Enzo Bianchi risponde alla proposta di Shimon Peres su La Stampa di oggi.
“Serve davvero un’ONU delle religioni? Magari affiancata da una Carta delle Religioni unite? I termini con cui viene riassunta la proposta di Shimon Peres a papa Francesco sono di sicuro effetto mediatico, ma siamo convinti di sapere esattamente di cosa si sta parlando? Siamo concordi nell’interpretazione da dare a queste parole e a questa proposta? Nessuno mette in dubbio la sincera intenzione di pace che anima l’iniziativa assunta dall’ex-presidente israeliano, ma non possiamo esimerci dall’interrogarci sulle motivazioni che ne dà e sulle letture che ne possono derivare.
Se infatti il motivo principale – come sembra di capire dalle parole con cui è presentata la proposta di Peres – è il fallimento dell’ONU, della sua Carta fondatrice e, implicitamente, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non si vede come una nuova struttura, a composizione religiosa e non statuale, e una nuova dichiarazione di principi, confessionali e non di etica universale, possano riuscire là dove riteniamo abbiamo fallito le migliori risorse che l’umanità ha saputo investire all’indomani della seconda guerra mondiale. Forse che le affermazioni etiche della Carta delle Nazioni unite o i diritti fondamentali di ogni essere umano sanciti nel 1948 sono ritenuti non più validi? O non è piuttosto in discussione l’incapacità a metterli in pratica e la mancanza di volontà nel farli rispettare? E se mancano risorse e strumenti coercitivi per imporre tali valori e per fermare chi li conculca, crediamo davvero che un appello in cui il linguaggio religioso sostituisce quello diplomatico possa avere successo? Inoltre, in base a cosa riteniamo che chi non aderisce a nessuna religione sia privo di istanze etiche?
Ma vi è una lettura più immediata di questa iniziativa, ed è quella che stuzzica subito l’enfasi da parte dei media: un ipotetico nuovo organismo mondiale potrebbe stabilire una sorta di minimo comune denominatore delle fedi, di ciò che è permesso e che è proibito in ambito etico secondo i dettami delle diverse credenze religiose. Ora, in questa ottica, non si può evitare l’impressione di un appiattimento sincretista, di uno sfumare della rivelazione in una nebulosa in cui tutte le verità si equivalgono e ogni professione di fede è vittima dell’“indifferenza”. Certo è più facile addossare a un’entità interreligiosa oggi inesistente – e difficilmente realizzabile – le responsabilità cui il consesso delle nazioni non ha saputo far fronte degnamente, che non richiamare ai loro doveri etici e civili le nazioni e i loro governanti, la politica e l’etica pubblica. Forse che oggi chi ha le leve del potere politico ed economico ignora ciò che è bene e ciò che è male per l’umanità? Sta davvero aspettando ansioso che le religioni del mondo gli diano suggerimenti in proposito? O non è vero piuttosto che trascura consapevolmente questa chiara distinzione in base ai propri interessi?
La prospettiva cambierebbe se l’iniziativa mirasse a trovare modalità e spazi per garantire continuità e regolarità al confronto tra le religioni su tematiche etiche, se i responsabili delle diverse confessioni di fede potessero dialogare tra loro e aiutarsi reciprocamente nel trasmettere ai loro fedeli e nel testimoniare agli appartenenti alle altre fedi i principi fondamentali del proprio credo, se avessero un ambito autorevole e condiviso in cui manifestare le proprie convinzioni e trovare stimolo, conforto e arricchimento nel conoscere in profondità le convinzioni dell’altro. Si tratterebbe allora di uno spazio in cui avverrebbe nella franchezza e nel rispetto il riconoscimento della dignità umana ed etica del credente appartenente a un’altra religione così come della persona che non ritiene di fare riferimento a un ambito di fede per normare la propria vita e il proprio relazionarsi con il mondo. Come pure cambierebbe la prospettiva se prendessimo maggiormente sul serio la dimensione della preghiera come componente della storia, i cui effetti nella vita dei popoli e delle persone non si misurano mai nell’immediato. Come ha sottolineato papa Francesco dopo l’incontro di preghiera per la pace in Medioriente, si tratta di “aprire una porta” e di non lasciare più che si chiuda: una porta aperta anche grazie ai nostri sforzi, ma una porta che tale rimane solo grazie a Colui che è più grande e che, in risposta alla nostra preghiera, converte il cuore umano e lo dilata alla dimensione del suo amore misericordioso e compassionevole.
Non abbiamo di un’ONU delle religioni, bensì di reimparare l’arte dell’ascolto, del rispetto dell’altro, del dialogo cordiale, del riconoscimento della qualità umana e spirituale sia di chi incontriamo nelle nostre esistenze sia di chi vorremmo evitare di incontrare per non essere richiamati alle nostre responsabilità personali e collettive.”
Scompartimento
“Tra viaggiatori succede, ci si raccontano cose anche intime, tanto non ci si rivedrà mai più. Il paesaggio che scorre lateralmente offre loro un nastro su cui incidere le loro voci narranti, e lo scompartimento crea la necessaria cassa di risonanza, lo spazio chiuso perfetto, quasi un sito dove chiudersi filtrando solo ciò che interessa della realtà.” (E’ oriente, Paolo Rumiz)
L’imam della Moschea Blu
Francesca Pacini, per Osservatorio Iraq Medioriente Nordafrica, intervista l’imam della Moschea Blu.
“Eccomi di nuovo a Istanbul, di nuovo nella Moschea Blu. All’interno c’è una stanza, un piccolo studio, in cui Ishak Kizılaslan, l’imam, accoglie gli ospiti. Ci siamo conosciuti qui, esattamente un anno fa. Abbiamo parlato di Islam, di fede, di ponti e di barriere. Stavolta, gli ho chiesto un’intervista ufficiale. E lui, con il suo solito garbo, ha acconsentito.
Lo spazio è molto curato. C’è una scrivania al centro e ai lati due divanetti. Intorno, nella stanza, libri ovunque: negli scaffali e sul tavolo. Questo posto è frequentatissimo dai turisti che cercano informazioni. Infatti, appena mi siedo arriva un gruppo di ragazzi. Fra loro un tedesco, un ragazzone alto e goffo, piuttosto robusto, con due occhi grandi e buoni. “Voglio diventare musulmano, che devo fare?” chiede in inglese all’imam. È imbarazzato. In realtà trovarsi al cospetto di un imam suggerisce un timore reverenziale un po’ in tutti gli stranieri che si affacciano lì, su quella stanza. Una specie di pudore misto a un pizzico di diffidenza che però, dopo le parole calde, accoglienti di Ishak, si trasforma subito in serenità.
“Non devi fare nulla di speciale”, gli risponde Ishak, con il suo inglese perfetto, spiegandogli che non ha bisogno di cerimonie particolari, né di chissà quali testimoni. Deve rivolgersi ad Allah, e confidargli la sua intenzione. Il ragazzo è sorpreso “Tutto qui?”. Si rivolge ad Allah davanti a noi tutti, si commuove. Ishak lo abbraccia, si fa fare una foto con lui. Poi gli chiede se ha pensato a un nome. No, non ci ha pensato. “Ti piacerebbe Hamza?”. Hamza, lo zio di Maometto. “Hamza…” ripete più volte il giovane il ragazzo. Poi annuisce. Sì, gli piace. Con il suo cellulare, Ishak si fa fotografare insieme ad Hamza- Altri abbracci fraterni, sorrisi e saluti.
Quando rimaniamo soli, mi sorride. Ora possiamo procedere con l’intervista.
Vorrei parlare un po’ delle barriere che separano l’Islam dal mondo occidentale, e provare a vedere se ci sono invece dei ponti…
Sono musulmano. Nella mia religione, Allah è il padrone di tutto. Lui ci ha creato. Musulmani o non musulmani, siamo tutti esseri umani. Allah ci invita a seguire il Corano. Ci sono milioni di persone che seguono diverse religioni, e l’Islam ci chiede di stabilire buoni rapporti con tutti. Siamo tutti servi di Allah. Viviamo tutti in questo stesso mondo. Prima di raccontare cosa accade nel mondo musulmano oggi, dobbiamo pensare al Corano come alla parola di Allah. Qual è l’approccio dell’Islam, ad esempio, all’omicidio? L’Islam ci chiede di uccidere? No. Allah dice che uccidere un innocente è come uccidere tutti gli esseri umani. Ci sono solo alcune eccezioni, come davanti a un attacco nemico. In quel caso, abbiamo il diritto di difenderci, e difendere il nostro paese. Altrimenti, dobbiamo stabilire sempre buoni rapporti l’uno con l’altro.
Dobbiamo imparare a conoscerci. Cos’è l’Islam? Cos’è il cristianesimo? Cos’è il giudaismo? Cosa rappresentano, oggi? Cosa succede, nel mondo moderno? Tutte le religioni hanno gli stessi problemi. La gente oggi le abbandona, diventa atea.
Cosa direbbe agli occidentali che criticano l’Islam? Quelli che lo giudicano troppo conservativo, non rispettoso dei diritti delle donne, che non possono scegliere, non possono vivere la vita che vogliono. È un argomento molto importante che divide musulmani e non musulmani…
Hai perfettamente ragione. Prima di tutto, farò del mio meglio per rispondere basandomi sul Corano. Tutte le mie risposte sono basate sul Corano. In una sura (Il Corano è diviso in sure, ndr), Allah ci dà indicazioni al riguardo. Tutta l’umanità è qualcosa di bello e prezioso. Abbiamo tutti genitori diversi, apparteniamo a differenti nazioni e tribù. Dobbiamo imparare a conoscerci.
Ad Allah non importa nulla delle nazioni, o dei generi di appartenenza. A lui importa della nostra fede, di come viviamo. Non abbiamo creato noi stessi come uomini o donne, è Allah che ci ha creato. Ha creato te, e ha creato me. Essere uomo o donna non dà nessuna superiorità all’uno o all’altro.
L’Islam non dice mai nulla sulla discriminazione tra uomo e donna. Vuole che la donna sia una donna, e l’uomo un uomo. Cosa significa? Ci sono diverse responsabilità nella nostra comunità per gli uomini e le donne. Perché? A causa della loro diversa natura. Io ho la barba, i baffi. Le donne sono molto più belle. E Allah vuole che abbiamo tutti cura di noi stessi. Nell’Islam ci sono indicazioni per le donne, che devono coprirsi ad eccezione del volto e dei piedi. Ma non devono coprirsi davanti ai parenti e familiari. All’uomo spetta la cura economica della famiglia. Non è una responsabilità data alla donna. Io ho una moglie e tre bambini. Mettiamo che mia moglie sia ricca. Non deve spendere i suoi soldi per la famiglia. Quella responsabilità è sulle mie spalle. L’adulterio è vietato. Allah non vuole che facciamo sesso con altri, vuole che proteggiamo noi stessi e la nostra famiglia.
L’Islam dà diverse indicazioni a uomini e donne. Ma non c’è nessuna superiorità: le donne non sono né inferiori né superiori.
Alcuni si spaventano vedendo le notizie dei media, che mostrano ragazze uccise dai genitori solo perché escono con un ragazzo che a loro non piace, che magari appartiene a un’altra cultura, un’altra tradizione. Leggono di ragazze uccise solo perché volevano indossare abiti occidentali…
In Turchia milioni di famiglie non si comportano così. Ma alcuni personaggi, molto potenti, vogliono mettere barriere tra l’Islam e l’Occidente. Questi fatti non appartengono alla maggioranza, centinaia di esempi non rappresentano le migliaia di famiglie che si comportano diversamente. Ho quarant’anni e non ho mai sentito di un fatto del genere intorno a me. Se uno va lontano, nei villaggi sperduti, allora ci si può imbattere in casi simili…
E che mi dice delle spose bambine? Ragazzine obbligate a sposarsi, magari con uomini anziani?
Su un milione, non sono neanche un centinaio. Un centinaio di casi, nuovamente, non rappresentano la totalità. La gente sbaglia sui musulmani. Gli occidentali criticano l’Islam. Se chiedi a un musulmano, però, ti dirà che i problemi sono causati da altri. Oggi nei paesi musulmani ci sono moltissime guerre. Chi le ha causate? C’è la complicità di americani, europei. Cosa pensano, gli italiani, delle migliaia di musulmani assassinati? Migliaia, ripeto. Non centinaia, migliaia. In Afghanistan, Pakistan, Somalia, Myanmar…
I musulmani sono sotto attacco. Perché? L’Europa e l’America, su questo, tacciono. Guardano solo alcuni esempi proposti dai media per allontanare le persone dalla corretta comprensione dell’Islam. Ma i musulmani sanno bene che sta accadendo. Gli americani e gli europei non hanno il diritto di giudicare i musulmani. Dobbiamo smetterla di giudicarci.
Ma cosa sta accadendo dei paesi musulmani? E che mi dice dei musulmani che hanno preso parte alle proteste di Gezi?
Dietro le quinte ci sono poteri nascosti, che manovrano. Chi ne trae benefici? Chi appicca questi incendi? Il problema non può essere risolto facilmente. Anche se un musulmano tenta di uccidermi, io dovrei provare a non ucciderlo. Siamo fratelli. Oggi ci sono molte cause, mescolate fra loro, che concorrono nel creare questi problemi. Non sono un esperto, come turco.
Ma come imam sto chiedendo ai musulmani di unire i loro cuori, di avere cura degli altri, di amarsi. Possiamo risolvere da soli i nostri problemi, non abbiamo bisogno degli europei e degli americani. Inshallah.
Molti occidentali sono attratti dai sufi, dalla via di Rumi. Rumi è uno dei poeti più letti al mondo, è molto amato. La gente lo ammira, ma ha un problema con il Corano. Rumi e il Corano: dov’è il ponte, e dov’è invece il problema?
Mevlana dice che il Corano è la fonte dell’Islam. Non è un libro fatto dalle persone comuni, è il libro del Profeta, è la stessa parola di Allah. La parola, la guida, la reminescenza. Non c’è un’altra via. Seguiamo il Corano. Come musulmani, cerchiamo di intensificare le nostre preghiere. Facciamo del nostro meglio. Rumi era un musulmano che ha provato a diffondere l’Islam, ha tentato di intensificare la vita islamica e la preghiera.
Ha fatto del suo meglio per far capire alla gente che niente è più importante dell’amore di Allah. Nulla conta più di questo. La gente afferma di amare Dio. Ma Dio ti ama? Un giorno ho domandato a qualcuno: “Qual è la prova che Dio ti ama?”. “Ho 70 anni e non ho mai avuto un problema di salute”. “Sì, che altro?” “Ho 3 figli, sono così buoni con me”. “Bene, secondo il tuo modo di provare l’amore di Dio, Dio non ha mai amato nessuno dei suoi profeti”. “Perché?”. “Perché nessuno dei suoi profeti ha avuto una vita piacevole. Hanno avuto un sacco di difficoltà nella loro esistenza”.
Cosa dovrei pensare dunque? Dio non li amava? Il Profeta dice: se ami Allah, seguimi. Non c’è altra via: seguire il Corano e il Profeta. Rumi non ha insegnato altro. Ha insegnato l’approccio coranico. Oggi c’è un Rumi falso, lontano dal Corano. Rumi era un buon musulmano. Era un esperto di leggi islamiche. E aveva fede. Bisogna intensificare la fede, non solo obbedire alle regole. Dietro le regole, c’è lo spirito. Lo spirito e le regole sono entrambe importanti.
Ma dobbiamo capire il significato che sta oltre le parole. Altrimenti compiamo solo azioni vuote. I sufi aiutano le persone a trovare questo spirito. Rumi ha seguito il Corano e il Profeta Maometto. Non dobbiamo provare a fare di Rumi qualcun altro.
I dervisci erano poveri per essere più vicini a Dio. Arriviamo a un altro argomento interessante: l’Islam e i soldi…
Secondo l’Islam, Allah è il padrone di tutto. È il maestro. Diventare ricchi o poveri non dipende da noi, non è nelle nostre mani. A noi è chiesto di fare del nostro meglio. Ma anche se lavoriamo sodo, è Allah che decide. Quando diventiamo ricchi, non ci allontaniamo da lui. Un musulmano ricco, che spende il suo denaro per la famiglia e per i bisognosi, è un buon musulmano.
La carità per voi è molto importante…
Sì. I musulmani ricchi devono dare una percentuale minima, ogni anno, direttamente ai poveri, senza passare attraverso associazioni e organizzazioni. Poi, possono dare anche di più, se vogliono. Ma non bisogna ovviamente dare tutto ai poveri. Dobbiamo rimanere in equilibrio. Non siamo monaci, viviamo fra la gente, nella società. Aiutiamole persone. Questo è il nostro dovere.
Tu non sei musulmana, Francesca. Dovrei invitarti a diventarlo. Ma non posso forzarti. Tutto quello che posso dire è: Francesca, questo è il Corano. Poi, dipende da te. Un giorno morirò. Mi sarà chiesto della mia vita. Ho una responsabilità verso il mio creatore. E verso la mia famiglia, la natura, gli animali… L’Islam vuole che la mia vita sia pacifica, e bella. Non dobbiamo mettere barriere fra noi. Il Corano è comunque per tutti. È per me. E per te.
Smette di parlare, e mi sorride. Capisco che la nostra conversazione è finita. Anche stavolta mi regala una bottiglietta d’acqua, che non posso rifiutare. Ci salutiamo con la promessa di incontrarci ancora. Fuori, sta per iniziare la preghiera collettiva. I turisti devono uscire, non possono assistere. Ma una guardia, che da due anni mi vede entrare e uscire dalla moschea, mi ferma toccandomi il braccio e gentilmente mi dice: “Tu puoi restare”. Non entro nello spazio riservato alle donne, rimango lì, seduta, con il foulard addosso, un puntino informe sull’immenso tappeto celeste e arancio, dietro le sbarre di protezione che separano la zona dei visitatori da quella dei fedeli raccolti in preghiera. Ishak mi passa accanto per raggiungere gli altri, e mi vede. “Mi hanno detto che posso restare!”, mi giustifico io. Lui scoppia a ridere, scuote la testa: “Sì, puoi restare!”. Sorrido anche io. Sì, posso restare.”
Dialoghi necessari
Prendo da Confronti un interessante articolo di Adriano Gizzi sul convegno «Non credenti e credenti: differenti, con identici diritti» organizzato a Roma a gennaio dall’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Vengono affrontate questioni che non possono essere ignorate, ma anzi vanno dibattute e conosciute. Ricordo ancora con piacere un episodio dello scorso maggio a Roma: ero là per un convegno e la sera mi sono trovato con altri partecipanti a una cena di fine lavori. Abbiamo cominciato a parlare di religioni, laicità, libertà, stato e ci siamo trovati in accordo su molte cose. Solo dopo il digestivo ho scoperto che i miei due vicini di posto erano presidenti di sezioni provinciali dell’Uarr. Il nome della rivista da cui ho preso l’articolo dice tutto…

“Erano gli anni Novanta – in pieno periodo di wojtylismo trionfante – quando l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uaar) cominciava a far parlare di sé per la campagna sullo «sbattezzo». A molti sembrava una provocazione di vecchi «mangiapreti» invasati e liberi pensatori fuori moda. Le prime iniziative, organizzate già nel decennio precedente assieme ad alcuni circoli anarchici e ai seguaci di Giordano Bruno, vedevano la presenza di poche decine di persone ed erano ignorate quasi del tutto dalla stampa nazionale.
Da allora molte cose sono cambiate nella società e alcuni temi che apparivano «eretici» – la battaglia contro i simboli religiosi negli edifici pubblici, quella contro l’ora di religione cattolica nelle scuole o per il diritto al testamento biologico e all’eutanasia – hanno finalmente conquistato, sia pure a fatica, un minimo di diritto di cittadinanza nel dibattito pubblico. E ad essere cambiata è anche l’Uaar, che negli anni è diventata più «presentabile» agli occhi dell’opinione pubblica: da tempo ha ottenuto il riconoscimento di associazione di promozione sociale (che le dà diritto ad essere indicata come destinataria del 5 per mille) e tende ormai a sottolineare in modo esplicito che «non è un’associazione antireligiosa», ma che ha lo scopo di battersi contro le ingerenze ecclesiastiche, per la laicità dello Stato e la tutela dei diritti di quei milioni di italiani – dieci, secondo la loro stima – che si definiscono atei o agnostici.
A conferma della credibilità conquistata sul campo dall’Uaar in questi anni, sta anche il fatto che molti esponenti del mondo della cultura e della politica, credenti e non credenti, abbiano risposto positivamente all’invito dell’associazione a dibattere sul tema «Non credenti e credenti: differenti, con identici diritti». Al centro del convegno, che si è svolto il 10 gennaio nella Sala delle Colonne di Palazzo Marini, a Roma, l’esigenza dell’approvazione di una legge sulla libertà religiosa e di coscienza. Esigenza che accomuna non credenti e credenti appartenenti a confessioni diverse dalla cattolica, che vedono il Vaticano come l’asso pigliatutto che impedisce un pluralismo pieno, con pari diritti. «Credenti e non credenti non hanno gli stessi diritti», ha affermato infatti Isabella Cazzoli, responsabile delle relazioni istituzionali dell’Uaar, che ha anche ricordato la richiesta dell’associazione di stipulare un’Intesa con lo Stato. Richiesta che potrebbe apparire a prima vista una provocazione, ma che costituisce in realtà una battaglia di principio tesa a scardinare lo squilibrio di forze tra Chiese e atei prodotto dal sistema delle Intese.
Raffaele Carcano, segretario nazionale dell’Uaar, ha illustrato la «piramide» all’interno della quale sono collocate le varie confessioni: al vertice la Chiesa cattolica, da sola (grazie all’articolo 7 della Costituzione che la pone al di sopra delle altre), poi più in basso le confessioni con Intesa (garantite dall’articolo 8) e ancora più giù quelle prive di Intesa (che rientrano nella legislazione del 1929 sui culti ammessi). In fondo, alla base della piramide, i non credenti. Come è noto, nella Costituzione italiana (a differenza di quella francese) non viene citato in modo esplicito il principio di laicità. Ma – fa notare Carcano – fortunatamente la Corte costituzionale ha riconosciuto come nell’articolo 19, secondo cui «tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa», possa rientrare indirettamente anche la tutela dell’ateismo.
Nel suo intervento, la sociologa Laura Balbo (presidente onoraria dell’Uaar e già ministra delle Pari opportunità) si è domandata come mai in Italia, nonostante l’avanzare della secolarizzazione, non esista una sociologia della laicità, auspicando quindi che la cultura della laicità entri a pieno titolo nello spazio pubblico. Il filosofo della scienza Stefano Moriggi ha citato Aristotele, secondo cui il vero elemento distintivo della polis è la capacità di tenere assieme gente diversa e quindi tollerare queste diversità. Anche Galileo, nel Dialogo sopra i massimi sistemi, sosteneva che la minoranza dovesse sempre avere un diritto di parola nello spazio pubblico. Il presidente di Equality Italia, Aurelio Mancuso, ha lamentato la debolezza nei confronti del Vaticano da parte della politica, compresi gli esponenti che si definiscono non credenti. «Le sinistre italiane – ha detto – sono sempre state più arretrate rispetto al resto d’Europa in tema di diritti civili e laicità».
Per Stefano Levi della Torre, docente di Architettura al Politecnico di Milano ed esperto di ebraismo, nella società di oggi la scelta è tra la divisione in tante comunità identitarie separate e l’integrazione (che significa formare i cittadini della polis), quindi la laicità non può essere solo metodo ma deve diventare «sistema di valori e orizzonti». E ha citato Cesare Beccaria, secondo cui «se si vuole creare una repubblica di famiglie si otterrà una repubblica di autocrazie, mentre la vera repubblica deve puntare sulle persone». Riportando il discorso alla società dei giorni nostri, all’interno di ogni comunità (etnica o religiosa) vanno tutelati i punti di vista dei diversi individui, altrimenti avremo qualcuno che si erge gerarchicamente al di sopra degli altri, pretendendo di rappresentarli, e ne soffoca di fatto la libertà.
Anche il segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero ha ricordato le differenze tra le diverse confessioni e i privilegi sul piano legislativo: situazioni intollerabili che creano sofferenze inutili e dannose. Tra l’altro, le discriminazioni (come per esempio essere costretti a pregare in un sottoscala, perché non si ha diritto ad avere un luogo di culto) finiscono inevitabilmente per alimentare il fondamentalismo. «Io sono valdese – ha detto ancora Ferrero – ma sono anche comunista, sono un maschio, cinquantenne, e sono tante altre cose: l’identità è importante, ma non si può ridurre una persona a un solo aspetto della sua identità, altrimenti si distrugge la possibilità del dialogo».
Il sociologo Khaled Fouad Allam ha fatto notare come nell’Europa di oggi esistano ancora molti esempi di divisione etnica di fatto e ha ricordato il caso recente delle scuole di Mostar, in Bosnia. Divisioni che non possono che alimentare, nella società, una conflittualità permanente pericolosa. Gherardo Colombo, membro del Consiglio d’amministrazione della Rai ed ex magistrato, ha invitato a riflettere sul fatto che spesso pecchiamo tutti di eccesso di fiducia nel progresso quando diamo per consolidati diritti e conquiste che tali non sono affatto. Per Colombo, non bisogna neanche farsi troppe illusioni sui vantaggi che possono portare nuove leggi (compresa quindi anche una sulla libertà religiosa e di coscienza), ma «occorre concentrarsi soprattutto sui cambiamenti culturali, da stimolare con la riflessione e la capacità di porsi i dubbi».
Il senatore di Forza Italia Lucio Malan, che è stato l’ultimo in ordine di tempo a presentare un progetto di legge sulla libertà religiosa, ha messo in guardia dalla facilità con cui a volte si utilizza il termine «laicità», come se sulle questioni eticamente sensibili (fecondazione assistita, interruzione di gravidanza, fine vita, matrimoni gay e così via) ci fosse una posizione laica sempre progressista e una religiosa sempre retrograda. Su ciascuno di questi temi – ha osservato Malan – esistono invece posizioni molto variegate, anche indipendentemente dal fatto di essere credenti o meno o di appartenere a una confessione anziché a un’altra.”
Un po’ meno omicida
Oggi basta questo. Pace.
«Chi crede che l’altro sia per definizione nel torto non ha chiaramente alcun interesse ad ascoltare un punto di vista opposto al proprio. Un dialogo non è il faccia a faccia di un gruppo contro l’altro, in cui ognuno crede di dover dire noi e non io, e di avere la missione di difendere una volontà di potenza contro un’altra. Un dialogo diventa serio
quando il rispetto reciproco va al di là della semplice civiltà, e quando, come diceva Paul Tillich, «il dialogo con l’altro è anche un dialogo con se stessi». Quando si è tanto generosi o lucidi da capire che gli elementi che sono nell’altro sono, potrebbero o avrebbero potuto essere anche in noi stessi. Siamo lontani dal political training, per cui agli indigeni del Sud e dell’Est hanno insegnato a pensare e parlare bene come nella metropoli. Niente a che vedere nemmeno con le intimazioni imprecatorie e rancorose per le quali solo il Nord è colpevole, e di tutto. Qui siamo solidali e corresponsabili, per fare in modo di rendere questo mondo comune, nonostante e con tutte le nostre differenze, un po’ meno omicida di quanto non lo sia già». (Regis Debray)
La forza del perdono e del dialogo
Pubblico un articolo di Renato Farina apparso su Il Sussidiario. Lo consiglio in particolare a quarte e quinte; magari lo riprendiamo in classe. Se qualcuno vuole approfondire il discorso posso imprestare il libro “Un arcobaleno nella notte” di Dominique Lapierre.
“La grandezza di Nelson Mandela non è consistita nel suo essere stato prigioniero in carcere per 27 anni, ma nell’aver perdonato. Un giorno padre Piero Gheddo, profondo conoscitore dell’Africa, diede un giudizio molto duro su quest’uomo mentre stava in prigione, condannato all’ergastolo per la lotta che aveva condotto con la parola ma anche con le armi contro il regime segregazionista dell’apartheid, e che anche da dietro le sbarre guidava. La citazione è a senso, e magari sarà corretta dall’autore. Gheddo, uomo di onestà e saggezza profonde, perciò molto realista, sostenne di non aspettarsi nulla di buono. Infatti Mandela concepiva il cambiamento come esito di una violenza, giustificata e teorizzata, e questo Gheddo riteneva avrebbe portato non alla liberazione ma alla devastazione.
Cosa accadde invece? Mandela seppe perdonare. Io non so trovare altra formula. Introdusse in un continente votato alla legge del sangue che chiama altro sangue, in nome del riscatto dall’ingiustizia, il perdono come categoria politica. La sua grandezza è consistita in questo. Nell’aver deposto l’odio, e pensato in termini di condivisione e riconoscimento reciproco, rifiutando la logica della violenza come motrice della storia, che pure da marxista aveva abbracciato. Tutto questo è qualcosa di dimenticato. È stato e sarà venerato come liberatore, simbolo della vittoria contro il razzismo, negatore dell’orrida apartheid, tale per cui l’otto per cento di bianchi dominava sul resto della popolazione di neri, possedendo l’80 per cento delle ricchezze sudafricane. Uscito dal carcere, invece di dare corpo al risentimento, e tirare le conseguenze dell’ideologia armata e classista del suo Anc e del partito comunista, puntò alla riconciliazione. Fece prevalere il realismo del bene. Questo gli costò il disprezzo e l’ostilità della vecchia guardia, che non capì la sua scelta. Nel 1993 aveva già 75 anni. Come si fa a cambiare a 75 anni? Diede ascolto a qualcosa che nel cuore dell’uomo esiste ed è più forte persino del sistema di pensiero abbracciato da tanti anni. Credo sia pesato l’amore alla poesia, forse la testimonianza del vescovo anglicano Desmond Tutu. Fatto sta che diede la mano, dopo dure trattative con l’oppressore, usando astuzia e diplomazia, a De Klerk, chi aveva avuto fiducia in questo leader considerato dagli afrikaners, i bianchi sudafricani residenti in quella terra da secoli, come un pericoloso criminale, ormai troppo più potente di loro, anche perché godeva di una popolarità universale.
Aveva scontentato i suoi, Nelson Mandela, eleggendo come suo braccio destro un leader sindacale nero di estrema lucidità, Cyril Ramaphosa, che non aveva a che fare con chi aveva agito nella clandestinità con le armi. Cominciarono a parlar male di lui, i compagni, lo trattarono da rammollito. Mandela ebbe il coraggio di proteggere gli impiegati e i funzionari bianchi che i suoi dell’Anc volevano cacciare e magari punire, ha tenuto anche quelli della sua scorta personale, una decisione presa imponendosi al suo partito. La sua scelta forte fu indecente, agli occhi del marxista che come tale fu premiato dal regime sovietico nel 1962 come rappresentante della pace “rossa”: non nazionalizzò le risorse minerarie immense fatte di oro e diamanti. Con ciò evitò la guerra civile.
Non è difficile poi individuare errori e contraddizioni nella sua condotta di presidente. Il suo Sudafrica vendette armi ai Paesi vicini, che naturalmente le usarono; intorno a lui, protetti dal manto della parentela, famigliari commisero delitti? Eccetera. Di certo se non fosse stato per “Madiba”, il suo nome Xhosa, la sua etnia, molti che per varie ragioni lo criticano non potrebbero farlo per la semplice ragione che non sarebbero vivi… Che ne sarà ora del Sudafrica senza di lui? Molti scommettono che accadrà di quel Paese come per la Jugoslavia dopo Tito. Il dittatore comunista, anche durante la sua lunga e artificiale agonia, tenne unito uno Stato che poi esplose in una carneficina da 200mila morti. Ma Mandela non volle essere dittatore né essere più comunista. E questo vuol dire. La sua scelta di riconciliazione resta un fatto, è un patrimonio lasciato alla libertà di singoli e masse. Certo, le grandi potenze giocheranno, ora, senza più timore del peso del giudizio di Mandela sull’opinione pubblica e sui leader mondiali, la loro partita per intestarsi le ricchezze stupefacenti del Sudafrica. Cina e America alimenteranno guerre e conflitti sociali, che covano ad esempio nella bellissima (in centro) e tremenda (in periferia) Johannesburg. Ma è impossibile che l’icona di questo grande non vegli, se Dio vuole, sul suo amato popolo, custodendolo. Ma dicono che sia follia sperarlo.”
Lo straniero e le religioni
António Guterres, alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), un anno fa, aveva chiesto ai capi religiosi presenti a un dialogo su “Fede e protezione”, un “Codice di condotta per capi religiosi”. Questa settimana, a pochi chilometri da qui, a Vienna si sta riunendo l’assemblea di Religions for Peace, all’interno della quale è stato reso noto un documento alla cui stesura, tra gli altri hanno collaborato il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, Islamic Relief Worldwide, la Federazione mondiale luterana e l’Unione mondiale evangelica, il Centro di studi hindu di Oxford e il Consiglio mondiale delle chiese.
La prima parte del documento, che allego in pdf, riporta gli impegni dei capi religiosi, mentre la seconda mostra l’importanza, nelle diverse religioni, dell’accoglienza dello straniero.
La notizia l’ho tratta da un aticolo di Roberta Leone su Vatican Insider.
Un incontro che si fa ponte
“Paolo non dice agli ateniesi: ‘Questa è la enciclopedia della verità. Studiate questo e avrete la verità, la verità!’. No! La verità non entra in una enciclopedia. La verità è un incontro; è un incontro con la Somma verità: Gesù, la grande verità. Nessuno è padrone della verità. La verità si riceve nell’incontro. Il cristiano che vuol portare il Vangelo deve andare per questa strada: sentire tutti! Ma adesso è un buon tempo nella vita della Chiesa: questi ultimi 50 anni, 60 anni sono un bel tempo, perché io ricordo quando bambino si sentiva nelle famiglie cattoliche, nella mia: ‘No, a casa loro non possiamo andare, perché non sono sposati per la Chiesa, eh!’. Era come una esclusione. No, non potevi andare! O perché sono socialisti o atei, non possiamo andare. Adesso – grazie a Dio – no, non si dice quello, no? Non si dice quello no? Non si dice! C’era come una difesa della fede, ma con i muri: il Signore ha fatto dei ponti. Primo: Paolo ha questo atteggiamento, perché è stato l’atteggiamento di Gesù. Secondo: Paolo è consapevole che lui deve evangelizzare, non fare proseliti. I cristiani che hanno paura di fare ponti e preferiscono costruire muri sono cristiani non sicuri della propria fede, non sicuri di Gesù Cristo.” (Papa Francesco nell’omelia della messa della mattina dell’8 maggio 2013)
Chissà se ora che l’ha detto il papa tanti costruttori di muri si trasformano in costruttori di ponti…
A chiglia capovolta
Metto insieme due citazioni che ho scoperto oggi e che mi fanno riflettere molto: una questione di stile, di approccio alla realtà e agli altri…
Scrive il francese Edouard Glissant “Rivendico il diritto all’opacità, ossia a non essere compreso totalmente e non comprendere totalmente l’altro. Ogni esistenza ha un fondo complesso ed oscuro che non può e non deve essere attraversato dai raggi X di una pretesa conoscenza totale. Bisogna vivere con l’altro e amarlo, accettando di non poterlo capire a fondo e di poter essere capiti a fondo da lui”
Nell’Antigone, Emone si rivolge al padre Creonte: «Non trincerati nell’idea che solo ciò che dici tu, e niente altro, sia giusto. Quanti presumono di avere sempre ragione, o di possedere una lingua e un animo superiore, ebbene una volta scrutati a fondo, rivelano il loro vuoto interiore. Anzi fa onore a uomo, per quanto saggio sia, continuare a imparare senza chiudersi nell’ostinazione. Sai bene come lungo i torrenti gonfiati dalle piene invernali gli alberi che si piegano conservano i rami, mentre quelli che resistono finiscono divelti con tutte le radici. E parimenti il marinaio che tiene troppo tese le scotte, senza mai allentarle, fa rovesciare l’imbarcazione e si trova a navigare a chiglia capovolta. Coraggio, arrenditi, e concedi al tuo animo un qualche cambiamento. Se io, benché giovane, posso esprimere il mio pensiero, dirò che sarebbe stupendo se gli uomini possedessero per nascita la perfetta saggezza; altrimenti, poiché questo accade ben raramente, è buona norma imparare da chi dice il giusto».
Nella pratica
Un articolo dello scorso 23 gennaio: me l’ero perso. E’ di Riccardo Bruno, l’ho preso dal Corriere.
“Il giovane parroco attende la fine dei versi del Corano. Poi si sfila le scarpe, sale sul tappeto accanto alla bara e inizia la sua preghiera. «Papà mi ha insegnato che esiste un solo Dio, che siamo tutti fratelli». È l’ultimo saluto del figlio ad Adel, arrivato dall’Egitto 34 anni fa. Alla periferia d’Italia, appena prima del confine svizzero, in un cortile tra due file di garage, si celebra un funerale insolito: il figlio Nur, che ha abbracciato la fede cattolica fino a farsi prete, tiene l’orazione funebre per il padre, musulmano osservante e fiero delle sue origini.
Mentre una trentina di arabi invocano «Allah Akbar», Allah è grande, attorno le famiglie
del posto si mescolano alla comunità islamica, e tra loro una decina di sacerdoti cattolici e due suore giunte da tutta la diocesi. «Vale più una giornata come questa che mille convegni sull’integrazione» osserva don Renato Sacco, di Pax Christi, animatore in provincia del dialogo tra le religioni. È stato lui a suggerire di tenere la cerimonia funebre all’aperto, perché il piccolo appartamento che ospita il centro culturale islamico avrebbe contenuto a malapena una decina di persone. Adel Nassar, il padre di don Nur, quando seppe che suo figlio avrebbe indossato l’abito talare non la prese bene. Ma subito dopo lo incoraggiò e lo aiutò. E sicuramente oggi sarebbe contento di vedere come è stato il suo addio alla vita. «Era il suo sogno vedere tutti uniti, musulmani e cattolici. Finalmente quel desiderio si è realizzato» osserva Ali Bouchbika, uno dei primi a credere nella comunità islamica in Val D’Ossola. Adesso sono più di 1.500, soprattutto marocchini, come lui, ma anche tunisini ed egiziani. Un po’ di diffidenza, qualche tensione, alcune battute di politici difficili da digerire, ma in fondo una convivenza pacifica, meglio che altrove.
Il futuro don Nur è cresciuto in questi cortili, sentendo i racconti del padre e dei parenti immigrati, e correndo nell’oratorio che frequentava la madre Ines, infermiera e impegnata nell’associazionismo cattolico. Una famiglia dalla fede profonda, anche se coniugata in due modi diversi. Sempre nel rispetto reciproco. Il frutto di tutto questo è lì, in quella immagine di un giovane prete che a stento trattiene le lacrime per il dolore del padre morto e che prima di tutto si preoccupa di ringraziare «il fratello Said e il fratello Mohammed, che ieri lo hanno lavato e profumato».
Il vescovo di Novara, Franco Giulio Brambilla, manda un messaggio che la comunità islamica apprezza: «La singolare esperienza del padre di don Nur, l’aver voluto bene alla moglie, di diversa religione, non solo gli ha permesso grande attenzione alla coscienza e al cammino degli altri, ma ha ricevuto altresì ammirazione per la rettitudine della sua fede e l’impegno nella sua comunità». Alle quattro della sera, la bara di mogano viene calata dentro la fossa, nel campo del cimitero che è stato da poco riservato ai non cattolici. Adel Nassir è il primo ad essere sepolto lì. Gli addetti del cimitero avanzano con il piccolo trattore per coprire di terra il feretro. Ma gli uomini della comunità islamica li fermano e afferrano le pale, preferiscono fare da soli. Quelli de posto li guardano, sorpresi. Ma presto, anche loro si uniscono.”
Il dialogo tramite Edith
Susanne Batzdorff, raccontando del suo rapporto con Edith Stein, parla del possibile
dialogo tra ebrei e cristiani, proprio a partire dalla filosofa. Tratto da Avvenire.
“Vorrei consegnarvi i miei ricordi di zia Edith Stein: l’ho vista l’ultima volta il 12 ottobre 1933, in occasione del suo quarantaduesimo compleanno, che ha scelto di festeggiare a casa, cioè in casa di sua madre a Breslavia. Era la sua ultima visita, e l’ultimo giorno prima di prendere il treno per Colonia per entrare nel convento carmelitano come novizia. Avevo dodici anni. Mi ricordo chiaramente lo stato d’animo che regnava in casa: mia nonna era malinconica e triste. È stato un momento molto difficile per gli ebrei che dimoravano in Germania.
L’Ordine Carmelitano scelto da mia zia era molto severo e tutti noi ci rendevamo conto che, una volta entrata in clausura, non avrebbe più lasciato il monastero. Era una donna molto decisa. Mia nonna aveva 84 anni ed era, al momento, vigorosa e attiva, ancora in grado di lavorare ogni giorno nella falegnameria, ma non era più in grado o disposta a percorrere grandi distanze. Quindi, noi tutti sapevamo che non avrebbe più rivisto sua figlia. Io e mio fratello, 11 e 12 anni, avevamo cercato di comprendere il dramma che attraversava la nostra famiglia. Zia Edith è sempre stata una figura molto importante per noi tutti: ogni estate trascorreva parte della sua vacanza in casa di mia nonna, una grande casa sotto il cui tetto aspettavamo con tanta impazienza il suo arrivo, perché era sempre disposta ad ascoltarci, a prendere sul serio le nostre preoccupazioni. I miei ricordi di zia Edith si intrecciano con i racconti dei miei genitori, che l’avevano conosciuta durante i suoi anni giovanili. Più tardi, quando zia Edith è entrata nell’Ordine Carmelitano, non potendo più venire a farci visita, ha avviato con noi una fitta corrispondenza epistolare. Ricordo in particolare che le sue lettere erano firmate con il suo nome religioso di Benedetta e ci sembrava che ormai si fosse creata una certa distanza tra noi.
Ricordo la sua beatificazione a Colonia nel 1987. Mi sono recata alla cerimonia per il grande amore che ci ha sempre legate: non ha mai dimenticato le sue radici ebraiche tanto da rimanere sempre solidale con il suo popolo; non ha mai cercato di fare proseliti tra i membri della sua famiglia o con gli amici. Quella cerimonia è stata per me un memoriale per Edith e la sorella Rosa. Mi recai alla cerimonia per il mio popolo ebraico, per testimoniare che ci sono ebrei devoti nella famiglia di Edith Stein; che Hitler non poteva distruggere tutti noi e che non poteva fare a meno della vita ebraica. Tali motivi, per me, erano buoni e sufficienti. Le azioni di papa Giovanni Paolo II hanno dimostrato il suo sincero desiderio di rendere sempre più proficuo il dialogo con gli ebrei e con Israele. È riuscito a costruire ponti fino a quel momento inesistenti: nel 1986, ha compiuto il grande gesto di far visita per la prima volta alla grande sinagoga di Roma; nel 1993, ha stabilito relazioni diplomatiche tra il Vaticano e Israele e nel 1994 ha sponsorizzato un concerto in Vaticano, per commemorare la Shoah. Queste azioni e le dichiarazioni sono state accolte con grande riconoscenza in ambito ebraico. In occasione della breve udienza con Giovanni Paolo II, ho avuto il privilegio di presentargli una copia del mio libro da poco pubblicato, Aunt Edith; the Jewish Heritage of a Catholic Saint, scritto per descrivere l’ambiente familiare in cui era cresciuta zia Edith, l’ambiente ebraico e l’eredità che nostra nonna ci ha trasmesso; libro attraverso cui ho cercato di presentare la mia amata zia nel contesto della sua grande famiglia. È scritto interamente dalla prospettiva di una nipote, la cui infanzia è stata illuminata dalla sua presenza radiosa durante le sue visite troppo brevi nella casa paterna.
Un amico anziano, un sacerdote di 90 anni, ha detto che se Edith Stein potesse essere il mezzo per promuovere il dialogo fecondo tra le nostre due religioni, e se quindi si arrivasse ad un rapporto più armonioso, lei realizzerebbe un miracolo più grande di quello per il quale è stata canonizzata. Credo che il miracolo possa essere raggiunto solo da noi, cristiani ed ebrei, parlando tra di noi, lavorando insieme. Edith Stein può essere un catalizzatore, ma è a noi stessi che dobbiamo guardare per lavorare insieme. Cristiani ed Ebrei hanno già percorso una lunga strada verso l’avvicinamento e una migliore comprensione, ma il nostro lavoro non è finito. Dobbiamo avere una mentalità aperta, concedendo gli uni agli altri il diritto di essere diversi.”
Credere

Segnalo questo incontro a chi può: domani sera. Ne avevo già parlato qui.
Centro Balducci, Zugliano
Martedì 27 novembre, ore 20.30
Una scienziata atea che ha appena compiuto novant’anni e un prete di frontiera sempre pronto a lottare dalla parte dei più deboli si interrogano sui valori fondamentali che orientano l’azione umana e sui temi del vivere quotidiano: il senso della fede oggi, l’etica, il significato del progresso, il future dei giovani, le forme dell’amore, la vita e la morte, l’impegno civile e la politica, le questioni ambientali e sociali, il lavoro e la giustizia.
Il diavolo e l’acqua santa :-)
Oggi, sul Messaggero Veneto un articolo che precede la serata di martedì prossimo a Zugliano: un dialogo tra Margherita Hack e Pierluigi Di Piazza.
“C’è una vivace ricchezza di affermazioni e idealità, una disponibilità inesausta al coinvolgimento, un doppio sunto biografico fitto di aneddoti, in questo Io credo, lunga chiacchierata tra un prete, Pierluigi Di Piazza, e un’astronoma atea, Margherita Hack. Ma c’è soprattutto il senso di forza e di speranza che promana dal dialogo, forma prima della relazione umana. Un libro di testimonianza maturato dopo vent’anni di incontri, «quasi come un conto da saldare, un dono da offrire, uno sguardo alto, antidoto alle bassezze di questi tempi di inganni e di crisi, di incertezze e di mancanza di valori», racconta la curatrice Marinella Chirico, giornalista Rai, che ha organizzato i tête-à-tête, conducendo e sviluppando il confronto per aree tematiche, e restituendolo poi nel volume oggi in libreria per i tipi di Nuovadimensione.
In questa intervista parallela, Pierluigi e Margherita («diavolo e acqua santa», come dice ridendo quest’ultima), ne riassumono in breve alcuni punti.
– A legarvi, prima di tutto, il nome di Balducci.
P.:«Ha avuto intuizioni straordinarie, Balducci, in anticipo sui tempi: l’“uomo inedito” con le potenzialità positive non ancora emerse, la fede che vive della fede vissuta, la necessità, per tutte le religioni, di aprirsi e affrontare le sfide dell’oggi sulla giustizia e sulla pace. È stato un profeta anche sulla salvaguardia dell’ambiente: diceva che San Francesco dialogava con la natura perché non aveva l’occhio predatorio di chi vuole impossessarsene. È venuto alcune volte in Friuli; e quando è scomparso gli abbiamo intitolato il Centro di accoglienza e promozione culturale per riprenderne le intuizioni, le riflessioni, le prospettive».
M.: «Grand’uomo. L’ho conosciuto tramite Gozzini, che è stato uno dei più importanti fautori del dialogo tra cattolici e comunisti italiani. Era stato compagno di Aldo, mio marito, all’università di Firenze. Poco prima di morire per i postumi di un incidente d’auto ci eravamo trovati a Trieste, dove era venuto a fare una conferenza al Circolo Che Guevara, che allora dirigevo. Mi chiamava “la mia cara atea”».
– Dal libro emerge una grande consonanza sull’etica. Si può dire che uno cerca il bene dell’uomo in nome di Dio e l’altra in nome dell’uomo?
M.: «Io credo nella libertà e nella giustizia. La mia filosofia si riassume nel “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” e nell’“Ama il prossimo tuo come te stesso”. Sento quindi il dovere etico di andare incontro a chi è più debole, più povero, più sofferente. Non credo alla natura divina di Gesù, ma lo considero il primo socialista, e probabilmente la più grande figura mai apparsa nella storia umana».
P.: «Io credo in Dio. Ma va precisato in quale. Perché c’è il Dio dei ricchi e quello dei poveri, il Dio di chi vuole la guerra e quello di chi vuole la pace, di chi è razzista e di chi accoglie, di chi è corrotto e mafioso e di chi combatte mafie e corruzione, di chi sfrutta e inquina l’ambiente e di chi lo difende. Credo nel Dio di Gesù, che ci impegna ad accogliere l’altro e a lottare per un’umanità più giusta».
– A unirvi è anche l’anticlericalismo…
P.: «Mi chiedo se la Chiesa, quando si erge a istituzione, non si allontani dall’insegnamento di Gesù di Nazaret, e questo è il solo male che deve davvero temere. La più grave bestemmia è nominare Dio per legittimare il potere, anche il più corrotto, spietato e omicida. E in questo senso mi piacerebbe essere ateo nei confronti del potere, come sono stati definiti i primi cristiani dell’impero romano».
M.: «Io dico che la Chiesa-istituzione spesso allontana dalla religione. Ha struttura imperialista, con un capo assoluto, centri di potere in tutto il mondo, e metà dei cittadini – le donne – con diritti dimezzati. Le femmine non potranno mai fare i preti perché Gesù era un uomo, ha detto un Papa. Allora nemmeno i neri, perché il Cristo era bianco».
– La regole della Chiesa, come le vivete?
M.: «Da atea, posso condividere quelle in armonia con il già citato “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Che, ad applicarlo, renderebbe inutili tutte le regole e tutte le religioni».
P.: «A prevalere sono state le interpretazioni negative e utilitaristiche. Non fare così, essere in regola per non attirare il castigo di Dio, al massimo per limitare il male. A esempio, il “Non uccidere” basta? Io credo che debba discenderne un rispetto attivo verso tutte le persone e tutti gli esseri viventi. I comandamenti vanno riletti in senso positivo. E occorre la gratuità, la spinta dell’amore. Il Samaritano è mosso dalla compassione, non da un ragionamento di convenienza sui premi e sulle punizioni nell’aldilà».
– A dividervi non è il “fare” in vita, ma l’atteggiamento verso la morte e il dopo morte?
M.: «Non credo ci sia un aldilà. L’atomo di idrogeno è praticamente immortale, e le molecole che oggi sono Margherita Hack si sparpaglieranno nell’atmosfera, serviranno a costruire altre persone o oggetti, chissà… Ma io non ci sarò più. Vedo il cervello come un hardware, e l’anima come un software che non gli sopravvive. La morte non mi fa paura, la perdita dell’autosufficienza e l’accanimento terapeutico sì».
P.: «Dobbiamo assumerci una maggiore responsabilità verso la vita, perché troppo spesso la morte è provocata. Dalla fame, dall’ingiustizia, dalle guerre. La morte è rottura delle relazioni umane di cui è tramata la vita. Ed è il cuore del mistero: credo che in quel momento la vita venga accolta, sebbene non sappiamo spiegare dove e come. Non è una fiducia irrazionale, è un pensiero che avverto indimostrabile ma ragionevole. Nella morte è il senso primo dell’affidamento a Dio, hanno detto Küng e Martini. Come annunciano le Scritture, vedremo il volto di Dio, anche se non possiamo sapere quale sarà. Né quale sarà il nostro volto».
– Un’ultima domanda: al confronto per le primarie del centrosinistra c’è Bersani che assume a modello Papa Giovanni, e Vendola che sceglie Martini. Che ne pensate?
P.: «Se non c’è strumentalità nelle dichiarazioni, i modelli sono profondamente significativi per tantissime persone: per la fede incarnata nella storia la disponibilità alle persone, il servizio al bene dell’umanità a cominciare da poveri, deboli, emarginati».
M.: «E Renzi chi ha scelto? Ah, Mandela e Alina, la blogger tunisina che lotta per i diritti delle donne… Che dire? Sono scelte loro, comunque di persone degne, tutte e due».
Per mano
Una breve notizia positiva presa da Asianews. E’ un bel segnale anche se non riesco a capire quante persone siano state coinvolte.
Faisalabad (AsiaNews) – Una marcia islamo-cristiana per chiedere la fine delle violenze contro le minoranze religiose, il rispetto dei diritti umani e la fine degli attacchi personali contro giornalisti, donne e lavoratori innocenti. È l’iniziativa promossa dalla società civile di Faisalabad (nel Punjab), all’insegna del motto “La non-violenza per una coesistenza pacifica”. Promotori della marcia le organizzazioni Peace and Human Development (Phd Foundation), guidato dal leader cristiano Suneel Malik, e la Association of Women for Awarness and Motivation (Awam), della leader cristiana Naseem Anthony. La manifestazione per le vie della città si è svolta il 2 ottobre scorso, in concomitanza con i festeggiamenti per la nascita del Mahatma Gandhi; proprio in quel giorno si celebra a livello internazionale la Giornata per la pace e la non-violenza, indetta per la prima volta nel 2007, secondo i principi ispiratori della politica del leader indiano assassinato da un estremista indù nel 1948. I dimostranti, cristiani e musulmani uniti, hanno condannato ogni forma di violenza, torture e discriminazioni perpetrate in nome della religione. Essi hanno anche condannato gli attacchi alla sensibilità dei fedeli, citando il caso del film anti-islamico “L’innocenza dei musulmani” che ha seminato morte e devastazioni in tutto il mondo.
Interpellato da AsiaNews il leader di Phd Foundation Suneel Malik sottolinea che “lo Stato deve promuovere pace e armonia” e per raggiungere l’obiettivo è necessario “un tavolo di negoziati” fra le varie fazioni. Naseem Anthony, di Awam, denuncia “gli omicidi dei giornalisti che cercano di raccontare la verità dietro i fatti” e sottolinea come la professione sia ormai considerata foriera “di morte” in Pakistan. Il politico musulmano Arif Ayaz lancia un appello al governo, perché “rispetti e promuova le diversità etniche, religiose, linguistiche e culturali” che compongono il Paese, per creare un vero “clima di armonia”. Nasreen Bukhari, sindacalista musulmano, spiega che “una cultura della non-violenza può essere resa possibile solo se ciascun individuo – parte dell’intera società – persegue l’obiettivo” della pace e dell’armonia sociale. Infine l’attivista Asghar Shaheen, di fede islamica e impegnato a difesa dei diritti dei lavoratori, secondo cui “lo Stato deve garantire il rispetto della legge” e al contempo “proteggere i diritti dei gruppi emarginati, come minoranze, operai, donne, bambini e disabili”.
Religioni, laicità, etica, razionalità: prove di dialogo
Pubblico sul blog questo articolo preso da Asianews. In alcune classi lo abbiamo già commentato, in altre lo faremo nei prossimi giorni. Offre molti spunti di riflessione. L’autore è il gesuita Samir Khalil Samir.
Beirut (AsiaNews) – Ora che le fiammate e gli scontri si sono sedati, possiamo ripensare
alla pubblicazione del film anti-islam (“L’innocenza dei musulmani”) e alle vignette blasfeme su Maometto (pubblicate a Parigi su Charlie Hebdo) per cercare di comprendere cosa ha provocato l’ondata di reazioni violente, che hanno causato la morte di decine di persone, centinaia di feriti e distruzioni senza numero.
Analizzando la situazione, la prima cosa che emerge è che nei Paesi musulmani il concetto di libertà di espressione è sconosciuto, perché viviamo in regimi che sono in pratica delle dittature, che soffocano questo diritto. Quando qualcuno fa o dice qualcosa, l’intera comunità si sente aggredita e reagisce contro la comunità dell’altro (in questo caso gli Usa per il film; la Francia per le vignette). Tutto questo è assurdo ma comprensibile, perché le comunità islamiche, in genere, non hanno ancora scoperto e sperimentato la libertà individuale di coscienza e di parola.
Un altro punto da mettere in luce è il tipo di reazione: a un discorso si risponde con un discorso, a un’immagine con un’immagine; alla violenza si può rispondere con la violenza… Ma non vi è alcun diritto a rispondere ad un film con la violenza di cui siamo stati testimoni. Il film è sì violento, ma di un altro tipo di violenza, che ha bisogno di una qualità diversa di risposta. Il trailer del film che ho visto è di una grande mediocrità ed aggressivo. L’aggressività, eticamente non è una cosa buona, ma la gente ha diritto di aggredire almeno a parole. E questo almeno finché non c’è un accordo internazionale che dica che le religioni sono un argomento tabù. In tal caso questa aggressività diviene illegittima. Andando più a fondo, dobbiamo ricordare che nel mondo musulmano in cui viviamo è presente una frustrazione grandissima perché ci sentiamo molto in ritardo riguardo al resto del pianeta, mentre una volta eravamo molto avanzati; eravamo i pionieri in tante scienze: astronomia, matematica, medicina, filosofia, ecc. Questo ci rende vulnerabili e ipersensibili a qualunque cosa: basta che qualcuno faccia anche una velata allusione alla nostra situazione, e noi ci sentiamo aggrediti. Dobbiamo imparare a convivere con le nostre frustrazioni. Purtroppo, fra di noi ci sono pure persone che usano queste emozioni del mondo musulmano, ampliate dall’ignoranza e dalla povertà, per andare contro l’occidente, per motivare questa lotta. Invece varrebbe la pena guardare le cose con più razionalità, rispondendo secondo ragione alle accuse e alle aggressioni, mostrando loro le ingiustizie e le falsità che commettono.
L’occidente, da parte sua, invece di aiutarci ad educare questa sensibilità estrema, cerca di limitare la libertà dei suoi membri. La libertà non deve essere limitata. Però l’individuo deve imparare che la provocazione e l’aggressione spirituale non portano frutto. Tanti ora invocano “più senso di responsabilità dei Paesi occidentali”. Ma nel caso del film non è implicato nessun Paese occidentale o governo: esso è l’opera di un individuo o di un gruppo di individui; negli Stati Uniti vi è libertà di esprimersi finché non si fa del torto a persone o comunità. Non dobbiamo limitare la libertà. Dobbiamo avere più etica, questo sì. Limitare la libertà perché noi, nel mondo arabo, non la sopportiamo, è inaccettabile! Dobbiamo imparare a usare dello spirito critico in tutti i campi, compreso il campo religioso. Finché non avremo imparato ad usare lo spirito critico verso i nostri testi sacri (Bibbia, Vangelo, Corano, ecc.), non potremo dialogare, e ancor meno liberarci dal nostro fondamentalismo.
D’altra parte, è falso pensare che l’Occidente sia il solo a criticare l’altro (in questo caso l’Islam). Il mondo islamico critica tutti i giorni l’Occidente. Il problema è nel modo di farlo. Calunniare l’altro, dire il falso, non fa parte della libertà della persona. Questo film comporta anche calunnie e falsità, accanto agli elementi di verità. E questo non è etico. Ma anche il mondo islamico deve fare il suo esame di coscienza. Ad esempio, ogni giorno l’islam attacca cristianesimo e ebraismo nei libri – anche nei libri scolastici -, e nei discorsi degli imam, insegna spesso falsità, eppure nessuno dice nulla. Un esempio: tutti i giorni sentiamo dire che “la Bibbia è stata manipolata, e falsificata (tahrif al-Ingil)”, senza mai dare la minima prova della falsificazione. Ma questa è un’offesa verso ciò che noi abbiamo di più sacro! Oppure dicono su Gesù Cristo cose che sono non vere. Ma loro le annunciano, le ripetono, le propagano. I musulmani (come i cristiani, gli ebrei, e tutti quanti) devono imparare ad essere più ragionevoli, e noi – in questo caso noi cristiani – dobbiamo imparare il diritto a rispondere a queste accuse e falsità con argomenti razionali.
Seguendo Benedetto XVI, dobbiamo superare il momento dell’emozione e della reattività, per affermare la ragione. Qui, la parola ‟ragione” è quella che lui ha definito nel suo discorso a Regensburg, che comprende la dimensione spirituale ed etica. Il papa afferma che l’occidente ha separato la razionalità dalla sua dimensione spirituale ed etica. E questo si vede in questo filmetto o in queste vignette; ma il mondo musulmano, a sua volta, ha svuotato la fede della razionalità e naviga solo nell’emozionale. In tal modo il conflitto fra culture e civiltà è inevitabile. Per uscire da questa situazione ognuno ha un passo da fare, ma non posso impedire la libertà, né ridurla, rimanendo inteso che nessuno ha la libertà di calunniare e di dire il falso. Agli occidentali, devo dire: dovete correggere la vostra razionalità con un minimo di etica; e ai musulmani, che devono correggere la loro religione ampliandola alla razionalità e all’universalità. Nei discorsi svolti durante la sua visita in Libano e nell’esortazione apostolica Ecclesia in Medio Oriente, Benedetto XVI parla di laicità sana e di fondamentalismo (nn. 29 e 30), che sono i problemi di cui stiamo discutendo. Il papa dice che occorre un equilibrio fra politica e religione, senza escludere nessuna delle due. La laicità sana permette un legame fruttuoso fra il politico e il religioso. Il Libano sembra più aperto a questa doppia dimensione dando spazio ad ogni gruppo religioso e nello stesso tempo garantendo una legge comune a tutti, che aiuta la convivenza. Questo modello può aiutare i Paesi arabi e musulmani, dove spesso politica e religione coincidono, eliminando la libertà, Ma può aiutare anche l’occidente, che nella visione secolarista ha eliminato il religioso.
Ora vi sono diverse organizzazioni che chiedono misure internazionali per frenare questi casi di offese alle religioni. Il gruppo più importante che ha fatto questo passo è l’Organizzazione dei Paesi islamici. Ma i Paesi islamici rischiano di usare queste direttive anti-blasfeme come avviene in Pakistan, attaccando tutti coloro che non sono musulmani (cristiani, indù, sikh, baha’i, ecc..). Se vogliamo dare alcune direttive generali per non offendere le religioni, siamo d’accordo; ma se questo significa tagliare le ali della libertà e della ragione, per cui non si può più parlare di elementi da correggere in una religione o un’altra, non sono d’accordo. Per questo è molto pericoloso accettare questa proposta, ma è anche vero che dobbiamo metterci d’accordo a livello universale sul rispetto dei diritti umani, compresi quelli religiosi. Cominciamo ad applicarli in modo totale, dato che né in occidente, né nel mondo islamico i diritti umani sono applicati in pienezza, sebbene in occidente ci sia qualcosa di più. Purtroppo, nei Paesi islamici, ad esempio, la libertà di coscienza è inesistente. Secondo la legge islamica, un musulmano che si converte all’ebraismo, al cristianesimo o a un’altra religione, merita la morte. Ma questo è contrario alla Carta universale dei diritti dell’uomo. Addirittura, i musulmani hanno scritto una loro ‟Carta islamica dei diritti dell’uomo”; ma se è “islamica” non è più universale!
Ogni religione deve portare il suo contributo alla riflessione ma per arrivare tutti insieme, religiosi e atei, a un nuovo umanesimo. Questo è lo sforzo che si fa all’Onu o all’Unesco. Tale sforzo deve essere potenziato.
Dialogo o rischio di monologo?
Altro articolo molto interessante preso da Avvenire. E’ di Roger Etchegaray.
Non penso di essere il solo a porre questo duplice interrogativo (Islam, chi sei? Islam, dove sei?) e la mia domanda è quella di un cristiano che ha sempre portato uno sguardo amichevole sui musulmani e che ora manifesta qualche perplessità sull’islam stesso. Un islam o i mille e uno islam? Trovo un’ampia scelta di analisi, sia tra i professori e gli esperti che hanno prodotto un’abbondante letteratura, sia tra i partner avuti nei colloqui da Istanbul a Khartoum, da Rabat a Giacarta.
Ho riflettuto molto sui rapporti islamico-cristiani. Li considero molto complessi e nevralgici a causa del peso della storia ma soprattutto per via della natura stessa delle due religioni, che in fin dei conti sono molto più dissimili di quanto non si pensi abitualmente. Cosciente dei dibattiti all’interno dell’islam, vorrei assicurare i musulmani, figli di Abramo come me, dei miei sforzi costanti per comprendere la loro fede e associarmi alla diagnosi instancabile del cardinale Tauran: «Chiarire l’evoluzione dell’islam, le sue diverse componenti e i fattori interni che li mettono in movimento, con le loro ricadute positive e negative sulle nostre due comunità; è più ancora di una necessità, è una realtà quotidiana sotto i nostri occhi» (Amman, 21 maggio 2009). L’islam, con più di un miliardo di adepti, rappresenta con il cristianesimo il patrimonio religioso più considerevole che l’umanità abbia mai elaborato. Sono tutti e due a vocazione universale e l’islam, nato dopo il cristianesimo, pretende di ampliare e inglobare il messaggio biblico. L’ora del dialogo islamico-cristiano suona oggi con la forza di un campanone, poiché alcune derive islamiche e diversi attentati terroristici hanno recentemente sfigurato il volto dell’islam e hanno fatto dimenticare la qualità dei suoi valori religiosi. Grazie ad amici come Gilles Kepel capisco meglio che siamo tutti sulla stessa barca: gli uni e gli altri, per cammini diversi, abbiamo da fronteggiare insieme il problema della «modernità» e Allah sa quanti ostacoli incontri l’islam per riformarsi, per rinnovarsi, non dico in modo “conciliare”, perché non beneficia di alcun magistero di esegesi, né di regolamentazione. Cinque volte al giorno, un buon musulmano si prosterna per testimoniare pubblicamente che «tutto è sacro ma niente deve essere adorato se non Dio». Come potrebbe un buon cristiano non avvicinarsi a lui con il Vangelo della misericordia di Dio?
Dopo le primavere arabe la stessa libertà religiosa dei cristiani di Oriente che vivono in Paesi islamici deve essere tutelata: temono per la loro permanenza su una terra che abitano da millenni, soprattutto quando constatano che la «primavera» è seguita e minacciata dai rigori di un inverno portato da correnti estremiste. Oggi tutta la comunità internazionale deve mobilitarsi per aiutare la Nigeria (il Paese più popolato dell’Africa) colpita, nelle provincie musulmane del nord, dalla violenza settaria contro le comunità cristiane che si raccolgono per il culto la domenica. Qui la violenza dei primi suscita la violenza degli altri. Il problema della libertà religiosa occupa attualmente il primo posto in molti Paesi, non solo per quanto concerne la legittima reciprocità, ma di per se stesso. È un aspetto fondamentale della libertà di coscienza delle persone e della sicurezza dei popoli. Nel gennaio 2012, una Ong protestante «Porte aperte» ha pubblicato un «Indice mondiale delle persecuzioni». Il 75% delle vittime sono cristiani, senza dimenticare l’ondata di esazioni e di esclusioni che subiscono, in certi Stati dell’India, i musulmani da parte dei buddhisti. È bastata un’accusa di blasfemia perché un ministro cattolico in Pakistan, Shahbaz Bhatti, fosse assassinato il 2 marzo 2011. I perseguitati di tutti i Paesi e di tutte le religioni, coraggiosi nella loro fede, attendono da noi una costante solidarietà. In cambio, il loro esempio diventa un aiuto perché la lotta per la fede è portata avanti ovunque sotto la stessa insegna. Lo scorso 18 giugno, a Tunisi, il cardinale Scola, arcivescovo di Milano e promotore della Fondazione «Oasis», è intervenuto sul tema: «La religione in una società in cambiamento». Cristiani o musulmani, non siamo forse tutti in un periodo di transumanza verso nuovi orizzonti?
Fondamentalismo falsificazione della religione
Il papa per tre giorni sarà in Libano, proprio nel momento in cui nel mondo sta esplodendo la rabbia contro il film su Maometto. Riporto qui due domande che sono state poste a Benedetto XVI e le sue risposte.
Un gran numero di cattolici manifesta inquietudine davanti alla crescita dei fondamentalismi in varie
regioni del mondo e davanti alle aggressioni delle quali sono vittime molti cristiani. In questo contesto difficile, come può la Chiesa rispondere all’imperativo del dialogo con l’Islam, sul quale lei ha più volte insistito?
«Il fondamentalismo è sempre una falsificazione della religione, è contro l’essenza della religione che vuole riconciliare e creare la pace di Dio nel mondo. E dunque il compito della Chiesa e delle religioni è: purificarsi. Una auto-purificazione delle religioni da queste tentazioni è sempre necessaria. Ed è nostro compito illuminare, purificare le coscienze, rendere chiaro che ogni uomo è un’immagine di Dio e noi dobbiamo rispettare nell’altro non solo la sua alterità ma nell’alterità l’essenza comune, d’essere un’immagine di Dio, dobbiamo trattare l’altro come immagine di Dio. Dunque il messaggio fondamentale della religione è d’essere contro la violenza che è una falsificazione, come il fondamentalismo. Deve essere per l’educazione e l’illuminazione e la purificazione delle coscienze, per renderle tolleranti, capaci di dialogo, riconciliazione e pace».
Nel contesto dell’onda del desiderio di democrazia che si è messa in moto in tanti Paesi del Medio Oriente con la cosiddetta “primavera araba”, data la realtà sociale della maggioranza di questi Paesi in cui i cristiani sono minoranza, non c’è il rischio di una tensione inevitabile tra il dominio della maggioranza e la sopravvivenza del cristianesimo?
«Direi che di per sé la primavera araba è una cosa positiva: è il desiderio di più democrazia, di più libertà, di più cooperazione, di una rinnovata identità araba. E questo grido della libertà che viene da una gioventù più formata culturalmente e professionalmente, che desidera più partecipazione nella vita politica e nella vita sociale, è un progresso, una cosa molto positiva e salutata come tale anche da noi cristiani. Naturalmente dalla storia delle rivoluzioni noi sappiamo che il grido della libertà, così importante e positivo, è sempre in pericolo di dimenticare un aspetto e una dimensione fondamentale della libertà, cioè la tolleranza dell’altro e il fatto che la libertà umana è sempre una libertà condivisa, che solo nella condivisione, nella solidarietà, nel vivere insieme con determinate regole può crescere. E questo è sempre il pericolo, così anche in questo caso e dobbiamo fare tutto il possibile perché il concetto di libertà, il desiderio di libertà vada nella giusta direzione, non dimentichi la tolleranza, l’insieme, la riconciliazione come parte fondamentale della libertà. E così anche la rinnovata identità araba implica, penso, anche il rinnovamento dell’insieme secolare, millenario, di cristiani e arabi che proprio insieme, nella tolleranza di maggioranza e minoranza, hanno costruito queste terre e non possono non vivere insieme. Perciò, penso, è importante vedere l’elemento positivo di questi movimenti e fare il nostro perché la libertà sia concepita nel modo giusto e risponda al maggioro dialogo e non alla dominazione di uno contro l’altro».



