5. Non sprecare le risorse

  1. Rispetta la diversità degli altri
  2. Rispetta il Dio degli altri
  3. Tutela sempre la dignità di vita e di morte
  4. Proteggi i bambini e gli anziani
  5. Non sprecare le risorse
  6. Non maltrattare gli animali
  7. Non abusare del tuo corpo
  8. Non deturpare la bellezza
  9. Non tradire il patto fiscale
  10. Non perderti nel mondo virtuale
Immagine tratta dal Corriere

Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi.
Il quinto è esplicato da Antonio Massarutto, docente di Economia pubblica presso l’Università di Udine e direttore di ricerca presso lo Iefe – Istituto di economia e politica dell’energia e dell’ambiente dell’Università Bocconi di Milano. Lo si può trovare a questo link.

“Evitare gli sprechi, per le generazioni passate, non era un comandamento, ma una necessità. Non discendeva dall’etica, ma dalla penuria. Le cose erano scarse e andavano tenute da conto. Oggi ci siamo affrancati dalla penuria. Di cose, semmai, ne abbiamo troppe, tante da non sapere che farcene. Non per questo lo spreco è diventato virtù. Il problema, semmai, è capire che cosa significhi spreco. Spesso il senso comune ci svia, mettendo in cortocircuito i precetti dei nonni con le necessità di oggi.
«Non una goccia d’acqua scenda al mare senza aver fecondato la terra e mosso una turbina», si diceva un tempo. Sprecare voleva dire non valorizzare. Oggi il guaio è la dissipazione dei valori ecologici dei fiumi, causata dall’uso intensivo. Riciclare i rifiuti, recuperarli, produrne di meno sono gli imperativi dell’economia circolare: ma non per risparmiare materiali (che sovrabbondano). Non si riciclano carta e legno per salvare alberi, ma una foresta ben coltivata assorbe Co2 e mitiga il cambiamento climatico. Né si ricicla il vetro per risparmiare sabbia.
’A munnezza è oro, ma non perché contiene cose preziose, semmai perché gestirla correttamente costa sempre più, specie se teniamo conto delle «esternalità»: inquinamento, consumo di suolo. Riciclare costa, ma costa meno: quindi, non riciclare è uno spreco. Risparmiare energia non serve perché c’è poco petrolio, ma perché bruciare idrocarburi avvelena la Terra e la surriscalda. Chi segue una dieta non lo fa per risparmiare cibo, ma per risparmiarsi l’adipe in eccesso, per essere in forma, per la salute.
L’etica della parsimonia ci serve come una dieta: per non finire come gli ex-umani di Wall-E, obesi di consumi, drogati dalla comodità, fino a dover abbandonare la Terra, ridotta a una discarica. Guai anche a confondere lo spreco con l’ingiustizia distributiva. Il consumo non è un gioco a somma zero, chi spreca non sottrae nulla a chi non ha (semmai, dà opportunità di lavoro in più). Rinunciare a lavarsi non salva nessuno dalla sete.
Le «guerre per l’acqua» sono grandi tragedie della povertà. Sono i tubi, i depuratori, ad essere scarsi: non l’acqua. La gente non ha fame e sete perché mancano cibo e acqua, ma perché è troppo povera per sostenerne il costo. Vero è, tuttavia, che il nostro stile di vita non può essere esteso a 7 miliardi di persone, e non possiamo certo pretendere che siano i popoli recentemente affacciatisi al benessere a farsi da parte. Il pianeta è stretto, e per condividerlo dobbiamo usare le sue risorse in modo più efficiente. Imparando a fare di più con meno.”

Gemme n° 202

Amo i Queen, non potevo non portarli come gemma. “Under pressure” l’ho ascoltata tanti anni fa, la conosco da tempo. Si parla della società sotto pressione, dei consumi, della frenesia, in contrapposizione alla voglia di divertirsi, andare ai concerti, rompere la monotonia”. Questa la gemma di G. (classe quinta).
Mi piace riportare la conclusione piena di speranza del brano: “Perché l’amore è una parola antiquata e l’amore ti fa prender cura delle persone che vivono ai margini della notte. E l’amore ci fa cambiare il modo di prenderci cura di noi stessi. Questa è la nostra ultima danza”. Prendersi cura degli altri e prendersi cura di se stessi come due aspetti del medesimo amore.

Facebook e consumi

Per curiosi della rete, per chi usa fb e si chiede come mai stiano crescendo sempre più gli spot pubblicitari… Preso da Wired

facebook, pubblicià, consumi, privacyFacebook ci osserva quando facciamo acquisti. Perché? Semplicemente per sapere se le pubblicità che abbiamo visto hanno avuto effetto anche se non abbiamo cliccato sui banner. Lo ha rivelato proprio una nota del social network di Mark Zuckerberg. Per questo abbiamo raggiunto Datalogix, partner di Facebook in questa operazione, per capire come facciano ad associare i nostri acquisti al nostro profilo. Non è stato possibile intervistare un dirigente dell’azienda, ma l’ufficio stampa ci ha spiegato nei dettagli il funzionamento. Una volta tanto, dal punto di vista della privacy non c’è molto da protestare.

Datalogix è un’azienda che traccia il comportamento degli utenti analizzando i dati raccolti dalle carte fedeltà e vanta di possedere già le schede di oltre 70 milioni di famiglie americane, acquisite tramite un migliaio di rivenditori. Oltre a nome, numero di telefono e dati personali infatti buona parte di queste sono in grado di registrare quello che compriamo. Datalogix e Facebook utilizzano entrambe un metodo di hashing che codifica i dati degli utenti senza utilizzare una chiave di cifratura. Praticamente un possibile “silvio@yahoo.com” diventa ” 123456789″ per entrambi, ma non c’è modo di decodificare i dati. A quel punto Facebook prende uno alla volta i propri 123456789 e verifica se sono presenti nel campione di utenti, fornito da Datalogix, che hanno acquistato il prodotto X. Se c’è, l’utente è statisticamente buono e viene selezionato, viceversa scartato. Poi Facebook divide gli utenti selezionati in due gruppi, a seconda che questi siano stati o meno esposti alla pubblicità di X. E può quindi verificare le percentuali di quelli che poi quel prodotto l’hanno realmente acquistato, così da misurare il return on investment (Roi) per l’inserzionista. Al contempo Facebook determina il profilo delle persone che hanno acquistato X dopo essere state esposte alla sua pubblicità per n volte. L’utente ha sempre e comunque la possibilità di rifiutarsi di essere sottoposto a questo trattamento, ma per farlo deve passare dalla pagina della privacy di Datalogix e non può farlo su Facebook.

L’obiettivo del social network è affermare il principio secondo cui non contano tanto i click che gli utenti fanno sulle inserzioni pubblicitarie quanto se davvero comprano o meno i prodotti reclamizzati quando entrano in un negozio. È da qualche settimana che se ne parla, ma solo l’altro giorno nel corso di un evento durante l’ Advertising Week di New York Facebook ne ha discusso pubblicamente. Durante l’appuntamento newyorkese è stato inoltre presentato uno studio compiuto su cinquanta campagne pubblicitarie: il risultato a cui si è giunti è che il 99 per cento degli acquisti riconducibili a campagne su Facebook sono stati effettuati da persone esposte alla pubblicità, ma che non avevano cliccato sugli ad. Il privacy engineer di Facebook Joey Tyson ha spiegato in un post che grazie al sistema messo a punto l’azienda non è in grado di sapere quale utente ha realmente acquistato un prodotto perché quello che Facebook riceve da Datalogix sono solo informazioni aggregate relative a grossi gruppi di persone. E la Electronic Frontier Foundation, al solito attenta ai temi legati all’uso dei dati e alla privacy, per una volta è parsa pacatamente soddisfatta dell’approccio scelto. Ovviamente un sistema in grado di offrire all’inserzionista metriche per valutare su che tipo di target il proprio messaggio ha un miglior risultato, su quale occorre insistere e su quale basta un semplice passaggio rende Facebook una piattaforma ancora più interessante per veicolare la propria pubblicità. Secondo Brad Smallwood, responsabile misurazioni di Facebook, l’ottimizzazione delle frequenze di esposizione del messaggio pubblicitario potrebbe incrementare il Roi del 40%.

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