Un clericalismo che fa male

Fonte immagine

Qualche giorno fa ho pubblicato un articolo sul celibato dei sacerdoti. Una persona a me molto cara, mi ha suggerito un altro pezzo che descrive atteggiamenti che ha subito in prima persona e che le hanno fatto molto male. Il minimo che posso fare è pubblicarlo sul blog. Si tratta di un articolo di Guillermo Jesús Kowalski, pubblicato in “Religión Digital” e dedicato a Betina, sua “moglie e compagna nel cammino di santità dell’ordine sacro”. La traduzione è a cura di Lorenzo Tommaselli.

“Per Gesù la santità è la beatitudine delle vittime, in contrasto con coloro che, come il fariseo nel tempio o l’Epulone della parabola, hanno già la loro ricompensa. Egli è venuto per rendere felici coloro che il mondo e la religione considerano perdenti e falliti. E sceglie di essere uno di loro. Filtra con sarcasmo discipline religiose, concentrandosi invece sull’Amore e la Misericordia per i poveri e gli emarginati.
In questo 1 novembre, giorno di Ognissanti, voglio ricordare un gruppo di scartati dalle strutture ecclesiastiche: i preti sposati, testimoni silenziosi di una santità incarnata che rimane ancora misconosciuta. In loro risplende la grazia santificante della duplice sacramentalità, dove l’amore coniugale ed il servizio pastorale si intrecciano come segni del Regno. Pur emarginati dal clericalismo che ha loro voltato le spalle, sono componenti indispensabili di una Chiesa più umana, riconciliata con la verità dell’amore e la sequela di Cristo nella realtà.
Essi, come tanti altri, rivelano che solo le vittime della Chiesa possono pronunciare una parola nuova per credere di nuovo in essa come strumento del Regno di Dio.
All’interno della Chiesa cattolica persiste una tensione tra una struttura ecclesiale intrappolata nel clericalismo celibe e la realtà viva dei preti sposati come un’altra forma di santità. Questo conflitto è disciplinare, teologico e antropologico: il celibato obbligatorio, promulgato per legge tardivamente, nel XII secolo, e regolamentato dal Concilio di Trento, non è un dogma, ma una costruzione istituzionale che ha confuso la fedeltà evangelica con l’obbedienza al potere. Nelle parole di Gesù: “Non era così in principio” (Mt 19,8).
Nel cristianesimo primitivo le cose erano diverse: Pietro e la maggior parte degli apostoli erano uomini sposati; Paolo richiedeva che i vescovi fossero “mariti di una sola moglie” (1 Tm 3,2). Ma la progressiva identificazione tra perfezione e celibato ha consolidato una casta sacra superiore. Una deriva legata ad antiche mutilazioni religiose (mutilazione genitale femminile o maschile, come nel caso di Origene e altri) che confondevano la santità con la negazione del corpo.
Questa distinzione ha alimentato il clericalismo: l’esaltazione del clero come un gruppo separato e superiore perché non si sposa, i cui membri godono di privilegi e di un potere indiscutibile.
Come ha notato Hans Küng, “la Chiesa ha confuso la santità con il controllo”, mentre Umberto Eco ironizza: “preferisce la castità al senso comune”. In contrasto con questa spiritualità timorosa del desiderio, Bruno Forte propone una visione trinitaria: “l’amore coniugale e l’amore pastorale trovano la loro radice comune nella Trinità, dove la comunione è dono reciproco”.
Il prete sposato non è un errore disciplinare da “nascondere”, ma un segno profetico del Regno: una testimonianza del fatto che l’amore umano ed il ministero pastorale sono espressioni inseparabili della stessa grazia divina.

La voce dei teologi: mettere in discussione il fondamento
Numerosi teologi cattolici giungono oggi alla conclusione (insieme ai numerosi studi sulla pedofilia di diversi paesi) che il celibato obbligatorio, un’imposizione innaturale, è fonte di problemi pastorali, psicologici e spirituali, di doppie vite e abusi, come testimoniano i mezzi di comunicazione, che oggi senza pudore violano i muri dell’omertà clericale.
Hans Küng ne evidenzia la sua disconnessione normativa dal Vangelo. Nella sua opera Perché sono cristiano? afferma: “Il celibato clericale non è un comandamento di Gesù, ma una legge della Chiesa. E le leggi della Chiesa possono essere modificate dalla Chiesa”. Questa legge non garantisce una maggiore disponibilità per Dio, genera un moralismo ossessivo sulla sessualità e allontana persone capaci dal ministero ordinato.
Da parte sua, il teologo australiano Paul Collins, autore di Papal Power, collega direttamente il celibato al clericalismo e all’abuso di potere: “il celibato obbligatorio è il cemento che mantiene unita la struttura clericale. Crea una mentalità del «noi contro loro», separando i preti dal popolo che dovrebbero servire. Questa separazione è il terreno fertile perfetto per il clericalismo, per l’arroganza e, nei casi più tragici, per l’abuso”. La credibilità della Chiesa è erosa da questo divario strutturale. A partire da una prospettiva più pastorale ed ecumenica, il teologo tedesco David Berger, che ha lasciato il ministero per sposarsi, ha conosciuto la “doppia vita” di molti chierici. Berger denuncia “l’ipocrisia di un sistema che, mentre predica la castità, spinge molti ad una vita clandestina, generando una profonda sofferenza personale e una crisi di integrità”. Migliaia di preti hanno dovuto scegliere traumaticamente tra la vocazione all’amore coniugale e quella al ministero, come se si escludessero a vicenda. Migliaia di vittime scartate dall’istituzione.

La condanna e la discriminazione: il prezzo elevato della scelta
Chi “ha il coraggio di uscire” e di vivere la propria unione coniugale, si scontra con un meccanismo di discriminazione giuridica e di accanimento sociale. Non può più amministrare pubblicamente i sacramenti, privando la comunità di qualcosa di essenziale. Ma la sanzione va oltre l’aspetto legale: è una lezione che non ha scadenza.
Questi uomini, che spesso conservano una fede profonda e un amore per la Chiesa, vengono stigmatizzati, trasformati in fantasmi all’interno della comunità che un tempo hanno guidato. Vengono calunniati come falliti, malati, con “strane idee” e viene loro negata la possibilità di servire o di trovare uno spazio ministeriale significativo all’interno della struttura ecclesiale. I loro matrimoni sono disprezzati e visti come la causa del loro “degrado”.
Molti fedeli, indottrinati da una visione sacralizzata del clero celibe, non sanno come relazionarsi con un prete sposato. Reagiscono con diffidenza, con pettegolezzi alle sue spalle e con un sospetto generale sulla sua ortodossia o sul suo “fallimento”. Sono visti, nella migliore delle ipotesi, con compassione e, nella peggiore, come “traditori che hanno infranto un giuramento sacro”.
La teologa femminista spagnola Isabel Corpas, autrice di La rivoluzione silenziosa delle donne nella Chiesa, esprime questa ingiustizia: “Condannando un prete che si sposa, la Chiesa non solo punisce un uomo, ma sta svalutando simbolicamente il matrimonio e, soprattutto, la donna con la quale si sposa. Lei diventa la «tentazione», la «colpevole» della «perdita» di un prete. È una visione profondamente misogina che rafforza l’idea che la donna sia un pericolo per la santità dell’uomo consacrato”. Questa dinamica – sostiene Corpas – perpetua una visione clericale e patriarcale che deve essere smantellata.
Solo pochi giorni fa abbiamo letto le esperienze del vescovo Reinhold Nann e di don Ignacio Puente Olivera, nelle quali si riflette quella di migliaia di preti sposati. Il primo se n’è andato, stanco di tante “bugie nella vita presbiterale” che lo hanno portato a una profonda depressione e a concludere che “il celibato obbligatorio non dovrebbe continuare ad essere un peso imposto a tutti, ma una scelta libera e carismatica. Il matrimonio non diminuisce la santità o l’efficacia pastorale di un prete”. La sua rinuncia al potere e la sua scelta di vivere con la sua partner non sono state una caduta, ma una liberazione spirituale («Religión Digital», 20 ottobre 2025).
Il secondo ha presentato una teologia piena di speranza parlando della “doppia sacramentalità”, la coesistenza armoniosa dell’Ordine e del Matrimonio: “Siamo pienamente preti, pienamente mariti e pienamente padri”. Ha denunciato l’«ignoranza istituzionale» escludente e ha sostenuto che la sua identità presbiterale non dovrebbe dipendere da un decreto, ma dalla fedeltà alla chiamata di Gesù. (RD, 09.10.2025)
Entrambi sentono di non avere il loro posto nella Chiesa; non sono veri laici, poiché la loro formazione teologica e l’esperienza ministeriale li hanno preparati a servire in altro modo. Né sono chierici di pieno diritto, poiché il loro matrimonio li ha emarginati dal sistema. Tuttavia, mossi dalla sequela di Cristo e dal loro amore per la Chiesa, desiderano continuare a servire a partire dalla loro nuova posizione e avere il loro posto nel poliedro ecclesiale. Il loro reinserimento non sarà frutto della “tolleranza”, ma piuttosto della conversione della Chiesa.
La voce del popolo di Dio si è espressa in modo schiacciante nei sinodi a favore dell’ammissione del prete sposato. Ma non si è voluto far ascoltare questa voce. Allora, di quale sinodalità stiamo parlando?

La sfida: verso una Chiesa sinodale e non clericale
Il movimento a favore di un celibato facoltativo e del riconoscimento della santità dei preti sposati è anticlericale, non anti-Chiesa. Non cerca di distruggere il ministero, ma di reintegrarlo nella comunità dei battezzati, di «ordinarlo» verso la comunione, non verso la segregazione. Punta verso una Chiesa sinodale, per camminare insieme con pari dignità.
La Chiesa cattolica è formata da 24 Chiese, una occidentale e 23 orientali. La Chiesa ortodossa cattolica ha preti sposati, così come i riti orientali fedeli a Roma, come il maronita, il greco-cattolico melchita, il greco-cattolico ucraino e l’armeno. Le loro parrocchie sono testimonianza vivente che il celibato non è un requisito “ontologico” per il ministero ordinato. La santità non risiede nello stato civile, ma nella fedeltà all’amore di Dio, sia nel dono celibe sia nell’amore coniugale.
Il prete sposato è chiamato alla santità in questo stato. Pertanto, lungi dall’essere un problema, è un ponte tra due realtà – il clero e il laicato – che la visione clericale ha artificialmente separato. Negare questo non è solo mancanza di pragmatismo pastorale; è una resistenza strutturale all’opera dello Spirito, con conseguenze disastrose sotto gli occhi di tutti.
La santità del prete sposato, negata dagli architetti del clericalismo, è una profezia fondamentale del Regno. La duplice sacramentalità dell’Ordine e del Matrimonio è segno che la santità non risiede nella mutilazione, ma nell’integrazione dell’amore. “Il futuro della Chiesa passerà per il recupero dell’elemento comunitario rispetto a quello clericale e su questa strada il riconoscimento del ministero sposato sarà un segno profetico che lo Spirito soffia dove vuole, e non solo nei seminari di oggi” (Leonardo Boff).”

Il silenzio sul celibato

Immagine creata con Gemini®

Ieri sera, sul tardi, diciamo pure ieri notte, mi sono imbattuto in un articolo di Sergio Di Benedetto pubblicato su VinoNuovo. L’argomento, come scrive il professore, è uno di quelli di cui effettivamente da tempo non sentivo parlare: il celibato dei sacerdoti.

“Ci sono temi che hanno un loro ‘momento di gloria’, e poi scompaiono, o quasi, dal dibattito. È così in ogni settore, e quello ecclesiale non è da meno. Tra questi argomenti messi nell’ombra credo si possa annoverare il celibato sacerdotale, che sembra sparito dai radar del dialogo pubblico nell’orbe cattolico, salvo poi tornare in scena (saltuariamente) di fronte a qualche caso di cronaca, che però si consuma in fretta e in fretta cade nel buio (l’ultimo, quello del vescovo Reinhold Nann).
Così, forse incalzato e scalzato dalla discussione sul diaconato femminile, o su altri nuclei di riflessione teologica, una pacata, profonda, seria discussione circa la possibilità di un superamento del celibato è tramontata. Complice, penso, un fatto che è stato una pietra tombale su tale argomento, e riguarda quando accaduto al Sinodo per l’Amazzonia (2019), il cui documento finale, al paragrafo 111, chiedeva un ripensamento della disciplina del celibato, ordinando uomini sposati (sostanzialmente i cosiddetti viri probati) «al fine di sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione dei Sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica». Esso, pur avendo avuto 128 voti favorevoli e 41 contrati (ovvero il 76%, ben più del 2/3 necessari), non era stato accolto nell’esortazione apostolica finale di Papa Francesco, Querida Amazonìa, per non spaccare o polarizzare (al solito, facendo prevalere i diritti della minoranza su quelli di un’ampia maggioranza). Così, però, si è non solo chiuso ogni tentativo di portare con più frequenza i sacramenti ai popoli dell’Amazzonia, ma anche ogni ulteriore riflessione: a che scopo discutere se, nonostante una consistente porzione di episcopato avesse espresso voto favorevole, poi nulla è cambiato?
La questione non è solo quella dei viri probati, ma in generale del celibato nella chiesa latina, la quale continua la prassi di scegliere presbiteri solo “tra coloro che sono chiamati al celibato”: ma questa, in buona sostanza, è una formula (retorica), per giustificare il fatto che la chiesa continua a ordinare uomini non sposati, mettendo la testa sotto la sabbia quanto a doppie a triple vite, sacerdoti con la compagna o il compagno, e così via. Perché una buona dose di ipocrisia pare non mancare mai quando si tratta di guardare alla realtà dei fatti, che è poi questa: ci sono presbiteri che vivono il celibato con equilibrio, altri che lo vivono in modo non equilibrato, finanche patologico, altri ancora che non lo vivono. Pochi giorni fa ho ascoltato, per l’ennesima volta, un ex sacerdote, ora dispensato e sposato, che ebbe un consiglio dal suo vescovo: per ora mantieni la tua relazione con questa donna, basta che non lasci il ministero….
Rimane l’antica questione, la vecchia scusa: il presbitero sposato non avrebbe tempo, energia, dedizione totali per la sua comunità. Ma siamo onesti: quanti, davvero, interpretano il proprio ministero in modo così eroico? Quanti parroci, quanti vicari sono oberati di incarichi, a rischio burnout, frantumati in mille discutibili attività, da avere quella disponibilità totale che, in realtà, li spezza umanamente, li induce talvolta al ritiro sociale, alla fuga, a vite parallele? Il tema è sempre lo stesso: che valore dare all’umanità del prete, celibato compreso?
Infine, che fare con quella risorsa preziosa che possono essere i presbiteri sposati, quando la loro ‘uscita’ è stata ben pensata, equilibrata, quando hanno costruito relazioni buone, generative, in cui ha trovato posto anche Dio?
In questo tema, oggi, mi pare, i veri nemici non sono né la tradizione né la prassi: è l’ipocrisia, che si tira dietro la paura di guardare le cose come sono, le vite degli uomini e delle donne come sono. E questo è, in ultima analisi, davvero contro il vangelo di Gesù.”

A conclusione di questo post mi piace riportare le parole di un sacerdote che mi manca molto, don Pierluigi Di Piazza che in vari libri ha affrontato l’argomento. In un’intervista di Giovanna De Caro dice:
“La dimensione affettiva è per ogni persona fondamentale, costitutiva; senza amore non c’è vita; l’amore buono, positivo, non quello inquinato o deturpato fino alla violenza sottile o esplicita. Essere prete non dovrebbe comportare il celibato obbligatorio; ho sempre pensato a una Chiesa libera, umana, ricca di relazione nella quale ci siano preti celibi, quando il celibato è scelto con libertà, consapevolezza, maturità; preti sposati; donne prete, non per una parità clericale sconveniente, bensì per l’apporto indispensabile della femminilità, della diversità di genere nella esperienza della fede, nella Chiesa. Sarebbero anche da reintrodurre nel ministero i preti costretti a lasciarlo perché si sono sposati. Attorno ai 33-35 anni ho vissuto una forte nostalgia della paternità. Non mi pare adeguato, né rispettoso per le tante esperienze umane se io parlo di coprire mancanze affettive. La compensazione dell’amore che non c’è per lo più si risolve in un artificio non veritiero.”

Quel filo di speranza

Ieri siamo andati con i bimbi a vedere uno dei tanti villaggi della zucca che stanno fiorendo in questo periodo. C’era anche un piccolo labirinto fatto con dei pallet messi in verticale. Mariasole vi si è infilata immediatamente seguita da Fra: ovviamente mi sono accodato per procedere alle spalle del piccolo che ben presto ha perso le orme della veloce sorella. Ma non ha perso la speranza: ha iniziato a sbirciare tra le assi dei pallet e a chiamare “Tata” ad alta voce, senza fermarsi, continuando a procedere, come se un invisibile filo lo legasse a Mariasole. E in poco tempo è uscito dal labirinto anche lui. Mi è tornato in mente tutto questo leggendo un articolo di suor Maria Gloria Riva su Avvenire.

“Non tutti ricordano che l’unico Giubileo del XIX secolo fu quello del 1825, celebrato – esattamente 200 anni fa – da un Papa di nome Leone, però XII. I giubilei successivi, indetti da Pio IX nel 1850 e nel 1875, non ebbero luogo a causa dei disordini politici che accompagnarono l’unità d’Italia, ma anche per il serpeggiare di guerre e depressioni economiche in tutta Europa. Non è difficile comprendere come la parola speranza in tali contesti culturali fosse ritenuta vacua e prima di fondamento. Il filosofo Nietzsche riteneva la speranza non una virtù, ma un sentimento negativo che spinge ad impegnare le proprie energie entro inutili sforzi. I pittori, in quel periodo, presero a dipingere la speranza separata dalle altre due virtù, fede e carità, attingendo volentieri all’immagine biblica suggerita dal Salmo 137 (1-3): Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, canzoni di gioia, i nostri oppressori: «Cantateci i canti di Sion!».
L’umanità, prigioniera delle Babilonie di ogni tempo, è incapace di salmodiare i canti della speranza. Così il clima culturale di quegli anni non fu tanto diverso dal nostro, dove guerre e depressione economica, miraggi espansionistici e giochi di potere, minano la fiducia assottigliando sempre più il filo della speranza.

A questo filo si aggrappò l’artista inglese George Frederic Watts quando nel 1886 dipinse la sua Hope. Il soggetto, cui l’artista dedicò varie versioni, conobbe una grande popolarità e, nella sua forza simbolica, parla ancora a noi oggi. L’espressione filo della speranza è collegata al mito di Arianna che consegnò all’amato Teseo, avventuratosi nel labirinto per uccidere il Minotauro, un gomitolo, il cui filo lo avrebbe ricondotto all’uscita. In realtà anche il termine biblico speranza, in ebraico Hatiqvà, contiene l’immagine di una corda (qav) tesa fra due poli. Ed è proprio entro questi due universi culturali, l’ambiente biblico e quello greco, cui Watts attinge per dipingere la speranza. La donna, nella posa della notte michelangiolesca, è bendata. La cetra con la quale cantare i canti di speranza è rimasta con una sola corda. Tutto appare perduto, oscuro difficile. Acque e nubi minacciose minano il globo terrestre e ogni pronostico positivo appare futile. La corda tesa però, l’ultimo filo della speranza, ben si accorda con una piccola stella che brilla in alto, appena visibile, attestando agli scoraggiati di ogni tempo e latitudine, che sorge sempre, oltre le nostre cecità, la stella della speranza.

A questo filo si aggrappa anche un artista contemporaneo, Viviani Vanni, che in una litografia dedicata al mito di Arianna, lega la corda tesa non ai canti di Sion, ma ad una mela. Il filo attraversa un’altra mela che, significativamente, rappresenta il grande labirinto del mondo internettiano. La mela, lo sappiamo, ci riporta a quella nostalgia delle origini, a quella sapienza capace di penetrare la realtà regalata ai due progenitori e irrimediabilmente persa dopo il peccato. Così per Vanni questa sapienza si riannoda grazie al mondo del Web, tuttavia la grossolana fattura della corda e il verismo della mela ci ricordano che anche nell’era dell’intelligenza artificiale è sempre necessario l’uomo, l’uomo con i suoi interrogativi ancestrali e con il suo percorso umano. Insomma, contrariamente alle filosofie nietzschane, la speranza è l’insopprimibile nostalgia dell’uomo che, senza dimenticare l’immanenza della storia, tende all’infinito. Cosa dice dunque a noi un Giubileo, come quello del primo quarto del XXI secolo, dedicato alla speranza? Cosa può fare l’uomo, sempre più piccolo in un mondo globalizzato, ad affrontare sfide che appaiono ben più grandi di Babilonia e dell’antico Minotauro?
La Chiesa, i Papi ci vengono incontro con la loro risposta semplice e super partes. Dal 2000 ad oggi la bambina da nulla della speranza, come la definisce Peguy, possiede un tesoro dentro un fazzoletto. Se Peguy si riferiva alla Veronica del Calvario, che ben prima delle tecniche fotografiche fissa nel tempo il volto del Cristo Eterno, il suo fazzoletto ci porta anche a realtà più quotidiane.

Seicento anni fa, nel 1425, Tommaso di Ser Giovanni di Mòne, detto Masaccio, dipinse nella Cappella Brancacci una stupenda, quanto drammatica, fuga dei progenitori dall’Eden. Qui viene immortalata la porta chiusa del Paradiso e non certo a caso: fu proprio nel 1425 che papa Martino V aprì, per la prima volta, la Porta Santa della Basilica di San Giovanni in Laterano. Così Masaccio pone i progenitori, scacciati dal paradiso, tra una porta chiusa e una scena di speranza. La scena è nota come il tributo e ritrae il Salvatore al centro della scena mentre, davanti all’esattore delle tasse, indica a Pietro il vicino mar di Tiberiade. Pietro, su comando di Gesù, apre la bocca a un pesce e vi trova la moneta da consegnare al Tribuno. Così, anche il fazzoletto da nulla di Pietro custodisce una grande speranza. Il pesce che reca a Pietro l’importo delle tasse è simbolo di Cristo che ha già pagato per la liberazione dell’uomo. «Chi è sottoposto a tassazione: i figli o gli schiavi?» chiese Gesù. Poiché i figli ne sono esenti ecco – dice Cristo – io ho già pagato per tutti. Questo è il senso del Giubileo e la grande speranza anche per l’uomo contemporaneo. C’è uno che ci considera figli e ha già pagato il prezzo del nostro riscatto. Non c’è disperazione per chi entra nella Chiesa dove la porta del Paradiso è stata riaperta, la tassa della colpa pagata e le braccia della misericordia allargate per l’eternità.

In tal senso è efficacissimo il confronto, nell’arte di Giotto, fra speranza e disperazione. Nell’impianto iconografico della Cappella degli Scrovegni, Giotto pone la personificazione della Speranza, di fronte a quella della Disperazione. La Speranza, ritratta in uno slancio leggero ed elegante, possiede ali candide e, per quanto i piedi poggino a terra, è colta in volo. Il volto, rivolto in alto, è orientato verso un punto che va oltre il visibile. Le mani protese, infatti stanno ricevendo da Dio una corona di gloria. Non così invece la Disperazione. Il peso del suo pessimismo e dei pensieri cupi sembra trascinarla sempre più in basso. Mentre i suoi piedi poggiano a terra, il suo collo è stretto nella morsa di una corda degli impiccati. Un demonio le ha rubato il cuore e le mani sono chiuse a pugni stretti. L’orizzonte di chi dispera è quello della mediocrità e del proprio io. In un tale orizzonte ogni visione profetica è impensabile. Al contrario, l’orizzonte dello speranzoso è sempre fuori di sé, tiene conto di un più in là e le sue mani aperte sono pronte non solo a dare, ma anche a ricevere la novità di una salvezza che può venire solo dall’alto. L’arte, in pieno accordo con i Giubilei di ogni tempo, ci racconta così la speranza: uno sprone ad andare oltre sé stessi, un invito a confidare: c’è sempre un filo che resta teso nella vita e una stella che brilla oltre le nostre oscurità quotidiane.”

Ti ho amato

Fonte immagine

Il 4 ottobre è stata firmata “Dilexi te” la prima esortazione apostolica da Robert Francis Prevost, papa Leone XIV. Prendo la notizia e un articolo di presentazione da Vatican News. Il testo integrale si può trovare qui, sul sito della Santa Sede.

Dilexi te, “Ti ho amato”. L’amore di Cristo che si fa carne nell’amore ai poveri, inteso come cura dei malati; lotta alle schiavitù; difesa delle donne che soffrono esclusione e violenza; diritto all’istruzione; accompagnamento ai migranti; elemosina che “è giustizia ristabilita, non un gesto di paternalismo”; equità, la cui mancanza è “radice di tutti i mali sociali”. Leone XIV firma la sua prima esortazione apostolica, Dilexi te, testo in 121 punti che sgorga dal Vangelo del Figlio di Dio che si è fatto povero sin dal suo ingresso nel mondo e che rilancia il Magistero della Chiesa sui poveri negli ultimi centocinquant’anni. “Una vera miniera di insegnamenti”.

Sul solco dei predecessori
Il Pontefice agostiniano con questo documento firmato il 4 ottobre, festa di San Francesco d’Assisi, il cui titolo è tratto dal Libro dell’Apocalisse (Ap 3,9), si inserisce così sul solco dei predecessori: Giovanni XXIII con l’appello ai Paesi ricchi nella Mater et Magistra a non rimanere indifferenti davanti ai Paesi oppressi da fame e miseria (83); Paolo VI, la Populorum progressio e l’intervento all’Onu “come avvocato dei popoli poveri”; Giovanni Paolo II che consolidò dottrinalmente “il rapporto preferenziale della Chiesa con i poveri”; Benedetto XVI e la Caritas in Veritate con la sua lettura “più marcatamente politica” delle crisi del terzo millennio. Infine, Francesco che della cura “per i poveri” e “con i poveri” ha fatto uno dei capisaldi del pontificato.

Un lavoro iniziato da Francesco e rilanciato da Leone
Proprio Francesco aveva iniziato nei mesi prima della morte il lavoro sull’esortazione apostolica.
Come con la Lumen Fidei di Benedetto XVI, nel 2013 raccolta da Jorge Mario Bergoglio, anche questa volta è il successore a completare l’opera che rappresenta una prosecuzione della Dilexit Nos, l’ultima enciclica del Papa argentino sul Cuore di Gesù. Perché è forte il “nesso” tra amore di Dio e amore per i poveri: tramite loro Dio “ha ancora qualcosa da dirci”, afferma Papa Leone. E richiama il tema della “opzione preferenziale” per i poveri, espressione nata in America Latina (16) non per indicare “un esclusivismo o una discriminazione verso altri gruppi”, bensì “l’agire di Dio” che si muove a compassione per la debolezza dell’umanità.
Sul volto ferito dei poveri troviamo impressa la sofferenza degli innocenti e, perciò, la stessa sofferenza del Cristo (9).

I “volti” della povertà
Numerosi gli spunti per la riflessione, numerose le spinte all’azione nella esortazione di Robert Francis Prevost, in cui vengono analizzati i “volti” della povertà. La povertà di “chi non ha mezzi di sostentamento materiale”, di “chi è emarginato socialmente e non ha strumenti per dare voce alla propria dignità e alle proprie capacità”; la povertà “morale”, “spirituale”, “culturale”; la povertà “di chi non ha diritti, non ha spazio, non ha libertà” (9).

Nuove povertà e mancanza di equità
Di fronte a questo scenario, il Papa giudica “insufficiente” l’impegno per rimuovere le cause strutturali della povertà in società segnate “da numerose disuguaglianze”, dall’emergere di nuove povertà “più sottili e pericolose” (10), da regole economiche che hanno fatto aumentare la ricchezza, “ma senza equità”.
La mancanza di equità è la radice dei mali sociali (94).

La dittatura di un’economia che uccide
“Quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale”, afferma Leone XIV (13). Da questo punto di vista, saluta “con favore” il fatto che “le Nazioni Unite abbiano posto la sconfitta della povertà come uno degli obiettivi del Millennio”. La strada tuttavia è lunga, specie in un’epoca in cui continua a vigere la “dittatura di un’economia che uccide”, in cui i guadagni di pochi “crescono esponenzialmente” mentre quelli della maggioranza sono “sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice” e in cui sono diffuse le “ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria” (92).

Cultura dello scarto, libertà del mercato, pastorale delle élite
È segno, tutto questo, che ancora persiste – “a volte ben mascherata” – una cultura dello scarto che “tollera con indifferenza che milioni di persone muoiano di fame o sopravvivano in condizioni indegne dell’essere umano” (11). Il Papa stigmatizza allora i “criteri pseudoscientifici” per cui sarà “la libertà del mercato” a portare alla “soluzione” del problema povertà, come pure quella “pastorale delle cosiddette élite”, secondo la quale “al posto di perdere tempo con i poveri, è meglio prendersi cura dei ricchi, dei potenti e dei professionisti” (114).
Di fatto, i diritti umani non sono uguali per tutti (94).

Trasformare la mentalità
Ciò che invoca il Papa è, dunque, una “trasformazione di mentalità”, affrancandosi anzitutto dalla “illusione di una felicità che deriva da una vita agiata”. Cosa che spinge molte persone a una visione dell’esistenza imperniata su ricchezza e successo “a tutti i costi”, anche a scapito degli altri e attraverso “sistemi politico-economico ingiusti” (11).
La dignità di ogni persona umana dev’essere rispettata adesso, non domani (92).

In ogni migrante respinto c’è Cristo che bussa
Ampio lo spazio che Leone XIV dedica poi al tema delle migrazioni. A corredare le sue parole, l’immagine del piccolo Alan Kurdi, il bimbo siriano di 3 anni divenuto nel 2015 simbolo della crisi europea dei migranti con la foto del corpicino senza vita su una spiaggia. “Purtroppo, a parte una qualche momentanea emozione, fatti simili stanno diventando sempre più irrilevanti come notizie marginali” (11), constata il Pontefice.
Al contempo ricorda l’opera secolare della Chiesa verso quanti sono costretti ad abbandonare le proprie terre, espressa in centri accoglienza, missioni di frontiera, sforzi di Caritas Internazionale e altre istituzioni (75).
La Chiesa, come una madre, cammina con coloro che camminano. Dove il mondo vede minacce, lei vede figli; dove si costruiscono muri, lei costruisce ponti. Sa che il suo annuncio del Vangelo è credibile solo quando si traduce in gesti di vicinanza e accoglienza. E sa che in ogni migrante respinto è Cristo stesso che bussa alle porte della comunità (75).
Sempre in tema migrazioni, Robert Prevost fa suoi i famosi “quattro verbi” di Papa Francesco: “Accogliere, proteggere, promuovere e integrare”. E di Papa Francesco mutua pure la definizione dei poveri non solo oggetto della nostra compassione ma “maestri del Vangelo”.
Servire i poveri non è un gesto da fare “dall’alto verso il basso”, ma un incontro tra pari… La Chiesa, quindi, quando si china a prendersi cura dei poveri, assume la sua postura più elevata (79).

Le donne vittime di violenza ed esclusione
Il Successore di Pietro guarda poi all’attualità segnata da migliaia di persone che ogni giorno muoiono “per cause legate alla malnutrizione” (12). “Doppiamente povere”, aggiunge, sono “le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti” (12).

“I poveri non ci sono per caso…”
Papa Leone XIV traccia una approfondita riflessione sulle cause stesse della povertà: “I poveri non ci sono per caso o per un cieco e amaro destino. Tanto meno la povertà, per la maggior parte di costoro, è una scelta. Eppure, c’è ancora qualcuno che osa affermarlo, mostrando cecità e crudeltà”, sottolinea (14). “Ovviamente tra i poveri c’è pure chi non vuole lavorare”, ma ci sono anche tanti uomini e donne che magari raccolgono cartoni dalla mattina alla sera giusto per “sopravvivere” e mai per “migliorare” la vita. Insomma, si legge in uno dei punti focali di Dilexi te, non si può dire “che la maggior parte dei poveri lo sono perché non hanno acquistato dei meriti, secondo quella falsa visione della meritocrazia dove sembra che abbiano meriti solo quelli che hanno avuto successo nella vita” (14).

Ideologie e orientamenti politici
Talvolta, osserva Papa Leone, sono gli stessi cristiani a lasciarsi “contagiare da atteggiamenti segnati da ideologie mondane o da orientamenti politici ed economici che portano a ingiuste generalizzazioni e a conclusioni fuorvianti”.
C’è chi continua a dire: “Il nostro compito è di pregare e di insegnare la vera dottrina”. Ma, svincolando questo aspetto religioso dalla promozione integrale, aggiungono che solo il governo dovrebbe prendersi cura di loro, oppure che sarebbe meglio lasciarli nella miseria, insegnando loro piuttosto a lavorare (114)

L’elemosina spesso disdegnata
Sintomo di questa mentalità è il fatto che l’esercizio della carità risulti talvolta “disprezzato o ridicolizzato, come se si trattasse della fissazione di alcuni e non del nucleo incandescente della missione ecclesiale” (15). A lungo il Papa si sofferma sulla elemosina, raramente praticata e spesso disdegnata (115).
Come cristiani non rinunciamo all’elemosina. Un gesto che si può fare in diverse maniere, e che possiamo tentare di fare nel modo più efficace, ma dobbiamo farlo. E sempre sarà meglio fare qualcosa che non fare niente. In ogni caso ci toccherà il cuore. Non sarà la soluzione alla povertà nel mondo, che va cercata con intelligenza, tenacia, impegno sociale. Ma noi abbiamo bisogno di esercitarci nell’elemosina per toccare la carne sofferente dei poveri (119).

Indifferenza da parte dei cristiani
Sulla stessa scia, il Papa denota “la carenza o addirittura l’assenza dell’impegno” per la difesa e promozione dei più svantaggiati in alcuni gruppi cristiani (112). Se una comunità della Chiesa non coopera per l’inclusione di tutti, ammonisce, “correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti” (113).
Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri (36)

La testimonianza di santi, beati e ordini religiosi
A controbilanciare questo atteggiamento di indifferenza, c’è un mondo di santi, beati, missionari che, nei secoli, hanno incarnato l’immagine di “una Chiesa povera per i poveri” (35). Da Francesco d’Assisi e il suo gesto di abbracciare un lebbroso (7) a Madre Teresa, icona universale della carità dedita ai moribondi dell’India “con una tenerezza che era preghiera” (77). E ancora San Lorenzo, San Giustino, Sant’Ambrogio, San Giovanni Crisostomo, il suo Sant’Agostino che affermava: “Chi dice di amare Dio e non ha compassione per i bisognosi mente” (45).
Leone ricorda ancora l’opera dei Camilliani per i malati (49), delle congregazioni femminili in ospedali e case di cura (51). Ricorda l’accoglienza nei monasteri benedettini a vedove, bambini abbandonati, pellegrini e mendicanti (55). E ricorda pure francescani, domenicani, carmelitani, agostiniani che hanno avviato “una rivoluzione evangelica” attraverso uno “stile di vita semplice e povero” (63), insieme a trinitari e mercedari che, battendosi per la liberazione dei prigionieri, hanno espresso l’amore di “un Dio che libera non solo dalla schiavitù spirituale, ma anche dall’oppressione concreta” (60).
La tradizione di questi Ordini non si è conclusa. Al contrario, ha ispirato nuove forme di azione di fronte alle schiavitù moderne: il traffico di esseri umani, il lavoro forzato, lo sfruttamento sessuale, le diverse forme di dipendenza. La carità cristiana, quando si incarna, diventa liberatrice (61).

Il diritto all’educazione
Il Pontefice richiama inoltre l’esempio di San Giuseppe Calasanzio, che diede vita alla prima scuola popolare gratuita d’Europa (69), per rimarcare l’importanza dell’educazione dei poveri: “Non è un favore, ma un dovere”.
I piccoli hanno diritto alla conoscenza, come requisito fondamentale per il riconoscimento della dignità umana (72).

La lotta dei movimenti popolari
Nell’esortazione il Papa fa cenno pure alla lotta contro gli “effetti distruttori dell’impero del denaro” da parte dei movimenti popolari, guidati da leader “tante volte sospettati e addirittura perseguitati” (80). Essi, scrive, “invitano a superare quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri” (81).

Una voce che svegli e denunci
Nelle ultime pagine del documento, Leone XIV fa appello all’intero Popolo di Dio a “far sentire, pur in modi diversi, una voce che svegli, che denunci, che si esponga anche a costo di sembrare degli stupidi”.
Le strutture d’ingiustizia vanno riconosciute e distrutte con la forza del bene, attraverso il cambiamento delle mentalità ma anche, con l’aiuto delle scienze e della tecnica, attraverso lo sviluppo di politiche efficaci nella trasformazione della società (97).

I poveri, non un problema sociale ma il centro della Chiesa
È necessario che “tutti ci lasciamo evangelizzare dai poveri”, esorta il Papa (102). “Il cristiano non può considerare i poveri solo come un problema sociale: essi sono una questione familiare. Sono dei nostri”. Pertanto “il rapporto con loro non può essere ridotto a un’attività o a un ufficio della Chiesa” (104).
I poveri sono nel centro stesso della Chiesa (111).”

Fonte immagine

Uccidere un uomo è uccidere un uomo

Fonte immagine

Sébastien Castellion, o Chatellion o anche Châteillon, più noto in italiano come Sebastiano Castellione (nato 1515 – morto 1563) è stato un teologo francese, tra i primi e più importanti sostenitori della tolleranza religiosa. Visse in un’Europa in cui le guerre di religione, le esecuzioni per eresia e le persecuzioni erano normalità (tra il 1500 e il 1700 si registrarono migliaia di condanne a morte per motivi religiosi, eresia, stregoneria, ecc.). Ne voglio scrivere perché ho letto un articolo molto completo e approfondito sul sito australiano Aeon, a firma Sam Dresser. Reputo che bene si abbini al precedente post che ho pubblicato: entrambi gli articoli sono stati citati dal giornalista Simone Pieranni nella puntata 102 del podcast Fuori da qui, dal titolo “La grazia e la spada”. Sintetizzo l’articolo apparso su Aeon.

Origini modeste, formazione umanista, Castellione nacque in una famiglia contadina, si istruì nelle lingue antiche (greco, latino, ebreo) e nell’umanesimo. Lavorò poi come professore di greco a Basilea.
Conobbe Calvino col quale ebbe rapporti cordiali per un certo periodo; Castellione fu anche parte dell’istituzione scolastica di Ginevra. Il punto di frattura fondamentale fu la condanna al rogo di Michael Servetus nel 1553 — medico e teologo che respingeva la dottrina della Trinità. Calvino difese la sentenza, sostenendo che la coazione (anche capitale) contro gli eretici fosse giustificata per proteggere la fede “pura”. Castellione contestava che essere definito “eretico” fosse qualcosa di oggettivo: “scopro che riteniamo eretici coloro con cui non siamo d’accordo.” Quindi l’“eresia” diventava un’etichetta imposta dal potente piuttosto che una categoria teologica incontestabile. Castellione sosteneva che non si poteva giustificare moralmente l’uccisione di un essere umano per difendere una dottrina. “Uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo. Quando i ginevrini hanno ucciso Serveto non hanno difeso una dottrina, hanno ucciso un uomo. Non spetta al magistrato difendere una dottrina. Che ha in comune la spada con la dottrina? Se Serveto avesse voluto uccidere Calvino, il magistrato avrebbe fatto bene a difendere Calvino. Ma poiché Serveto aveva combattuto con scritti e con ragioni, con ragioni e con scritti bisognava refutarlo. Non si dimostra la propria fede bruciando un uomo, ma facendosi bruciare per essa” (Contra libellum Calvini).
In “De Haereticis” e “Contra libellum Calvini”, Castellione criticò apertamente la pratica della persecuzione religiosa, indipendentemente da quanto “eretiche” o pericolose si ritenessero certe idee. Castellione insisteva che le dispute teologiche (predestinazione, natura dell’Eucaristia, interpretazione della Bibbia) avessero causato divisioni enormi, ma che non fossero il cuore del cristianesimo. Per lui ciò che contava erano i precetti morali visibili: amare il prossimo, essere misericordiosi, pazienti, gentili. Castellione non riteneva che tutta la Bibbia fosse da prendere letteralmente come “ispirata” in ogni sua parola. Alcune parti erano scritte da autori umani, con errori, contraddizioni, limiti umani. Pertanto proponeva di cominciare dalle ragione e dall’analisi razionale delle questioni controverse, e solo in seguito appoggiare le proprie opinioni con le Scritture, non il contrario. Nel suo scritto “De arte dubitandi et confidendi, ignorandi et sciendi” affermava che era bene sentire il dubbio, riconoscere che c’erano verità che restavano oscure o contraddittorie nella Bibbia, e che l’interpretazione non poteva limitarsi alla lettera ma doveva cercare il senso più ampio, l’“intonazione” generale del testo sacro.
Durante la vita, Castellione fu respinto e perseguitato; molte sue opere circolavano solo in manoscritto. Dopo la sua morte, alcuni testi furono pubblicati solo molto più tardi (alcuni addirittura nel XIX o XX secolo). Pur non essendo stato riconosciuto universalmente nella sua epoca come un “gigante” della tolleranza, le sue idee hanno anticipato temi che diventeranno centrali nell’Illuminismo: libertà religiosa, ragione, critica al dogma, riconoscimento della pluralità religiosa.
Castellione credeva che, senza tolleranza religiosa, gli Stati europei — divisi da fazioni dogmatiche — fossero destinati a guerre e autodistruzione. Uccidere nel nome della verità religiosa era un tradimento del cristianesimo. E la fede andava vissuta, dimostrata nelle azioni di amore e misericordia, non imposta con la forza. Inoltre non tutte le verità teologiche erano da considerare accessibili o definitive; molte rimanevano e sarebbero rimaste incerte. Ma il disaccordo non era motivo per cancellare l’altro, perseguitarlo o eliminarlo.
Di certo il suo non è diventato un nome popolare come Locke, Voltaire o altri filosofi della tolleranza: molte sue opere non furono pubblicate immediatamente o furono messe da parte per motivi politici o religiosi. Tuttavia, alcuni intellettuali successivi (tra cui Montaigne, Locke, Voltaire) apprezzarono le sue idee o conservarono le sue opere. Le sue riflessioni si ritrovano nei principi che più tardi diventeranno fondanti nelle democrazie liberali.

Fides instrumentum rei publicae

Immagine creata con Gemini®

A inizio estate, su Vox, è stato pubblicato un articolo interessante di Katherine Kelaidis sul legame tra religione e politica negli USA di Donald Trump. Da studioso delle religioni e dei fenomeni ad esse legati, è un argomento che mi piace approfondire. In pochissime parole l’autrice sostiene che si tratti di una fede politica: una religione dell’identità e della nazione, che usa il linguaggio della fede per ottenere potere. Il pezzo è molto lungo, per cui ne propongo una sintesi. In fondo, accompagno il testo con un video del giornalista Francesco Costa, direttore de Il Post: affronta il tema del rapporto tra statunitensi e religione ed è dell’aprile 2024 (pre-elezioni USA).

Per oltre sessant’anni la “destra religiosa” americana è stata quella dei boomer: un movimento cristiano tradizionalista, teocratico, che voleva “rimettere Dio nelle scuole” e ispirare la legge civile ai principi biblici.
Con Donald Trump nasce però qualcosa di nuovo. Il suo progetto non è far conformare lo Stato alla Chiesa, ma piegare la Chiesa alla volontà del nazionalismo americano — un’ideologia che identifica la libertà e la prosperità degli Stati Uniti come privilegio esclusivo dei cittadini bianchi, eterosessuali e patriottici.
L’articolo sottolinea che questo modello somiglia più alla Russia di Putin (dove la Chiesa ortodossa è subordinata al Cremlino) che a una teocrazia come quella iraniana. In altre parole: la religione viene svuotata e sostituita con un culto politico di “America First”.
Trump ha creato una Religious Liberty Commission e tre consigli consultivi formati da leader religiosi, esperti giuridici e laici. Ufficialmente, dovrebbero analizzare la storia della libertà religiosa negli Stati Uniti. Ma, secondo l’autrice, l’obiettivo reale è riscrivere quella storia da una prospettiva nazionalista e ideologica. I presidenti precedenti (Bush, Obama, Biden) avevano invece un Office of Faith-Based and Neighborhood Partnerships, cioè un ufficio di collaborazione con le organizzazioni religiose per problemi sociali (povertà, traffico di esseri umani, ambiente). Trump lo ha abolito. Nel suo modello, non è la religione a migliorare la società, ma è l’America stessa a diventare la fonte di religione e moralità. Le chiese prosperano o falliscono in base a quanto si adeguano alla “vera” identità americana. Dei 39 membri della Commissione, non c’è nessun protestante “storico” (metodisti, presbiteriani, episcopali), che un tempo rappresentavano la “religione civile americana”. Al loro posto: evangelici conservatori, cattolici tradizionalisti, ebrei ortodossi, un arcivescovo greco-ortodosso, due musulmani convertiti bianchi e Ben Carson, avventista del settimo giorno. Questa composizione rivela che la nuova alleanza non è teologica, ma culturale. È un fronte interreligioso unito dal sentirsi “assediato” su temi come genere, sessualità e razza. Le differenze dottrinali vengono accantonate: ciò che conta è difendere una certa visione identitaria della nazione.
Contrariamente a quanto afferma la propaganda, il movimento non mira a restaurare il passato, ma a trasformare radicalmente la società americana. Se la vecchia destra religiosa era teologica e poi politica, la nuova crea una teologia a misura della politica. Trump è visto come una figura quasi messianica: non un salvatore delle anime, ma dell’America stessa. In questo contesto, il linguaggio religioso serve solo come strumento di legittimazione politica.
Kelaidis cita due casi emblematici che rappresentano una religione civile dove l’oggetto di fede è l’America stessa, non Dio. Ismail Royer, musulmano convertito e membro della Commissione, è stato condannato per aver aiutato persone a unirsi a un gruppo terroristico in Pakistan. Ora promuove la libertà religiosa come arma politica e dichiara: “L’America è un paese cristiano fondato su principi cristiani”. Per lui, la teologia conta poco: ciò che importa è la comune battaglia culturale contro il liberalismo. Eric Metaxas, scrittore e attivista evangelico, ha percorso un cammino simile: il suo interesse non è la dottrina cristiana, ma la difesa di una certa idea di ordine sociale e politico.
Una differenza cruciale con la “vecchia” destra religiosa: il nuovo movimento non parla quasi mai di salvezza, inferno o vita eterna. L’obiettivo non è più influenzare le anime, ma modellare la società nel presente. In questo senso, l’autrice paragona la “religione di MAGA” al culto imperiale romano, centrato sulla potenza e fertilità della nazione. La preoccupazione per la natalità, il rifiuto dei trattamenti medici che rendono sterili i giovani trans, la retorica contro l’aborto come “perdita di cittadini americani”: tutto questo rientra nella logica di un culto della forza e della riproduzione nazionale, più che in una dottrina cristiana.
Trump ha poi promosso parate militari, nuove feste nazionali e ora una riscrittura agiografica della storia americana. Questi elementi costituiscono, secondo l’autrice, una forma moderna di religione civile imperiale: l’America come realtà sacra, il patriottismo come fede, Trump come pontefice politico.
L’autrice, infine, si sofferma sui metodi per lottare contro questo modo di vedere le cose: i metodi che funzionavano contro la vecchia destra religiosa (smascherare ipocrisie morali, appellarsi alla Bibbia) non funzionano più. Il nuovo movimento non prova vergogna, non risponde a richiami teologici o morali: è animato solo dall’utilità politica. Per combatterlo, serve una nuova alleanza tra progressisti e credenti conservatori che restano fedeli a principi morali autentici — cioè che riconoscono un’autorità superiore allo Stato o al leader politico. Questi “tradizionalisti non MAGA” (vescovi cattolici, protestanti moderati, mormoni) potrebbero essere alleati inattesi nel contrastare la “Chiesa di MAGA”.
In conclusione, Trump e il movimento MAGA hanno dichiarato una guerra religiosa non solo contro il secolarismo, ma anche contro la religione tradizionale che rifiuta di sottomettersi al nazionalismo. Non è una teocrazia, ma qualcosa di più nuovo e insidioso: una religione della nazione e dell’identità, mascherata da fede. Per affrontarla, conclude Katherine Kelaidis, non basteranno le Scritture né gli appelli alla coscienza. Bisognerà riconoscerla, smascherarla e costruire alleanze inattese con chiunque creda ancora in un potere più alto di Donald Trump.

Il linguaggio simbolico di Benedetto e Francesco (e Leone)

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

Negli ultimi anni si è parlato molto dell’utilizzo di simboli religiosi all’interno del linguaggio politico. Ovviamente si tratta di un uso spesso opportunistico, ma non mi aspetto molto di diverso da un personaggio politico di questo periodo storico. Ma se provassimo a dare un’occhiata ai simboli religiosi in ambito religioso? In particolare a quelli, gesti simbolici compresi, utilizzati dagli ultimi pontefici? Un approfondito articolo di Martina Marradi, pubblicato su Pandora Rivista, affronta proprio questo aspetto. Buona lettura.

“Tutte le religioni si esprimono attraverso un repertorio simbolico composto da gesti, immagini e oggetti capaci di evocare significati profondi e condivisi all’interno di una comunità (cfr. Clifford Geertz, Interpretation Of Cultures, Basic Books, New York 1973, pp. 99, 104, 112-11). In ambito sacro, il simbolo non è mai neutro: come sottolineato da Jung, esso racchiude un contenuto che trascende la parola, rivelando un senso che rinvia all’invisibile e all’inconscio collettivo (cfr. Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dictionnaire des symboles: Mythes, rêves, coutumes, gestes, formes, figures, couleurs, nombres, Robert Laffont, Parigi 1982, pp. XVII-XVIII). I simboli religiosi operano su un doppio registro: da un lato sono profondamente evocativi, dall’altro lato sono intrinsecamente arbitrari. La loro capacità di trasmettere significati spirituali e valori condivisi non risiede in una qualità oggettiva delle forme o dei materiali che li compongono, ma nel significato culturale che viene attribuito loro. Un esempio emblematico è la croce: due semplici pezzi di legno disposti in forma perpendicolare non assumono un valore simbolico universale, ma acquisiscono significato solo per chi riconosce in quella forma il riferimento alla crocifissione del Cristo. Ne consegue che la sacralità di un oggetto può risultare del tutto irrilevante, o persino impercettibile, per chi non condivide lo stesso orizzonte simbolico.
Tuttavia, questa arbitrarietà non nega il valore esperienziale dei simboli, che è legato indissolubilmente alla loro materialità. I simboli religiosi sono sempre incarnati in oggetti, gesti, immagini o spazi che coinvolgono i sensi e il corpo. È attraverso la loro tangibilità che riescono a suscitare emozioni, a radicarsi nella memoria collettiva e a favorire un senso di appartenenza. L’icona della Vergine Maria venerata in una chiesa ortodossa, la statua del Cristo portata in processione in una città mediterranea o il rosario che scorre tra le dita di un fedele sono tutti esempi di come la religione si esprima e si trasmetta attraverso forme materiali. La fede stessa, pur riferendosi a una realtà trascendente e invisibile, trova nella concretezza dei simboli un mezzo privilegiato per essere vissuta, comunicata e interiorizzata. Il segno della croce, tracciato sul proprio corpo, non è solo un gesto identitario: è una forma di preghiera che richiama la Passione di Cristo. Analogamente, la mano del sacerdote che si posa sul capo dei cresimandi non è soltanto un gesto rituale, ma un veicolo di riconoscimento comunitario. In questo senso, la religione ha bisogno di oggetti, immagini e azioni per rendere visibile l’invisibile, per mediare la relazione tra l’umano e il divino, tra la carne e lo spirito (cfr. Ugo Fabietti, Materia sacra. Corpi, oggetti, immagini, feticci nella pratica religiosa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015).
In questo contesto, il modo in cui il Papa, in quanto massima autorità religiosa riconosciuta nella Chiesa cattolica, utilizza i simboli diventa un indicatore significativo del suo orientamento spirituale, teologico e pastorale. E proprio analizzando i pontificati di Benedetto XVI e di Francesco emergono due visioni profondamente diverse ma altrettanto efficaci del potere simbolico della Chiesa; mentre segnali ancora diversi provengono dalle prime scelte compiute da Leone XIV.

Fonte immagine

Rinnovamento nella tradizione: la performatività dei gesti e delle scelte di Benedetto XVI
Durante il suo pontificato, Benedetto XVI intraprende un’opera di rinnovamento ecclesiale radicata nella tradizione, facendo leva sul potere evocativo della simbologia: unendo la spiritualità con la fisicità cerca di rivitalizzare il cattolicesimo attraverso il recupero dei riti e dei simboli ormai in disuso (cfr. Giacomo Galeazzi, Ratzinger. Il Papa sceso dal trono, Rubbettino, Soveria Mannelli 2023). Tale orientamento, pur mosso da una profonda motivazione spirituale, «La cosa importante è che la fede duri oggi. Io vedo questo come il compito centrale» (Benedetto XVI, Last testament in his own words in Peter Seewald (a cura di), Bloomsbury Continuum, Londra 2017), riflette un’oculata strategia. Nella società dell’immagine anche la Chiesa è consapevole di quanto siano rilevanti i simboli, poiché è da essi che un credo può rinascere, e se la scelta benedettina viene etichettata come conservatrice, il Pontefice ritiene che la Chiesa non debba adattarsi ai costumi del tempo, poiché essa «può essere moderna proprio essendo antimoderna», non allineandosi con l’opinione dominante (Cfr. Joseph Ratzinger, Salt of the Earth. Christianity and the Catholic Church at the End of the Millennium, in Peter Seewald (a cura di), traduzione di Adrian Walker, Ignatius Press, San Francisco 1997).
La strategia adottata si inserisce in un quadro analitico coerente con le osservazioni del sociologo Berger, secondo cui i movimenti religiosi caratterizzati da un’impostazione conservatrice e soprannaturalista sono quelli che mostrano maggiore vitalità di fronte alla secolarizzazione: il successo di tali gruppi risiederebbe proprio nella loro capacità di offrire certezze simboliche in un mondo frammentato e relativista, soddisfacendo un bisogno crescente di identità e radicamento spirituale. Benedetto è consapevole della percezione di anacronismo che grava sulla Chiesa, ma è convinto che solo difendendo la propria identità senza scendere a compromessi sarà possibile riportare in auge il cattolicesimo (Cfr. Peter Seewald, Benedetto XVI. Una vita, Garzanti, Milano 2020). In questa prospettiva, nella roccaforte europea il cattolicesimo necessiterà di riaffermare la propria alterità dottrinale, entrando in dialogo, anche conflittuale, con le nuove identità religiose che si affermano nel continente. Tale riaffermazione richiede, a suo avviso, una rinnovata unità del cristianesimo, condizione necessaria per rendere la fede cristiana la possibile «religione civile dell’Europa» (Silvio Ferrari, Europa cristiana? L’eredità di Giovanni Paolo II, fra luci e ombre, «Limes», 20 maggio 2005).
Dal giorno della sua elezione, Benedetto indossa paramenti di tipo tradizionale con l’obiettivo di rivitalizzare la Chiesa, preservare la sacralità del culto ed evitare l’erosione dei valori cristiani in Occidente: «È chiaro […] che la scristianizzazione dell’Europa progredisce, che l’elemento cristiano scompare sempre più dal tessuto della società. Di conseguenza la Chiesa deve trovare una nuova forma di presenza, deve cambiare il suo modo di presentarsi» (Benedetto XVI, a cura di Peter Seewald, Ultime conversazioni, Garzanti, Milano 2016). Il significato simbolico delle sue scelte è duplice. Da un lato, egli vuole dare valore a ogni elemento della liturgia, nel senso spirituale del termine: «Il fatto che stiamo all’altare, vestiti con i paramenti liturgici, deve rendere chiaramente visibile ai presenti e a noi stessi che stiamo lì “in persona di un Altro”. […] [Ciò significa] “rivestirsi di Cristo”, parlare ed agire in persona Christi» (Benedetto XVI, Santa Messa del crisma. Omelia di Sua Santità Benedetto XVI, Vatican.va, 5 aprile 2007). Dall’altro lato, il richiamo alla tradizione favorisce un’identificazione ecumenica, poiché il recupero di forme rituali condivise, come l’abbigliamento liturgico, crea continuità simbolica con altre Chiese cristiane, in particolare quella ortodossa.
Coerentemente con tale logica, il Pontefice promuove anche il recupero del latino come lingua liturgica. Per esprimere l’unità della Chiesa, ne raccomanda l’utilizzo durante le grandi celebrazioni, nella recita delle preghiere più comuni e nel canto gregoriano, esortando i seminaristi a conoscerlo, a celebrarne l’uso e a trasmetterne il significato ai fedeli. Per recuperare il senso della liturgia ripristina la somministrazione della Comunione in bocca e in ginocchio nella liturgia papale e per motivazioni di carattere pastorale e teologico invita i sacerdoti a celebrare la liturgia ad orientem, ossia dinanzi all’altare, rivolti nella stessa direzione dei fedeli. Anche l’altare e il trono papale vengono ricollocati al centro della scena liturgica, al fine di sottolinearne la centralità simbolica.

Fonte immagine

Missione ad gentes: la performatività dei gesti e delle scelte di Francesco
Il pontificato di Francesco, al contrario, si distingue per una forte carica simbolica che riflette uno stile pastorale ostinatamente sobrio. Per ciò che concerne l’abbigliamento, nonostante erediti l’intero guardaroba papale dei predecessori, egli sceglie quasi sempre di indossare una semplice talare bianca e le sue scarpe ortopediche nere, evidenziando così la sua volontà di presentarsi come servus servorum Dei. Dopo l’elezione utilizza il pulmino dei Cardinali per tornare in albergo, paga di persona il conto lasciato in sospeso lì dove ha alloggiato durante il Conclave, si rifiuta di sedersi sul trono per ricevere l’obbedienza dei Cardinali e decide di risiedere a Santa Marta, piuttosto che nella residenza papale a lui dedicata. Gesti come il rifiuto di avere un assistente personale o un portaborse incaricato di aprirgli lo sportello dell’automobile costituiscono segnali performativi di un preciso stile pontificale, veicolando il messaggio secondo cui il potere non si esprime nel dominio, bensì nel servizio agli altri (cfr. Dario Edoardo Viganò, La predicazione di papa Francesco, in Andrea Riccardi (a cura di), Il cristianesimo al tempo di papa Francesco, Laterza, Roma-Bari 2022).
È anche estremamente simbolica la scelta di celebrare la messa in luoghi non convenzionali per evidenziare come la Chiesa sia protesa verso gli emarginati. Nel primo viaggio al di fuori dei confini vaticani, Francesco si reca a Lampedusa e lì celebra la messa dinanzi a un altare ricavato da un’imbarcazione impiegata da alcuni migranti per raggiungere l’isola. Nel 2016, invece, officia la messa a Ciudad Juárez, una città di frontiera messicana al confine con gli Stati Uniti nota per la sua violenza e per la concentrazione di migliaia di migranti latinoamericani.
Nel ravvivare i momenti di fede attraverso l’introduzione o il potenziamento di rituali, Bergoglio non privilegia l’aspetto dottrinale, ma orienta la spiritualità cristiana verso le sfide contemporanee: così facendo cerca di trascendere la comunità dei cristiani per rivolgersi anche ai non credenti e mostra come la Chiesa sia capace di adattarsi ai problemi del nostro secolo (cfr. Marco Politi, Francesco tra i lupi. Il segreto di una rivoluzione, Laterza, Roma-Bari 2014). Emblematiche sono in tal senso le Giornate mondiali istituite durante il suo pontificato: nel 2014 istituisce la Giornata mondiale dei movimenti popolari e la Giornata mondiale dei poveri, nel 2015 la Giornata mondiale della preghiera per la cura del Creato e la Giornata internazionale di preghiera e sensibilizzazione contro la tratta di esseri umani, nel 2021 la Giornata mondiale dei nonni e degli anziani e nel 2024 la Giornata mondiale dei bambini. Questi eventi non hanno solo lo scopo di coinvolgere i fedeli, ma anche quello di mobilitarli. In genere, le Giornate mondiali della Chiesa cattolica includono iniziative di sensibilizzazione e di beneficenza – per esempio, durante la Giornata mondiale dei poveri molte parrocchie organizzano raccolte di cibo e denaro da destinare ai senza dimora – e ottengono un’importante copertura mediatica: usualmente le agenzie di stampa come Associated Press e Reuters coprono il discorso del Pontefice, mentre altri media evidenziano le citazioni che affrontano questioni sociali o politiche di rilevanza e le integrano con analisi approfondite.
Particolarmente significativa è la benedizione Urbi et Orbi del 2020 e la Via Crucis al Colosseo del 2022: anche in queste occasioni il Pontefice unisce un tradizionale rito cristiano con un momento di riflessione sulle questioni contemporanee. Il 27 marzo 2020, egli decide di tenere una benedizione apostolica in una Piazza San Pietro completamente vuota a causa delle restrizioni dovute alla pandemia da Covid-19. Le fotografie che lo ritraggono da solo durante questa cerimonia religiosa diventano celebri in tutto il mondo e l’evento, trasmesso sia in diretta televisiva sia in diretta streaming, è seguito solo in Italia da oltre undici milioni di persone. Simboliche sono anche le scelte che vengono fatte durante la celebrazione: il Pontefice non raggiunge il leggio da dentro San Pietro, ma dall’esterno, come un normale visitatore, e non si protegge dalla pioggia durante il suo percorso. La vasta copertura mediatica è attribuibile non solo alla straordinarietà dell’evento, ma anche alla forza simbolica con cui il Papa riafferma la leadership morale della Chiesa nei momenti di crisi. Il 15 aprile 2022, invece, egli ripristina la Via Crucis dopo la pandemia. Per l’occasione modifica una parte del testo della cerimonia per adattarlo agli eventi della contemporaneità, fa portare la croce a una donna ucraina e a una russa e si fa accompagnare dalle famiglie, discutendo ad ogni stazione della processione i problemi che esse devono affrontare nella vita di tutti i giorni.

Fonte immagine

Tra sobrietà e tradizione: i primi gesti simbolici di Papa Leone XIV
Nonostante il pontificato di Papa Leone XIV sia iniziato da poco tempo, si possono già cogliere alcuni segnali simbolici significativi nel suo stile pontificale, che suggeriscono la direzione che intende imprimere alla Chiesa. Per esempio, la scelta del nome pontificale richiama immediatamente la figura di Papa Leone XIII, Pontefice noto per il suo impegno sociale, di cui l’enciclica Rerum Novarum, da lui emanata, è l’emblema principale. In tal senso, il nome scelto da Prevost potrebbe indicare l’intenzione di proseguire lungo la linea del dialogo tra Chiesa e società, con particolare attenzione alle questioni sociali e ai diritti dei lavoratori.
Sin dalle sue prime apparizioni pubbliche, inoltre, l’attuale Papa opta per un abbigliamento sobrio, ma tradizionale: la scelta di indossare la mozzetta rossa, assente nel pontificato francescano, ma presente in quello benedettino, potrebbero segnalare un desiderio di equilibrio tra semplicità e solennità. L’uso di una croce pettorale non eccessivamente elaborata, seppur ricca nei dettagli, sembra voler indicare una Chiesa che mantiene la sua dignità istituzionale senza rinunciare alla prossimità al popolo. In definitiva, i primi gesti simbolici di Papa Leone XIV sembrano voler inaugurare un pontificato all’insegna del dialogo, della sobrietà e della continuità con alcune delle grandi eredità del passato, in particolare nel campo dell’impegno sociale. Ma saranno i prossimi passi a confermare se questo equilibrio tra tradizione e rinnovamento diventerà il tratto distintivo del suo magistero petrino.

Tornando a Papa Benedetto XVI e Papa Francesco, entrambi attraverso scelte simboliche profondamente divergenti ma ugualmente intenzionali, mostrano due vie complementari per rendere visibile l’invisibile: il primo attraverso il recupero della tradizione liturgica, il secondo mediante gesti di rottura e prossimità. In entrambi i casi, il simbolo si conferma strumento centrale di comunicazione spirituale e politica della Chiesa. Come Pontefice, Ratzinger restituisce modernità alla tradizione. Per lottare contro il relativismo dei valori e rilanciare la religione cattolica, decide di dare forza ai simboli e ai riti: l’impiego di paramenti liturgici di tipo tradizionale, la celebrazione della messa in latino, la valorizzazione del canto gregoriano sono alcuni dei fattori caratteristici del suo ministero che fanno emergere l’obiettivo di evitare che la secolarizzazione possa provocare un’emorragia inarrestabile di fedeli. Benedetto si impegna per l’unità del cristianesimo europeo nella convinzione che l’ecumenismo sia essenziale per la preservazione della fede. Francesco, invece, presenta uno stile pastorale sobrio, evidente in numerosi gesti simbolici che compie all’inizio del suo pontificato. Per lottare contro il relativismo dei valori e rilanciare la religione cattolica, egli decide di rivitalizzare i momenti di fede mediante l’introduzione o il rafforzamento di alcuni rituali, non ponendo attenzione alla dimensione dottrinale, bensì mettendo in luce i problemi mondiali e le sfide contemporanee da affrontare. Per il Pontefice l’obiettivo più urgente consiste nel ricreare un tessuto spirituale nella società che possa permettere alle religioni di riottenere un peso specifico nella vita pubblica e politica.”

Le parole del card. Pizzaballa

Fonte immagine

Mario Calabresi ha intervistato il card. Pierbattista Pizzaballa. Qui si può ascoltare l’intera intervista. Sul profilo Fb del giornalista si può trovare un estratto. Ecco qui.

“«Era prevedibile che la Global Sumud Flotilla sarebbe stata fermata. Avevo parlato con loro per capire se si potesse uscire da un confronto che sembrava inevitabile, visto che il loro obiettivo, quello di sollevare l’attenzione sulla tragica situazione di Gaza, era stato raggiunto. Avrei evitato un confronto così diretto, soprattutto pensando che non porta nulla alla gente di Gaza e non cambia la situazione. Ora spero che tutto si concluda nel modo più pacifico possibile e che si possa tornare a parlare di più di quello che sta accadendo a Gaza, dove la situazione è drammatica».
In trentacinque anni di vita a Gerusalemme un periodo così cupo, doloroso e tragico Pierbattista Pizzaballa non lo aveva mai vissuto. E la sua voce, piena di fatica e di dolore, ci invita a non distrarci, a tenere gli occhi e l’attenzione «su una situazione drammatica».
C’era stato il tempo della guerra, quello della speranza, quello della faticosa costruzione di un processo di pace e poi il tempo del tramonto di ogni possibile convivenza con la vittoria degli estremisti e del radicalismo. Ora viviamo il tempo delle macerie. Dal 1990 Pierbattista Pizzaballa vive a Gerusalemme, dove era arrivato come giovane frate francescano per studiare la teologia e l’ebraico, e da allora è sempre rimasto lavorando per il dialogo e la pacificazione. Dopo essere stato custode di Terrasanta, Papa Francesco lo ha nominato Cardinale e Patriarca latino di Gerusalemme.
In un lungo dialogo, che potete ascoltare nel podcast di Chora Media “Vivavoce, le interviste di SEIETRENTA” gli ho chiesto di raccontare la situazione di Gaza e di ragionare su quello che è successo in questi ultimi due anni, ma anche negli ultimi trenta. Per capire come si sia potuti arrivare a una situazione così drammatica e per provare a immaginare un futuro.
Le sue parole sono molto asciutte e precise ma non fanno sconti: «La situazione è drammatica. Le immagini fanno solo parzialmente giustizia di ciò che si sta vivendo. La distruzione è immane. Oltre l’ottanta per cento delle infrastrutture è ridotto in macerie e ci sono centinaia di migliaia di persone che hanno dovuto spostarsi e sfollare tre, quattro, cinque o anche sette volte. Famiglie che hanno perso tutto».
La sua fotografia della vita a Gaza parte della fame “reale”: «Non è soltanto questione di quantità ma anche di qualità: non entrano frutta, verdura e carne, due anni senza vitamine e proteine. Un disastro totale».
A questo si somma «la quasi totale mancanza di ospedali che rende impossibile curare i feriti, i mutilati, ma anche quelli che hanno normali malattie e non possono essere seguiti. Penso a quelli che devono fare la dialisi ma non c’è più dialisi. Penso a chi ha il cancro in un luogo dove non esiste più l’oncologia».
Ma non ci sono solo i bisogni materiali: «Penso anche che inizia il terzo anno senza scuola per i bambini e per i ragazzi. È molto difficile parlare di speranza se non dai una scuola, se è impossibile un’educazione».
La situazione in cui è stata costretta la popolazione palestinese secondo il Cardinale «non è giustificabile e non è moralmente accettabile». «Era chiaro che dopo l’orrore commesso da Hamas il 7 ottobre, ci sarebbe stata una reazione. Ma quella che stiamo vivendo è qualcosa che va oltre e che non è comprensibile né giustificabile».
In questo scenario la comunità cristiana che si è rifugiata nella parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza, sono cinquecento persone, ha scelto di restare. Una decisione sofferta e pericolosa ma inevitabile: «Nella parrocchia ci sono una quarantina di disabili gravi musulmani che non hanno alcuna possibilità di spostarsi e vengono assistiti dalle suore di Madre Teresa. E poi ci sono anziani molto fragili e malati che non possono partire. Per loro partire significherebbe morire. Per cui è stato chiaro che sarebbero rimasti lì e allora anche i nostri sacerdoti e le nostre suore hanno deciso di restare lì. E così anche il resto della comunità. Mi piace vedere anche in questo la scelta della Chiesa che decide di restare lì come presenza attiva pacifica».
Gli ho chiesto se possiamo finalmente sperare che le operazioni militari israeliane e i massacri si interrompano e che gli ultimi ostaggi in vita possano tornare a casa. La sua risposta contiene un filo di speranza: «Siamo in attesa della risposta di Hamas, che spero arrivi presto e sia positiva, al cosiddetto piano Trump, che ha tante lacune ma è vero che nessun piano sarà mai perfetto. Sono tutti stanchi, esausti, sfiniti da questa guerra e ora sembra evidente che si va verso una conclusione».
Ma la fine della guerra non è la fine del conflitto: «Il conflitto durerà ancora molto tempo perché le cause profonde di questa guerra non sono ancora state prese in considerazione. Il conflitto israelo palestinese non si concluderà finché non si darà al popolo palestinese una prospettiva chiara, evidente e reale. E poi l’odio, il disprezzo e il rancore che questa guerra ha causato dentro le due popolazioni israeliana avranno conseguenze e strascichi per molto tempo».
Nella lunga intervista mi ha raccontato il trauma profondo del 7 ottobre, delle gravissime conseguenze sulla popolazione israeliana, della radicalizzazione degli estremismi di entrambe le parti, che da anni hanno sequestrato il dibattito pubblico, del rifiuto di vedere la sofferenza degli altri.
E di cosa prova a sentir parlare della Riviera di Gaza: «È qualcosa che indigna: costruire una riviera su un luogo dove c’è stato tanto dolore, tante morti e tanto sangue è qualcosa che ferisce profondamente la dignità non soltanto degli abitanti di Gaza, ma di chiunque abbia a cuore il senso di umanità e di rispetto per le persone».
Alla fine gli chiedo se di fronte a questo panorama di macerie fisiche, di macerie morali, di ferite, di morti, di sangue, si possa cogliere qualche segno di speranza.
«Ne vedo tanti a Gaza e anche qui tra israeliani e palestinesi. Li vedo nella nostra comunità di Gaza, li vedo nei medici e negli infermieri che, anche a rischio della vita e senza strumenti e medicinali continuano inventarsi tutto il possibile per fare qualcosa. Li vedo in tante madri israeliane ma anche nei ragazzi che escono per strada per dire basta, con coraggio e anche sfidando l’incomprensione. Ho incontrato ragazzi diciottenni che sono finiti in carcere perché si sono rifiutati di andare a sparare. Questo mi fa dire che, nonostante tutto, c’è ancora tanta umanità che alla fine ci salverà. Saranno loro a salvarci».”

La prima primate anglicana

Fonte immagine

Dall’Inghilterra arriva una notizia storica. La prendo da Agensir.

“Per la prima volta nei suoi cinque secoli di storia la guida spirituale della “Chiesa di Inghilterra”, fondata da Enrico VIII nel sedicesimo secolo in rottura con la Chiesa di Roma, e di 85 milioni di anglicani in tutto il mondo, è una donna. Sarah Mullally, 63 anni, una lunga carriera di successo come infermiera, prima di essere scelta vescova di Londra, è la nuova arcivescova di Canterbury e primate anglicano. Ordinata come pastora a quarant’anni, ha ricoperto diversi incarichi nella chiesa di stato inglese prima di diventare vescova di Crediton, vescova suffragana nella diocesi di Exeter. L’annuncio della nomina è arrivato da Downing street perché la “Crown Appointments Commission”, la commissione, formata da 17 membri, che ha scelto con una maggioranza di due terzi la nuova arcivescova di Canterbury, ha inviato il nome al primo ministro che l’ha, poi, sottoposto, per l’approvazione finale, al Re. Ci sono voluti undici mesi per trovare un nuovo arcivescovo, dopo che il primate uscente Justin Welby si era dimesso, lo scorso gennaio, per uno scandalo legato al problema degli abusi. Sarah Mullally ha guidato, per mesi, il processo “Living in love and faith” che ha portato a preghiere e benedizioni per coppie omosessuali stabili. Nel suo mandato dovrà affrontare diversi nodi della chiesa di stato inglese di oggi: la diminuzione dei fedeli e delle ordinazioni sacerdotali, la mancanza di fondi, soprattutto nelle parrocchie, le divisioni sul tema dell’omosessualità e, soprattutto, il difficile tema della salvaguardia di minori e adulti vulnerabili.
“A nome della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles do il benvenuto alla notizia della nomina della vescova Sarah Mullally come arcivescova di Canterbury. Porterà molti doni personali e una lunga esperienza al suo nuovo ruolo”. Con queste parole, contenute in un comunicato diffuso dalla Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles, il card. Vincent Nichols, primate cattolico di Inghilterra e Galles, ha commentato la scelta della vescova di Londra Sarah Mullally come guida spirituale della Chiesa di Inghilterra. “Le sfide e le opportunità che attendono la nuova arcivescova sono molte e significative”, ha detto ancora l’arcivescovo di Westminster nel suo comunicato. “A nome della comunità cattolica inglese prometto alla nuova arcivescova le nostre preghiere”. “Insieme risponderemo alla preghiera di Gesù nel Vangelo ‘che possiamo tutti essere uno’ e cercare di sviluppare i legami di amicizia e missione condivisa tra la Chiesa di Inghilterra e la Chiesa cattolica”, ha concluso il card. Nichols.”

Nicea: a 1700 anni di distanza

Fonte immagine

Fulvio Ferrario è professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma. A inizio settembre ha firmato un articolo per la rivista Confronti sui 1700 anni dal Concilio di Nicea. Il taglio è teologico: non è di difficile comprensione, più che altro si sofferma su concetti sui quali molte persone, anche credenti, non sono abituate a riflettere e che magari sono espressi con parole ormai ripetute in modo automatico ogni domenica (“della stessa sostanza del Padre”). Buona lettura.“Secondo una celebre e felice formulazione del teologo ebreo Shalom Ben Chorin, la fede di Gesù unisce ebrei e cristiani, la fede in Gesù li divide. La fede di Gesù è, naturalmente, quella del popolo di Israele; la fede in Gesù è quella che vede nell’uomo di Nazareth la rivelazione definitiva del volto di Dio e del suo progetto nei confronti della creazione e, in essa, dell’umanità.
Il Concilio ecumenico di Nicea del 325, del quale si celebra, nel 2025, il XVII centenario, può forse essere considerato il passo decisivo mediante il quale la comunità cristiana chiarisce il carattere unico, privo di analogie, del rapporto tra Gesù e il Dio di Israele.
Per la verità, il rapporto tra Chiesa e Israele non è affatto in primo piano nella problematica affrontata a Nicea: o meglio, non lo è in modo diretto ed esplicito. La Chiesa del IV secolo si comprende, da tempo, come una realtà religiosa altra rispetto all’Ebraismo, e come tale è percepita da quest’ultimo.
Il problema fondamentale del Concilio, invece, è totalmente interno all’universo simbolico cristiano e può essere riassunto così: stabilito, con tutto il Nuovo Testamento, che il rapporto con Dio passa attraverso la persona di Gesù, nella quale (per usare le parole del IV evangelista) si incarna il “la Parola” di Dio, come dobbiamo pensare quest’ultima?
La proposta del presbitero Ario ha il pregio della nitidezza: il Verbo va considerato come la prima tra le creature, una realtà chiamata all’essere dall’unico Dio, prima che il mondo fosse, e che costituisce il progetto della creazione intera. In tal modo, il rigoroso monoteismo, condiviso con Israele, sembra confermato, così come la radicale trascendenza di Dio, che entra in rapporto con la realtà solo attraverso la mediazione del “Verbo”.
La tesi che esce vincente dal Concilio, tuttavia, è ben diversa. Tra le parole chiave della posizione nicena, la più famosa è probabilmente un aggettivo che in italiano si può tradurre con “consustanziale” [ὁμοούσιος, homoousios ndr]: il Verbo è della stessa “sostanza” di colui che i cristiani chiamano il Padre, cioè, in termini più vicini ai nostri, è Dio nello stesso senso nel quale lo è il Padre.
L’obiezione è ovvia: se il Padre è Dio e lo è anche il Verbo, gli “Dei” sono due (come minimo: la situazione, com’è noto, si complicherà ulteriormente). Ci vorrà parecchio tempo perché la Teologia, mediante equilibrismi terminologici abbastanza audaci, elabori quella che diventerà la dottrina trinitaria, cioè una comprensione di Dio come unità differenziata e non come monade.
Le Chiese dei nostri giorni, tuttavia, vivono in una società totalmente estranea già alle narrazioni bibliche, figuriamoci alle elucubrazioni della Teologia dei primi secoli. Le liturgie utilizzano abbastanza placidamente le antiche formulazioni, come segno della continuità della Chiesa nel tempo; che però coloro che le recitano ne comprendano il significato, è più che dubbio.
Molti e molte si chiedono se non sia opportuno che le comunità di oggi esprimano la loro fede con parole che sentono e comprendono. Personalmente, la ritengo un’esigenza legittima: come diceva non un relativista postmoderno, bensì Tommaso d’Aquino, la fede si rivolge a Dio e non alle formulazioni su Dio, il che autorizza le diverse generazioni alla stessa audacia espressiva utilizzata dai nostri padri e dalle nostre madri nella fede.
A Nicea non è stato indicato un punto d’arrivo (come del resto dimostra la storia successiva), bensì un punto di non ritorno: secondo la Chiesa cristiana, il nome del Dio tre volte santo, del Dio di Israele, non può in alcun modo essere separato dalla storia di Gesù. L’affermazione secondo la quale una storia umana è decisiva per la relazione con colui che è eterno è paradossale per le tradizioni religiose del mondo antico e non solo, mentre Nicea la afferma in modo irreversibile.
Per tale ragione, l’affermazione di Shalom Ben Chorin dalla quale siamo partiti mantiene la propria validità. Le modalità nelle quali la Chiesa può anzitutto vivere, e poi anche esprimere, la relazione tra Dio e Gesù non possono essere confinate dalla Chiesa nel suo passato, ma costituiscono il suo futuro”.

Mettere in discussione

Il secondo articolo che propongo sul generale tema delle polarizzazioni è di stampo filosofico-teologico. Su VinoNuovo Riccardo Larini, riprendendo un precedente articolo di Andrea Zhok, si sofferma sulla figura di Henri Bergson.

Fonte immagine Wikimedia

“[…] Per offrire un approccio critico e alternativo vorrei rifarmi a un pensatore che ritengo andrebbe più che mai riscoperto nell’epoca attuale di tensioni e polarizzazioni, ovverosia Henri Bergson, uomo che seppe leggere le polarizzazioni (o meglio, le dualità) inerenti alle società e alle religioni in maniera feconda, intelligente e costruttiva.
Per Bergson ci sono due fonti fondamentali della morale e della religione, che egli definisce “natura” e “spirito”. La prima non è una realtà intrinsecamente buona bensì la fonte di quella che il filosofo parigino definisce una religione “statica”, che viene istituita dagli esseri umani di ogni credo e latitudine quale reazione di difesa contro il potere disgregante dell’intelligenza e del pensiero, che di per sé tenderebbero all’individualismo e al cambiamento. In una certa misura è una realtà che non è mai del tutto eliminabile e che ha una sua funzione, ma che tuttavia viene costantemente superata, dato che ogni cristallizzazione è in ultima istanza molto simile a una morte degli slanci e delle aspirazioni umane, e perciò l’umanità non può mai accettarla a lungo.
La seconda fonte, lo spirito, è alla radice di quella che invece Bergson definisce una religione “dinamica”, che segue lo slancio inarrestabile della vita, che produce cambiamento e trasformazione e va ben oltre i nostri limiti e la nostra morte, sia fisica sia spirituale.
Quello che è totalmente chiaro, nel pensiero di Bergson, è da un lato che lo spirito trascende costantemente la natura e le è in un certo senso superiore, e dall’altro che ogni realtà religiosa prodotta dagli uomini (compresi i loro sistemi di pensiero e le loro “chiese”) è attraversata da entrambe queste “religioni”.
Con Bergson, perciò, vorrei affermare con molta convinzione che sostituire alla polarità tra natura e spirito quella tra chiesa “conservatrice” e società postmoderna (ostile alla religione in quanto incline al cambiamento) mi pare un grande rischio, fondamentalmente sbagliato. La vera questione è come far sì che la religione dinamica fecondi e superi costantemente le barriere (mai del tutto eliminabili) di quella statica, all’interno dello stesso cristianesimo. Perché?
Certo, dipende da cosa riteniamo stia al cuore della “rivelazione” cristiana. Se pensiamo che essa consista in un insieme di insegnamenti puntuali e immutabili su come dobbiamo vivere e comportarci, dalla sfera più intima a quella politica – detto altrimenti: se la riteniamo soprattutto un insegnamento di verità al plurale – allora potremmo (forse) riconoscere fondato il ruolo prevalentemente di pura conservazione che Zhok sembra voler riservare alla chiesa.
Se però riteniamo che la verità fondamentale sia il mandatum novum, l’invito ad amarci gli uni gli altri come Gesù ci ha amati (dunque senza porre alcuna condizione), allora non dovremo e non potremo mai temere le eventuali nuove direzioni vitali in cui lo spirito può condurre sia chi crede sia chi non crede, mediante il pensiero, la creatività, l’espandersi dei desideri e delle culture umani.
Dovremo solo imparare la difficile arte del discernimento, che in termini laici, come ha ricordato con grande profondità Hannah Arendt, è possibile solo laddove ci si esercita a pensare e si accetta costantemente che tutto venga costantemente messo in discussione, dentro di noi e fra di noi. Altrimenti di fronte al nuovo e al positivo rischieremo di opporre dinieghi mortiferi, per noi e per molti altri.
Per questo credo sia fondamentale vincere il “complesso dell’assedio” che la chiesa sembra vivere in Italia, a mio avviso in maniera del tutto ingiustificata, probabilmente rafforzato da decenni di palese riduzione della libertà di pensiero al suo interno nonché da una formazione teologica che non mi pare apra più, come invece faceva un tempo, all’esplorazione coraggiosa di nuovi itinerari di riflessione alla luce della fede, ma tenda a ripiegarsi su uno sforzo apologetico peraltro piuttosto striminzito e affatto lungimirante.
Perché la vita va avanti, inesorabilmente. Non credo peggiorando (difficile dire che siamo moralmente inferiori a secoli fa), e neppure sistematicamente secondo inesorabili linee di progresso. Ma limitandoci alla pura conservazione, alla staticità, alla chiusura, come cristiani e come chiese rischiamo sicuramente non solo di non saper cogliere i semi di vita e di speranza che sorgono costantemente intorno a noi, ma addirittura di spegnere la capacità di desiderare e di amare quanti sono affidati al nostro ministero. Detto altrimenti, di spegnere lo S/spirito.
Invece di promuovere la vita diventiamo tristi annunciatori di un mondo e una società chiusi, spiritualmente morti.”

Mi piace ricordare che il cristianesimo si fa portavoce della buona novella, sostantivo che deriva dal latino novellus, che significa “novità” o “notizia nuova”.

Fare teologia in Italia

Immagine di Chiara Peruffo tratta da pagina Fb del CTI

Oggi pubblico un articolo piuttosto denso, dedicato più a colleghe e colleghi che a studentesse e studenti. A scrivere è la teologa Selene Zorzi sulle pagine di Rocca. Si parla di teologia: di quanto sia importante oggi e di come sarebbe interessante proporne l’insegnamento. E’ un punto di vista chiaro, netto, fuori dal coro. Era inevitabile che suscitasse la mia attenzione. Buona lettura.

“La teologia italiana oggi vive in un paradosso: mentre il patrimonio culturale e spirituale del cristianesimo permea la storia e l’identità nazionale (“donna, madre e cristiana”), la riflessione teologica rimane sostanzialmente sconosciuta ai più. Questa situazione genera una frattura tra l’eredità cristiana come fenomeno culturale e la sua comprensione critica da parte della società civile.
Il cittadino medio che volesse approfondire questioni teologiche si trova di fatto escluso dai percorsi formativi esistenti: da un lato gli Istituti teologici (o gli Issr), sotto stretto controllo dell’autorità ecclesiastica e orientati prevalentemente alla formazione intraecclesiale; dall’altro la teologia è estromessa dalle facoltà universitarie statali. Cosa può fare chi, pur non condividendo la fede cristiana – magari ateo e materialista – è intellettualmente attratto da questioni teologiche che nutre legittime riserve verso l’istituzione ecclesiastica ma che riconosce la rilevanza culturale e filosofica del pensiero teologico? È un profilo tutt’altro che marginale nella società contemporanea! Le università che offrono un percorso di Storia del pensiero teologico (perché la parola Teologia non può essere usata in ambito pubblico senza il patrocinio Cei) sono pochissime e comunque nessuna università italiana concede un titolo in Teologia che del resto non avrebbe sbocchi.
Le resistenze ad iscriversi ad un corso di Teologia confessionale sono comprensibili: la diffidenza verso il clero, acuita dalle recenti cronache di abusi; il timore dell’indottrinamento; l’incompatibilità tra i propri impegni professionali e la struttura rigida dei corsi ecclesiastici.
Queste barriere stanno creando un disastro culturale. Il cristianesimo finisce per essere rappresentato solo nei suoi lati più imbarazzanti: politici che sventolano rosari, il cristianesimo associato solo alla retorica moralista, gli scandali del clero che fanno perdere credibilità al messaggio evangelico. Tutto il resto, la ricchezza filosofica e culturale di secoli di pensiero, rimane ignorato o sottostimato. Anche le agorà culturali, al di là dell’entusiasmo, che può avere vita breve, non trasmettono né accompagnano in approfonditi percorsi di riflessione teologica.

IL PARADOSSO DELLA TEOLOGIA ITALIANA
Mancano strutture in grado di rispondere all’esigenza di colmare questo vuoto ma non è difficile immaginarle anche sulla base del fatto che da decenni si sono moltiplicati luoghi di studio e diffusione della teologia (Scuole di Teologia diocesana, percorsi spirituali e culturali nelle foresterie monastiche, corsi o incontri promossi da parrocchie, reti e associazioni). Nessuno di questi appare del tutto scollegato da un beneplacito ecclesiastico.
Oggi vediamo anche il moltiplicarsi di proposte di riflessione e percorsi biblici e teologici, permesse soprattutto dalla presenza virtuale e dal nuovo protagonismo delle teologhe (si pensi al successo che hanno i corsi di Teologia online del Coordinamento teologhe italiane). In tale moltiplicazione di iniziative si trova anche chi ha il coraggio di offrire una riflessione fuori dalle braccia di Madre Chiesa.
Nel contesto italiano, dove la teologia è spesso ancora intrecciata con l’autorità ecclesiastica, tale autonomia di pensiero rischia di essere letta come minaccia o arroganza. L’accusa implicita di egocentrismo, l’invito a lavorare “in rete” e la diffidenza nei confronti di iniziative autonome e fuori dagli schemi tradizionali pone quindi una domanda cruciale: chi ha il diritto di fare teologia? E come?
Chi vive una tensione tra competenza personale e il riconoscimento istituzionale può sentire una frustrazione che però potrebbe essere generativa di nuove posture: la marginalità e il desiderio di portare la teologia fuori dai recinti ecclesiastici possono costituire una opportunità.
Sembra emergere oggi un bisogno: in un’epoca di crescente secolarizzazione, ma anche di nuove ricerche di senso e di crisi delle certezze moderne, la riflessione teologica può assolvere ad una missione culturale più ampia. Mantenerla confinata negli ambienti ecclesiastici significa privarla della sua potenziale funzione pubblica.
Occorre quindi pensare e moltiplicare centri culturali capaci di operare secondo principi radicalmente diversi da quelli degli istituti ecclesiastici tradizionali.
Queste “scuole” dovrebbero adottare un approccio storico-filosofico o comparativo alle questioni teologiche, privilegiando il rigore critico rispetto all’adesione confessionale. Questo non significa necessariamente coltivare luoghi di ostilità verso la fede o la Chiesa cattolica, ma piuttosto la creazione di uno spazio dove credenti e non credenti possano confrontarsi su un piano paritario (fa scuola la cattedra dei non credenti creata dal card. Martini).
La teologia deve avere il coraggio di diventare divulgativa senza cadere nell’apologia o nel catechismo: andrebbe quindi abbandonato il gergo specialistico per adottare un linguaggio diretto e comprensibile. La fortuna che hanno fenomeni come Vito Mancuso, Michela Murgia, Massimo Recalcati non sta solo nel fatto che hanno intercettato un bisogno evidente nella società di oggi, ma soprattutto perché hanno saputo spezzare l’involuto linguaggio teologico per renderlo accessibile a tutti.
Non si tratta di semplificare i contenuti, ma tradurli in modo da rendere le questioni fondamentali accessibili anche a chi non possiede una formazione (ecclesiale).
Un elemento determinante per garantire l’autonomia intellettuale di questi percorsi e l’apertura al di fuori dei confini confessionali sarà il fatto che i preti dovranno lasciare la scena: il corpo docenti dovrà essere formato da laici. E oggi sono soprattutto le donne a garantire una riflessione teologica sottratta alle dinamiche di autorità proprie delle istituzioni ecclesiastiche per il fatto che non possono essere ordinate.
D’altra parte le donne stesse dovranno vigilare a non riprodurre dinamiche di controllo o di potere da Congregazione per la dottrina della fede che avendo subito possono inconsapevolmente essere messe in atto. La lezione di “autodeterminazione” che abbiamo imparato dal femminismo deve valere per noi ma anche per le generazioni dopo di noi.
Superando il modello della lezione frontale, questi luoghi dovrebbero privilegiare metodologie partecipative: seminari, tavole rotonde, classi capovolte, laboratori di pensiero che favoriscano il confronto critico e la co-costruzione del sapere. Il modello “formazione” già abbondantemente presente nelle aziende (e che viene imposto oramai sempre più purtroppo anche ai ragazzi nelle scuole, dove però sortisce effetti anche controproducenti) si presenta come metodo più adatto per gli adulti.
Particolare attenzione andrebbe rivolta al dialogo interdisciplinare, invitando esperti di altre discipline – filosofi, sociologi, psicologi, scienziati – a confrontarsi con le questioni teologiche contemporanee.
In questo senso, tematiche come l’etica dell’intelligenza artificiale, la teologia della sostenibilità ambientale, o l’analisi critica dei messaggi populisti che strumentalizzano il religioso, la relazione con le scienze, le arti e la letteratura, il cinema, la musica, potrebbero rappresentare terreni privilegiati di incontro e reciproca fecondazione tra saperi diversi.
Il presupposto teoretico fondamentale è che la teologia, in quanto riflessione sistematica sul rapporto tra umano e trascendente, costituisce un patrimonio culturale che trascende i confini confessionali. Le grandi questioni teologiche – il senso dell’esistenza, il rapporto con il limite e la finitudine, la dimensione simbolica dell’esperienza umana – interpellano ogni essere pensante, indipendentemente dalle sue convinzioni religiose.

VERSO UNA TEOLOGIA PUBBLICA E PARTECIPATIVA
L’urgenza di questo approccio si manifesta con particolare evidenza nel contesto delle crisi contemporanee. I conflitti bellici che attraversano l’Europa orientale e il Medio Oriente riattualizzano drammaticamente la questione teologica del male e della teodicea, mentre le derive populiste che investono le democrazie occidentali sollevano interrogativi profondi sul rapporto tra religione e potere politico. La crisi sistemica del capitalismo neoliberista pone con forza rinnovata la questione della giustizia sociale e dell’economia della condivisione, temi centrali nella tradizione profetica biblica.
In un mondo come l’attuale, dove la vita delle persone appare senza “valore” se non produce ricchezza, dove il sapere tecnico diventa l’unico pattern per pensare, credere di poter mantenere il monopolio della teologia significa non credere nel suo potenziale pubblico e sociale, oltre ad essere una operazione impraticabile.
L’implementazione di un tale progetto non è senza ostacoli. Primo fra tutti, la resistenza del mondo ecclesiastico, che potrebbe percepire questa iniziativa come una sottrazione di competenze, autorità e di uditorio. In secondo luogo, la diffidenza del mondo laico, che potrebbe sospettare strategie di proselitismo mascherato. Per non parlare delle questioni logistiche ed economiche.
Esperienze già attuate e presenti dimostrano la fattibilità di simili progetti magari sponsorizzati da aziende o da privati in forma di accordo economico con un/a professionista.
Immaginare una teologia che sappia uscire dalle proprie roccaforti istituzionali per confrontarsi con la complessità del mondo contemporaneo significa riconoscere che la verità teologica, se tale è, non può temere il confronto con altre forme di sapere.
Restituire alla teologia la sua vocazione pubblica, sottraendola al monopolio ecclesiastico e al disinteresse laico costringe a immaginare percorsi che meritano la libertà di essere sperimentati, nella convinzione che il dialogo critico e rispettoso tra visioni del mondo diverse costituisca una risorsa preziosa per l’intera società.
Occorre il coraggio di sollevare i vescovi dall’obbligo di dare la loro “benedizione” a percorsi che essi non possono e non devono riconoscere.
Solo così si potrà evitare che il cristianesimo continui a essere percepito unicamente attraverso le sue manifestazioni più deteriori, e si potrà favorire una comprensione più profonda e articolata del suo contributo al pensiero occidentale e alla ricerca di soluzioni per le sfide epocali che ci attendono.
Il dissidio della teologia italiana tra le forme istituzionali appiattite su dinamiche di potere da un lato e un crescente bisogno di pensiero, spiritualità e confronto proveniente dalle periferie ecclesiali e culturali attraversa potentemente l’esperienza di chi ha maturato competenze teologiche e intende avviare percorsi teologici fuori dall’asfittico mondo seminaristico. La frustrazione che ne emerge può funzionare da detonatore per iniziative nei quali proprio la marginalità diventi luogo teologico e il desiderio di portare la teologia fuori dai recinti ecclesiastici costituisca nuove forme di fecondazione per la teologia.
In questa tensione si apre infatti una possibilità feconda: quella di una teologia che non cerca solo riconoscimento, ma significato, che non si misura sulla base della legittimità ricevuta dall’alto, ma della risonanza che genera nei vissuti concreti delle persone. Si tratta, in sostanza, di pensare la teologia non come sistema dottrinale da trasmettere, ma come strumento di pensiero critico e di discernimento, capace di generare coscienza e orientamento. Abbiamo bisogno di luoghi di studio che si presentino come “cattedra dei non credenti”, con persone professionalmente competenti per una consulenza teologica (non basta sentirsi ontologicamente superiori per avere anche capacità di gestione di un dialogo spirituale): laboratori di umanizzazione.
Proprio lì, nel punto in cui l’io incontra il limite, si può aprire lo spazio per una teologia incarnata, significativa, politica.”

L’omelia

Pubblico il testo integrale dell’omelia del cardinal Re, decano del Collegio Cardinalizio, durante i funerali di Papa Francesco, il 26 aprile 2025 (fonte sito del Vaticano).

“In questa maestosa piazza di San Pietro, nella quale Papa Francesco tante volte ha celebrato l’Eucarestia e presieduto grandi incontri nel corso di questi 12 anni, siamo raccolti in preghiera attorno alle sue spoglie mortali col cuore triste, ma sorretti dalle certezze della fede, che ci assicura che l’esistenza umana non termina nella tomba, ma nella casa del Padre in una vita di felicità che non conoscerà tramonto.
A nome del Collegio dei Cardinali ringrazio cordialmente tutti per la vostra presenza. Con intensità di sentimento rivolgo un deferente saluto e vivo ringraziamento ai Capi di Stato, ai Capi di Governo e alle Delegazioni ufficiali venute da numerosi Paesi ad esprimere affetto, venerazione e stima verso il Papa che ci ha lasciati.
Il plebiscito di manifestazioni di affetto e di partecipazione, che abbiamo visto in questi giorni dopo il suo passaggio da questa terra all’eternità, ci dice quanto l’intenso Pontificato di Papa Francesco abbia toccato le menti ed i cuori.
La sua ultima immagine, che rimarrà nei nostri occhi e nel nostro cuore, è quella di domenica scorsa, Solennità di Pasqua, quando Papa Francesco, nonostante i gravi problemi di salute, ha voluto impartirci la benedizione dal balcone della Basilica di San Pietro e poi è sceso in questa piazza per salutare dalla papamobile scoperta tutta la grande folla convenuta per la Messa di Pasqua.
Con la nostra preghiera vogliamo ora affidare l’anima dell’amato Pontefice a Dio, perché Gli conceda l’eterna felicità nell’orizzonte luminoso e glorioso del suo immenso amore.
Ci illumina e ci guida la pagina del Vangelo, nella quale è risuonata la voce stessa di Cristo che interpellava il primo degli Apostoli: “Pietro, mi ami tu più di costoro?”. E la risposta di Pietro era stata pronta e sincera: “Signore, Tu conosci tutto; Tu sai che ti voglio bene!”. E Gesù gli affidò la grande missione: “Pasci le mie pecore”. Sarà questo il compito costante di Pietro e dei suoi Successori, un servizio di amore sulla scia del Maestro e Signore Cristo che “non era venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per tutti” (Mc.10,45).
Nonostante la sua finale fragilità e sofferenza, Papa Francesco ha scelto di percorrere questa via di donazione fino all’ultimo giorno della sua vita terrena. Egli ha seguito le orme del suo Signore, il buon Pastore, che ha amato le sue pecore fino a dare per loro la sua stessa vita. E lo ha fatto con forza e serenità, vicino al suo gregge, la Chiesa di Dio, memore della frase di Gesù citata dall’Apostolo Paolo: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” (Atti, 20,35).
Quando il Card. Bergoglio, il 13 marzo del 2013, fu eletto dal Conclave a succedere a Papa Benedetto XVI, aveva alle spalle gli anni di vita religiosa nella Compagnia di Gesù e soprattutto era arricchito dall’esperienza di 21 anni di ministero pastorale nell’Arcidiocesi di Buenos Aires, prima come Ausiliare, poi come Coadiutore e in seguito, soprattutto, come Arcivescovo.
La decisione di prendere il nome Francesco apparve subito come la scelta di un programma e di uno stile su cui egli voleva impostare il suo Pontificato, cercando di ispirarsi allo spirito di San Francesco d’Assisi.
Conservò il suo temperamento e la sua forma di guida pastorale, e diede subito l’impronta della sua forte personalità nel governo della Chiesa, instaurando un contatto diretto con le singole persone e con le popolazioni, desideroso di essere vicino a tutti, con spiccata attenzione alle persone in difficoltà, spendendosi senza misura, in particolare per gli ultimi della terra, gli emarginati. È stato un Papa in mezzo alla gente con cuore aperto verso tutti. Inoltre è stato un Papa attento al nuovo che emergeva nella società ed a quanto lo Spirito Santo suscitava nella Chiesa.
Con il vocabolario che gli era caratteristico e col suo linguaggio ricco di immagini e di metafore, ha sempre cercato di illuminare con la sapienza del Vangelo i problemi del nostro tempo, offrendo una risposta alla luce della fede e incoraggiando a vivere da cristiani le sfide e le contraddizioni di questi nostri anni di cambiamenti, che amava qualificare “cambiamento di epoca”.
Aveva grande spontaneità e una maniera informale di rivolgersi a tutti, anche alle persone lontane dalla Chiesa.
Ricco di calore umano e profondamente sensibile ai drammi odierni, Papa Francesco ha realmente condiviso le ansie, le sofferenze e le speranze del nostro tempo della globalizzazione, e si è donato nel confortare e incoraggiare con un messaggio capace di raggiungere il cuore delle persone in modo diretto e immediato.
Il suo carisma dell’accoglienza e dell’ascolto, unito ad un modo di comportarsi proprio della sensibilità del giorno d’oggi, ha toccato i cuori, cercando di risvegliare le energie morali e spirituali.
Il primato dell’evangelizzazione è stato la guida del suo Pontificato, diffondendo, con una chiara impronta missionaria, la gioia del Vangelo, che è stata il titolo della sua prima Esortazione Apostolica Evangelii gaudium. Una gioia che colma di fiducia e speranza il cuore di tutti coloro che si affidano a Dio.
Filo conduttore della sua missione è stata anche la convinzione che la Chiesa è una casa per tutti; una casa dalle porte sempre aperte. Ha più volte fatto ricorso all’immagine della Chiesa come “ospedale da campo” dopo una battaglia in cui vi sono stati molti feriti; una Chiesa desiderosa di prendersi cura con determinazione dei problemi delle persone e dei grandi affanni che lacerano il mondo contemporaneo; una Chiesa capace di chinarsi su ogni uomo, al di là di ogni credo o condizione, curandone le ferite.
Innumerevoli sono i suoi gesti e le sue esortazioni in favore dei rifugiati e dei profughi. Costante è stata anche l’insistenza nell’operare a favore dei poveri.
È significativo che il primo viaggio di Papa Francesco sia stato quello a Lampedusa, isola simbolo del dramma dell’emigrazione con migliaia di persone annegate in mare. Nella stessa linea è stato anche il viaggio a Lesbo, insieme con il Patriarca Ecumenico e con l’Arcivescovo di Atene, come pure la celebrazione di una Messa al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, in occasione del suo viaggio in Messico.
Dei suoi 47 faticosi Viaggi Apostolici resterà nella storia in modo particolare quello in Iraq nel 2021, compiuto sfidando ogni rischio. Quella difficile Visita Apostolica è stata un balsamo sulle ferite aperte della popolazione irachena, che tanto aveva sofferto per l’opera disumana dell’ISIS. È stato questo un Viaggio importante anche per il dialogo interreligioso, un’altra dimensione rilevante della sua opera pastorale. Con la Visita Apostolica del 2024 a quattro Nazioni dell’Asia-Oceania, il Papa ha raggiunto “la periferia più periferica del mondo”.
Papa Francesco ha sempre messo al centro il Vangelo della misericordia, sottolineando ripetutamente che Dio non si stanca di perdonarci: Egli perdona sempre qualunque sia la situazione di chi chiede perdono e ritorna sulla retta via.
Volle il Giubileo Straordinario della Misericordia, mettendo in luce che la misericordia è “il cuore del Vangelo”.
Misericordia e gioia del Vangelo sono due parole chiave di Papa Francesco.
In contrasto con quella che ha definito “la cultura dello scarto”, ha parlato della cultura dell’incontro e della solidarietà. Il tema della fraternità ha attraversato tutto il suo Pontificato con toni vibranti. Nella Lettera Enciclica “Fratelli tutti” ha voluto far rinascere un’aspirazione mondiale alla fraternità, perché tutti figli del medesimo Padre che sta nei cieli. Con forza ha spesso ricordato che apparteniamo tutti alla medesima famiglia umana.
Nel 2019, durante il viaggio negli Emirati Arabi Uniti, Papa Francesco ha firmato un documento sulla “Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune”, richiamando la comune paternità di Dio.
Rivolgendosi agli uomini e alle donne di tutto il mondo, con la Lettera Enciclica Laudato si’ ha richiamato l’attenzione sui doveri e sulla corresponsabilità nei riguardi della casa comune. “Nessuno si salva da solo”.
Di fronte all’infuriare delle tante guerre di questi anni, con orrori disumani e con innumerevoli morti e distruzioni, Papa Francesco ha incessantemente elevata la sua voce implorando la pace e invitando alla ragionevolezza, all’onesta trattativa per trovare le soluzioni possibili, perché la guerra – diceva – è solo morte di persone, distruzioni di case, ospedali e scuole. La guerra lascia sempre il mondo peggiore di come era precedentemente: essa è per tutti sempre una dolorosa e tragica sconfitta.
“Costruire ponti e non muri” è un’esortazione che egli ha più volte ripetuto e il servizio di fede come Successore dell’Apostolo Pietro è stato sempre congiunto al servizio dell’uomo in tutte le sue dimensioni.
In unione spirituale con tutta la Cristianità siamo qui numerosi a pregare per Papa Francesco perché Dio lo accolga nell’immensità del suo amore.
Papa Francesco soleva concludere i suoi discorsi ed i suoi incontri dicendo: “Non dimenticatevi di pregare per me”.
Caro Papa Francesco, ora chiediamo a Te di pregare per noi e che dal cielo Tu benedica la Chiesa, benedica Roma, benedica il mondo intero, come domenica scorsa hai fatto dal balcone di questa Basilica in un ultimo abbraccio con tutto il popolo di Dio, ma idealmente anche con l’umanità che cerca la verità con cuore sincero e tiene alta la fiaccola della speranza.”

Mandi

Era il 2005, sempre aprile, il 2. Non avevo ancora iniziato a tenere un blog, Facebook esisteva ma non impattava ancora, gli altri social praticamente non c’erano. Le notizie non le cercavi su internet, ma usavi tv, radio, televideo e giornali (di carta). Quel 2 aprile 2005 se ne andava Giovanni Paolo II, l’ultima volta che è morto un papa “in carica”.
Poi c’è stato il 28 febbraio 2013, la data in cui Benedetto XVI diede le dimissioni: l’impatto sul web fu ben diverso, anche perché enorme fu la sorpresa… (personalmente ricordo ancora quello che stavo facendo quando seppi la notizia).
Della morte di Francesco ho saputo da un vicino mentre stavo andando a passare la Pasquetta a Lignano con la famiglia. Durante il giorno ho letto pochissimo dallo smartphone, poi, in tarda serata, ho avuto un po’ di tempo, ho fatto accesso ai social e sono scappato. Stiamo trasformando tutto in uno scontro, in una discussione in un conflitto: e deve essere immediato, estremo, forte, certo. Stiamo diventando esperti di polarizzazione.
Non voglio farne parte. Ne esco senza parole e usando un linguaggio che da un po’ non bazzico ma che riconosco come vicino al mio sentire: quello della fotografia. Era la fine di aprile del 2013 e Jorge Mario Bergoglio era da poco diventato Francesco e aveva stupito il mondo con un semplice “Buonasera”. Sara ed io eravamo in piazza San Pietro e ho fatto questi scatti. Letteralmente Mandi Francesco.

Donne e Chiesa

Immagine creata con ChatGPT®

In occasione dell’8 marzo Emanuela Buccioni, su Rocca, ha scritto un interessante pezzo sulla donna nella società e nella Chiesa.

“Poco tempo fa ho accompagnato delle classi a un’esperienza interessante a Roma: l’Italian model of United Nations (Imun), in cui adolescenti di tutta Italia si immedesimano per alcuni giorni nel lavoro dei delegati Onu dibattendo in inglese di problemi e risoluzioni. Una piccola finestra su un mondo possibile, con giovani che studiano le situazioni di Paesi lontani, in atteggiamento inclusivo, responsabile, attivo verso le più grandi sfide del mondo, sebbene in modo simulato. Le delegazioni erano assolutamente equilibrate dal punto di vista del genere, una in particolare, che simulava la Commissione sulla condizione delle donne (Csw), organo del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (Ecosoc), doveva approfondire strategie per implementare la parità di genere e l’avanzamento dei diritti delle donne.
Questa commissione è il principale organismo intergovernativo globale e si dedica alla verifica della realizzazione dei punti della Dichiarazione di Pechino (1995) dedicata alla promozione delle donne e dell’uguaglianza di genere. Approfondendo tali tematiche delle giovani donne potrebbero farsi delle domande rispetto alla distanza di molte posizioni ecclesiali da quelli che vengono considerati diritti da promuovere.
Il cammino delle donne verso una piena e paritaria partecipazione nella società e nella Chiesa è uno dei grandi temi del nostro tempo. È un percorso segnato da conquiste significative. Come un fiume che scorre verso il mare, questo movimento ha conosciuto rapide impetuose e anse placide, ha incontrato dighe e deviazioni, ma non ha mai smesso di avanzare.
Guardando indietro, non possiamo non riconoscere i passi da gigante compiuti nelle ultime decadi. Nelle società occidentali, le donne hanno conquistato diritti fondamentali: dal voto all’istruzione, dall’accesso alle professioni alla tutela contro le discriminazioni. Oggi vediamo donne ai vertici di aziende, in parlamento, nelle aule dei tribunali e nei laboratori scientifici. La cultura stessa si è evoluta, mettendo in discussione stereotipi di genere radicati da secoli.
Un esempio significativo di progresso legislativo recente è la Direttiva Ue sulla trasparenza salariale, approvata nel 2023. Questa legge obbliga le aziende con più di 100 dipendenti a fornire informazioni sulla differenza retributiva tra uomini e donne, imponendo misure correttive in caso di divario superiore al 5%.
Sarebbe ingenuo tuttavia pensare che il cammino sia compiuto. Le statistiche ci ricordano impietosamente che la parità salariale resta un miraggio in molti settori. La violenza di genere continua a essere una piaga sociale, alimentata da pregiudizi duri a morire. Molte donne si trovano ancora costrette a scegliere tra carriera e famiglia, in un sistema che fatica a riconoscere il valore sociale della paternità e della cura.
Volgendo lo sguardo alla Chiesa, il quadro si fa ancora più complesso. Papa Francesco ha compiuto gesti significativi, nominando donne in ruoli di responsabilità mai ricoperti prima all’interno della Curia Romana. Il dibattito sul diaconato femminile, riaperto dal Pontefice, è segno di una Chiesa che si interroga e cerca nuove strade.
In Svizzera, la diocesi di Losanna, Ginevra e Friburgo ha nominato nel 2021 Marianne Pohl-Henzen come vicaria episcopale, la prima donna a ricoprire questo ruolo di alta responsabilità nella Chiesa cattolica svizzera. Con tale incarico ha un’autorità significativa nella gestione pastorale e amministrativa della diocesi.
Fuori dall’Europa, in Amazzonia, suor Laura Vicuña Pereira Manso dopo aver partecipato al Sinodo per l’Amazzonia, ricopre il ruolo di vicepresidente della Conferenza ecclesiale dell’Amazzonia e con altre leader indigene è stata ricevuta dal Papa come voce autorevole in difesa delle popolazioni di quelle terre ed espressione dei nuovi ministeri femminili.
Tuttavia, non possiamo ignorare le resistenze che ancora persistono. Certe mentalità tradizionaliste faticano ad accettare un ruolo più incisivo delle donne nella governance ecclesiale. Nel campo della teologia e dell’insegnamento, se pur con notevoli eccezioni, la voce femminile stenta ancora a trovare piena cittadinanza.
Che fare, dunque? La strada da percorrere è ancora lunga, ma non impossibile. Nella società, è necessario continuare a lavorare per una vera parità di opportunità, che passi attraverso politiche concrete di sostegno alla genitorialità, di contrasto alla violenza, di promozione dell’educazione. Servono leggi, certo, ma ancor più serve un cambiamento culturale profondo, che riconosca nella diversità una ricchezza e non una minaccia.
Nella Chiesa, il cammino sinodale, seppure con varie disillusioni, è ancora un’occasione preziosa per smuovere le acque. Si tratta di riconoscere i carismi affidati alle donne come agli uomini come dono dello Spirito per l’intera comunità e, dunque, nei casi opportuni, da rendere ministeri stabili. La sfida è quella di una Chiesa che, almeno alle nostre latitudini, si fa numericamente più piccola, ma dove la corresponsabilità tra uomini e donne è vissuta come espressione autentica del Vangelo e ricerca di autenticità e pienezza umana. Come ci ricorda Papa Francesco, “l’alleanza dell’uomo e della donna è chiamata a prendere la regia della società nel suo complesso” (Amoris Laetitia, 201).
Beati quelli e quelle che con pazienza e determinazione sapranno riconoscere i pregiudizi che ci abitano nel profondo, affrontare con coraggio le resistenze e accogliere con umiltà il nuovo: saranno testimoni e artefici di una cultura del vero rispetto e della valorizzazione reciproca.
Ogni volta che una donna viene riconosciuta per le sue capacità e non per il suo genere, ogni volta che un uomo si fa carico della cura familiare senza sentirsi sminuito, ogni volta che nella Chiesa si ascolta con rispetto la voce profetica di una donna, facciamo un passo avanti verso il «tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28) che annuncia Paolo.
Le implicazioni teologiche di una maggiore partecipazione femminile nella Chiesa sono profonde. La teologia femminista ha già arricchito la riflessione ecclesiale, offrendo nuove prospettive sull’interpretazione delle Scritture e sulla comprensione dei dogmi.
La stessa immagine di Dio in prospettiva femminile si arricchisce di sfumature. Se sia l’uomo che la donna sono creati a immagine di Dio, come possiamo riflettere più pienamente questa realtà nelle strutture e nei ministeri ecclesiali? Si tratta di riconsiderare la natura dell’autorità nella comunità cristiana e questo si riflette anche in una nuova visione dell’umano all’interno dell’intera creazione.
La questione tocca il cuore della nostra comprensione dei sacramenti e dei ministeri, compresi quelli ordinati alla cura e guida della comunità, a partire dal sacerdozio battesimale, ancora concetto misterioso per molti fedeli.
Il cammino verso una piena partecipazione delle donne nella Chiesa e nella società è un segno dei tempi che non possiamo ignorare. Ciascuno di noi, uomo o donna, si senta interpellato a fare la propria parte, con fiducia e speranza, per costruire una Chiesa e una società più giuste, più inclusive, più conformi al sogno di Dio per l’umanità.”

Il posto della Chiesa

Immagine creata con ChatGPT®

“E allora non può non chiedersi anch’essa: qual è il mio posto? Qual è il mio “luogo”?”.
Scrive così, riferendosi alla Chiesa, Stefania Baglivo a metà del suo articolo ““Luoghi” ecclesiali e teologia dal margine” sulla rivista quindicinale Rocca. Lo spunto è un passo del Documento finale del Sinodo dei Vescovi.“«A chi tra noi vorrebbe avere un ruolo attivo nella creazione di pratiche culturali controegemoniche, “una politica di posizione” intesa come punto di osservazione e prospettiva radicale impone di individuare spazi da cui iniziare un processo di re-visione» (bell hooks, Elogio del margine).
A queste parole di bell hooks si è rivolto il mio pensiero quando, nel leggere il Documento Finale della XVI Ass. Gen. Ord. del Sinodo dei Vescovi (26/10/2024), sono giunta al n. 114. Un paragrafo che, seppur nella sua brevità, ho trovato particolarmente profetico. Così dice:
«Questi sviluppi sociali e culturali chiedono alla Chiesa di ripensare il significato della sua dimensione “locale” e di mettere in discussione le sue forme organizzative, al fine di servire meglio la sua missione. Pur riconoscendo il valore del radicamento in contesti geografici e culturali concreti, è indispensabile comprendere il “luogo” come la realtà storica in cui l’esperienza umana prende forma. È lì, nella trama delle relazioni che vi si instaurano, che la Chiesa è chiamata ad esprimere la propria sacramentalità e a svolgere la propria missione».
La parte IV che include, appunto, il n.114, tratta della Conversione dei legami, gettando lo sguardo sui “luoghi” nei quali l’intera Chiesa vive e sulle forme che assume per essere efficacemente presente nei territori. Questo sguardo sembra essere illuminato da importanti novità di posizionamento, per riprendere bell hooks. La Chiesa, interpellata e spesso (s)travolta dagli sviluppi sociali e culturali descritti nei numeri che precedono il 114 (l’urbanizzazione, la mobilità umana, l’interculturalità, la cultura digitale), si riconosce immersa in un mondo in cui la percezione del tempo e dello spazio è radicalmente cambiata. E allora non può non chiedersi anch’essa: qual è il mio posto? Qual è il mio “luogo”?
A questa fondamentale domanda risponde il n.114: il posto della Chiesa non è tanto il singolo territorio che essa in qualche modo occupa, quanto l’esperienza umana e la trama di relazioni nelle quali è in grado di inserirsi per diventare sacramento (mediazione simbolico-reale) dell’accoglienza di Dio per tutte e tutti. Individuare questo “luogo” come posizionamento radicale per iniziare processi di re-visione, richiamando ancora le parole di bell hooks, potrebbe costituire un vero e proprio compito di realtà per il cattolicesimo attuale.
Posizionarsi “nell’esperienza umana e nella trama di relazioni”, certo, richiede un ripensarsi, un ricollocarsi a volte complesso e la necessità di una forma ospitale aperta, mai rigida. Nell’intera parte IV del Documento Finale si guarda al futuro proprio da questa prospettiva: l’esigenza di una decostruzione dell’opposizione tra centro e periferie grazie alla quale la Chiesa diventi “casa” accogliente ed inclusiva (n.115).
E ciò che riguarda l’intera Chiesa, vale, ovviamente, anche per la teologia, il cui “luogo” specifico non potrà essere se non “l’esperienza umana e la trama di relazioni”. Da questa posizione così larga ed ospitale, la riflessione sistematica può davvero contribuire con parole nuove, capaci di dialogo con la cultura nella quale è immersa. La teologia che potremmo definire dal margine è quella che offre una possibilità preziosissima di interlocuzione non solo con chi è “dentro”, ma soprattutto con chi è “fuori” e con chi è sulla “soglia”… in pratica davvero con tutte e tutti. Questo compito le è affidato ora più che mai, pena l’insignificanza.”

In God we trust. Ma quale?

Fonte immagine

Ha molto impressionato la fotografia del presidente statunitense Donald Trump, seduto alla scrivania della Casa Bianca, circondato da Paula White, pastora della cosiddetta teologia della prosperità, e da altri esponenti religiosi. L’occasione è stata quella della firma di un ordine esecutivo presidenziale per l’istituzione, presso la Casa Bianca, di un Ufficio della Fede (ne ha scritto Massimo Gaggi sul Corriere della Sera). Approfitto per segnalare un video di Francesco Costa, giornalista de Il Post, sul rapporto degli statunitensi con la religione e come questa si incroci anche con la politica americana (video pubblicato prima del voto elettorale):

Inoltre pubblico interamente un pezzo di Luca Colacino per Treccani dal titolo Politica e religione negli Stati Uniti di Trump“La sensibilità politica europea di oggi non può che essere sorpresa da uno degli aspetti più evidenti dell’amministrazione del quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti: la forte presenza della religione nella sfera pubblica. Si tratta di un evidente ritorno della religione come parte integrante della cultura politica di una democrazia liberale occidentale. In seguito all’illuminismo e alla Rivoluzione francese, l’Europa ha subito un processo di secolarizzazione definito da un marcato sentimento anti-religioso fondato nella certezza che una politica della sola ragione potesse condurre ad una società libera dall’ingiusta oppressione morale e dall’intolleranza che si credeva le religioni portassero nella sfera pubblica.
Diverso è il sentimento che anima l’affermazione del presidente Donald Trump la mattina di giovedì 6 febbraio 2025, all’annuale “National Prayer Breakfast” in Washington D.C. in cui egli afferma: «Dobbiamo resuscitare la religione, la dobbiamo resuscitare con molta più forza». La domanda è la seguente: Il ritorno della religione nella politica di Trump è un esempio della storica strategia in cui la religione è fonte di legittimazione del potere che desidera essere incontrastato o è riconoscimento autentico di una necessità politica più profonda?
La risposta completa a questa domanda dovrà aspettare il giudizio della storia a venire, ma alcune considerazioni possono essere fatte già da ora. La prima riguarda l’onestà con cui i padri fondatori della repubblica americana hanno sempre riconosciuto che il successo degli ideali americani di libertà, progresso e giustizia dipendesse dal contesto culturale in cui i cittadini condividevano una visione cristiana del mondo. Il successo della politica, secondo loro, dipende dal successo della religione nella vita dei cittadini. Ad esempio, John Adams, il secondo presidente degli Stati Uniti, dichiarò nella famosa lettera alle milizie del Massachusetts che «la Costituzione americana è stata creata solo per persone religiose con una determinata moralità e perciò è completamente inadeguata al governo di qualsiasi altro tipo di persone». Nonostante il governo americano abbia sempre supportato la marcata separazione istituzionale tra Chiesa e Stato, essa non ha mai approvato la separazione culturale tra religione e politica. Le religioni istituzionali, seppure non riducibili alla dimensione temporale, sono sempre state fonte di una visione comune del mondo che permetteva una vera deliberazione sul bene comune.  La religione cristiana in Occidente, infatti, è stata per anni una sorgente spirituale e intellettuale di riflessione sulla natura del bene comune. La stessa difesa delle libertà personali e della libertà di coscienza, di cui l’America è sempre stata grande promotrice, si basava sull’ipotesi di una società in cui gli individui erano responsabili delle proprie azioni davanti a Dio, la cui legge morale è una realtà oggettiva e intellegibile, almeno in parte, nelle categorie naturali e razionali. Questo non significa che la politica informata dalla religione smetta di deliberare e di avere visioni diverse sul bene comune. Infatti, la crisi della politica contemporanea non si basa sull’incapacità di essere d’accordo sulla natura del bene comune (il quale non è mai accaduto nella storia della politica); piuttosto, si basa sull’incapacità di trovare degli assiomi di pensiero comuni su cui costruire un dialogo di deliberazione e confronto politico effettivo. La politica di oggi è una politica senza metafisica, incapace di trovare degli assiomi filosofici comuni per la deliberazione sul bene comune. Ad esempio, senza una metafisica capace di definire l’esistenza reale e non nominale di una comune natura umana è molto difficile deliberare su quali siano effettivamente i cosiddetti “diritti umani”. Se non esiste una realtà metafisica di natura umana che sia intellegibile, allora questa diventa un concetto non scoperto ma costruito dall’intelletto e dalla volontà di ognuno. Per questo, la crisi contemporanea della politica senza metafisica è dovuta all’incapacità di avere un consenso di base sulle categorie filosofiche classiche.
Ma cosa c’entra questo con la religione nella politica? Si è detto che l’Europa, e con essa l’Occidente, è figlia di Atene, quale culla della cultura filosofica greca, e di Gerusalemme, quale sorgente della spiritualità e religiosità giudaico-cristiana. In effetti, la filosofia greca è stata tradotta nella cultura europea attraverso la mediazione della religione cristiana. Con il fenomeno della secolarizzazione, poi, si è cercato di rendere l’Occidente indipendente da Gerusalemme. Oggi, però, il problema della politica contemporanea non è l’incapacità di essere d’accordo su Gerusalemme, piuttosto è l’incapacità di avere Atene come punto di riferimento comune per una vera politica del confronto sul bene comune. La questione riguarda la possibilità dell’Occidente, ormai orfano delle proprie radici filosofiche e spirituali, di ritornare ad Atene come punto d’incontro della ragione universale all’infuori dalla mediazione di Gerusalemme. In altre parole, in una modernità che ha perso il senso di una ragione universale, abbandonando ogni credenza metafisica riguardo le categorie oggettive di bene comune e natura, è possibile riportare una vera politica del confronto senza la religione?
Sembra che gli Stati Uniti, a differenza dell’Europa, abbiano sempre riconosciuto che l’eredità filosofica di Atene per una politica capace di un vero confronto sul bene comune dipendesse dall’integrità della religione come interlocutore sociale. In questo senso vanno intese le parole di Trump nell’intervento alla National Prayer Breakfast in cui egli afferma: «Dai primi giorni della nostra repubblica, la fede in Dio è sempre stata la sorgente ultima della forza e il cuore pulsante della nostra nazione. Dobbiamo resuscitare la religione, la dobbiamo resuscitare con molta più forza. L’assenza della religione è stato uno dei problemi maggiori degli ultimi tempi. L’America è stata e sarà una nazione sotto la guida di Dio».
Quest’affermazione richiede una seconda considerazione sull’eccezionalismo americano nel contesto del ritorno della religione nella sfera pubblica. Non sono mancati, infatti, nelle ultime settimane, riferimenti al mandato di Trump come una manifestazione della provvidenza divina per il destino degli Stati Uniti. Nello stesso discorso alla National Prayer Breakfast, il presidente Trump ha fatto menzione di Roger Williams, pastore presbiteriano che ha fondato lo Stato di Rhode Island nominando la sua capitale Providence, e di John Winthrop, puritano inglese che sarebbe diventato governatore del Massachusetts, il quale nel celebre sermone La città sulla collina si richiama alle parole di Gesù nel Discorso della montagna per descrivere l’America come terra scelta da Dio per risplendere da esempio per il mondo intero.
In linea con questo tradizionale sentimento con cui gli americani si vedono strumenti della provvidenza divina per il benessere del mondo, il presente mandato di Trump, sin dall’inaugurazione presidenziale del 20 gennaio, è stato presentato come dono della provvidenza per la rinascita culturale e politica degli Stati Uniti, per il benessere di tutti gli americani e dei loro alleati. All’inizio della cerimonia di inaugurazione, infatti, Franklin Graham ha condotto i presenti in una preghiera in cui ha ringraziato Dio «per aver innalzato con mano potente il presidente Donald Trump». In maniera simile, la preghiera di benedizione del pastore Lorenzo Sewell nella stessa cerimonia ha parlato di Trump nei termini di un miracolo della provvidenza che lo ha salvato dall’attentato dello scorso 16 luglio come segno d’approvazione divina del suo mandato.
Seguendo questa logica, però, la storia ha lasciato trascorrere i più grandi mali dittatoriali sotto la credenza di una provvidenza divina che giustificasse incondizionatamente le autorità in potere. Se da un lato il rientro della religione nella politica è una necessità effettiva e potenzialmente buona, dall’altro lato questo rientro va qualificato e ragionato teologicamente. La retorica della provvidenza e dell’eccezionalismo che incorniciano il presente mandato presidenziale ci pone davanti a una questione teologica da cui dipende il successo del ritorno della religione in politica. Occorre infatti un correttivo proprio della fede cattolica alla credenza unilaterale nella provvidenza che gli Stati Uniti hanno ricevuto dalla tradizione protestante dei loro padri fondatori. Il pensiero cattolico, infatti, è solito tenere insieme due estremi in tensione tra di loro. In questo caso, la provvidenza divina, sotto la cui guida non sfugge nessun governo politico, deve essere accompagnata dalla credenza nella libertà e responsabilità personale delle autorità politiche. Per questo, durante la cerimonia di inaugurazione solo le preghiere del cardinale Dolan e di un altro sacerdote cattolico hanno attenuato il clima trionfalistico e provvidenziale delle altre preghiere con una sobria richiesta a Dio di concedere al presidente Trump e al suo vice, J.D. Vance, il dono della sapienza. Questo significa che affinché il ritorno della religione della politica non sia solo strumento di legittimazione, la religione e la Chiesa devono mantenere una distanza dalle autorità politiche che permetta loro di esercitare un ruolo profetico capace di richiamare la politica all’ordine morale qualora fosse opportuno, non di diventare serve e mere leggittimatrici della politica. Nell’Antico Testamento, infatti, i profeti avevano un ministero divino istituito per mantenere un sistema di equilibrio nei confronti del potere regale e politico del re.
L’ultima considerazione, perciò, riguarda il modo in cui la Chiesa deve esercitare il proprio ruolo profetico nei confronti della politica. Molto controverso, infatti, è stato l’appello diretto a Trump della vescova anglicana di Washington nella funzione religiosa di preghiera per la nazione il giorno dopo l’inaugurazione presidenziale. La vescova ha lanciato un appello diretto al presidente chiedendo, nel nome di Dio, di avere pietà verso i migranti e i transgender che in questo momento hanno paura a causa delle sue politiche. A questo appello, Trump ha risposto su X dicendo che la vescova «ha portato la sua chiesa nel mondo della politica in un modo molto scortese. Era cattiva nei toni, non convincente o intelligente. Non ha menzionato il gran numero di migranti illegali che sono entrati nel nostro Paese e hanno ucciso persone». Qualsiasi siano le ragioni di entrambe le parti, riconoscendo sia la necessità profetica di richiamare il potere a unire giustizia e misericordia, sia la natura complessa della questione, ciò che è chiaro è che il ruolo profetico della religione verso la politica richiede un coinvolgimento più ragionato della religione nel processo deliberativo e decisionale di quello che un’omelia o un tweet possono fare. Una deliberazione politica più sostanziale infatti è alla base delle ordinanze presidenziali a sostegno della vita che Trump ha attuato nei primi giorni del nuovo mandato.
La difficoltà della religione nel relazionarsi alla politica in modo costruttivo si è vista anche con lo scontro tra la Conferenza episcopale statunitense e il vicepresidente, cattolico praticante, J.D. Vance. La Conferenza episcopale ha pubblicato una dichiarazione che condanna le politiche anti-migratorie della nuova amministrazione presidenziale. J.D. Vance ha prontamente risposto alla condanna in un’intervista insinuando che la Conferenza episcopale abbia mosso accusa perché le politiche della nuova amministrazione significherebbero una perdita di 100 milioni di dollari l’anno che la Conferenza ha finora ricevuto dal governo federale per aiutare a reinsediare gli immigrati clandestini. Un’indagine giornalistica, tuttavia, sembrerebbe provare che la Conferenza episcopale avrebbe dovuto aggiungere altri fondi a quelli federali per la realizzazione del progetto con i migranti, dimostrando perciò che le accuse del vicepresidente sono infondate.
Ancora una volta, la realtà dei fatti è più complessa di quello che può essere comunicato con dichiarazioni prive di un confronto e una vera deliberazione. Perciò, il grande ritorno della religione nella politica, seppure un’autentica necessità, dipenderà sia dalla capacità della religione di mantenere insieme la fiducia nella provvidenza divina e la chiamata alla responsabilità personale davanti a Dio, ma anche dalla capacità che la politica e la religione avranno di performare un vero dialogo culturale e filosofico non guidato da brevi e polarizzanti dichiarazioni incapaci di includere la complessità delle questioni discusse”.