Spinte radicali in Pakistan

Alla fine ho deciso di abbonarmi a Il Post, un progetto editoriale che seguo da un po’. L’ho fatto sia per continuare ad ascoltare due podcast, Morning e Tienimi bordone, sia perché apprezzo l’accuratezza con cui vengono scritti gli articoli. Inoltre, dopo un po’, hai la sensazione di far parte di un gruppo, di stare effettivamente contribuendo alla realizzazione di un bel lavoro. Infine non nascondo che abbia inciso anche il costo abbordabile per le mie tasche. Mi capiterà, quindi, di pubblicare un po’ più frequentemente dei loro pezzi rispetto a quelli di altre fonti, anche perché non hanno alcuna forma di paywall.
Oggi pubblico un articolo sulla situazione che si sta delineando in Pakistan, in particolare sulle pressioni che un gruppo radicale sta esercitando sul governo di Islamabad. L’articolo lo potete trovare qui.

“Dalla fine di ottobre in alcune regioni del Pakistan, a sud della capitale Islamabad, migliaia di persone appartenenti a gruppi islamici fondamentalisti hanno bloccato un’importante autostrada e ricattato il governo, chiedendo diverse concessioni e protestando contro alcuni atti che considerano blasfemi. Il più importante di questi gruppi si chiama Tehreek-e-Labbaik Pakistan (TLP) ed è diventato una forza importante e pericolosa nelle dinamiche sociali del paese.
Il 1° novembre, dopo giorni di scontri in cui sono morti quattro poliziotti e durante i quali sono state bloccate alcune tra le più importanti vie commerciali del paese, il governo ha infine ceduto ai manifestanti, raggiungendo un accordo i cui termini sono segreti ma che, a detta dei giornali locali, garantisce molte concessioni ai fondamentalisti. Il TLP è da tempo una presenza influente nella vita politica e sociale del Pakistan e, come avvenuto più volte negli anni scorsi, ha mostrato di essere in grado di ricattare il governo nazionale con manifestazioni e azioni violente per ottenere i suoi obiettivi.

Ad aprile il governo pakistano, per cercare di fermare il TLP, aveva perfino designato il gruppo come organizzazione terroristica e ne aveva arrestato il leader, Saad Hussain Rizvi (nella foto). Dopo l’arresto c’erano state rivolte di piazza, con un numero imprecisato di morti e centinaia di feriti. Il governo allora era riuscito a placare le manifestazioni facendo delle concessioni, ma gli estremisti del TLP sono tornati a protestare lo scorso 21 ottobre. A migliaia, spesso armati, hanno cominciato una marcia da Islamabad, la capitale, alla grande città di Lahore, con l’obiettivo di occupare la Grand Trunk Road, un’autostrada che collega le due città e che è una delle principali vie di trasporto di tutto il paese.
Le richieste dei manifestanti erano numerose e confuse, ma le principali erano tre: il rilascio di Saad Hussain Rizvi, il ritiro delle accuse di terrorismo avanzate dai tribunali pachistani contro centinaia di affiliati al gruppo, e l’espulsione dell’ambasciatore francese. Quest’ultima richiesta era una ritorsione per il fatto che un anno fa il presidente francese Emmanuel Macron aveva difeso la pubblicazione di vignette satiriche che raffiguravano il profeta Maometto: è una vecchia battaglia del TLP, che aveva portato a scontri tra i manifestanti e la polizia pachistana già nei mesi scorsi.
Secondo alcuni giornali pachistani citati dal New York Times, i termini dell’accordo che ha risolto la crisi degli ultimi giorni prevedono il rilascio di vari membri del gruppo in prigione, la promessa che non ci saranno più accuse contro rappresentanti del TLP e la rinuncia alla designazione di gruppo terroristico. Il TLP avrebbe rinunciato invece a chiedere al Pakistan di tagliare i rapporti diplomatici con la Francia.
Il TLP, che oltre a essere un movimento sociale estremista e un gruppo di pressione è anche un partito politico (con poco successo elettorale, finora), fu fondato nel 2015 con lo scopo di difendere la rigida e controversa legge sulla blasfemia del paese, che prevede pene durissime, compresa la pena di morte, per chiunque offenda una qualunque religione. In Pakistan, dove il 96 per cento della popolazione si professa musulmano, quasi sempre la religione offesa è l’islam.
Il gruppo divenne un movimento di massa durante i vari sviluppi della vicenda di Asia Bibi, una donna cristiana accusata ingiustamente di blasfemia, la cui vicenda divenne un caso internazionale. Tra le altre cose, il TLP organizzò grandi rivolte di piazza in difesa di Mumtaz Qadri, una guardia del corpo che nel 2011 aveva ucciso il governatore della provincia del Punjab dopo che questi aveva difeso Asia Bibi e chiesto una riforma della legge sulla blasfemia. Nel 2017, il TLP organizzò altre rivolte dopo che il governo aveva proposto di modificare lievemente il testo del giuramento dei parlamentari che faceva riferimento al profeta Maometto: negli scontri morirono sei persone, e centinaia furono ferite.
Nel corso degli anni, il governo del Pakistan non è stato in grado di gestire organizzazioni come il TLP: ha consentito che diventasse «uno dei gruppi di pressione più importanti» del paese e di fatto ne è diventato «ostaggio», come ha scritto l’Economist. Il governo tuttavia non è soltanto una vittima. Nel corso degli anni, la politica e l’esercito pachistani hanno alimentato sentimenti fondamentalisti nella popolazione, servendosi di gruppi come il TLP per polarizzare l’opinione pubblica e ottenere vantaggi elettorali. Come ha scritto sempre l’Economist, i legami tra l’élite pachistana e il TLP sono noti: per esempio, durante le proteste del 2017, un alto ufficiale dell’esercito fu filmato mentre consegnava somme di denaro ai leader del gruppo”.

La blasfemia in Pakistan

Dal sito di Reset. Dialogue on Civilizations prendo questo articolo molto interessante sulla legge sulla blasfemia in Pakistan. E’ di Martino Diez.

blasfemia-pakistan-asia-bibi
“La legge sulla blasfemia pakistana è tristemente nota per i suoi effetti discriminatori verso le minoranze religiose e il caso di Asia Bibi, di cui si attende la sentenza in secondo grado dopo la condanna a morte in primo grado, non è purtroppo isolato. Ma da dove nasce questo provvedimento, contenuto agli articoli 295/B-C e 298/A-C del codice penale? Storicamente, esso rappresenta una delle sinistre eredità del dittatore filo-islamista Zia-ul-Haq (1978-1988). Promulgate tra il 1984 e il 1986, le norme integrano l’originario comma 295/A che gli inglesi avevano inserito nel 1927 nel codice penale indiano. Ma mentre la disposizione coloniale mirava a proteggere i luoghi di culto di tutte le religioni, sullo sfondo delle crescenti tensioni tra musulmani e hindu, i nuovi commi voluti da Zia-ul-Haq (e che Nawaz Sherif ha ulteriormente inasprito nel 1990) sono a senso unico. Viene proibito il danneggiamento del Corano, in qualsiasi forma, nonché espressioni offensive verso il Profeta dell’Islam, «a parole, dette o scritte, o con rappresentazione visibile» e verso i protagonisti della storia sacra islamica, in particolare le mogli del Profeta e la sua famiglia, i quattro califfi ben guidati e i Compagni. Non pago, l’articolo 298 vieta al «gruppo Qadiani o Lahori (che chiamano sé stessi Ahmadi)» di attribuire il titolo di “Comandante dei credenti” a qualcuno diverso dai califfi ben guidati, o di “Madre dei credenti” a qualcuno diverso da una moglie di Muhammad, di chiamare “membro della Casa” una persona al di fuori della famiglia di Muhammad, di denominare il proprio luogo di culto “moschea” o azan il proprio appello alla preghiera. Infine, il codice vieta agli Ahmadi di definirsi musulmani. Il tutto accompagnato da pene draconiane, fino all’ergastolo e alla morte.
Oltre a offrire un esempio efficace dell’irrigidimento che la sharî‘a classica (una giurisprudenza più che un diritto) subisce nel processo di traduzione nei moderni codici statali, queste norme s’inseriscono in un clima di mobilitazione permanente che tende a presentare l’Islam in Pakistan come oggetto di una minaccia costante. Affermazione quantomeno sorprendente in un Paese in cui il 96% della popolazione è musulmana e in cui la Costituzione del 1973, all’articolo 31, attribuisce allo Stato il compito primario di «permettere ai musulmani […], individualmente e collettivamente, di ordinare le loro vite in accordo con i principi fondamentale e i concetti basilari dell’Islam e offrire loro strumenti con cui comprendere il significato della vita secondo il Santo Corano e la Sunna». Senza dubbio, leggi come quelle sulla blasfemia sono funzionali al mantenimento della tensione sociale nel Paese, perpetuando l’esistenza di capri espiatori (le minoranze religiose non musulmane, ma anche la comunità sciita) su cui scaricare la responsabilità degli insuccessi economici e politici di cui è testimone la storia recente del Pakistan[1].
In effetti, e contrariamente a quello che si potrebbe pensare istintivamente, numerosi studi – Pew Forum in testa – hanno dimostrato che il livello di violenza a sfondo religioso è direttamente proporzionale agli sforzi che lo Stato mette in atto per favorire una fede sulle altre. «Più lo Stato impone dei vincoli, più aumentano i contrasti a base religiosa»[2]. E il caso pakistano non fa eccezione. Tra il 1927 e il 1986 si contano 7 soli casi di blasfemia, mentre dal 1986 a oggi gli episodi hanno già superato il migliaio e la norma sulla blasfemia è costata la vita a più di 20 persone. Anche se finora non sono mai state eseguite condanne a morte ufficiali (presumibilmente per le reazioni internazionale che susciterebbero), molti accusati sono stati raggiunti in carcere da sicari e molti altri sono stati linciati dalla folla inferocita. Anche solo proporsi di toccare questa legge può costare caro, come mostra l’assassinio di due politici coraggiosi che si erano battuti per modificarla, il cristiano Shahbaz Bhatti, ministro delle minoranze, e il musulmano Salman Taseer, governatore del Punjab. Nonostante questo, o forse proprio per questo, la legge è diventata una bandiera, tant’è vero che nell’aprile del 2009 il Pakistan ha presentato alla Commissione ONU dei Diritti umani la proposta di «estendere a livello mondiale le proprie leggi sulla blasfemia»[3].
Dopo trent’anni di abusi, è forte la tentazione di liquidare come provocatoria non solo questa proposta pakistana, ma anche una serie di richieste analoghe presentate negli anni dall’Organizzazione della Conferenza Islamica e che invocano la tutela delle religioni (al plurale). È facile opporre a queste richieste il principio della libertà di espressione, ma occorre anche riconoscere che un problema con i simboli religiosi esiste. L’elenco degli incidenti a sfondo confessionale montati ad arte negli ultimi anni è molto lungo: si va dai roghi del Corano inscenati da un oscuro pastore in Florida, a film offensivi contro la figura di Muhammad, ma anche a numerose profanazioni di luoghi di culto o simboli religiosi ebraici e cristiani. Per fare un solo esempio, in Egitto lo shaykh salafita Abu Islam nel 2012 ha pubblicamente bruciato la Bibbia esortando i suoi seguaci a orinarvi sopra.
In quest’ottica, le proposte di “tutela delle religioni” possono essere lette come la risposta, sbagliata, a una necessità reale, quella cioè di definire fin dove può arrivare la libertà di espressione e se esista un limite al diritto di critica e alla creatività artistica. Istintivamente, la risposta dell’occidentale medio a queste domande è no, salvo poi dover prendere atto degli incidenti continui che si verificano a livello mondiale e che dimostrano come ogni gesto individuale debba ormai considerare le sensibilità di una platea mediatica potenzialmente globale. Nel campo musulmano invece, come abbiamo visto, viene spesso avanzata la proposta di una neutralizzazione preventiva, secondo il principio per cui “ogni religione deve rispettare le altre”. L’espressione in sé sarebbe condivisibile, ma nei fatti finisce per significare che andrebbe rifiutata qualsiasi critica a ogni religione. Non è difficile comprendere come questa opzione sia nei fatti inaccettabile. Non solo, com’è ovvio, per quanti non si riconoscono in nessuna religione (e che si troverebbero così ridotti al silenzio), ma anche per i credenti, che finirebbero costretti a un dialogo delle cortesie, senza la possibilità di un dibattito reale. In effetti anche i musulmani, quando invocano questo principio, lo fanno in realtà a partire da una pre-comprensione delle altre fedi che è implicita nel concetto islamico di (mono-)profezia. Le altre religioni, nei fatti, non sono da criticare nella misura in cui si conformano all’immagine che il Corano ne fornisce. Il problema è più arduo di quanto appaia a prima vista, perché ogni fede contiene inevitabilmente degli elementi di rottura (e dunque di critica, anche vigorosa) con la tradizione che la precede. Sarebbe ben curioso se, in forza di un’applicazione del principio di “protezione delle religioni”, venisse proibito ai predicatori musulmani di stigmatizzare le pratiche pagane dell’Arabia preislamica. Difficile a ogni modo pensare che questo potesse essere l’obiettivo della richiesta pakistana presentata alle Nazioni Unite.
Commentando alcuni fatti che nell’estate 2012 avevano visti protagonisti diversi militanti salafiti e che ancora una volta mettevano in luce il problema dei limiti della libertà d’espressione, il giurista tunisino Ben Achour scriveva: «Se la nozione di muqaddasât [cose sacre] è lasciata al potere politico, quest’ultimo si porrà come arbitro del gioco e dunque padrone delle coscienze. In questo modo si ritorna allo Stato teocratico. […] A mio avviso, la libertà di espressione artistica e filosofica dev’essere allargata senza limiti, a meno che essa non perturbi l’ordine pubblico»[4]. L’affermazione di Ben Achour sembra cogliere nel segno, permettendo di uscire dall’impasse. In linea di principio la priorità va accordata al diritto di critica, senza il quale il pensiero non può conoscere reale avanzamento. I numerosi intellettuali musulmani che sono dovuti riparare in Occidente mostrano che il vero problema oggi in molti Paesi islamici è liberare la parola dal timore dell’accusa di eterodossia, non proteggere una religione che è già presente in modo massiccio nella vita quotidiana. Scriveva con lucidità l’editorialista egiziano Muhammad Khair: «Gli estensori della Costituzione [islamista del 2012] combattono una battaglia immaginaria contro i fantasmi dell’“identità”, del “proselitismo”, della “propaganda sciita” e dell’“occidentalizzazione”, e varie altre “cospirazioni”, ma il risultato è che la Costituzione, anziché svolgere il suo compito di garante dei diritti e delle libertà, finisce per fare l’esatto contrario, in quanto cerca di tutelare tutti coloro che godono della maggioranza, del potere o dell’autorità»[5].
Tuttavia nella proposta di Ben Achour si trova anche un’importante clausola, il riferimento all’ordine pubblico. Benché anche questo principio si presti a strumentalizzazioni, esso ha il vantaggio di toccare non il piano delle convinzioni, ma quello dei comportamenti pratici. Vanno cioè proibiti quegli atteggiamenti che, dalla critica, passano all’attacco delle persone e della loro dignità, mettendo a rischio il bene pratico della convivenza, mentre lo Stato non ha titolo per valutare l’ortodossia o meno di una posizione teologica. A nostro avviso questo semplice principio (che tra l’altro ispirava la legge pakistana prima delle aggiunte di Zia-ul-Haq) è sufficiente per consentire al pensiero critico di esplicarsi in libertà, senza dimenticare le ricadute anche comunitarie delle scelte di ciascuno e le offese che attentati gratuiti ai simboli sacri portano inevitabilmente con sé. Un conto insomma è bruciare il Corano (un atto da condannare senza riserva), un altro è discutere di metodi esegetici senza la minaccia di un’accusa di apostasia (si pensi al caso dell’egiziano Nasr Abu Zayd).
La proposta di sanzionare in modo complessivo ogni “diffamazione delle religioni”, proprio perché fa di ogni erba un fascio, si rivela confusa e potenzialmente pericolosa. Ciò che va condannato piuttosto è l’incitamento all’odio. Di questo incitamento, peraltro, l’attuale legge pakistana sulla blasfemia costituisce purtroppo un raffinato esempio.
[1] Sulla condizione dei cristiani in Pakistan cfr. l’articolo molto documentato di John O’Brien, Christians in Pakistan, «Islamochristiana» 39 (2013), 175-189.
[2] Angelo Scola, Non dimentichiamoci di dio, Rizzoli, Milano 2013, 78.
[3] L’espressione si trova nell’Annual Report of the United States Commission on International Religious Freedom, maggio 2009, 65.
[4] Yadh Ben Achour, La misura della libertà: libertà senza misura?, «Oasis» 16 (2012), 18.
[5] Muhammad Khair, Il mondo dell’uomo, originariamente pubblicato su at-Tahrîr, 13 novembre 2012.”