Gemma n° 2382

“Sono entrata nel 2023 con la consapevolezza di dover cambiare precisi aspetti della mia persona ed un grande bisogno di aiuto.
Quest’ultimo l’ho trovato in Dio, che è stato, è e sarà sempre il mio sostegno e conforto nei momenti difficili.
Inizialmente non mi sono resa conto di come quest’anno sarebbe diventato decisivo, una svolta per la mia vita.
Ho compreso ciò strada facendo.
Ormai poche settimane ci separano dal 2024; guardando indietro ai mesi passati, riconosco con felicità e commozione che solo Dio, con la sua potenza, ha operato in me le grandi trasformazioni necessarie.
Perciò ho scelto come gemma la foto dei fiori che ho ricevuto in occasione del mio battesimo” (S. classe quinta).

Parlare di Dio

Il pastore valdese Paolo Ricca ha scritto un libro dal titolo “Dio. Apologia”. Pubblico l’intervista a cura di Luigi Sandri per la rivista Confronti.

“Nel suo ultimo libro Dio. Apologia il pastore e teologo Paolo Ricca affronta e discute le maggiori obiezioni che nella modernità sono state e continuano a essere mosse alla fede in Dio e alla sua stessa esistenza, per poi esporre i tratti più caratteristici dell’idea cristiana di Dio.

Paolo Ricca è stato consacrato pastore della Chiesa valdese nel 1962, esercitando il ministero pastorale in diverse chiese valdesi in Italia. Ha conseguito il dottorato in Teologia presso la Facoltà teologica dell’Università di Basilea e, successivamente, la Facoltà di Teologia dell’Università di Heidelberg gli ha conferito la laurea honoris causa. Ha insegnato Storia del Cristianesimo presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma e ha insegnato come professore ospite presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Per l’editrice Claudiana dirige la Collana Opere scelte di Martin Lutero, di cui ha curato vari volumi. Tra le sue opere ricordiamo: Le dieci parole di Dio. Le tavole della libertà e dell’amore (Morcelliana, 1998), Dell’aldilà e dall’aldilà. Che cosa accade quando si muore? (Claudiana, 2018) e Ego te absolvo. Colpa e perdono nella Chiesa di ieri e oggi (Claudiana, 2019). Nel suo ultimo libro, Dio. Apologia (Claudiana, 2022) affronta e discute le maggiori obiezioni che nella modernità sono state e continuano a essere mosse alla fede in Dio e alla sua stessa esistenza per poi esporre i tratti più caratteristici dell’idea cristiana di Dio, così come emergono dalle pagine della Bibbia, non rinunciando al dialogo costante con la cultura contemporanea e con le religioni mondiali. Pur avendo scritto diversi e impegnativi libri di carattere teologico, mai nessuno dei tuoi libri è stato dedicato espressamente a parlare di Dio. Perché, adesso, hai dedicato a questo ponderoso tema il tuo volume?
L’ho pensato e scritto adesso perché mi sembra chiaro che la Chiesa, e per Chiesa intendo tutte le Chiese, non parla di Dio: parla dei poveri, dei rifugiati, degli ultimi. Insomma parla delle nostre opere, predica le nostre opere, ma non predica Gesù, non parla di Dio. Naturalmente le opere sono importanti e non ho nulla da obiettare al discorso sulle opere, e all’impegno per l’accoglienza e la cura; del resto, Gesù per tutta la sua vita non ha fatto altro che opere. Egli è un operaio di Dio, tutti i giorni, dalla mattina alla sera, compreso il sabato. Quindi le opere sono costitutive dell’essere cristiano; tuttavia il Cristianesimo non sono le nostre opere, ma l’annuncio di Dio. I leader cristiani presuppongono Dio, ovviamente, come premessa al loro bene operare. Ma Dio non è una premessa; se facciamo così Lo mettiamo già dietro le spalle, e noi non siamo davanti a Dio.
Da qualche decennio in alcuni settori delle Chiese – partendo dalla Chiesa episcopaliana (anglicana) statunitense e lambendo poi quella Cattolica – si è sviluppato un movimento di pensiero, che si definisce “Oltre le religioni” che, tra le altre cose, arriva a oscurare quanto da due millenni proclamano tutte le Chiese, e cioè Gesù Cristo “veramente Dio e veramente uomo”. Ma può esistere il Cristianesimo se si nega questa verità?
L’allergia a Dio si esprime anche così. È un’allergia mondiale e l’Europa, con tutto il primo mondo, è maestra in questo (altro sarebbe il discorso proveniente dal resto del pianeta). A me sembra che non si voglia ammettere che c’è il Dio di Gesù, cioè una realtà diversa dall’umano, dal materiale, dallo storico, dall’evidente, dal visibile: una Realtà verissima, non proiettata e costruita da noi. Dio, che sta in te e di fronte a te, è però altro da te. È un Tu ineffabile, misterioso, lontano e presentissimo. Se lo si elimina, allora lo si elimina anche nella figura di Gesù. Tuttavia vorrei fare una proposta: va bene, prendiamo per buono che Gesù sia solo uomo. Ma quale uomo?
Questa diventa la domanda. Che tipo di umanità? Un tipo di umanità che trascende l’umano e che essa non riesce a spiegare. Questo è il motivo per cui si è parlato di Gesù come presenza divina nell’umanità, nella storia. Se poi parliamo dell’uomo, allora dobbiamo riferirci a quell’uomo, così come ci è stato descritto nelle Scritture. Egli manifesta un tipo di umanità che non riesco a spiegarmi in base a tutte le categorie dell’umano conosciute. Nell’umanità ci sono aspetti bellissimi, e realtà di bene meravigliose. Ma essa, nell’insieme, è un pianto. Anche nel passato vi era questa ambiguità: in tale contesto operò Gesù che non era un uomo religioso, ma semplicemente un uomo. Un uomo credente, anche relativamente praticante, ma la sua caratteristica non era quella di rendere religiosa l’umanità, ma di rivelarne un tipo che l’umanità non conosceva.
Gesù è il punto di aggancio a queste tre realtà, che sono Padre, Figlio e Spirito Santo. Sono nomi, titoli e hanno un valore relativo, ma la loro funzione è di distinguere delle funzioni e dice appunto che nessuno dei tre esaurisce la pienezza di Dio. È soltanto insieme che questa pienezza viene raggiunta, per cui Dio è trinitario. Detto in breve: noi uomini e donne del mondo non abbiamo potuto e, da Adamo ed Eva (e chi per loro!) e fino alla fine del mondo, quando sarà, non possiamo e non potremo mai dire con chiarezza come Dio è fatto. C’è un salto di fede ineliminabile.
Del resto, nella Bibbia c’è il nascondimento di Dio, la nuvola che lo copre, per cui non è mai esplicito, evidente o a disposizione. Ma se parliamo di “relazione” nella Trinità, ci avviciniamo al mistero. Se esistesse una sola creatura umana, essa non avrebbe la parola, non dovendo relazionarsi con un tu. La relazionalità è costitutiva dell’essere umano, ma anche del mondo animale e vegetale. Una stupefacente ricchezza. Se trasferiamo questa sensibilità alla riflessione su Dio, arriviamo, pur alla lontana, ad intuire che Gesù è un appiglio per cercare di pensare a Dio come a una relazione di amore. Egli è, in qualche modo, conoscibile; non è una sfinge.
Possiamo dire, con verità, che Dio è amore, non odio; pace, non guerra; riconciliazione, non violenza. Perché possiamo dirlo? Perché Dio ha parlato attraverso i profeti e la Torah [la legge ebraica], tutto quel grande e straordinario filone che è arrivato molto avanti nella conoscenza del mistero, perché c’è un mistero che, parzialmente, si può conoscere. Io credo che in Gesù, nella Parola fatta carne, fatta uomo, la realtà di Dio è apparsa in una luce che non è stata raggiunta da altri. Questo non vuol dire che non possiamo imparare anche su Dio molte cose, da tante altre voci, piste, emergenti nel mondo. Realtà che non è possibile, né giusto, liquidare come “paganesimo”. Invece è, anch’essa, ricerca di Dio. Ma la mia convinzione profonda è che la rivelazione di Dio in Gesù sia quella più illuminante.
Tuttavia, attenzione: dobbiamo evitare di identificare Dio con la nostra comprensione di Dio; dobbiamo cercarLo, ognuno per la sua strada. Ci possono essere varie piste; per me Gesù non è soltanto una pista, ma la pista. Ma questo è Lui, non sono io, non è il cristiano. Se si fa questa distinzione e non si sovrappone l’essere cristiano all’essere di Gesù allora siamo tutti alla ricerca di Dio e ciascuno nella sua convinzione provvisoria ma anche profonda. L’assoluto è la rivelazione di Dio per noi in Gesù. È Lui la via, la verità, non me stesso o la mia comprensione di Dio e di Gesù; non il mio Cristianesimo.
Formalmente, si diventa cristiani con il battesimo. Questo sacramento serve a lavarci dallo stigma del “peccato originale”?
Il battesimo è il patto di Dio in vista dell’umanità nuova, quella di Gesù, che noi dobbiamo cercare di imitare. Io credo che Egli ci salva con la morte e con la vita. Infine, con la sua risurrezione ci riscatta, perché Dio non permette la nostra dissoluzione totale, ma ci tira fuori dalla tomba e ci dona un’eternità. Ma torniamo al “peccato originale”. Di esso la Bibbia non parla, ed è ignoto alla tradizione ebraica. Nella Chiesa dei primi secoli a poco a poco si è creata questa tradizione, infine a cavallo tra il quarto e quinto secolo sistematizzata da Agostino, vescovo di Ippona (nell’attuale Algeria); essa è stata poi dogmatizzata e il Concilio di Trento, nel 1546, comminava la scomunica a chi negasse che i nostri progenitori peccarono, o negasse che la loro colpa si trasmettesse, per generazione, come una tara indelebile, a ogni creatura umana nascente. Solo il battesimo – si affermava – avrebbe potuto lavarci da tale colpa.
Ma davvero è andata così? Adamo ed Eva si resero subito conto della nostra finitudine: siamo limitati, possiamo ammalarci, e dobbiamo morire. Se poi essi disobbedirono a Dio, è un fatto che non per quello li punì; vissero, infatti, molti anni (lo afferma il libro della Genesi). Ai loro figli e discendenti essi trasmisero dunque la finitudine, ma nessunissimo peccato.
I “padri” della Chiesa confusero indebitamente le due realtà. Trovo dunque bellissimo Il perdono originale, un libro in cui Lytta Bassett, teologa contemporanea della Chiesa riformata di Ginevra, afferma appunto che “in principio” non ci fu nessun peccato originale ma, al contrario, il Signore trattò con misericordia Adamo ed Eva, che dunque non trasmisero ai discendenti alcuna colpa. Ogni persona vivente non parte svantaggiata, con un “handicap spirituale”, ma ricolma della grazia di Dio: poi ognuna sarà giudicata se, liberamente, nella vita avrà scelto il bene o il male.
Nel battesimo, dunque, il Signore stringe un patto con noi, invitandoci ad imitare Gesù. Certo, se guardiamo l’esperienza, constatiamo che facilmente ci appassiona più il male che il bene. Abbiamo una predilezione, un fascino verso il male. Quindi la dottrina del “peccato originale” è stata un tentativo di spiegare questo desolante atteggiamento. Ma noi oggi dobbiamo respingere l’idea del battesimo come lavacro da una colpa trasmessaci da migliaia di generazioni infettate da Adamo ed Eva; per proclamare, invece, che fin “dal principio” Dio ci ricopre con il manto del suo “perdono originale”.
Ritieni opportuno che nel 2025 tutte le Chiese celebrino i millesettecento anni dal Concilio di Nicea? Esso proclamò che Gesù Cristo, figlio di Dio, è uguale (non simile!) al Padre, e dunque “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non fatto. Per la nostra salvezza si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto ed è risorto il terzo giorno”. È tuttora valida la sua proclamazione di fede, oppure è un mito da abbandonare?
Le celebrazioni sono importanti perché ci ricordano che siamo creature storiche e che la storia umana non comincia con noi. Questa mi pare sana, come posizione. Perciò sono per le celebrazioni delle ricorrenze importanti, in generale: e ancor più per le celebrazioni critiche. Infatti, oggi noi abbiamo la distanza sufficiente per vedere i limiti di tutto quello che ci precede, così come i nostri successori vedranno i nostri limiti. Quindi ben venga la commemorazione di Nicea. Rilevo che le singole affermazioni di quel Concilio risentono molto dei dibattiti teologici e politici, di quel tempo, assai accesi e violenti. Però trovo bella la dottrina della Trinità, cioè l’affermazione che l’essere profondo di Dio è un essere relazionale, e non una monade. Dio è unico, ma non solitario.
Dio non vuole essere solo, perché è in Sé questa pluralità di soggetti: una realtà che, ovviamente, sfida la nostra razionalità. Capisco che è una sfida all’intelligenza affermare che Dio non è uniforme, ma pluriforme (un teologo africano mi ha detto che proprio il rifiuto del dogma misterioso del Dio uno e trino, per proclamare invece l’assoluta unità e unicità di Dio, è il motivo per cui molti africani scelgono l’Islam piuttosto che il Cristianesimo).
L’affermazione, anche nelle Chiese, del femminismo, può condurre ad una revisione globale di dottrine su Dio elaborate in sostanza da uomini, e dunque segnate dal maschilismo?
È vero: la riflessione teologica, compiuta nei secoli soprattutto (ma non unicamente!) da uomini, ha un’impronta maschilista. Ma Dio non è sessuato; e non si esce dalla dialettica maschile- femminile anche perché oggi c’è il discorso della fluidità sessuale: siamo tutti un po’ uomini e un po’ donne. Si potrebbe dire che Dio sia tutto al maschile o al femminile, o Crista invece di Cristo, oppure Dea invece di Dio; ma non si esce dalla polarità sessuale. È chiaro che il maschile non è tutta l’umanità, come non lo è il femminile: ognuno è solo una parte. Siamo in una prigione confortevole, ma nella prigione dei sessi. Dunque, è un arricchimento l’arrivo delle teologhe?
Certamente, perché esse ci aiutano a vedere la maternità nella paternità di Dio. Dio è padre ma un padre super materno. Il femminismo, a me che difendo il Padre nostro, offre un grandissimo aiuto a cogliere questa dimensione. Comprendo meglio che Dio manda in frantumi lo schema del maschile con la sua maternità straordinaria. In Gesù il Creatore non è tanto colui che genera, ma colui che cura il passerotto, il giglio del campo, l’uomo malato, l’indemoniato, l’alienato. L’ideale sarebbe se si potesse parlare di Dio in maniera da render conto di questa ampia complessità.
Dobbiamo soltanto sapere che la pienezza del discorso su Dio dovrebbe poter riflettere la pienezza del discorso sull’umano, quindi includere il maschile e il femminile. Sempre tenendo conto del fatto che, anche se si dice che Cristo è donna, lo si ingabbia ugualmente. Così come lo ingabbio se dico che è maschio. Finché siamo in questo mondo e finché ci troviamo ad essere maschio o femmina, con tutte le varianti, non possiamo fare altro che riflettere questa nostra parzialità. Ma se siamo consapevoli di essere, come maschi, parziali, siamo aperti a tutte le integrazioni che possono venire dalle donne. È un formidabile arricchimento perché “in principio maschio e femmina li creò”.

Stare sulla soglia

Quella di Simone Weil è una figura della quale ho sempre subito il fascino. Pubblico qui uno scritto di Simone Novara pubblicato su Filosofiablog.
Simone_Weil_04Simone Weil ha sempre opposto una strenua resistenza a quei cattolici suoi conoscenti, in primis il suo confidente spirituale, Padre Perrin, che la esortavano a ricevere il sacramento del battesimo. Dietro il suo rifiuto ci sono diversi motivi. Innanzi tutto si sentiva indegna per il suo stato di imperfezione. Il domenicano padre Perrin riteneva che la Weil rifiutasse il battesimo per eccesso di scrupoli. Ella, inoltre, non ebbe nemmeno il tempo di completare il suo itinerario spirituale, dal momento che morì all’età di trentaquattro anni, lasciando una marea di pensieri espressi in modo provvisorio [1]. Lo stesso Perrin era d’accordo con questa tesi: “Ha espresso le sue idee in una forma provvisoria, non destinata alla pubblicazione. Le sue sono solo delle note, sia quelle consegnate a me, sia la lunga lettera destinata al padre Couturier. Sono state pubblicate, commentate e perfino idolatrate da alcuni, ma si tratta pur sempre di note” [2]. Un’altra ragione per la quale Simone Weil non avrebbe accettato il battesimo è rappresentata dal fatto che ella credeva sinceramente che Dio stesso le avesse chiesto di rimanere fuori dalla Chiesa. Simone riteneva che Dio stesso la volesse lontana dalla Chiesa per una qualche ragione misteriosa, che per lei corrispondeva ad una vocazione. Nelle dense pagine di Attesa di Dio si può cogliere come ella desiderasse stare dalla parte dei lontani, per potersi così confondere con la massa dei tanti, che appartengono a tutte le razze e culture, che non hanno avuto la fortuna di incontrare il Cristo nel passato e nel presente. Era troppo importante per lei restare vicina ai non credenti, agli eretici, ai credenti di altre religioni. La Weil sentiva che il suo posto era tra loro. Padre Perrin la paragonò ad una campana che sta all’esterno dell’edificio e suona invitando ad entrare in chiesa. Per Simone diventava cruciale mantenere una posizione esterna. Il suo era uno stare sulla soglia. L’intellettuale E. Vilanova è un grande sostenitore di questa teoria, tanto che scrive in proposito: “Simone Weil può essere collocata tra i carismatici della soglia, tra quei “teologi non computabili ecclesiasticamente” che hanno ricevuto un dono simile a quello del Battista” [3]. Un altro studioso, Dom G. Aubourg, parlando di Simone Weil, crede che ella si sentisse parte integrante di quei cristiani fuori della Chiesa, i quali aiutano coloro che sono dentro ad essere più consapevoli della loro vocazione universale, in sintonia con il Padre [4]. La Weil, inoltre, rifiutò sempre di concepire l’autorità ecclesiale come espressione di potere, in grado di definire che cosa sia la verità, avocando a sé il compito di esercitare l’intelligenza. Senza dubbio attribuiva grande importanza alla libertà dell’intelligenza, che, secondo lei, doveva essere assoluta nel suo campo e rigorosamente individuale nel suo metodo; proprio per questo ella non riusciva ad accettare che Dio scegliesse degli uomini cosiddetti “privilegiati”, col compito di pensare per tutti arrivando a formulare una verità in modo dogmatico. Allo stesso modo, la Weil non poteva sopportare che Dio avesse un popolo “eletto”. Riteneva infatti che la nozione stessa di elezione fosse del tutto incompatibile con il Dio di tutti. Tuttavia, nonostante le espressioni piuttosto irruente contro l’abuso di potere della Chiesa, in alcuni appunti le riconobbe un ruolo di indirizzo: “Le riconosco la missione, in quanto depositaria dei sacramenti e custode dei testi sacri, di formulare decisioni su alcuni punti essenziali, ma solo a titolo di indicazione per i fedeli” [5]. È inevitabile domandarsi come sia stato possibile per Simone Weil restare in una posizione che appare per molti versi del tutto individualistica, dopo aver fatto un’esperienza di comunione spirituale con il Cristo. A detta sua coloro che vivono la vita intima di unione con il Cristo costituiscono di fatto la vera Chiesa, che siano o meno membri della Chiesa visibile. A più riprese dichiarò che l’amore per tutto ciò che stava fuori dal cristianesimo la tratteneva fuori dalla Chiesa visibile; questo “attesta che ella sente di appartenere alla famiglia degli amici del Cristo, figli del Padre, guidati dallo Spirito, in sintonia con la schiera innumerevole e invisibile di gente che viene nutrita costantemente e segretamente dal Cristo” [6]. Per Simone Weil la Chiesa invisibile si fondava sugli apostoli, i quali conobbero la gloria e la potenza di Dio, e si decisero a partecipare all’avventura della Chiesa nascente, mentre la Chiesa visibile, quella istituzionale, ha costruito il suo prestigio e la sua visibilità sociale esclusivamente sulla Risurrezione. La figura evangelica corrispondente alla Chiesa invisibile non si identifica con Pietro e neanche con Maria o Giovanni, bensì con il buon ladrone, messo dalla sorte vicino al Cristo crocifisso. Il buon ladrone apre dunque le fila di coloro che vengono salvati per una via inedita, non accreditata che dall’amore imponderabile di Cristo. La Weil si riconosceva nel buon ladrone, sia per il significato simbolico esemplare di un tale personaggio, sia perché egli non si converte per i miracoli, per l’attrazione della potenza visibile della Chiesa nascente, ma solo dal momento che s’inchina di fronte al mistero della condanna a morte di un innocente: “se non potrà essermi concesso di meritare di condividere un giorno la croce di Cristo, spero mi sia data almeno quella del buon ladrone. Fra tutti coloro di cui si parla nel vangelo, al di fuori di Cristo, il buon ladrone è quello che invidio di più. […] Essersi trovato al fianco di Cristo, nella sua stessa situazione, durante la crocifissione, mi sembra un privilegio molto più invidiabile dell’essergli alla destra nella sua gloria” [7]. Essere vicini al Cristo della Croce è il compito di quaggiù, essergli vicino nella gloria, quello di lassù. Il buon ladrone esprime la capacità di penetrare il senso misterioso della sventura dell’innocente anche da parte di chi non ha fede esplicita in Dio, dimostrando che non è la certezza della fede la via obbligata [8].”

[1] Di Nicola-Danese, Abissi e vette, percorsi spirituali e mistici in Simone Weil, Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, p. 87.
[2] D. Canciani, Tra sventura e bellezza. Riflessione religiosa e esperienza mistica in Simone Weil, Esperienze, Fossano 1998, pp. 33-36.
[3] E. Vilanova, Storia della teologia cristiana, vol. 3, Borla, Roma 1995, p. 484.
[4] Dom. G. Aubourg, Simone Weil, un signe dressé sur le seuil de l’Eglise, Correspondance et documents (1950-1967), Association ‹‹Les amis du Père Aubourg››, Paris 1986, p. 47.
[5] Di Nicola-Danese, Abissi e vette, percorsi spirituali e mistici in Simone Weil, p. 90.
[6] Ivi, pp. 206-208.
[7] Ivi, p. 209. Cfr. Lc 23, 40-43: ‹‹L’altro invece si mise a rimproverare il suo compagno e disse: “Tu che stai subendo la stessa condanna non ha proprio nessun timore di Dio? Per noi due è giusto scontare il castigo per ciò che abbiamo fatto, lui invece non ha fatto nulla di male”. Poi aggiunse: “Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno”››.
[8] Ibid.