Ma quante guerre ci sono?

Nell’ultimo post ho toccato il tema dell’Afghanistan. Sono abbonato da anni a Nigrizia, rivista che si occupa di Africa, e mi capita spesso di leggere notizie di conflitti. Sono abbonato anche a Lavialibera, mensile dell’associazione Libera, che ha anche un sito interessante da cui ho preso l’articolo che pubblico qui sotto e che risponde alla domanda del titolo: ma quante guerre ci sono nel mondo? A scriverlo è Alice Pistolesi, giornalista e redattrice del volume Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo (uscito nella sua X edizione proprio il 4 novembre) e del sito atlanteguerre.it, dove pubblica ogni settimana dossier tematici di approfondimento su temi globali, reportage e cronaca.

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“Trentaquattro guerre e quindici situazioni di crisi scuotono un pianeta senza pace. Oltre a quello in Afghanistan, che dopo quasi venti anni di intervento occidentale ha visto i talebani prendere il potere, il mondo continua a essere luogo di sanguinosi conflitti. L’Africa è il continente dove se ne contano di più, ma teatri di scontro sono presenti anche in Asia, Europa e America.
La quantità di guerre in corso nel mondo, per lo più ignorate dai media, resta negli anni stazionaria. Le guerre resistono e lasciano immutata nel tempo la situazione per i civili, che continuano a essere le vittime preferite dei conflitti moderni: circa il 90 per cento delle morti totali. Ci sono generazioni intere, come in Afghanistan, che non hanno mai conosciuto la pace e sono passate negli anni da una situazione di violenza all’altra. Ci sono conflitti, come quello tra Israele e Palestina o quello in Myanmar, che risalgono alla fine degli anni Quaranta, altri esplosi di recente, come quello in Mozambico, cominciato nel 2019.
Le motivazioni che portano alla guerra sono complesse ma si possono ricondurre ad alcuni macro fattori: ci sono quelle innescate dalla rivendicazione di diritti (che può essere allo stesso tempo causa e conseguenza del conflitto), o quelle provocate dal cambiamento climatico e dalle devastazioni ambientali, in qualche modo collegate a un’altra causa, cioè lo sfruttamento e l’accaparramento delle risorse (acqua, petrolio, minerali, terra, legname, ad esempio). Rientrano tra le motivazioni anche gli interessi economici in senso lato, che si legano spesso alla pessima o inesistente redistribuzione della ricchezza. Gli interessi sulle risorse e geostrategici muovono i giochi di molte potenze: Cina, Stati Uniti, India, Arabia Saudita, Iran, tanto per citarne alcune. Ci sono poi guerre che hanno come obiettivo principale la conquista di autonomia e indipendenza. Tutte ragioni che spesso si intersecano tra loro e insieme alle differenze culturali, religiose e di comunità, alimentano e prolungano la situazione di conflitto. Differenze che, da sole, raramente portano alla guerra nei contesti in cui i diritti sono rispettati e dove non influiscono altre motivazioni.
Di questi conflitti, i civili restano le vittime per eccellenza: nel 2021, il numero di persone bisognose di aiuti umanitari è il più alto mai registrato: 235 milioni, (secondo i dati dell’Agenzia delle Nazioni Unite per gli aiuti in emergenza).
A complicare i già fragili equilibri internazionali ha contribuito la pandemia da Covid-19, che nemmeno nel momento di maggior picco e nonostante gli appelli internazionali di Papa Francesco e del segretario Onu Antonio Guterres è riuscita nell’intento di placare le guerre. Anzi. Nel 2020 si sono riaccesi conflitti sopiti da anni e la spesa militare è aumentata. Lo Stockholm international peace research institute (Sipri) calcola che nel corso dell’anno l’investimento in armi sia cresciuto del 2,6 per cento, arrivando a 1.981 miliardi di dollari, il valore assoluto più alto registrato dall’ente di ricerca dal 1988.
Nonostante la pandemia, nel 2020 il numero di persone in fuga da guerre, violenze, persecuzioni e violazioni dei diritti umani è salito a quasi 82,4 milioni, in aumento del 4 per cento rispetto il 2019, si legge nell’ultimo rapporto annuale Global Trends dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) pubblicato a giugno. Tolti i 48 milioni di persone sfollate all’interno dei loro paesi, più di due terzi di tutte le persone che sono fuggite all’estero provengono da soli cinque paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar. Quasi nove rifugiati su dieci (86%) sono ospitati da paesi vicini alle aree di crisi e da paesi a basso e medio reddito. La Turchia ne ospita il maggior numero, seguita da Colombia, Pakistan e Uganda e Germania.
Alcune delle motivazioni che portano sempre più persone alla fuga sono il clima, il deteriorarsi del luogo in cui si abita, la sua desertificazione: secondo il rapporto Climate Change and Land pubblicato dall’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) a fine 2019, circa tre miliardi di persone vivono in zone aride, che sono arrivate a coprire il 46,2 per cento della superficie terrestre e le inondazioni e i disastri naturali si fanno sempre più frequenti”.

5. Non sprecare le risorse

  1. Rispetta la diversità degli altri
  2. Rispetta il Dio degli altri
  3. Tutela sempre la dignità di vita e di morte
  4. Proteggi i bambini e gli anziani
  5. Non sprecare le risorse
  6. Non maltrattare gli animali
  7. Non abusare del tuo corpo
  8. Non deturpare la bellezza
  9. Non tradire il patto fiscale
  10. Non perderti nel mondo virtuale
Immagine tratta dal Corriere

Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi.
Il quinto è esplicato da Antonio Massarutto, docente di Economia pubblica presso l’Università di Udine e direttore di ricerca presso lo Iefe – Istituto di economia e politica dell’energia e dell’ambiente dell’Università Bocconi di Milano. Lo si può trovare a questo link.

“Evitare gli sprechi, per le generazioni passate, non era un comandamento, ma una necessità. Non discendeva dall’etica, ma dalla penuria. Le cose erano scarse e andavano tenute da conto. Oggi ci siamo affrancati dalla penuria. Di cose, semmai, ne abbiamo troppe, tante da non sapere che farcene. Non per questo lo spreco è diventato virtù. Il problema, semmai, è capire che cosa significhi spreco. Spesso il senso comune ci svia, mettendo in cortocircuito i precetti dei nonni con le necessità di oggi.
«Non una goccia d’acqua scenda al mare senza aver fecondato la terra e mosso una turbina», si diceva un tempo. Sprecare voleva dire non valorizzare. Oggi il guaio è la dissipazione dei valori ecologici dei fiumi, causata dall’uso intensivo. Riciclare i rifiuti, recuperarli, produrne di meno sono gli imperativi dell’economia circolare: ma non per risparmiare materiali (che sovrabbondano). Non si riciclano carta e legno per salvare alberi, ma una foresta ben coltivata assorbe Co2 e mitiga il cambiamento climatico. Né si ricicla il vetro per risparmiare sabbia.
’A munnezza è oro, ma non perché contiene cose preziose, semmai perché gestirla correttamente costa sempre più, specie se teniamo conto delle «esternalità»: inquinamento, consumo di suolo. Riciclare costa, ma costa meno: quindi, non riciclare è uno spreco. Risparmiare energia non serve perché c’è poco petrolio, ma perché bruciare idrocarburi avvelena la Terra e la surriscalda. Chi segue una dieta non lo fa per risparmiare cibo, ma per risparmiarsi l’adipe in eccesso, per essere in forma, per la salute.
L’etica della parsimonia ci serve come una dieta: per non finire come gli ex-umani di Wall-E, obesi di consumi, drogati dalla comodità, fino a dover abbandonare la Terra, ridotta a una discarica. Guai anche a confondere lo spreco con l’ingiustizia distributiva. Il consumo non è un gioco a somma zero, chi spreca non sottrae nulla a chi non ha (semmai, dà opportunità di lavoro in più). Rinunciare a lavarsi non salva nessuno dalla sete.
Le «guerre per l’acqua» sono grandi tragedie della povertà. Sono i tubi, i depuratori, ad essere scarsi: non l’acqua. La gente non ha fame e sete perché mancano cibo e acqua, ma perché è troppo povera per sostenerne il costo. Vero è, tuttavia, che il nostro stile di vita non può essere esteso a 7 miliardi di persone, e non possiamo certo pretendere che siano i popoli recentemente affacciatisi al benessere a farsi da parte. Il pianeta è stretto, e per condividerlo dobbiamo usare le sue risorse in modo più efficiente. Imparando a fare di più con meno.”

I giovani in piazza per difendere l’ambiente

Foto tratta da https://www.mapsimages.com/works/belgium-youth-for-climate/

Nelle classi quinte stiamo parlando di ecologia e di ambiente, di impronta ecologia e di consumi sostenibili. Pubblico un articolo su quanto sta succedendo, soprattutto tra i giovani, in diversi paesi del mondo. La fonte è l’attento collettivo di Valigia Blu.

Ieri (27 gennaio, ndr) a Bruxelles si è svolta un’altra manifestazione di protesta “Rise for Climate” a cui hanno partecipato almeno 70.000 persone che, sfidando freddo e pioggia, hanno chiesto al governo di aumentare gli sforzi per combattere il cambiamento climatico, con un uso maggiore delle energie rinnovabili e intraprendendo più azioni per migliorare la qualità dell’aria.

È la quinta volta in due mesi che, nella capitale belga, viene organizzata un’iniziativa contro il cambiamento climatico. Il mese scorso una marcia analoga aveva visto la partecipazione di più di 65.000 persone, mentre giovedì scorso circa 35.000 studenti hanno saltato le lezioni per protestare per l’ambiente. Nonostante l’impatto sulla politica belga sia limitato, perché il paese è attualmente guidato da un governo di transizione, le manifestazioni mantengono alta l’attenzione sulla questione che sta particolarmente a cuore ai più giovani e non soltanto in Belgio.

La generazione che scende in piazza per difendere l’ambiente

Sono giovani, giovanissimi, sempre più numerosi e determinati. Sono i ragazzi che scendono in piazza per manifestare contro le conseguenze del cambiamento climatico e l’assenza di politiche ambientali adeguate. Per molti di loro la protesta è diventata un appuntamento settimanale fisso. Ogni giovedì o venerdì studenti di vari paesi saltano la scuola per protestare a difesa del clima. Il messaggio che questa generazione di adolescenti vuole mandare agli adulti è sempre più chiaro: non state facendo abbastanza per salvare l’ambiente, state giocando con il nostro futuro.
Col passare delle settimane aumentano cortei, raduni, sit-in organizzati in un numero di città sempre maggiore e che vedono un incremento costante nella partecipazione. Belgio, Germania e Svizzera sono i paesi in cui l’adesione è più alta ma piccole o grandi mobilitazioni si sono tenute e ancora si tengono in Austria, Australia, Canada, Finlandia, Irlanda, Nuova Zelanda, Scozia, Svezia e anche in Italia con piccoli gruppi di manifestanti. Immagini e video degli eventi sono condivisi sui profili Twitter e Instagram di Greta Thunberg, la studentessa sedicenne svedese che ha ispirato il movimento internazionale dando vita per prima alla protesta settimanale per l’ambiente, tutti i venerdì, all’esterno del parlamento a Stoccolma e che lo scorso venerdì ha protestato a Davos dove ha partecipato al World Economic Forum.

I 35.000 in marcia a Bruxelles

Giovedì scorso 24 gennaio, per la terza settimana consecutiva, migliaia di studenti belgi hanno scioperato saltando le lezioni per manifestare a Bruxelles in quella che si è rivelata – per partecipazione di giovani – una protesta senza precedenti contro il riscaldamento globale e l’inquinamento.
La promessa che hanno fatto i ragazzi è proseguire l’iniziativa ogni settimana fino a quando il governo non metterà in campo azioni concrete. Come le precedenti manifestazioni anche questa è stata organizzata dal gruppo “Youth for Climate” fondato da due studenti della scuola secondaria di Anversa. «Per noi non esiste niente di più importante», ha detto uno dei manifestanti all’emittente radiofonica Bruzz. «È l’unico argomento di cui parliamo».

A suon di tamburi e agitando cartelli che recitavano “Stai dalla parte della soluzione, non dell’inquinamento” e “Anche i dinosauri credevano di avere più tempo a disposizione” i ragazzi si sono infine radunati all’esterno della sede del Parlamento europeo. «Se saltiamo la scuola ogni giovedì gli adulti, nel nostro paese e in tutto il mondo, capiranno che siamo di fronte a un problema», ha dichiarato a RTÉ Joppe Mathys, studente delle scuole superiori. Mentre alcuni alunni hanno il permesso dei rispettivi istituti di partecipare alle marce, altri rischiano di subire provvedimenti qualora continuino ad assentarsi in maniera fissa. Alcune scuole, sebbene consentano l’assenza qualche giovedì, non sono d’accordo con la proposta di saltare le lezioni tutti i giovedì fino alle elezioni parlamentari di maggio. La prima marcia “Youth for Climate”, organizzata il 10 gennaio scorso, aveva visto la partecipazione di 3.000 studenti. La seconda, il 17 gennaio, aveva riunito 12.000 persone. Secondo i dati forniti dalla polizia le persone che hanno partecipato a quest’ultima manifestazione erano circa 35.000. Una marcia organizzata dagli studenti degli istituti superiori aderenti al gruppo Students for Climate è prevista il 14 febbraio.

Il movimento verde dei giovani in Germania

Secondo il ricercatore Klaus Hurrelmann della Hertie School of Governance di Berlino attualmente gli adolescenti tedeschi sono interessati alla politica più di quanto non lo siano mai stati. Il tema della protezione dell’ambiente li coinvolge particolarmente. Gli interessi delle nuove generazioni si estendono a tutte le aree che riguardano l’ambiente, spiega Hurrelmann a Deutsche Welle. Sia che si tratti di inquinamento negli oceani a causa della plastica o della morte degli insetti per l’aumento dell’agricoltura industriale o del riscaldamento globale, “queste persone percepiscono intuitivamente che si tratta di elementi fondamentali che non vogliono vedere in pericolo”. Per Hurrelmann è in atto un cambiamento di atteggiamento per cui i minori di 20 anni sono più interessati alla politica di quelli che ne hanno più di 20. La ONG Friends of the Earth Germany (BUND) ha registrato ultimamente la più alta crescita associativa tra le persone di età inferiore a 27 anni. Circa 12.000 giovani sono membri attivi del World Wildlife Fund (WWF) a livello nazionale e molti altri sono attivi in rete. Per questo motivo ogni venerdì gli studenti tedeschi saltano le lezioni scolastiche e aderiscono alle manifestazioni per l’ambiente di “Fridays For Future”, il movimento di Greta Thunberg.
Venerdì scorso ci sono state marce e sit-in a Berlino, Biberach an der Riß, Brema, Colonia, Dortmund, Erlangen, Gießen, Halle, Husum, Karlsruhe, Kassel, Kiel, Lipsia, Luneburgo, Monaco, Munster, Osnabrück, Schwäbisch Hall, Sindelfingen, Stoccarda, Tubinga, Wesel, Wuppertal, Würzburg. La maggior parte dei giovani che partecipano a queste proteste cerca quotidianamente di migliorare l’ambiente trovando il sostegno delle loro famiglie. Alcuni genitori provano a consumare meno carne o lasciano l’auto a casa quando possono andare in bicicletta o utilizzare il trasporto pubblico. «La nostra generazione ha fallito e ora i nostri figli devono pagare il prezzo», ha detto a Deutsche Welle Andrew Murphy che ha recentemente partecipato a una manifestazione sul clima a Bonn con tre dei suoi quattro figli.

Da quando è diventata socia del WWF a 12 anni Jana, che oggi ne ha 16, si è interessata ai problemi ambientali. «Se penso al futuro non posso dire di essere spensierata», ha raccontato a Deutsche Welle. «La siccità estrema, le ondate di caldo in tutto il mondo, sono soltanto il preludio di ciò che sta per accadere e che mi spaventa». Ragazzi come Jana sono determinati a esercitare pressione sul governo affinché si metta fine in maniera definitiva all’uso del carbone. «Avremmo dovuto agire molto prima. Con il passare del tempo diventa molto più difficile, non ne rimane molto».
Intanto sabato scorso la Commissione tedesca per il carbone ha finalmente reso noto un rapporto di 336 pagine che raccomanda al paese di cessare la dipendenza da carbone e lignite entro il 2038. La Germania, infatti, è l’unico paese dell’Europa nord-occidentale a utilizzare ancora il più inquinante tra i combustibili fossili che fornisce quasi il 40% dell’energia, contro il 5% del Regno Unito che prevede di eliminarlo completamente entro il 2025. Per diventare effettiva la proposta dovrà essere approvata dal governo. Dopo lunghi colloqui e confronti la Commissione tedesca composta da 28 membri del mondo dell’industria, della politica e delle ONG – che ha lavorato dalla scorsa estate per elaborare un calendario per il progressivo abbandono del carbone – ha fissato come scadenza il 2038. Il termine potrà essere eventualmente anticipato al 2035 a seguito di una revisione che si terrà nel 2032.
“La Germania ha finalmente deciso di accelerare e di unirsi alla maggior parte degli Stati europei, stabilendo una data di uscita dal carbone, assicurando supporto ai lavoratori, e merita un plauso per questo. Ma aver previsto di raggiungere questo obiettivo nel 2038 non è sufficiente per consentire alla stessa Germania o ad altri Stati di mettersi al riparo dai pericolosi impatti del cambiamento climatico, né di rispettare gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Ogni settimana aumentano le prove del fatto che il cambiamento climatico sta accelerando, portando con sé incendi boschivi, tempeste violente e altri fenomeni meteorologici estremi. Questo dovrebbe spingere i paesi – e la Germania dovrebbe essere da esempio aumentando le loro ambizioni – a fare di più e a farlo in fretta” è stato il commento di Jennifer Morgan, direttrice esecutiva di Greenpeace International che vorrebbe che l’uscita dal carbone avvenisse entro il 2030.

La buona notizia, secondo gli ambientalisti tedeschi, è che il rapporto della Commissione sancirebbe la salvaguardia definitiva di ciò che resta della secolare foresta di Hambach che rischiava di essere distrutta dal colosso tedesco dell’energia RWE per l’ampliamento di una miniera di carbone e per la quale, lo scorso settembre, ci sono stati scontri tra manifestanti e la polizia nel tentativo di tutelarla.

Gli studenti di 15 città svizzere dicono no al cambiamento climatico

Lo scorso 18 gennaio è stata l’ultima volta che i giovani svizzeri hanno manifestato contro il cambiamento climatico. Più di 10.000 studenti hanno organizzato marce e sit-in in almeno 15 città tra cui Aarau, Baden, Basilea, Losanna, Lucerna, Soletta, Zugo e Zurigo. Solo a Losanna sono scesi in piazza oltre 8.000 studenti.
Il prossimo appuntamento per marciare tutti insieme nelle rispettive città è previsto il 2 febbraio.

Il Regno Unito si prepara per il primo sciopero degli studenti del 15 febbraio

Gli studenti del Regno Unito si stanno preparando per lo sciopero di venerdì 15 febbraio. Ad oggi sono previsti eventi a Brighton, Bristol, Cambridge, Cardiff, Exeter, Fort William, Glasgow, Leeds, Londra, Manchester, Oxford, Preston, Southampton ma l’elenco delle città dove si terranno iniziative è in costante aggiornamento.
Sulla pagina Facebook di Youth Strike 4 Climate, il movimento che sta organizzando la manifestazione, si legge: “Stanno accadendo cose incredibili! Continuiamo il 2019 così come lo abbiamo iniziato: pieno di determinazione nel fare tutto il possibile per far sentire le nostre voci e salvare il pianeta dall’estinzione di massa prima che sia troppo tardi”.

E se Al Gore…

Su Sette del Corriere della Sera uscito l’11 ottobre Danilo Taino fa un’interessante osservazione che richiama anche quella previsione del 2003 sul clima che abbiamo visto in classe: Dal 1998 la temperatura media della Terra non aumenta. Ma perché gli organismi preposti a tenerla sotto controllo mantengono toni allarmistici?

Ecco l’articolo pepato.

“C’era una domanda alla quale il rapporto degli esperti delle Nazioni Unite sul clima, Serra.jpgpubblicato a fine settembre, avrebbero dovuto rispondere. Era la più interessante. Perché dal 1998 la temperatura media sulla faccia della terra non aumenta? Gli scienziati dell’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, avevano pubblicato il loro ultimo report nel 2007: catastrofico, in linea con le previsioni di disastri globali avanzate in conferenze e al cinema da Al Gore. D’altra parte, sempre nel 2007, l’ex vicepresidente degli Stati Uniti e l’Ipcc stesso furono insigniti del Premio Nobel per la Pace, grazie agli allarmi che lanciavano. Da allora, i risultati scientifici del rapporto 2007 si sono rivelati in alcuni punti sbagliati: ad esempio nell’esagerazione della velocità con la quale i ghiacciai dell’Himalaya si stanno sciogliendo. Ora, nell’attesissimo report di quest’anno, però, l’Ipcc dedica ai 17 anni di temperatura piatta una semplice nota. A loro non sembra interessare: potrebbe mettere in discussione le teorie che hanno sostenuto per anni. Preferiscono tenere i toni dell’allarmismo elevati, presentare come una grande novità il fatto che la probabilità che i cambiamenti climatici siano prodotti dall’attività umana sia passata dal 90 al 95%. Diamine. E preferiscono fare dichiarazioni roboanti sulle catastrofi possibili mentre essi stessi ridimensionano le previsioni allarmistiche che avevano fatto. Ora, l’Ipcc prevede che la temperatura della Terra aumenterà “probabilmente” più di 1,5 gradi centigradi entro il secolo. Nel 2007 sosteneva che sarebbe cresciuta “probabilmente” più di due gradi: e due gradi è il limite sopra il quale potrebbero esserci catastrofi. Su questa, che è la novità del rapporto, buona parte del pigro sistema dei media globali ha sorvolato. L’Ipcc inoltre ammette che è difficile legare l’attività dell’uomo alle maggiori siccità e al numero più elevato di uragani. La questione non è irrilevante. Nessuno nega che un problema di effetto serra esista. È che se lo si esagera e si prevedono catastrofi si finisce con il mettere in campo politiche di altissimo costo e inutili: ad esempio i sussidi a pioggia a fonti di energia pulita inefficienti, sussidi spesso accaparrati dalle mafie. E si continua a sollevare il mostro, a dire che esiste una lobby del petrolio che vuole negare il climate change: quando in realtà la lobby vincente è quella e si nutre – denaro, carriere e Nobel – dell’allarmismo di Al Gore.”

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