronuncia il nome solo con una “ex” davanti: la Jugoslavia, di cui rimane vivo, ad accomunare controvoglia i Paesi nati dalla sua frammentazione, il solo prefisso telefonico “0038”. Ho seguito la guerra spaventosa che ha lacerato la vecchia federazione, e ne avrei di cose da raccontare. Ma se mi chiedono che cos’era quel mondo, racconto una piccola storia. Questa.

Un giorno capitai a Ohrid in Macedonia a bordo della mia vecchia Renault. Sarà stato il 1985 e sembrava il momento più felice del Paese. Tito era morto, i controlli alle frontiere erano meno severi, da Lubiana al confine greco impazzava la libertà di parola, c’erano feste e belle donne dappertutto, e solo pochi pessimisti cominciavano ad avvertire il male oscuro che di lì a sei anni avrebbe mandato a picco la repubblica federata. In questo clima giunsi in paese. Un posto incantevole, affacciato su uno dei laghi più belli d’Europa, a due passi dall’Albania ancora blindata nel regime. La macchina era guasta, proseguiva tossicchiando a balzi, e io dovevo urgentemente registrare le cosiddette “puntine”. Così andai in un’officina a chiedere per favore un cacciavite e una chiave inglese per fare il lavoro per conto mio. C’erano amici che mi aspettavano per cena a Salonicco e volevo fare in fretta. E lì accadde l’imprevedibile. Sentita la richiesta, i meccanici interruppero il lavoro e si consultarono, discutendo animatamente. Non capii subito che, trattandosi di un’impresa autogestita, dove gli operai stessi erano proprietari degli strumenti di lavoro, la mia richiesta aveva provocato un’assemblea. Il problema era di lana caprina. La tradizionale ospitalità balcanica impediva che io fossi abbandonato al mio destino, ma nello stesso tempo i regolamenti dell’autogestione proibivano l’alienazione di chiavi inglesi e affini. La mia richiesta era impraticabile e i meccanici stavano letteralmente sbranandosi per fornirmi una via d’uscita. L’assemblea durò un’ora e mezza, e io vi assistetti affascinato fino a quando il capo della masnada venne da me con la soluzione. Il lavoro l’avrebbero fatto loro, e gratis. Nel frattempo era arrivato un melone, cui seguì un piatto di prosciutto salato. Era chiaro: quel giorno non sarei arrivato a Salonicco. Quanto si annunciava era assai meglio. Una vecchia nerovestita arrivò con olive, formaggio caprino e della rakija alle prugne, e intanto il lavoro attorno alla mia macchina aveva paralizzato l’azienda. I meccanici erano tutti lì, a metterci le mani fumando e scambiandosi battute sotto il sole ardente di Macedonia. Giunsero così le due del pomeriggio, ora di fine lavoro (in Jugoslavia vigeva l’orario unico di otto ore dalle sei dal mattino) e la macchina mi fu puntualmente riconsegnata. Ringraziai, senza sapere ancora cosa mi aspettava. Quello che accadde è che il capo dell’officina – un turco di antica ascendenza ottomana – mi invitò a casa, e poiché costui aveva preventivamente allertato la moglie, quando vi arrivai, già bello allegro, trovai la tavola imbandita e due vecchine cartapecora – anch’esse in nero vedovile – intente a fare la spola con la cucina. Si sedettero solo gli uomini: l’azienda autogestita, il padre del capo, e l’italiano in transito. “Ti abbiamo fatto il kebab” mi fu detto e scoprii qualcosa di assolutamente diverso a quanto avevo mangiato finora. Non più un panino con i soliti “trucioli” di carne tolte col coltello dal girarrosto, ma una “pita” del diametro di un metro dove i frammenti di carne erano stati distesi con uno strato uniforme. Bevemmo altra rakija propiziatrice, il capo si pulì le manone nere d’olio di macchina, arrotolò con vigore il doppio strato di pita e carne arrosta formando un cilindro ben pressato che affettò a medaglioni, poi dispose i dischi spiraliformi su un grande piatto di portata di rame. Infine mise in mezzo al piatto due ciotole, una con salsa di peperoncino infuocato e una – più grande – con yogurt per spegnere l’incendio procurato dalla prima. La distribuzione del cibo fu un rito compiuto con serietà cerimoniale, poi esplose l’allegria. Quella fu solo la prima di molte portate. Il pranzo divenne cena senza soluzione di continuità, al tramonto vennero trombe e clarinetti, e quando andai sul retro a far pipì scoprii che la mia macchina era stata portata nel cortile della casa e lucidata a dovere, mentre donne invisibili mi avevano preparato un letto con lenzuola ricamate di lino. Rinunciai alla Grecia, rimasi a Ohrid tre giorni e non fui mai sfiorato dal dubbio che dì lì a poco quel paese delle meraviglie sarebbe franato nel sangue.

Ecco, questi sono per me i Balcani. E perdonatemi se non vi ho parlato di guerre e secessioni, ma di note bastarde, voci e frequenze che bucano i confini, ignorano i visti, i passaporti e le lingue, per andare dritti al cuore dell’uomo.”