Supposizioni

Un simpatico racconto di Anthony De Mello. Mi capita di raccontarlo in classe quando sento la necessità di chiarire le cose, quando temo che si stiano dando alcuni aspetti per scontati: si rischiano i fraintendimenti del racconto…

fraintendimento“Molti anni fa, nel Medioevo, i consiglieri del Papa insistevano affinché bandisse gli ebrei da Roma. Dicevano che non era bello che quella gente vivesse indisturbata nella culla stessa del cattolicesimo. Fu redatto e promulgato un bando di espulsione, con grande sgomento degli ebrei, i quali sapevano che dovunque fossero andati avrebbero sicuramente ricevuto un trattamento peggiore di quello riservato loro a Roma. Essi allora scongiurarono il Papa di sospendere l’editto. Il Papa, che era un uomo giusto, fece loro una proposta onesta: gli ebrei potevano scegliere un concorrente che si battesse con lui in una pantomima. Se costui avesse vinto, essi avrebbero potuto restare.
Gli ebrei si riunirono per esaminare la proposta. Rifiutarla significava essere scacciati da Roma. Accettarla era sinonimo di sconfitta, poiché non era possibile vincere una sfida in cui il Papa fungeva sia da concorrente che da giudice. Tuttavia non restava che accettare, anche se non c’era verso di trovare qualcuno che si offrisse di assumere quel compito. La responsabilità di diventare artefice del destino di tutti gli ebrei era troppo pesante per chiunque. Quando il custode della sinagoga venne a sapere della proposta, si presentò dal rabbino capo e si offrì come volontario per la disputa con il Papa. “Il custode?”, esclamarono gli altri rabbini quando furono informati del fatto. “Impossibile!” “Ebbene”, disse il rabbino capo, “nessuno di noi è disposto a partecipare, quindi o lui o niente”. Così, in mancanza di meglio, egli fu incaricato di competere con il Papa.
Quando il grande giorno arrivò, il Papa stava seduto su di un trono posto in piazza S. Pietro, circondato dai cardinali, davanti a una grande folla di vescovi, sacerdoti e fedeli. Ben presto spuntò la piccola delegazione degli ebrei con le loro tonache nere e le lunghe barbe fluenti, e il custode in mezzo. Il Papa si girò in modo da fronteggiare il custode e il dibattito ebbe inizio.
Il Papa sollevò solennemente un dito e tracciò un arco nel cielo. Subito l’altro puntò l’indice con decisione verso terra.
Il Papa apparve piuttosto sconcertato. Alzò con ancora più solennità il dito e lo tenne fisso davanti al viso del custode. Allora questi sollevò tre dita e le tenne rivolte con altrettanta fermezza in direzione del Papa, il quale apparve esterrefatto per quel gesto.
Infine il Papa portò la mano sotto la tunica e ne estrasse una mela, al che il custode affondò la mano nel sacchetto di carta che aveva con sé e tirò fuori un pezzo di pane azzimo.
A questo punto il Papa dichiarò a voce alta: “Il rappresentante degli ebrei ha vinto la contesa. L’editto è quindi revocato”. I capi ebrei si fecero intorno al custode e lo condussero via. I cardinali, sbalorditi, si affollarono attorno al Papa. “Che cosa è accaduto, Vostra Santità?”, chiesero. “Non siamo riusciti a seguire il veloce scambio di botta e risposta”. Il Pontefice si terse il sudore dalla fronte e rispose: “Quell’uomo è un grande teologo, un vero maestro di disputa. Io ho incominciato tracciando un largo gesto della mano nel cielo a indicare che l’intero universo appartiene a Dio, ed egli mi ha puntato il dito verso il basso per ricordarmi che c’è un luogo chiamato Inferno, dove il diavolo regna supremo. Allora ho alzato un dito per far capire che Dio è uno solo. Immaginatevi il mio stupore quand’egli ha sollevato tre dita per indicare che quest’unico Dio si manifesta in tre persone, dimostrando così di aderire alla nostra dottrina della Trinità! Sapendo che sarebbe stato impossibile avere la meglio su un simile genio della teologia, decisi alla fine di portare la disputa su un altro settore. Ho tirato fuori una mela a significare che, secondo certe recenti teorie, la terra è rotonda, e subito lui ha mostrato un pezzo di pane non lievitato per ricordarmi che, secondo la Bibbia, la terra è piatta. Non c’era altro da fare che concedergli la vittoria”.
Nel frattempo gli ebrei erano arrivati alla sinagoga. “Che cos’è accaduto?”, chiesero al custode pieni di stupore. Quest’ultimo era indignato. “Che razza di stupidaggine! Pensate: prima di tutto il Papa fa un gesto con la mano come se volesse dire a tutti gli ebrei di andarsene da Roma. Allora io indico verso il basso per fargli capire che non abbiamo nessuna intenzione di muoverci di qui, e lui mi punta contro il dito con fare minaccioso come per dire: “Non fare il furbo con me!”. Io punto tre dita per spiegargli che lui lo era stato tre volte tanto con noi nell’ordinarci arbitrariamente di andarcene da Roma. E infine, vedo che lui tira fuori la merenda e allora anch’io prendo la mia”.”

Chiese d’oriente

Alcuni studenti, di tanto in tanto, mi chiedono qualche breve notizia sui cristiani d’oriente. Colgo l’occasione di questo articolo di Sandro Magister per mettere a disposizione in pdf il materiale che lui segnala in fondo al suo articolo e che è tratto dal n. 22 del 2013 dalla rivista “Il Regno” dei dehoniani di Bologna (scritto da Giorgio Bernardelli). Il pdf è in fondo.
“Fervono sotto traccia i preparativi del viaggio di papa Francesco in Terra Santa, in programma dal 24 al 26 maggio. Quando mezzo secolo fa Paolo VI si recò a Gerusalemme – via dei maronitiprimo papa della storia – i luoghi santi della città erano quasi tutti entro i confini del regno di Giordania. E così gran parte della Giudea e la valle del Giordano. I cristiani erano numerosi e in alcune località come Betlemme erano in netta maggioranza. Nella mente di molti cattolici d’Occidente – come il sindaco di Firenze Giorgio La Pira, oggi in corsa verso gli altari – brillava l’utopia di una vicina pace messianica che avrebbe affratellato cristiani, ebrei e arabi. Su questo sfondo e in questo clima, il viaggio di Paolo VI fu un evento di risonanza grandiosa. Nella città vecchia di Gerusalemme la folla araba strinse il papa in un abbraccio fisico travolgente, a tratti sollevandolo da terra. E anche al suo ritorno a Roma una folla sterminata fece ala al papa che rientrava in Vaticano.
Oggi quel clima non c’è più. La geopolitica del Medio Oriente è completamente mutata. Non c’è pace tra israeliani e palestinesi. Il Libano è stato dilaniato da una guerra civile. La Siria è al collasso. L’Iraq è devastato. L’Egitto esplode. Milioni di profughi fuggono da una regione all’altra.
E i cristiani sono quelli più stretti nella morsa. Il loro esodo dai paesi mediorientali è incessante, non compensato dalla precaria immigrazione nei paesi ricchi del Golfo di manodopera proveniente dall’Asia.
Ha dichiarato in proposito il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin nella sua prima intervista a largo raggio dopo la sua nomina, ad “Avvenire” del 9 febbraio: “La situazione dei cristiani in Medio Oriente è una delle grandi preoccupazioni della Santa Sede, sulla quale essa non cessa di sensibilizzare quanti hanno responsabilità politiche, perché ne va della pacifica convivenza in quella regione e nel mondo intero”. Ed ha aggiunto, riferendosi alla presenza in Medio Oriente di cristiani appartenenti a diverse confessioni e implicitamente all’incontro che papa Francesco avrà a Gerusalemme con il patriarca ecumenico di Costantinopoli, mezzo secolo dopo l’abbraccio tra Paolo VI e Atenagora: “Questo è pure un ambito di particolare rilevanza a livello ecumenico, dato che i cristiani possono cercare e trovare vie comuni per aiutare i fratelli nella fede che soffrono in varie parti del mondo”.
Ma quanti sono e chi sono i cristiani che abitano in Terra Santa e nelle regioni circostanti?
Nell’insieme essi sono oggi tra i 10 e i 13 milioni, a seconda delle stime, su una popolazione complessiva di 550 milioni di abitanti. Quindi circa il 2 per cento. Ecco qui di seguito una loro mappa aggiornata, ripresa dal n. 22 del 2013 dalla rivista “Il Regno” dei dehoniani di Bologna, scritta da un esperto in materia.”

Ecco il file: Chiese orientali

Perché?

Pubblico un breve racconto (la lunghezza è un’apparenza, le battute sono molto brevi) dello scrittore egiziano Nagib Mahfuz, nobel per la letteratura nel 1988. Un dialogo tra padre e figlia dal titolo “Il paradiso dei bambini”. La conoscenza e l’amore su ogni cosa.

“- papà…nagib
– dimmi.
– io e Nadia stiamo sempre insieme.
– certo, tesoro: è la tua amica…
– in classe, in cortile, anche alla ricreazione.
– bene! Nadia è una bambina bella e bene educata.
– nell’ora di religione però io vado in un’aula e lei in un’altra.
Lanciai un’occhiata alla mamma e la vidi sorridere mentre era intenta a cucire. Sorrisi anch’io dicendo:
– ma è solo nell’ora di religione…
– e perché?
– perché tu hai una religione e Nadia un’altra.
– come?
– tu sei musulmana e Nadia è cristiana.
– perché, papà?
– sei ancora piccola. Un giorno capirai.
– no. Io sono grande!
– ma no che sei piccola, tesoro!
– e perché sono musulmana?
Dovevo essere disponibile e accorto e soprattutto non tradire i nuovi sistemi educativi alla prima difficoltà.
– il tuo papà è musulmano e la tua mamma è musulmana, per questo anche tu sei musulmana.
– e Nadia?
– i suoi genitori sono cristiani, perciò è cristiana pure lei.
– forse è perché il suo papà porta gli occhiali…?
– non c’entrano gli occhiali. E’ che anche suo nonno era cristiano… dissi, deciso a risalire le generazioni senza smetterla finché non si fosse stancata e avesse finito per cambiare argomento. Ma ella riprese:
– chi è meglio?
Riflettei un poco, poi risposi:
– la musulmana è buona e anche la cristiana è buona.
– una dev’essere migliore per forza.
– son buone tutt’e due.
– e se mi faccio cristiana per stare sempre con Nadia…?
– non si può, amore. Ognuno deve restare come il suo papà e la sua mamma.
– e perché?
Ecco qua la tirannia dei nuovi metodi educativi!
– non vuoi proprio aspettare quando sarai grande?
– no, papà.
– bene. Lo sai cos’è la moda? A uno piace una moda, all’altro un’altra. Essere musulmani è l’ultima moda, per questo devi rimanere musulmana.
– allora quella di Nadia è una moda vecchia!
Benedette tu e la tua Nadia! Nonostante la mia prudenza mi ero sbagliato e avevo finito col mettermi in un bel pasticcio.
– e´ una questione di gusti… però ognuno deve restare come i suoi genitori.
– dirò a Nadia che la sua è una moda vecchia e che la mia è nuova.
– tutte le religioni sono buone – mi affrettai a dire – chi è musulmano adora Dio e chi è cristiano anche.
– ma perché lei lo adora in un posto e io in un altro?
– perché da una parte lo si fa in un modo e dall’altra in un altro modo.
– e perché?
– lo saprai l’anno prossimo, o quello dopo. Per ora basta che tu sappia che sia i musulmani sia i cristiani adorano Dio.
– e chi è Dio, papà?
Restai sorpreso. Riflettevo, mentre prendevo tempo.
– cosa ti ha detto la maestra?
– ci ha letto una sura del Corano e ci ha insegnato le preghiere. Però chi è Dio non lo so.
Ci pensai su ancora, nascondendo un sorriso.
– è il creatore di tutte le cose.
– di tutte?
– di tutte.
– e che vuol dire creatore?
– vuol dire che è lui che ha fatto ogni cosa.
– e come ha fatto?
– con la sua grande potenza…
– e dove vive?
– ovunque nel mondo.
– e prima del mondo?
– lassù.
– in cielo?
– sì.
– lo voglio vedere.
– non si può.
– nemmeno in tv?
– nemmeno.
– nessuno lo può vedere?
– nessuno.
– e tu come lo sai che è lassù?
– lo so.
– chi te l’ha detto?
– i profeti.
– i profeti?
– sì, come Muhammad.
– e lui come ha fatto a saperlo?
– aveva una forza speciale.
– una forza speciale negli occhi?
– sì.
– e perché?
– è Dio che lo ha creato così.
– perché?
Mi dominai e risposi:
– egli è libero di fare ciò che vuole.
– e quando lo ha visto com’era?
– grande, forte, potente…
– come te, allora.
Trattenni una risata:
– nessuno gli è simile.
– e perché vive lassù?
– la terra non basta a contenerlo, ma egli vede ogni cosa.
Si distrasse per poco, poi riprese:
– ma Nadia dice che ha vissuto sulla terra.
– è perché vede ogni luogo, così è come se vivesse dappertutto.
– Nadia ha detto che lo hanno ucciso.
– no, amore mio, hanno creduto di averlo ucciso, ma egli è vivo e non muore mai.
– e il nonno, è vivo anche lui?
– no, il nonno non c’è più.
– lo hanno ucciso?
– no. E’ morto da solo.
– e come è morto?
– si è ammalato ed è morto.
– allora la mia sorellina che è malata morirà anche lei?
Mi adombrai e prevenni la reazione della mamma affrettandomi a dire:
– ma no, guarirà!
– e allora il nonno perché è morto?
– il nonno si è ammalato da grande.
– anche tu ti sei ammalato da grande. Perché non sei morto?
Questa volta la mamma la rimproverò ed ella restò smarrita a guardare ora l’uno ora l’altra.
– moriamo quando lo vuole Iddio.
– e perché Dio vuole che moriamo?
– egli è libero di fare ciò che vuole.
– la morte è bella?
– oh no, tesoro.
– e perché dio vuole una cosa brutta?
– e´ bella quando è lui a volerla.
– ma tu hai detto che è brutta.
– mi sono sbagliato, amore.
– perché la mamma si è arrabbiata quando ho detto che tu muori?
– perché ancora Dio non lo ha voluto.
– e perché lo vuole, papà?
– è lui che ci fa nascere e fa che ce ne andiamo.
– e perché?
– vuole che facciamo delle cose belle prima di andarcene.
– e perché non restiamo?
– non ci sarebbe spazio per la gente se tutti restassero.
– così lasciamo tutte le cose belle.
– andiamo dove ci sono cose migliori.
– dove?
– lassù.
– da Dio?
– sì.
– e lo vedremo?
– sì.
– e sarà bello?
– certo.
– allora dobbiamo andare.
– ma non abbiamo ancora fatto tante belle cose…
– il nonno le ha fatte?
– sì.
– che cosa ha fatto?
– ha costruito una casa e ha coltivato un giardino.
– e cosa aveva fatto Totò, il mio cuginetto?
Mi rattristai per un istante, poi volsi uno sguardo commosso alla mamma e risposi:
– anche lui ha costruito una piccola casa prima di andarsene.
– il figlio dei vicini invece mi picchia e non fa niente di bello.
– è proprio un ragazzaccio.
– allora non morirà.
– solo quando Dio lo vorrà.
– anche se non farà nessuna bella cosa?
– tutti si muore. Chi fa cose buone va dal Signore e chi le fa cattive va all’inferno.
Lei sospirò e tacque.
Avvertii quanto la cosa fosse stata impegnativa, ma non sapevo dire se avessi risposto bene o male. La fila dei perché aveva risvegliato domande celate dentro me. La piccola non lasciò passare molto tempo prima di sbottare:
– voglio stare sempre con Nadia.
Guardai verso di lei con aria interrogativa.
– anche nell’ora di religione!
Scoppiai a ridere. Anche la mamma rideva. Soggiunsi sbadigliando:
– non me lo immaginavo che si potesse parlare di cose simili a questo modo.
Intervenne la mamma con aria consolatrice:
– la bimba crescerà e un giorno potrai spiegarle tutte le cose che sai a riguardo.
Mi girai allora alterato verso di lei per capire fino a che punto avesse parlato sul serio o se piuttosto mi prendesse in giro. Ma già aveva ripreso il suo lavoro di cucito.”
(da “Il bambino nell’Islam”, in Aa.Vv. Il bambino nelle religioni, Editrice Ancora, Milano 1992)

Accostamenti

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Ho letto su “La civiltà cattolica” del 3-17 agosto un interessante articolo di Javier Melloni sulla crisi. Lo spunto di partenza è la crisi economica mondiale, ma presto il discorso si fa vasto e il riferimento principale è alla crisi di mezza età che spesso prende l’uomo nel suo cammino esistenziale o di fede. Vengono citate belle pagine di letteratura e spiritualità, le riporto:

  • Dante Alighieri: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tant’è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte. Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, tant’era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai.” (La divina commedia)

  • Teresa d’Avila: “Una volta cresciuto […], il bruco comincia a lavorare la seta e a edificare la casa dove dovrà morire… Muoia, muoia questo verme, come muore il baco da seta per realizzare il senso della sua vita… Quando, in questo grado di orazione, [il bruco] muore completamente alle cose del mondo, […] nasce una farfallina bianca” (Il castello interiore)

  • Pierre Teilhard de Chardin: “Per la prima volta forse nella mia vita […] sono sceso nel più intimo di me stesso, in quell’abisso profondo dal quale sento confusamente emanare la mia capacità di agire. Ora, a mano a mano che mi allontanavo dalle evidenze convenzionali che illuminano superficialmente la vita sociale, mi rendevo conto che la mia vita profonda mi sfuggiva. A ogni gradino che scendevo, scoprivo in me un altro personaggio, di cui non potevo più dire il nome esatto, e che non mi obbediva più. E quando fui costretto a porre fine alla mia esplorazione perché la strada veniva meno sotto i miei passi, c’era, ai miei piedi, un abisso senza fondo, dal quale scaturiva, venendo da chi sa dove, il flusso che oso chiamare la mia vita” (L’ambiente divino)

  • Keiji Nishitani: “Il grande dubbio rappresenta non solo l’apice del sé che dubita, ma anche il punto del suo “estinguersi” e cessare di essere “sé” […]. E’ il momento nel quale il sé è nel contempo il nulla del sé, il momento che è il cosidetto “luogo del nulla”, dove accade una conversione al di là del grande dubbio. Il grande dubbio emerge come l’apertura del luogo del nulla, come il campo della conversione dal grande dubbio stesso. Ecco perché è “grande”.” (La religione e il nulla)

Ho voluto raccogliere e accostare questi testi per mostrare quanto certi cammini di religioni molto diverse spesso intreccino i loro passi, soprattutto nella mistica, e trovino risonanza nell’esperienza umana di tanti, credenti e non.

Tauran e il buddhismo

tauran, ecumenismo, dialogo interreligioso, religioni, buddhismo, cristianesimoLa sera dell’annuncio dell’elezione del nuovo papa, sul balcone centrale di piazza San Pietro è apparso per l’“Habemus papam” il cardinale francese Jean Louis Tauran. Il web ha immediatamente cominciato a ironizzare in modo anche feroce su di lui, sul suo intercalare incerto e sulle sue movenze particolari (dovuti al morbo di Parkinson). Il cardinale è il presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso; rivolgendosi al mondo buddista in occasione dell’annuale festa di Vesakh ha affermato: «Il nostro autentico dialogo fraterno esige che noi buddisti e cristiani facciamo crescere ciò che abbiamo in comune, e specialmente il profondo rispetto per la vita che condividiamo». «L’amorevole gentilezza verso tutti gli esseri è la pietra angolare dell’etica buddista e l’amore di Dio e l’amore del prossimo sono invece il centro dell’insegnamento morale di Gesù». Penso, ha continuato il porporato che «sia urgente creare, sia per i buddisti che per i cristiani, sulla base dell’autentico patrimonio delle nostre tradizioni religiose, un clima di pace per amare, difendere e promuovere la vita umana».

L’articolo da cui ho preso le parole è di Luca Rolandi e appare su Vatican Insider.

Fessure di dialogo

Stamattina si è tenuta, in piazza San Pietro l’udienza generale del papa. Subito dopo Bergoglio ha incontrato l’ambasciatore saudita in Italia Salh Mohammad Al Ghamdi, che ha consegnato al papa un messaggio del re Abdullah. Il giornalista Giacomo Galeazzi su Vatican Insider fa il punto della situazione sull’Arabia Saudita per quanto riguarda le libertà religiose e i diritti delle donne.

“Il Regno wahhabita continua ad essere indicato da tutti gli osservatori internazionali abdullah.jpgcome un «Paese di particolare preoccupazione» per la persistenza di violazioni gravi della libertà religiosa, nei fatti e nelle disposizioni legislative. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le dichiarazioni in cui responsabili sauditi hanno affermato la possibilità per i lavoratori non musulmani di celebrare il proprio culto in privato. Tuttavia, la nozione di “privato” rimane vaga. Il governo ha affermato che, finché le riunioni dei non musulmani avessero riguardato piccoli gruppi riuniti in case private, nessun organo della sicurezza sarebbe intervenuto. Questa posizione, sebbene ufficiale, viene comunque violata, dato che continuano a verificarsi casi in cui la polizia religiosa fa irruzione in abitazioni private in cui si svolgono simili riunioni di preghiera. Altro motivo di preoccupazione per i cristiani (come per tutti i non musulmani residenti nel Regno) è l’eccessivo lasso di tempo (settimane) necessario per l’espatrio delle salme di lavoratori stranieri deceduti. L’Arabia Saudita non autorizza la sepoltura nei propri territori di non musulmani e su tale questione ha richiamato l’attenzione una delegazione americana in visita nel Paese. Il rapporto Acs documenta diversi casi di arresto di fedeli cristiani; in alcuni casi, la notizia non sarebbe stata diffusa, per garantire il buon esito delle trattative per il loro rilascio che venivano stabilite tra governo saudita e il Paese di provenienza degli arrestati. Nel gennaio 2012, re Abdullah ha sollevato dall’incarico il capo della polizia religiosa Abdul-Aziz Humayen, sostituendolo con Abdul-Latif bin Abdul-Aziz Al Sheikh, appartenente alla famiglia degli Al Sheikh che guida l’establishment wahhabita. Non sono state fornite indicazioni sulle ragioni del cambio, anche se è utile segnalare che, nel 2009, il predecessore di Al Sheikh era stato scelto per riformare la polizia religiosa. Aveva assunto consulenti, incontrato gruppi per i diritti umani ed esperti d’immagine per migliorare la reputazione della polizia dopo episodi che avevano indignato l’opinione pubblica saudita. Gli agenti della polizia religiosa vegliano sull’applicazione delle leggi che regolano la sfera civile, religiosa e sessuale nel Paese. Tra i loro compiti c’è quello di verificare che i negozi siano chiusi durante la preghiera, fermare le coppie non sposate e le donne non coperte dalla testa ai piedi assicurandosi anche che esse non guidino automobili. Vita dura anche per gli sciiti e gli ismaeliti, così come per i blogger portatori di idee pseudo-rivoluzionarie.

Passo positivo l’istituzione per iniziativa del sovrano, in collaborazione con Austria e Spagna, di un Centro internazionale per il dialogo inter-religioso e inter-culturale. In Arabia Saudita per i cristiani non è possibile alcun culto pubblico. La situazione è particolarmente pesante soprattutto per l’altra metà del cielo. Muri divisori nei negozi per separare donne e uomini: è l’ultima forma di segregazione imposta nel regno saudita per “proteggere” commesse e clienti dagli sguardi maschili. La misura verrà applicata nei negozi in cui sono impiegati commessi di sesso diverso. Le barriere dovranno essere alte almeno 1,60 metri. Le donne possono lavorare solo in luoghi di sole donne oppure nella vendita di biancheria intima e cosmetici. Questi ultimi due settori di lavoro sono stati approvati nel giugno 2011, quando il governo impose che i commessi (in gran parte uomini di origine asiatica) fossero sostituiti con donne saudite. Un provvedimento che aprì 44mila nuove posizioni di lavoro per donne saudite (il tasso di inoccupazione femminile è del 36%, solo il 7% della popolazione occupata nel privato è composta da donne). Fu una decisione sollecitata dalle stesse saudite che si dicevano a disagio nell’acquistare biancheria intima e cosmetici dagli uomini. Ma l’arrivo di tante donne nei luoghi di lavoro misti – ad esempio i centri commerciali – aveva sollevato problemi diversi, non ultimi molti casi di molestie. La misura adottata per eliminare il problema è, come spesso è capitato nel Paese, drastica e orientata alla segregazione: i muri. Il cammino di emancipazione delle donne saudite è ancora allo stato embrionale. All’inizio dell’anno alle donne è stato permesso di partecipare al Consiglio consultiva della Shura, e 30 donne ne sono entrate a far parte – anche se per partecipare devono usare ingressi separati. Note ormai le campagne per il diritto di guida (soprattutto grazie alla popolare campagna di disobbedienza civile di Manal al Sharif divenuta popolare sui social network come #womentodrive), mentre il Regno del Golfo è uno dei pochi paesi al mondo che nega il suffragio universale. Le donne devono avere il permesso degli uomini per lavorare, viaggiare o aprire un conto corrente bancario.”

Cercavo taumaturghi erranti

Un articolo di quelli che raccontano di umanità altre, così distanti dalla nostra quotidianità. E’ di Monika Bulaj, l’originale è qui.

Ho incontrato la donna kamikaze un giorno di sole e di polvere, in un piccolo santuario,kamikaze-donna.jpg oltre una piccola porta di legno, in una strada che non saprei ritrovare nel labirinto della vecchia Kabul. Mi si è avvicinata tra una folla di donne, accanto al sarcofago di un santo, una tomba di marmo coperta di tessuti con scritture dorate. Da quel momento non ho avuto pace, lei mi segue ancora nel pensiero. Non so se sia viva o morta. Le sfuggo e la cerco, mi spaventa e mi attrae. La ritrovo negli sguardi di tante donne in Afghanistan. Immagino la sua ombra magra, allucinata, sgomitare nelle strade intasate, infilarsi tra i carretti e il filo spinato, saltare sugli autobus in partenza infilandosi tra le porte appena socchiuse. È successo dopo mesi di viaggio dal confine dell’Iran a quello cinese sulle nevi del Pamir, un viaggio compiuto da sola, affidandomi al buon senso della gente del posto ed evitando con cura i luoghi pattugliati dai militari. Cercavo luoghi sacri, taumaturghi erranti, nomadi e storie di donne, e in quella porticina che dà sulla strada della vecchia Kabul vedo entrare donne, fagotti plissettati che vanno sotto il nome di burqa. La soglia è piccola, devo chinarmi, l’ambiente è soffocante ma si riempie di altri corpi ancora. Dentro è penombra ma fuori il sole è allo zenith, i muezzin chiamano alla preghiera di mezzogiorno. L’ora in cui Kabul respira di sollievo. L’incubo quotidiano è finito. Qui i kamikaze si fanno esplodere al mattino. Lo fanno per arrivare in paradiso all’ora di pranzo, in tempo per banchettare col Profeta. Sono vestita all’afgana, ho una veste lunga e nera, col velo che copre i capelli ma lascia libero l’ovale della faccia. Sotto ho il mio taccuino e la mia Leica. Non oso toccarli. Le donne mormorano preghiere, scoprono i volti bruciati dal sole d’alta quota, si tolgono il burqa, mostrano bellezza e sofferenza, si cercano, si toccano, liberano tra loro una complicità sensuale. Poi, dopo qualche minuto, una bambina col velo bianco, la divisa della scuola, mi nota, tocca il mio viso e si mette a piangere. «Perché piangi?» le chiedo in lingua dari. «Perché sei straniera e porti il velo, come noi». È allora che la diga si rompe, la voce corre, sono una cristiana che ama l’Islam, e tra le altre donne si innesca una reazione a catena fuori misura. Il mio corpo è già reliquia, vi strisciano contro, lo baciano, vi depongono caramelle e banconote per santificare qualcosa di loro e poi infilarsela nelle tasche o nei reggiseni. Cercano barakà, la benedizione, perché sono un’ospite e mi sono fidata. Piangono, asciugano le lacrime, si soffiano il naso nei burqa, mi infilano le dita inanellate nei capelli, mi sfiorano la guancia col dorso delle mani. Una di loro esige da me la grazia speciale di avere figli. Come in un sogno. Sono in ostaggio, ma non mi oppongo, mi affido. Sono in imbarazzo, ma sorrido. Tutto quello che ho cercato in mesi di lavoro mi piomba addosso all’improvviso. Dal ruolo di testimone invisibile a quello, non voluto, di protagonista al centro di un culto. “Volevi gli uomini di Dio? Guaritori erranti? Donne in estasi?” chiedo a me stessa quasi ad alta voce. “Eccoti accontentata…”. Credendo che io stia pregando le donne alzano le mani al cielo. Tra le tante che mi stanno addosso ce n’è una che non sorride né piange. Il suo velo è buttato senza cura sopra i capelli maltinti di hennè. Un corpo magro, le sopracciglia accentuate da un segno maldestro di kajal. Cerco di sottrarmi al suo contatto fisico. Ma lei mi stringe verso il muro, come per isolarmi dalle altre e si sbottona il vestito per mostrarmi qualcosa. Mi aspetto una ferita, e invece vedo il suo corpo magro impacchettato in una maglia di cilindri verticali legati da fili elettrici. Non capisco, forse non voglio capire. Penso alle armi di un agente segreto, all’autodifesa di una donna più emancipata. Ma le cose che ha intorno alla pancia non sono pistole, è dinamite. Sembra un’insegnante delle elementari invecchiata troppo presto. Quanti anni avrà: trenta? Cinquanta? Da dove viene? Dove sta andando? Perché mostra proprio a me la sua macchina di morte? Fingo di non aver capito. Le chiedo: «Dove sono i tuoi figli?». Il modo con cui volta la testa mi gela. Vuol dire che non ne ha più. Forse sono morti. Smetto di chiedere. Le domande si fermano sulle labbra. Ho paura, guardo altrove. Dico a mia volta:«Man se farzand daram », ho tre figli maschi. È la frase che meglio mi protegge in questo Paese. Il mio mantra, il mio lasciapassare, il mio elmetto in kevlar, la mia personale guardia del corpo. La donna che fa figli maschi qui è una donna vera, rispettata. Nella valle di Khost, durante un matrimonio, mi hanno quasi festeggiata per questo. Ora la pelle della donna è sudata, pallida, gli occhi sono folli, stanchi, freddi, asciutti. Sento il suo gomito ossuto, i muscoli duri delle cosce. La guerra ha portato a questo. La morte è un affare fiorente in Afghanistan. La carne umana è in vendita, diventa arma che si fa esplodere. Stragi a opera di kamikaze. Rapimenti di bambini e di adulti sospettati di avere risparmi. Omicidi su richiesta. «Duemila dollari – mi hanno detto amici afgani – sono la tariffa per uccidere qualcuno, e tutti sanno come trovare un sicario». Anche i kamikaze fanno lo stesso, per comprare la casa alla famiglia o saldare un debito. Economia di guerra, non martirio. Sento ogni fibra del mio corpo e ho la certezza incosciente che non accadrà nulla. Eppure temo che le parole possano svegliare qualcosa, far tremare la corda di un nervo, spezzare il filo della sua follia. Così cerco di esprimere uno sguardo indifferente per sorvolare la sua faccia piatta piena di rughe, le mezzelune nere delle unghie, la cintura sfatta della borsetta, l’odore del sapone e l’acido del suo respiro. Intorno le altre donne non si sono accorte di nulla. Continuano a ignorare il santo per guardare me, affascinate, piangendo. Esco a fatica. Lei mi segue, mi aderisce come un’ombra. Fuori, una barriera di burqa in nylon con macchie di respiro all’altezza delle labbra. Anche queste mi stringono. «Guardatela- dice una di loro – una issawì che ama l’Islam! Una haredzì che ama l’Afghanistan!». Issawi vuol dire “seguace di Issa”, il Cristo. Haredzi significa straniero. Ecco, io sono questo per loro. Infedele e straniera, eppure ho una faccia, odore, occhi, voce. Sono occidentale, eppure non sono chiusa in un blindato, non sto dietro il mirino di un mitra. Mi allontano senza salutare, come per dire “non c’ entro”, “non c’ero”. Non dico nemmeno “Khoda Hafez”, che Dio si ricordi di te, l’arrivederci degli afgani. Ma lei mi segue. Cammino lentamente per comunicare una tranquillità che non ho, lo faccio con passi lunghi, per seminarla. Ne esce una camminata abnorme. Scherzo con venditori ambulanti, mi infilo nella folla senza voltarmi e senza fretta apparente, per non far vedere che la mia è una fuga. Passo davanti agli ultimi Sikh della città che, con dadi e conchiglie, predicono il futuro alle musulmane al riparo di grandi ombrelli. Stavolta mi giro, lei non c’è. E Kabul ridiventa reale, con la sua puzza di fogna, le grida dei bambini di strada che danno manate sui blindati che passano come sul culo degli asini, il ronzio degli elicotteri d’assalto che volano così bassi che il soffio delle loro eliche spaventa i pappagalli verdi sugli eucalipti. Kabul, con i carillon dei gelatai ambulanti che strillano Per Elisa e Jingle Bells, vittoria sui divieti talebani contro la musica. Cerco di mimetizzarmi nel passo disinvolto delle donne afgane, un linguaggio mimetico del corpo che ho imparato ad assumere in fretta, anche per la mia incolumità. Ma stavolta la paura si è insinuata in me senza che me ne rendessi conto, è già diventata riflesso fisiologico. Bagnerò il mio letto quella notte, e da allora non riuscirò a dormire che a brevi intervalli. Ora riconosco i luoghi. Torno d’ istinto nel quartiere dei musicisti, dove ho il mio dentista privato. Un santuario con chiodi magici piantati sullo stipite della porta, ogni chiodo guarisce un dente. Poi trovo un barbiere con una foresta di capelli abramitica che mi invita a bere un tè e mi svela allegramente di avere interpretato Osama Bin Laden in un film. L’Afghanistanè così, dalla tragedia alla farsa nel giro di un’ora. Non so più dove ho fatto quel terribile incontro. Il mio sentimento per quella donna è un grumo fatto di pietà, condanna e paura. So che se la denunciassi non mi crederebbero, oppure partirebbe una rappresaglia di sangue. Sparisce l’ultimo raggio porpora sulle cime immacolate dell’Hindukush. Le luci tenui nelle case d’argilla si accendono sui colli che ora paiono il presepe di Betlemme. Un asino porta in salita una donna incinta con un’ombra accanto. Pare quella di Giuseppe, il falegname. E intanto la donna imbottita d’esplosivo, da qualche parte, si toglie la “cintura del martirio”, come la chiamano gli estremisti dell’Islam, e srotola per terra la trapunta colorata nella sua casa senza figli. Ma non dorme.

Ortodossia

“La preoccupazione di fondo del mondo cristiano è l’ortodossia, cioè la coincidenza di quello che dico e quello che dice l’autorità e non la coincidenza fra quello che dico e quello che vivo. E allora il cristianesimo si è trasformato. Visto che non si poteva rinnegare il messaggio delle origini lo abbiamo trasformato in un grande sistema di parole che stanno a sé, sospese sul reale” (padre Ernesto Balducci).

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Bloody sunday nigeriana

Ne avevamo parlato in classe a fine settembre. Avevo detto di tenere d’occhio la situazione della Nigeria per capire se si trattasse di proteste legate al filmato contro Maometto o di una ripresa delle violenze di qualche mese fa. Mi sa che si sta andando verso la seconda ipotesi… L’articolo è di Massimo A. Alberizzi.

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“Ennesima domenica di sangue in Nigeria: ieri di prima mattina un terrorista suicida ha fatto esplodere la sua auto imbottita di dinamite nella chiesa cattolica di Santa Rita in Ungwan Yero a Kaduna, nel nord del Paese. Subito dopo è scattata la vendetta dei cristiani che hanno colpito case e negozi dei musulmani, ammazzando a sangue freddo alcuni fedeli di Allah. Un funzionario del NEMA (National Emergency Management Authority) ha confermato che i morti “sono almeno 10” ma sul numero di feriti non ha voluto essere preciso: “Decine e decine, almeno un centinaio”. Tra gli altri, in condizioni critiche, il sacerdote che stava officiando la messa. Subito dopo l’attacco suicida è partita la rappresaglia dei cristiani furibondi. Armati di bastoni e machete bande di giovani hanno assalito i musulmani e i loro beni. Il guidatore di un mototaxi, creduto seguace dell’islam, è stato bloccato dalla folla inferocita: l’uomo prima è stato picchiato, poi gli è stata rovesciata addosso la sua moto con il serbatoio aperto. Una volta ben inzuppato di benzina, gli assalitori gli hanno dato fuoco. Non è stato l’unico a essere stato ucciso per vendetta, ma la polizia non ha voluto fornire altri dettagli.

Secondo padre Anthony Zaka, il vicedirettore dell’ufficio stampa dell’arcidiocesi di Kaduna, il terrorista che ha devastato la chiesa doveva conoscere molto bene il posto. Probabilmente l’aveva visitato più volte in precedenza. Aveva scelto un angolo particolare dove immolarsi, per poter causare il maggior numero di vittime. Le chiese in Africa sono spesso in spazi aperti, in grandi parchi dove viene sistemato un altare. Così è quella di Kaduna, dedicata a Santa Rita. L’attentatore suicida ha superato il muro di cinta ed è entrato del giardino. Ha poi parcheggiato in una zona che si sarebbe riempita di folla da lì a poco. E’ rimasto seduto in auto finché la gente, per seguire la messa, non ha occupato tutto lo spazio disponibile, e solo allora si è fatto saltare in aria. “Cinque persone sono morte sul colpo – ha spiegato padre Zaka – e altre cinque subito dopo in ospedale per le ferite. Temo che il bilancio potrebbe aumentare perché ci sono parecchi ricoverati in fin di vita”. Nessuno ha finora rivendicato l’attacco, ma fonti diplomatiche non hanno dubbi: “E’ da attribuire a Boko Haram”, il gruppo islamista radicale che combatte il governo centrale del presidente Goodluck Jonathan. Ma è sbagliato ridurre la violenza che sta sconvolgendo la Nigeria a una semplice guerra interreligiosa tra cristiani e musulmani. La crisi ha radici più profonde: corruzione, povertà, disoccupazione degrado anche ecologico. La Nigeria è ricchissima di petrolio (ottavo produttore al mondo e primo africano) ma i proventi restano in mano a poche famiglie di miliardari. La scoperta di nuovi giacimenti a nord, nel bacino del lago Ciad ha moltiplicato i problemi. Sono troppe le mani rapaci che vogliono impadronirsi di quella fortuna. Leader senza scrupoli vogliono destabilizzare il nord. Plagiano i giovani, cui promettono lotta alla corruzione e alla miseria, opportunità di lavoro per tutti e salvaguardia della natura e dell’ambiente, e li convincono a combattere la guerra santa.”

Provocazioni

In linea con l’articolo di ieri sulla complessità del mondo musulmano ecco un ulteriore elemento di complicazione: la questione nigeriana. Ne parla questo articolo de Il sussidiario.

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Un altro attentato in una chiesa nigeriana. Un kamikaze si è fatto esplodere nella città di Bauchi, nell’area di Wunti, mentre si celebrava una messa. Per la Croce rossa, l’obiettivo era la chiesa cattolica di San Giovanni. Il bilancio è di almeno tre morti e di 22 feriti. Lo Stato di Bauchi ha già subito ripetuti attacchi da parte della formazione fondamentalista Boko Haram. La polizia nigeriana ha circondato l’area dell’attentato. Ilsussidiario.net ha intervistato padre Alex Longs, priore dei Padri Bianchi del convento di Jos in Nigeria.

Padre Longs, qual è il clima nel Paese dopo questa ennesima domenica di sangue?

Le persone stanno incominciando a essere molto arrabbiate per questi attentati a ripetizione. Di recente avevamo attraversato un momento di pace, che è stato interrotto da questo attentato.

Qual è la posizione della Chiesa nigeriana di fronte alla situazione nel Paese?

Il nostro impegno è quello di cercare di mantenere la pace, evitando di accusare i musulmani. Non sappiamo chi ci sia veramente dietro gli attentati, tutto ciò che sappiamo è che nel Paese esistono dei fondamentalisti. Alcuni cristiani sono convinti che sia giusto vendicarsi per quanto è avvenuto oggi, ma la nostra religione non ce lo permette. Quindi continuiamo a camminare verso la pace.

La responsabilità degli attentati è dei musulmani in quanto tali?

Alcuni dei musulmani stanno lavorando per la riconciliazione, ma altri non sono pronti perché essa avvenga. Qualcuno afferma che la responsabilità sarebbe dei politici, qualcun altro che ci sarebbero delle influenze straniere, e quindi al momento è molto difficile saperlo. Sappiamo però che l’estremismo di altri Paesi sta giocando un ruolo, perché in Nigeria il fondamentalismo in passato non è mai stato particolarmente forte. Chi attacca i cristiani è stato addestrato all’estero.

C’è il rischio di scontri tra cristiani e musulmani?

Sì. Finora però ciò non è avvenuto, in parte perché le persone stanno divenendo più consapevoli, in parte perché le forze dell’ordine controllano l’area, impedendo qualsiasi ritorsione. La maggior parte dei nigeriani, inclusi alcuni musulmani, sono stanchi di questi attentati, ma c’è un nucleo di irriducibili che continua a prendere di mira i cristiani.

Qual è il vero obiettivo dei terroristi?

I terroristi vogliono provocare i cristiani a vendicarsi sui musulmani, scatenando degli scontri interconfessionali nel Paese. Al momento però i cristiani si rifiutano di lasciarsi provocare, e speriamo che continuino a mantenere i nervi saldi.

Quanto è avvenuto ieri ha anche a che fare con il film su Maometto?

E’ possibile, anche se è difficile dirlo con certezza. Tutto ciò che sappiamo è che per diverse settimane la situazione era rimasta tranquilla, e che all’improvviso ieri è esplosa di nuovo la violenza.

Chi c’è veramente dietro a Boko Haram?

Questo è molto difficile saperlo, perché gli attacchi provengono da diverse parti, quindi non sappiamo chi siano i responsabili, qual è la loro identità, da dove provengono.

I principali imam hanno preso posizione contro Boko Haram?

Sì, alcuni imam hanno dichiarato che dobbiamo sederci tutti insieme attorno a un tavolo e dialogare. Altri, come il Sultano di Sokoto, Sa’ad Abubakar, la massima autorità religiosa dei musulmani in Nigeria, ha dichiarato che è sbagliato che un fedele islamico attacchi delle altre persone. Quando si parla di Islam, è però molto difficile capire quale seguito possa avere una presa di posizione come questa, perché nel mondo musulmano ci sono sempre sette e approcci differenti.

 

Cristiani d’Iran

Un viaggio, in Iran. Ne è autrice Irene Paci. Lo pubblica Avvenire.

“Riconosciuti dalla legge, tollerati in pubblico ma sottoposti a una discriminazione sostanziale nella vank.jpgburocrazia, negli uffici, nelle scuole, nei tribunali, ogni volta che ci sia da far valere un diritto civile. La vita dei cristiani in Iran non è facile. «Siamo cittadini, ma di serie B, di seconda classe», dicono quei pochi che accettano di parlare, fatto salvo che desiderano non rivelare la loro identità. Eppure i templi cristiani, nel Paese, non sono catacombe. La chiesa cattolica di Teheran, accanto all’ambasciata, fondata dai salesiani nel 1936, è stata rinnovata da poco e ha campane e croci in bella vista; le chiese armene di Isfahan sono incastonate nel quartiere di Jolfa che è cristiano dall’epoca dello scià Abbas I, nel 1604; gli edifici di culto sono monumentali, meta di turisti di tutte le confessioni religiose e possono vantare un museo abbastanza ricco di reperti della tradizione; perfino la chiesa protestante di Rasht, quella che è più nell’occhio del ciclone a causa degli ultimi arresti di fedeli e pastori, all’esterno è riconoscibilissima: due croci rilevate sul portone che spiccano sul fondo bianco del muro.

Ma nella Repubblica islamica d’Iran che vive una sorta di schizofrenia sociale – la vita pubblica, aderente alle regole e alla legge, è solo la testa della medaglia su cui la vita privata, modernissima e con qualche eccesso, ne è la croce – non stupisce che quel che si veda, a un primo sguardo, non corrisponda a ciò che esattamente è. Le comunità, soprattutto nel Nord del Paese, dove ultimamente le conversioni dall’islam al cristianesimo sono state numerose, vivono blindate. Non è permesso l’accesso ai non cristiani alle funzioni: si vive nel timore di mettersi in casa un delatore, una spia, anche fosse il vicino di casa o un parente molto prossimo. I numeri telefonici della chiesa armena di una città del Nord del Paese girano tra pochi adepti: tutti sanno che qualsiasi chiamata è registrata, che chi dice di recarsi lì potrebbe essere seguito. E, infatti, se il numero arriva nelle mani di uno straniero che vuole sapere o conoscere, non è raro che qualcuno lo fermi e gli chieda, non senza ambiguità, perché si trova lì e se volesse seguirlo per andare a prendere un tè. Per penetrare nelle sacrestie iraniane, quello che funziona è il passaparola, stando bene attenti a capire chi ci si trovi di fronte. A Isfahan, la cattedrale di Vank, costruita tra il 1606 e il 1655 con il sostegno dei sovrani della dinastia safavide, dà l’impressione che essere cristiani in Iran sia un fatto accettato e anche valorizzato, vista la magnificenza del sito e il flusso di turismo soprattutto interno. Ma si fa fatica a domandare a chi ha in custodia le chiavi di questa e delle altre due chiese (le chiese di Betlemme e di Maria) di essere ammessi la domenica, quando si celebrano le funzioni religiose, nelle sedi del culto vero e proprio. E alla domanda: «Ci sono discriminazioni nella vita quotidiana?», la risposta, nel migliore dei casi, è un invito in casa privata ma da soli, lontani da orecchie indiscrete.

Dalle esperienze rivelate si comprende che tra la teoria e la prassi giuridica, c’è il mare: come nel caso del risarcimento danni dopo un incidente stradale, nell’accesso all’università a numero chiuso o alle scuole. I cosiddetti dhimmi (cioè i cittadini non islamici) pagano sempre di più: non hanno, di fatto, gli stessi diritti degli sciiti. «Su settanta milioni di iraniani – dice un religioso che vuole rimanere anonimo – i cristiani cattolici sono pari allo 0,35% della popolazione totale. La popolazione cristiana si è anche ridotta a un terzo rispetto a dieci anni fa». Molti hanno chiesto il visto austriaco, per poi avere come destinazione finale gli Stati Uniti. «Ma si vive in un paradosso: nonostante nel Maijlis, l’assemblea consultiva islamica, le minoranze abbiano diritto ad almeno un rappresentante; nonostante per legge tutti gli iraniani siano uguali, senza distinzione di appartenenza per gruppo etnico, colore, lingua e nonostante tutte le minoranze abbiano diritto di protezione se vivono su questo territorio, in conformità con i principi islamici, di fatto non è così». Infatti, la Repubblica islamica permette la libertà di culto ma non di religione. E questi sono gli articoli (13 e 14) ai quali sono stati inchiodati i rappresentanti della comunità protestante di Rasht. A Rasht la religione è un argomento tabù, complice il fatto che negli ultimi anni molti musulmani sono passati al cristianesimo e si sono uniti a un movimento crescente (la Hauskirche, Chiesa domestica), diventato anche più forte della Chiesa cattolica. Su questa scia sono aumentati i controlli della polizia, le intimidazioni, gli arresti: un musulmano che si converte al cristianesimo sa che si macchia del reato di apostasia, punibile con la morte.

Anche per questo motivo i musulmani praticanti non entrano in una chiesa dove si officiano i riti, temendo di potere essere indicati come apostati nel caso di un controllo delle autorità. Del resto, il rapporto di Human Rights Watch del 2011, pubblicato da poco dall’agenzia di informazione cristiana Mohabat news, indica una tendenza in crescita che la conoscenza sul campo conferma. In un anno la pressione del governo sulle minoranze è aumentata: sono state rilevate 274 violazioni che hanno coinvolto 876 persone. I baha’i sono al primo posto in 100 occasioni, i dervisci al secondo con 46 episodi, i cristiani al terzo con 29. Il tutto in un quadro che registra un totale di 498 sentenze di condanna a morte. Il prossimo 8 settembre, con la sentenza definitiva per il pastore Youcef Nadarkani, arrestato nell’ottobre 2009 a Rasht, già condannato a morte in primo grado per apostasia, si saprà se bisognerà conteggiare un’altra vittima. Rea di avere dichiarato una fede diversa da quella all’imam Alì, padre dello sciismo.”