Il prezzo

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«Il dolore […] mi ha anche insegnato che si deve poter condividere il proprio amore con tutta la creazione, con il cosmo intero. Ma in quel modo si ha anche accesso al cosmo. Però il prezzo di quel biglietto di ingresso è alto e pesante, e lo si guadagna risparmiando a lungo, con sangue e lacrime. Ma nessun dolore e lacrime sono troppo cari per questo. E tu dovrai passare attraverso le stesse cose, cominciando dal principio» 
Etty Hillesum, giugno 1942

Il senso

dominustecum

Un articolo di Gian Mario Ricciardi pubblicato su Avvenire: un monastero, il silenzio, la pace, la semplicità per ritrovare l’essenziale e il senso del tempo fuori e dentro.
Li ho visti arrivare, nel ’95, a piedi scalzi come i profughi d’oggi, tra gli arbusti della valle dell’Infernotto a Bagnolo Piemonte, vicino Saluzzo. Due monaci, padre Cesare Falletti e fratel Paolo. Soli, sorridenti, con nella bisaccia la tradizione millenaria dei Cistercensi che tornavano sotto il Monviso. Ora sono sedici e, tra i dirupi di questa strana montagna, in un monastero di pietra e legno, cercano la voce di Dio, ma, contemporaneamente, raccolgono quelle delle vittime della interminabile crisi. Ascoltano e aprono la porta a chi bussa. Tutt’intorno c’è una pace che ti entra dentro. Sveglia alle 3,55. Già nella notte da ogni cella filtra tra gli alberi il canto delle Vigilie e delle lodi. Poi il lavoro. C’è chi s’incammina lungo i sentieri per curare le more che serviranno per le marmellate. Chi costruisce icone, chi studia, chi prepara il pranzo, chi taglia la legna o l’erba.
Nelle stanze degli ospiti, famiglie salite dalla Francia, uomini e donne venuti a cercare uno spazio senza parole. E ognuno vive il proprio con discrezione, in solitudine, passeggiando, fermandosi ad osservare gli alberi, le foglie, le nuvole. Il monastero Dominus Tecum sembra una grande tenda in mezzo alle auto che, poco sotto, sfrecciano con i troppi telefonini incollati all’orecchio, le mail da leggere, le connessioni sempre accese. Eppure la crisi è passata anche di qui. Non ha portato il deserto, anzi. Sono sempre di più quelli che salgono a Pra ’d Mill. Vengono in tanti a bussare perché si sentono soli, abbandonati, traditi dalla vita e dalle persone: vittime del deserto provocato dalla recessione. «C’è un gran numero di persone che vengono qui perché hanno bisogno». Padre Cesare, ora priore emerito perché ha passato la mano a padre Emanuele, ha visto camminare tra queste pietre migliaia di persone. A loro, lui e i monaci non hanno altro da dare che saggezza e preghiera. Hanno abbracciato manager che dovevano fare scelte difficili, persone messe fuori dai cancelli delle fabbriche a cinquant’anni, giovani senza speranza.
La crisi li ha fatti aumentare? «Ha fatto certamente crescere il nostro dover portare il peso della gente, perché la gente soffre in questo momento, e noi la ascoltiamo». E perché vengono a cercarvi? «Credo cerchino Dio, non tanto noi. Questo è un luogo che almeno nella nostra idea c’è sempre stato, in cui tutto è organizzato per stare davanti a Dio, non potevamo tenercelo tutto per noi, solo per noi, ecco… lo offriamo anche ad altri». Ma in questo grande silenzio, soprattutto nelle giornate d’inverno, che cosa c’è? «C’è Dio, ci sono i fratelli». Insomma un pezzo di cielo strappato ai compromessi, agli insulti, alla fretta. Il terreno l’aveva regalato la famiglia dei baroni d’Isola all’abbazia di Lerins, casa madre dalla quale è nato questo incredibile esempio di monastero nato e cresciuto ai tempi del disagio dilagante. Una donazione voluta da Leletta d’Isola. A suggerire l’avventura l’allora cardinale di Torino, Anastasio Ballestrero. A mettere insieme il complesso puzzle, la mano della Provvidenza, l’entusiasmo di un piccolo drappello di uomini di preghiera che alle 10, chiamati dalla campana, raggiungono la chiesa per poi riprendere il lavoro fino alla Messa di mezzogiorno. E la cappella si riempie. Rituale antico, gioie e sofferenze moderne che vengono posate sull’altare, proprio sotto la croce e il campanile, come da tradizione monastica.
Filtrano fasci di luce intensi e calmi allo stesso tempo. La semplicità, la sobrietà: «Non portate vino a tavola – c’è scritto – per rispetto al nostro stile di vita e di accoglienza». Ci sono due suore, ma passano in molti con la disperazione dentro: industriali in grosse difficoltà, giovani in cerca di lavoro e di valori, disoccupati, preti in sofferenza, famiglie raggelate dalla vita. La sfida è un presente che guarda lontano. Saper mettere insieme la fame di soprannaturale e il disagio, spesso molto forte, di chi bussa alla porta. «…se volete lasciare un’offerta… usate la busta che trovate nella mensola». Se volete. Ci sono i libri, insieme ai poveri prodotti della valle – miele, marmellate, estratti di erbe – come in tutti i monasteri. C’è e si sente una grande ricchezza che viene dalla serenità e dalla pace. «Lasciate quello che potete e volete, l’importante è che la mancanza di soldi non vi impedisca di venire a pregare. In caso pensate a chi non può lasciare nulla. Grazie». È vero, come diceva Alfonse de Lamartine, che un grazie non è nulla nel mare dei ricordi ma se resta a galla è qualcosa per sempre. Un uomo, le scarpe consumate, la camicia lisa, posa la sua offerta e poi fissa quel grazie che suggella un patto.
Scende lentamente la sera. Si parla con i monaci. «Inutili in un mondo che vive di corsa? Forse, ma noi cerchiamo di dire altro e di guidare il mondo attraverso la preghiera e la carità fraterna ad avere un altro volto, non violento, non arrogante, non prepotente, non asservito al denaro, un volto umano». Una scritta sul muro: «Tutti gli ospiti che giungono qui siano accolti come Cristo poiché un giorno Nostro Signore ci dirà: Ero forestiero e mi avete ospitato». Gli smarriti della modernità e della crisi, quella che ha distrutto famiglie, svuotato anime, sconvolto vite hanno trovato rifugio qui tra un cantico e una preghiera. ‘I poveri di spirito’, come nel docufilm che Fredo Valla ha girato a Pra ’d Mill possono vedere un uomo che cammina in un immenso campo di neve in montagna, seguire il lavoro quotidiano dei monaci, respirare il ‘Laudato si’’ di papa Francesco nel quieto scorrere sotto la pioggia, i monaci che lavorano nei boschi, in cucina, nelle celle o curano le api e pregano in una chiesa scarna ed essenziale.
Come nel ‘Grande silenzio’ di Phillip Groening, o in ‘Uomini di Dio’ di Xavier Beauvois, il tempo è senza tempo. Eppure, mentre il sole tramonta, ogni cosa qui sembra tutt’altro che slegata dal mondo. Quei ragazzi appena partiti con il pulmino avevano gli occhi raggianti. Ed erano venuti con tutti i loro dubbi sul futuro, il lavoro, l’amore, la famiglia. Forse anche con il rumore del silenzio si possono curare le macerie della crisi. I monaci come fratel Abramo sorridono con gli occhi. Hanno l’espressione di chi ha il cuore dolce e sente di essere tornato alla sorgente della vita. Vita dura, silenzio, tanto silenzio per ritrovare i gesti dell’anima e poi la vita. Le ore per pregare, le ore per coltivare i frutti per le marmellate, tagliare l’erba, mettere a posto la legna. Terra e cielo, anzi tra terra e cielo per ritrovare il sorriso, quello che viene da dentro, per sempre”.

Gemme n° 273

Ho scelto questa canzone perché mi fa riflettere sulla figura di Dio. Io sono agnostica; c’è stato un periodo della mia vita in cui ho cercato di avvicinarmi a Dio ma non ci sono riuscita. Non concordo con tutto quello che dice il testo, ad esempio penso sia troppo facile cercare Dio solo quando si è nei guai. Non penso sia una bestemmia questa canzone, come è stato scritto in rete; penso esprima il dolore dell’autore e la sua speranza di trovare Dio”. “Lettera dall’inferno” di Emis Killa è stata la gemma di J. (classe terza).
Riporto il grido rabbioso di Giobbe, ancora più forte di quello di Emis Killa, dal libro omonimo della Bibbia, capitolo 3: “Dopo, Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno; prese a dire: Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: «È stato concepito un uomo!». Quel giorno sia tenebra, non lo ricerchi Dio dall’alto, né brilli mai su di esso la luce. Lo rivendichi tenebra e morte, gli si stenda sopra una nube e lo facciano spaventoso gli uragani del giorno! Quel giorno lo possieda il buio non si aggiunga ai giorni dell’anno, non entri nel conto dei mesi. Ecco, quella notte sia lugubre e non entri giubilo in essa. La maledicano quelli che imprecano al giorno, che sono pronti a evocare Leviatan. Si oscurino le stelle del suo crepuscolo, speri la luce e non venga; non veda schiudersi le palpebre dell’aurora, poiché non mi ha chiuso il varco del grembo materno, e non ha nascosto l’affanno agli occhi miei! E perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? Perché due ginocchia mi hanno accolto, e perché due mammelle, per allattarmi? Sì, ora giacerei tranquillo, dormirei e avrei pace con i re e i governanti della terra, che si sono costruiti mausolei, o con i principi, che hanno oro e riempiono le case d’argento. Oppure, come aborto nascosto, più non sarei, o come i bimbi che non hanno visto la luce. Laggiù i malvagi cessano d’agitarsi, laggiù riposano gli sfiniti di forze. I prigionieri hanno pace insieme, non sentono più la voce dell’aguzzino. Laggiù è il piccolo e il grande, e lo schiavo è libero dal suo padrone. Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro, che godono alla vista di un tumulo, gioiscono se possono trovare una tomba… a un uomo, la cui via è nascosta e che Dio da ogni parte ha sbarrato? Così, al posto del cibo entra il mio gemito, e i miei ruggiti sgorgano come acqua, perché ciò che temo mi accade e quel che mi spaventa mi raggiunge. Non ho tranquillità, non ho requie, non ho riposo e viene il tormento!”.

Gemme n° 120

La gemma proposta da G. è stata particolare. Ha raccontato sulle note di “Wish you were here” due fatti della propria vita che l’hanno fatta molto riflettere. “Tante volte capita di chiedersi come mai ci capitano molte cose nella vita e perché noi non possiamo fare qualcosa per cambiare la situazione. Posso fare un primo esempio: come la maggior parte delle persone che lavorano in proprio, sia mia madre che mio padre, purtroppo hanno dei debiti da saldare. Questo però ha portato ad un altro problema, il pagamento degli alimenti che mio padre dovrebbe dare a mia madre per me. Ormai erano tantissimi mesi che lui non ci dava nulla e così mia mamma ha deciso di mandargli una lettera… ciò vuol dire che se nemmeno ora mio padre sarà in grado di darci qualcosa potrebbe persino finire in prigione. La sera che gli è arrivata la lettera lui è venuto a casa mia per parlare con mia mamma. Vedere il proprio padre che piange non è la cosa più rassicurante del mondo… lui che è sempre stato forte era lì in lacrime a dire che non era colpa sua se il lavoro va male. Questo mia mamma lo sapeva ma come possiamo vivere senza nulla? Sono arrivata alla conclusione che forse quando Oscar Wilde diceva “Dove la vita ti conduce devi andare” non aveva tutti i torti. La vita mi ha portata a questa situazione e io più che stare vicina ad entrambi non è che posso fare molto. Nonostante ciò la forza per andare avanti dobbiamo trovarla e credo che le piccole cose possano fare tanto. Un secondo esempio potrebbe essere ciò che è accaduto a mia nonna due venerdì fa…faccio una premessa: lei è stata sposata per molti anni con mio nonno che l’ha tradita due volte ed ha avuto anche il coraggio di dichiarare che la casa dove vive mia nonna resterà di sua proprietà. Mia nonna non possiede nulla e non ha la pensione…mi stupisco del fatto che una persona possa essere così insensibile e lasciar vivere una signora in una casa che è sempre più logora. Tutto ciò perché lui non la vuole aiutare nemmeno economicamente… ma lei è innamorata di lui come il primo giorno che si sono visti e perciò non ha nemmeno chiesto il divorzio. Questa ragione l’ha portata a fare un uso sproporzionato di alcol e giorno dopo giorno la situazione peggiora. Tutta la famiglia ce la mette tutta per aiutarla per farle capire che così starà solo più male. Ma torniamo a quel bruttissimo giorno… verso le 18/18:30 ha chiuso la porta a chiave, gli scuretti delle finestre ed ha messo sul fuoco l’acqua con la pasta. Anche quel venerdì aveva bevuto…in salotto, è caduta ed è rimasta lì per più di quattro ore. La casa si è riempita di gas, la pentola era tutta bruciata, la pasta cenere e il canarino era morto per asfissia. Per fortuna ha raggiunto il telefono ed ha chiamato mio padre… se non ce l’avesse fatta ora non sarebbe ancora qui. Parlare della propria nonna in questo modo non è di certo positivo ma la realtà è questa e io ho sempre più paura di perderla per questo suo vizio maledetto. Anche in questa situazione più di parlarle e farle capire che potrebbe passare l’ultimo periodo della sua vita molto meglio di come lo sta vivendo. Eppure non bastano queste piccole cose…dove ti conduce la vita devi andare. In fondo se una persona è convinta di ciò che fa e non vuole cambiare si può dire tutto ciò che si vuole senza che questa cambi idea. Io le voglio bene lo stesso anche se non ci ascolta e le starò vicina in ogni situazione, come cerco di fare con tutti.”

Commento questa gemma con un brano di Diego Cugia sul dolore. Solitamente lo leggo in quarta, ma ora, nonostante la sua lunghezza, mi sento di condividerlo qui:

Il dolore è come il postino, suona sempre due volte. Nei mio caso è un postino suonato, un postino suonato che suona una terza volta, anche vent’anni dopo. Io piango solo e sempre quando sto per cambiare pelle, quando sono sul punto in cui credo di morire e che puntualmente corrisponde al punto di rinascere. E ieri il postino ha suonato per la terza volta, mi ha consegnato un pacco di dolori vecchi e se ne è andato. Che vuol dire dolori vecchi?
Il postino del dolore suona subito e poi ripassa: quella è la volta che piangi sul serio. La prima è d’obbligo; muore tua madre, perdi un figlio in un incidente, hai una malattia o vieni licenziato. Il postino suona, ti consegna il pacco, chiudi la porta, lo apri, piangi. Sembra finita lì. Invece non è neppure incominciata, o meglio: quello è il primo movimento della sinfonia che porterà magari dopo qualche anno di musica al gran finale, il dolore è sempre una grandissima scoperta. Solo “grazie”, si fa per dire, passamela, solo grazie a un tumore, per esempio, hanno scoperto di avere un corpo; prima, avere un pancreas, o un cervello sano, un fegato, due polmoni era acquisito come un diritto. Come guardare gli alberi: è naturale che tu guardi gli alberi o il mare, così naturale, che pur guardandoli, non ti accorgi della loro esistenza, ossia che essi, alberi, mare, sono e sono fatti per te. Passa una petroliera e scarica in mare una lunga, terribile onda nera, come un cancro; solo ora tu cominci ad avere percezione del mare, solo ora. Perché lo stai perdendo. Con la malattia è uguale. Così con i lutti. I tuoi genitori se ne vanno, tua moglie o il tuo ragazzo muoiono. All’inizio è un dolore fulgente, come una stella, una stella nera. Poi ricominci a vivere senza, ricominci a guardare il cielo stellato con un buco nero che sai ma ancora non sai quanto lo sai.
Infine il postino ritorna. E’ la consegna dell’atto finale. Di colpo il firmamento è un buio; lo sapevi già di non avere più tuo padre o tua moglie o tuo figlio.., e come se lo sapevi. Anche di aver perduto l’amore di quella donna, lo sapevi da due anni, lei è viva, ma non ti vuole più, e tu stai già con un’altra… E invece, il postino ritorna. Consegna il pacco di lacrime vecchie, esce, lo apri, sai già tutto stavolta; invece qui, ora, dopo magari qualche anno dall’evento lo fai tuo, completamente, ineluttabilmente e scoppi in un pianto disperato, irrefrenabile, infinito. E’ proprio il tuo corpo che piange, tu non puoi farci niente, puoi solo assecondarlo, lasciarti trascinare come un tronco da questo fiume in piena. Questo, che ti sembra il tuo punto di morte, la tua notte più orribile, è invece l’annuncio dell’alba, il punto di fuga della vita, la rinascita, il sole, la liberazione.
Beh, così per me è stato ieri.., ho pianto la lettera di una ragazza che nella solitudine dipingeva maschere. Ho pianto la morte di mia madre che nelle ultime ore parlava come una bambina e le sembrava di star aspettando il treno che da Napoli la portava sei anni alla spiaggia di Torre del Greco… E da quella stanza sul Tevere per malati terminali credeva di essere davanti al mare di Napoli. Ho pianto per voi, ho pianto per me, ho pianto per Gerusalemme e l’Afghanistan, ho pianto con i nervi urlanti, scoperti come sono solo i dolori primari e non quelli inutili che ci creiamo per sopravvivere. Ho pianto per le due torri, per Israele senza pace, per te che mi scrivi “non lasciarmi” e io che ti vorrei gridare “non lasciarmi tu viso che non conosco, labbra di cui non so il suono”. Ho pianto tutti i bimbi senza padre, tutti gli animali abbandonati, tutti gli sguardi innocenti della terra.
Non so che mi ha preso, ma non ero esaurito, né impaurito, né stanco; non avevo difese, questo sì, perché ho accettato da tempo di non averne. Non esistono difese alla vita e alla morte, sono palle! La vita e la morte fanno di noi quello che vogliono. L’unica carta che possiamo giocare è stabilire che cosa noi vogliamo dalla vita e dalla morte e questo io l’ho già scelto da bambino: tutta la luce e tutto il buio che io potessi sopportare, e allora devi accogliere e devi reggere, accogliere e reggere, solo questo puoi fare. E la felicità e il dolore ti porteranno su e giù come gli oceani le navi. E il dolore ti insegnerà ogni volta a contenere ancora più oceano e il tuo pianto non lo tratterrà, lo restituirà fino a che sarai parte di un unico respiro e imparerai a raccordarti col fiato lungo delle maree. E’ qui che credi di morire, mentre è qui, se sei riuscito a reggere tutte le bordate senza colare a picco, che comincia la vera vita. Perché resistere alla morte non serve a nulla, a niente servono i lifting, le bugie, i colpi di testa, i viaggi del miracolo, a niente serve resistere se non impari anche ad assecondare. E come si impara questo? non lo so, accogliendo il dolore degli altri, per me è così. La mia bussola siete solo voi. Chi soffre più di me, e c’è sempre purtroppo, lui è il mio medico, gli altri. Tutto quello che ho, e non è poco, l’ho sempre ricavato per sottrazione, guardando chi aveva molto di meno. Solo questo è l’amore che torna, l’amore che dai”.

Piazza Piazza

Ucraina mapHo appena letto due articoli molto interessanti sulla questione Ucraina e visto che non voglio traumatizzare nessuno (soprattutto per la lunghezza apparente del secondo) li metto in allegato come pdf. Il primo, decisamente più breve, è opera di Marcello Foa ed è comparso originariamente su Il Giornale ieri pomeriggio: la focalizzazione è sullo scontro Obama-Putin. Il secondo, più lungo, è un alto volo sulla crisi ucraina, quindi con una prospettiva più ampia. Va detto che è stato scritto il 22 febbraio, quindi non tiene conto, pur prospettandola, della crisi in Crimea. L’ho preso da Limes, che non ne è la fonte originaria, come si evince dall’allegato. L’autore è Dario Quintavalle. L’ho trovato molto piacevole e di facile lettura: dovete affrontarlo se desiderate capire il senso del titolo di questo post 😛

Crisi Ucraina, quello che non viene detto – Vatican Insider

Due o tre cose che so sull’Ucraina

Accostamenti

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Ho letto su “La civiltà cattolica” del 3-17 agosto un interessante articolo di Javier Melloni sulla crisi. Lo spunto di partenza è la crisi economica mondiale, ma presto il discorso si fa vasto e il riferimento principale è alla crisi di mezza età che spesso prende l’uomo nel suo cammino esistenziale o di fede. Vengono citate belle pagine di letteratura e spiritualità, le riporto:

  • Dante Alighieri: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tant’è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte. Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, tant’era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai.” (La divina commedia)

  • Teresa d’Avila: “Una volta cresciuto […], il bruco comincia a lavorare la seta e a edificare la casa dove dovrà morire… Muoia, muoia questo verme, come muore il baco da seta per realizzare il senso della sua vita… Quando, in questo grado di orazione, [il bruco] muore completamente alle cose del mondo, […] nasce una farfallina bianca” (Il castello interiore)

  • Pierre Teilhard de Chardin: “Per la prima volta forse nella mia vita […] sono sceso nel più intimo di me stesso, in quell’abisso profondo dal quale sento confusamente emanare la mia capacità di agire. Ora, a mano a mano che mi allontanavo dalle evidenze convenzionali che illuminano superficialmente la vita sociale, mi rendevo conto che la mia vita profonda mi sfuggiva. A ogni gradino che scendevo, scoprivo in me un altro personaggio, di cui non potevo più dire il nome esatto, e che non mi obbediva più. E quando fui costretto a porre fine alla mia esplorazione perché la strada veniva meno sotto i miei passi, c’era, ai miei piedi, un abisso senza fondo, dal quale scaturiva, venendo da chi sa dove, il flusso che oso chiamare la mia vita” (L’ambiente divino)

  • Keiji Nishitani: “Il grande dubbio rappresenta non solo l’apice del sé che dubita, ma anche il punto del suo “estinguersi” e cessare di essere “sé” […]. E’ il momento nel quale il sé è nel contempo il nulla del sé, il momento che è il cosidetto “luogo del nulla”, dove accade una conversione al di là del grande dubbio. Il grande dubbio emerge come l’apertura del luogo del nulla, come il campo della conversione dal grande dubbio stesso. Ecco perché è “grande”.” (La religione e il nulla)

Ho voluto raccogliere e accostare questi testi per mostrare quanto certi cammini di religioni molto diverse spesso intreccino i loro passi, soprattutto nella mistica, e trovino risonanza nell’esperienza umana di tanti, credenti e non.

L’ultimo brindisi

Ed ecco qui, ancora una volta, uno di quegli incroci misteriosi che capita di attraversare. Ieri sfogliavo il libricino che sto scrivendo con le citazioni dei libri letti negli ultimi anni. Mi sono imbattuto in alcune parole del cardinal Martini citate nel libro “Storia di un uomo” di Aldo Maria Valli:

“Vi sono anche fasi della mia vita in cui non ho sentito di essere redento” (pag. 27)

“Le mie difficoltà non hanno riguardato la sfera del quotidiano, quanto piuttosto un grande interrogativo: non riuscivo a capire perché Dio lascia soffrire suo figlio sulla croce. Perfino da vescovo, a volte, non riuscivo ad alzare lo sguardo verso il crocifisso perché questa domanda mi tormentava. Me la prendevo con Dio” (pag. 163)altman1.JPG

Ed ecco che oggi, navigando in rete, incontro la poesia “Ultimo brindisi” di Anna Achmatova, tratta da Il giunco (1934)

Bevo a una casa distrutta,

alla mia vita sciagurata,

a solitudini vissute in due

e bevo anche a te:

all’inganno di labbra che tradirono,

al morto gelo dei tuoi occhi,

ad un mondo crudele e rozzo,

ad un Dio che non ci ha salvato.

A quattro anni di distanza

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Una bella giornata ventosa, di quelle che piacciono a me. Così, dopo la mattinata passata dal dentista, sono andato a fare un giro con Mou per la campagna. Come al solito, mi sono portato dietro la radiolina e mi sono sintonizzato su Radiotre e ho dovuto alzare un po’ il volume per contrastare il rumore delle canne di granoturco piegate dal vento. C’era il giornalista Stefano Feltri che faceva memoria del 14 settembre di quattro anni fa, quando il governo americano decideva di abbandonare al fallimento la banca d’affari Lehman Brothers. Ho pensato fosse utile segnalare questa puntata di Wikiradio, a me è piaciuta. Qui il link all’elenco dei podcast da poter scaricare.

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