Il precetto di non invocare il nome di Dio senza un motivo serio viene sistematicamente infranto, specialmente quando la divinità è strumentalizzata negli scontri politici. Questa pratica, benché antica, si rivela di una pertinenza drammatica nel presente. Il saggio più recente del filosofo Silvano Petrosino, professore presso l’Università Cattolica di Milano, intitolato Potere e religione. Sulla libertà di Dio, analizza in profondità le complesse interconnessioni tra queste due sfere cruciali. L’analisi di Petrosino spazia su concetti fondamentali quali il simbolo, la dimensione dell’abitare, l’importanza della cura e l’atto dell’amministrare. Il suo lavoro culmina nell’identificazione delle cause che generano le deviazioni e le patologie del potere, ponendo in luce la totale autonomia del Dio delle Scritture, una figura che non cerca di dominare alcuno e, parallelamente, si sottrae alla manipolazione e all’intrappolamento in riti o schemi umani privi di sostanza. Gianni Santamaria l’ha intervistato per Avvenire.
“Petrosino si muove attraverso autori da lui frequentati da una vita: filosofi, come Levinas, Girard, Blanchot, Cassirer, Rosenszweig e Kierkegaard, indagatori della psiche, da Freud a Lacan e Kristeva, fino a storici e sociologi della religione, da Eliade a Durkheim, biblisti come Beauchamp e Maggioni, grandi poeti come Goethe e Rimbaud. Fino a una citazione fondamentale per l’ossatura del saggio, presa da un autore, Roland Barthes, spesso considerato solo per i Frammenti di un discorso amoroso o per la semiotica della moda, ma che «invece su questi argomenti ha un pensiero molto preciso».
Lei utilizza concetto dell’abitare come cura dell’altro, che però subisce la “fatale attrazione” del diventare possesso: dell’altro, della terra, di Dio. Quali gli antidoti a questa tentazione? «Bisogna prima capire la ragione profonda della questione. Sono stato molto colpito da un’affermazione di Roland Barthes sulla libertà. Questa va intesa – dice – non solo come la forza di sottrarsi al potere, come libertà “da”, ma anche, e soprattutto, come volontà di non sottomettere nessuno. È sorprendente, perché dice che la libertà è non esercitare un potere. Da questo punto di vista – è la tesi centrale del libro – solo Dio è libero, perché, stando alle Scritture, è il solo che non vuole sottomettere nessuno. Il potere in sé non è male. Il problema è perché noi lo esercitiamo per sottomettere qualcuno. Secondo me perché cerchiamo continuamente una conferma alla nostra identità. A lezione faccio sempre l’esempio del bambino che dice ai genitori “guardate che mi tuffo”. Attende un riconoscimento. È un “ditemi che esisto”».
E quello che fanno tanti uomini di potere? «Il potere non va criminalizzato. Anche per fare il bene è necessario il potere. Il problema è che esso si trasforma facilmente in qualcosa di malvagio quando non viene usato per realizzare qualcosa, ma per confermare qualcuno».
È una dinamica che si può applicare anche agli scenari nel mondo di oggi? «È esattamente questo. Il sociologo Enzo Pace dice che la religione viene sfruttata nei momenti di crisi di identità. È interessante in questo senso quello che avviene negli Stati Uniti. Non lo si dice spesso, ma sono in una crisi profondissima, non per l’economia, bensì per il disastro della scuola. In una situazione così, per dare un’identità, Donald Trump usa la religione e il suo universo simbolico. Lo si è visto ai funerali di Kirk: la croce della vedova macchiata di sangue, il tema del martirio, la croce fatta transitare nello stadio. È il sintomo di una debolezza profonda a livello sociale».
Non è l’unico al mondo a usare la religione. «Certo, ma non mi stupisce quando ciò avviene nel mondo islamico, che non ha conosciuto l’umanesimo e la Rivoluzione francese. Mi sorprende che avvenga nell’Occidente cristianizzato. Ogni volta che c’è una crisi politica si gioca il potente jolly della religione. In questo si capisce il grande valore del comandamento “non nominare il nome di Dio invano”. È come se Dio dicesse lasciami fuori dalle tue cose. Non uccidere in mio nome. Non tirarmi in ballo. Ma è esattamente quello che si continua a fare in modo terribile».
In Occidente c’è il duplice movimento del volersi autonomizzare dal potere e dalla religione e allo stesso tempo del sentire il fascino del “Palazzo”, come lei lo chiama. Perché? «L’uomo è questo. Perciò distinguo la religiosità dalla religione. Se la prima non trova forme istituzionalizzate, organiche, non viene certo annullata, ma si manifesta in quello che Roger Bastide chiamava il “sacro selvaggio”. Eliminare dall’umano la dimensione religiosa e quella artistica, che per me vanno sempre insieme, è illusorio. Il problema è che il modo di abitare la religiosità, può sempre deviare, come abbiamo detto, verso il dominio. La religione è un pharmakon, che può aiutare gli uomini a vivere, ma anche avvelenarli. È uno sbandamento strutturale, è il grano e la zizzania.»
Spesso si evocano i “falsi profeti”. «Per questo mi colpisce ciò che avviene negli Stati Uniti, perché l’Occidente in qualche modo aveva superato certi infantilismi: i predicatori, chi fa i miracoli in diretta… Anche chiamare Kirk “martire” è problematico. Gesù in molte parabole evoca una figura legata al tema dell’abitare: l’amministratore infedele. Non si può abitare senza amministrare e non si può amministrare senza legiferare. Ma spesso l’amministratore si concepisce come padrone. E questa è la fine. Il Levitico dice: ricordati che sei in affitto».
A queste derive lei oppone il realismo biblico. Cosa ci insegna? «Bisogna riconoscere con serietà che l’uomo continua a sbandare, che il dominio non è un accidente e non dipende dal fatto che gli uomini sono cattivi, anche se poi alcuni certamente lo sono. E dunque la religione deve continuamente sorvegliarsi per non trasformarsi in una struttura di dominio. Pericolo che è sempre dietro l’angolo. Realismo è riconoscere che, pensando di fare il bene dell’altro, in realtà te lo stai mangiando, lo stai distruggendo. Questo realismo riguarda i singoli, ma a maggior ragione chi ha posizioni apicali: i maestri, gli intellettuali, la gerarchia. Spesso si sentono cose incredibili, visioni finte, opinioni false, non dalla vecchietta o dal passante, ma dal politico, dal filosofo… l’uomo non è così».”
Ormai un classico appuntamento del blog: quello con le Interferenze di Gabriella Greison su Avvenire. Il 14 novembre si è dedicata a Georges Lemaître.
“Georges Lemaître non indossava un camice, ma una tonaca. Non lavorava solo tra telescopi e lavagne, ma anche tra chiese e cattedrali. Era un sacerdote cattolico e, nello stesso tempo, uno dei più grandi cosmologi del Novecento. L’uomo che per primo ha osato dire una frase rivoluzionaria: “L’universo ha avuto un inizio”. Lo chiamavano “il prete che ha inventato il Big Bang”. In realtà lui preferiva parlare di “atomo primitivo”: una minuscola particella cosmica compressa oltre ogni immaginazione che, disgregandosi, avrebbe dato origine a tutto ciò che conosciamo — galassie, stelle, pianeti, persino noi. Quando Lemaître lo propose nel 1931, l’accoglienza fu tiepida se non ostile: Einstein, dopo una sua conferenza, gli disse con l’aria di chi mette un punto: i calcoli sono corretti, ma la fisica è “abominevole”. Non proprio un incoraggiamento. Eppure quel giovane prete belga non si spaventò. Continuò a fare i conti, a immaginare il cosmo come una pellicola che non si srotola solo in avanti ma può essere riavvolta: se oggi vediamo le galassie allontanarsi, allora ieri dovevano essere più vicine, e prima ancora più vicine, fino a un primo respiro, un lampo d’origine. Un universo che si espande implica un’origine, e un’origine cambia tutto. Non più un cosmo eterno e statico, ma una storia. Molti, ancora oggi, faticano a credere che Lemaître fosse entrambe le cose: sacerdote e scienziato. Come se la fede e la ricerca fossero incompatibili per statuto. Lui non vedeva alcuna contraddizione. Celebrare la Messa e scrivere equazioni erano due modi di entrare nello stesso mistero, con due grammatiche differenti. Diceva che tra l’inizio della materia e l’atto della creazione c’è un abisso che la fisica non colma e che la teologia non misura; la fisica racconta il “come”, la fede interroga il “perché”. Due domande diverse, entrambe necessarie. Per questo non usò mai la fede per tappare i buchi della scienza, né la scienza per dimostrare l’esistenza di Dio: manteneva un equilibrio raro, una distanza di rispetto tra i linguaggi. Era convinto che la matematica potesse dire l’universo con una chiarezza che nessun’altra lingua possiede, ma che il mistero del suo perché restasse oltre ogni formula. C’è un fotogramma che amo: Lemaître alla lavagna, gesso in mano, il colletto bianco in evidenza, e quegli occhi da alpinista dell’ignoto. Pochi sanno che prima della “teoria dell’atomo primitivo” c’è un suo articolo del 1927, quasi ignorato, in cui ricava — con naturalezza disarmante — l’idea che lo spazio si stia espandendo e collega la distanza delle galassie alla loro velocità di allontanamento. Quella che poi diventerà la “legge di Hubble” l’aveva già messa nero su bianco lui, con la serenità di chi non ha urgenza di intestarsi i meriti. Non cercava fama, cercava coerenza: se i dati dicono questo, è lì che dobbiamo andare, anche se la filosofia del tempo preferisce un universo. La sua tenacia era quasi monastica: niente clamore, solo lavoro. E quando negli anni ’50 qualcuno provò a trasformare la sua intuizione in bandiera apologetica — “il Big Bang conferma la creazione biblica” — Lemaître fu il primo a frenare: mischiare i piani, semplificare, usare la fisica come prova di Dio, era per lui un errore concettuale e spirituale. “La scienza non ha bisogno di Dio per funzionare. E Dio non ha bisogno della scienza per esistere.” In una riga toglieva secoli di malintesi. Il suo temperamento era così: una spiritualità silenziosa, fatta di dedizione, di studio, di ascolto del cielo. Non predicava dai pulpiti: lasciava che le equazioni diventassero finestre. E mentre il dibattito infuriava tra universi eterni e universi a nascita, tra staticità rassicuranti e dinamiche vertigini, Lemaître continuava a fare ciò che sapeva fare meglio: affinare i conti, interrogare i dati, accettare che il reale potesse essere più audace delle nostre abitudini mentali. L’idea di un “giorno senza ieri” era un terremoto non solo scientifico ma culturale: se il tempo ha una nascita, allora la storia del cosmo è davvero una storia, con un incipit, uno svolgimento, una trama che continua a dispiegarsi. Il che non “dimostra Dio” — Lemaître non lo disse mai — ma ci espone a una domanda più radicale: perché ci sono leggi così fini da permettere stelle, chimica, coscienze? Perché la musica delle costanti fisiche suona nella tonalità giusta per far emergere la vita? La scienza descrive; la spiritualità, se è onesta, non invade ma domanda. C’è anche un’altra immagine: Lemaître seduto a un tavolo di lavoro nell’Università di Lovanio, fuori la luce grigia del Belgio, dentro una lavagna piena. Accanto, non premi e medaglie, ma libri sgualciti. Poteva pretendere riconoscimenti; scelse la discrezione. Più tardi sarebbe diventato presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, proprio perché capace di tenere i ponti aperti senza confondere le sponde. Non cercò mai d’essere protagonista: preferì aprire una strada e sparire ai margini del quadro. E proprio per questo la sua figura oggi risplende: perché ha lasciato spazio all’oggetto del suo amore — l’universo — più che al soggetto che lo raccontava. Se dovessimo definire la sua spiritualità, potremmo chiamarla “spiritualità della ricerca”: lavoro silenzioso, fedeltà ostinata, meraviglia disciplinata. Non dogmi urlati, non scorciatoie. Un credente capace di custodire la trascendenza senza usarla come tappabuchi, uno scienziato capace di amare i limiti del proprio metodo senza trasformarli in muro. Ha accettato che la verità avesse più piani di profondità, che una formula potesse illuminare il come e una preghiera potesse sostenere il perché, senza che nessuna delle due pretenda l’ultima parola. In questo equilibrio sta la sua eredità più grande: la possibilità di abitare due mondi senza scegliere l’esilio. E poi c’è l’epilogo che sembra scritto per il cinema: 1965–66, la scoperta della radiazione cosmica di fondo — quel fruscio termico che ci arriva da ogni direzione, eco tiepida della prima luce — che offre una conferma potente alla visione di un universo caldo e giovane che si espande. Lemaître ne viene a conoscenza poco prima di morire. Non fa proclami, non esulta: sorride con quella compostezza di chi sa che la scienza procede per indizi, mai per trionfi definitivi. È una tappa, non un arrivo. Anche la prova più elegante è sempre una soglia. Lo confesso: quando racconto Lemaître io non sono una semplice cronista. Mi riguarda. Anche io vivo su quel crinale dove la ragione spinge e lo stupore trattiene; dove le equazioni aprono e le domande fanno aria; dove il “come” è una musica che voglio imparare e il “perché” è la vibrazione che non smette di chiamare. Non cerco dimostrazioni travestite da miracoli né miracoli travestiti da dimostrazioni. Cerco un luogo in cui ragione e poesia stiano nello stesso respiro. Per questo, quando parlo della sua teoria, non mi limito alla dinamica dello spazio-tempo che si dilata: sento, nello stesso gesto, una pedagogia del limite. La scienza non tutto può dire; la spiritualità non tutto deve dire. È nel varco tra i due che passa l’aria. Georges Lemaître è morto nel 1966, pochi giorni dopo aver appreso che il cielo conserva ancora, ovunque, la memoria termica della sua nascita. Forse gli bastava: non l’ultima parola, ma un segno. La sua lezione, oggi, suona più necessaria che mai: il cosmo non è un problema da risolvere in fretta, è una storia da contemplare con attenzione. La fisica può dirci come procede; la spiritualità ci chiede perché ci riguarda. Tenere insieme queste due posture — senza confonderle, senza contrapporle — è l’arte sottile che lui ha praticato con una grazia che fa scuola.
E allora, la domanda inevitabile: davanti a un universo che ha avuto un inizio, davanti a un cielo che porta ancora l’eco di quel primo respiro, che cosa ne facciamo noi? Preferiamo archiviare tutto come caso, o sentiamo — anche solo per un istante — che dentro quell’inizio c’è una chiamata alla responsabilità, alla gratitudine, alla ricerca? Siamo disposti a vivere nell’apertura che Lemaître ci ha consegnato — un piede sulla lavagna, un piede sull’altare — senza chiedere all’uno di divorare l’altro, ma lasciando che insieme, finalmente, ci aiutino a guardare più lontano?”
Durante un po’ di zapping su internet mi sono imbattuto in un articolo del Guardian a firma di Kat Eghdamian, “esperta di diritti umani, scrittrice e consulente in materia di religione, etica e giustizia sociale. Con esperienza di lavoro in diversi continenti, esplora come la fede e i quadri morali plasmano l’identità e la società”. Ho utilizzato il traduttore integrato a Chrome. L’argomento? Il ruolo che possono avere oggi le religioni.
“Sono nata in Iran dopo la Rivoluzione islamica del 1979, quando la religione divenne l’architettura della vita pubblica. Ma fu proprio questa fusione di fede e potere a costringere la mia famiglia a fuggire. Fummo perseguitati non per aver infranto la legge, ma per appartenere a una comunità religiosa minoritaria, i Bahá’í – una persecuzione che continua ancora oggi . Questa esperienza mi ha insegnato come la religione possa essere usata per escludere, disumanizzare, dominare. Ma mi ha anche insegnato che ignorare la religione non è la risposta. Oltre l’ 80% della popolazione mondiale si identifica con una religione. Eppure, in molte parti del mondo, soprattutto in Occidente, la religione è trattata come una questione privata, qualcosa che è meglio tenere fuori dalle conversazioni educate o, nel peggiore dei casi, una fonte di divisione e pericolo. Viviamo in un paradosso: un mondo profondamente religioso che sempre più spesso non sa come parlare di religione. Questo silenzio non è neutrale. Crea una sorta di analfabetismo culturale, soprattutto in un momento in cui la religione continua a plasmare la geopolitica, i movimenti sociali e le vite personali, dall’ascesa del nazionalismo religioso alle risposte basate sulla fede alle crisi umanitarie. E in luoghi come gli Stati Uniti, sta diventando ancora più centrale nel dibattito pubblico, spesso con una posta in gioco politica elevata. Come possiamo quindi parlare di religione in un mondo che ha bisogno di chiarezza morale ma teme il linguaggio morale?
La religione come eredità condivisa Un’idea che mi ha aiutato a riformulare il modo in cui parliamo di religione proviene dalla mia fede: il concetto bahá’í di rivelazione progressiva. Insegna che le principali religioni del mondo sono espressioni della stessa realtà spirituale, rivelata in tempi diversi per soddisfare i bisogni in continua evoluzione dell’umanità. Non sono ideologie rivali, ma capitoli di un’unica storia. Non verità diverse, ma diversi riflessi di un’unica verità. Immaginate se ci avvicinassimo alla religione non come a un insieme di fazioni da difendere o da contrastare, ma come a un’eredità condivisa. Cosa succederebbe se smettessimo di chiederci chi abbia ragione e iniziassimo a chiederci cosa stanno cercando di mostrarci: sulla giustizia, l’umiltà, il perdono, l’anima e la sacralità della vita? Questo passaggio – dal dibattito sulle differenze alla ricerca di un significato condiviso – non è solo teorico. L’ho visto funzionare. Nelle comunità di rifugiati in Medio Oriente, ho visto come gli sforzi interreligiosi di base abbiano aiutato le persone sfollate provenienti da contesti religiosi opposti a iniziare a guarire. In un campo in Giordania , donne cristiane e musulmane hanno iniziato a cucinare insieme durante il Ramadan e la Pasqua, organizzando infine banchetti comunitari per l’intera comunità. Non si trattava di programmi istituzionali, ma di silenziosi gesti di dignità e di riparazione, radicati nella fede e nella volontà di vedere l’umano dietro l’etichetta.
Trovare una connessione Nella mia ricerca di dottorato sui rifugiati siriani appartenenti a minoranze religiose a Berlino, ho scoperto che le politiche di integrazione laiche spesso non tenevano conto del ruolo centrale che la religione svolgeva nel senso di identità, appartenenza e guarigione delle persone. L’integrazione prosperava non quando la religione veniva ignorata, ma quando veniva affrontata – attraverso il dialogo interreligioso, spazi spirituali condivisi o il riconoscimento delle festività religiose. Questi approcci non cancellavano le differenze. Aiutavano le persone a progredire insieme. La religione divenne meno una linea di demarcazione e più un filo conduttore. Anche qui, nel mio quartiere periferico in Aotearoa, Nuova Zelanda, vedo scorci di questo ogni settimana. Per strada, le famiglie provengono da musulmani, cristiani, sikh, indù, bahai e da altre culture diverse. Ogni venerdì pomeriggio tengo una lezione semplice per i bambini del quartiere. Cantiamo, raccontiamo storie ed esploriamo temi come la gentilezza, la sincerità e la nobiltà dello spirito umano. È uno spazio in cui i bambini possono scoprire la propria identità spirituale e la capacità di contribuire al mondo che li circonda. Nel tempo, questo ha silenziosamente unito la nostra comunità. Anche i genitori hanno trovato un legame, non attraverso l’uniformità, ma attraverso il desiderio condiviso che i loro figli crescano come esseri umani giusti e compassionevoli.
Rimani curioso Questa idea – che la verità spirituale si disveli nel tempo – ha cambiato il mio modo di vivere. Ha plasmato il modo in cui cresco i miei figli, il modo in cui mi relaziono con i vicini di fede diversa e il mio impegno nella vita pubblica. Mi aiuta a rimanere curiosa invece che sulla difensiva e ad avvicinarmi agli altri non attraverso categorie fisse, ma con un’apertura a ciò che potremmo imparare gli uni dagli altri. Ed è proprio questo il nocciolo della questione: l’immaginazione morale, la capacità di vedere non solo ciò che è, ma anche ciò che potrebbe essere. Ci invita a porci nuovi tipi di domande: Cosa significa vivere una vita significativa? Come possiamo tenere nella stessa mano sia la venerazione che la ragione? Quali verità custodiscono le nostre tradizioni e di cui il mondo ha ancora bisogno? Cosa succede quando smettiamo di parlare di religione e iniziamo ad ascoltarla? Non sono domande facili. Ma sono importanti. Sebbene i quadri teologici secolari offrano molti strumenti, spesso non riescono a dare voce ai desideri più profondi dello spirito umano. E sebbene la religione sia stata abusata, può anche essere recuperata, come fonte di chiarezza, compassione e scopo condiviso. Riconoscere la saggezza della religione non significa negare il danno che ha causato. Significa raccontare la storia completa, separando la fede dal fanatismo e scegliendo non il silenzio ma un linguaggio migliore: un linguaggio radicato nell’umiltà, nella ricerca e nella speranza. Non abbiamo bisogno di meno religione nella vita pubblica. Abbiamo bisogno di modi migliori di parlarne, modi che consentano sia ai credenti che ai non credenti di impegnarsi in modo significativo, con onestà e profondità. Forse tutto inizia con un semplice cambiamento. E se le religioni del mondo non fossero rivendicazioni contrastanti, ma riflessi di un’unica verità in divenire? E se, al di là di tutte le nostre differenze, ci fosse un’unica storia raccontata in tante lingue? Se credessimo a questo, potremmo smettere di chiederci chi ha ragione e iniziare a chiederci cosa è possibile. E forse allora, potremmo finalmente iniziare a costruire il mondo in cui tutti desideriamo vivere.”
Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE
La notte scorsa Francesco si è svegliato poco prima di mezzanotte, è stato a lungo inconsolabile fino a quando è riuscito a farci capire che aveva mal di orecchie. L’ho prelevato io dal lettino: talvolta mi accetta, ma ci sono volte in cui solo l’abbraccio consolatorio della mamma lo calma, altrimenti serve molto più tempo. Il papà ci mette dieci volte a fare quello che la mamma compie in poco tempo. Mi è venuto in mente durante la lettura di un pezzo del poliedrico Marco Campedelli dedicato alla madre da poco scomparsa, un brano che mi ha toccato il cuore e mi ha commosso, soprattutto ripensando alle volte, purtroppo non poche, in cui in questi anni ho cercato le parole per rincuorare qualche allieva o allievo per la perdita della mamma. Il brano è stato pubblicato su Rocca a settembre.
“«È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio».
Inizia così Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini. Un testo vertiginoso con accenti estremi del rapporto figlio-madre. Eppure nel finale c’è un verso, una supplica alla madre che sembra una freccia conficcata nel cuore di questa archetipica relazione: «Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire». Si direbbe una preghiera alla madre. In questo credo ci sia la scintilla divina della madre. Pregare la madre come una divinità. Sappiamo, e la religione ne è in gran parte responsabile, di quanto il rapporto madre-figlio sia stato oggetto di proiezioni, simbiosi, sensi di colpa, sublimazioni. Mi ha sempre turbato quel “Totus tuus” sotto una gigantesca lettera M di papa Wojtyla, segno della sua ossessiva devozione mariana. Forse nulla come questo rapporto ha dato tanto lavoro alla psicanalisi. Eppure in quella supplica del poeta c’è qualcosa di autentico: il riconoscimento della fonte divina della vita. Ti prego madre “di non voler morire”. Perché se la fonte muore la terra si secca e appassisce. Ricordo bambino quando mia madre si ammalava, scendevo come in una botola segreta, come immerso in un liquido amniotico, finché non stesse meglio e così poter riemergere e tornare finalmente di nuovo nel meraviglioso caos della vita. Pasolini in realtà non vivrà la morte della madre. Sarà la madre a dover subire il tragico lutto del figlio massacrato il 2 novembre del 1975. Questo lutto è prefigurato nel film del regista friulano Il vangelo secondo Matteo, in cui ad interpretare la madre dolorosa sotto la croce sarà proprio Susanna Colussi-Pasolini, la madre del poeta. Ribaltata come un birillo dal dolore, sembra avere nelle pupille la morte del suo Pier Paolo più che del divino Nazareno. E i suoi occhi poi, riempiti di luce, brillano, mentre porta dei fiori di campo al sepolcro e si imbatte nell’angelo della risurrezione. Suo figlio, il poeta, è risorto!
È capitato anche a me di salutare mia mamma in questi giorni. Di sentire quanto fosse vera quella supplica del poeta, “ti supplico madre di non voler morire”. In quella preghiera c’è il bambino che scende nella botola segreta. Ma questa volta la notte non passa. Si riemerge con l’ultima, estrema spinta dal grembo originario. Davanti alla morte della madre c’è sempre il bambino. Non l’uomo adulto con le sue rassicuranti riflessioni. C’è il liquido amniotico irrazionale che prima di abbandonarti sembra darti l’ultima possibilità di andare verso la morte o verso la vita. Lasciando a te la libertà di appassire o di germogliare. Nella Bibbia sono scritte le parole del profeta Isaia (al capitolo 43): «Se dovessi attraversare le acque sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno, se dovrai attraversare il fuoco non ti scotterai»; sembrano quelle di una madre, o di chi si prende cura di qualcuno che ama. E chissà se noi abbiamo imparato questo da Dio, o se Dio abbia appreso questo guardando le madri, guardando le donne. Valda, mia madre, ci ha detto queste parole tutta la vita: non come una lezione di catechismo, ma come un modo di stare, di crescerci, di educarci insieme a nostro papà. «Sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo», continua ancora Isaia. Sei degno di stima anche quando fai scelte che non capisco, sei prezioso ai miei occhi, anche quando non lo sei più per molti. E poi io ti amo, non perché sei importante, non perché sei invincibile, ma perché sei Tu. E più diventi te stesso e più ti amo. Perché solo allora potrò specchiarmi nei tuoi occhi senza confondermi. Sarò me stessa perché tu sarai te stesso. Il salmo più corto della Bibbia, il 131, recita: «Io resto sereno e tranquillo come un bambino in braccio a sua madre». Li vediamo, i bambini e le bambine in braccio alle loro madri, anche quelli devastati dalla guerra in questi tempi. I bambini e le bambine di Gaza. Lì, in braccio alla madre, è il loro rifugio. Tutta la vita cerchiamo di stare in piedi da soli, di diventare adulti, di rielaborare quell’abbraccio non come un confine ma come una possibilità di inventarne di nuovi. Di diventare noi rifugio per altri. Succede poi che, quando nostra madre invecchia, siamo noi a tenerla dentro le nostre braccia, a dirle fino alla fine “stai tranquilla mamma, stai tranquilla e serena, la notte non dura, la luce presto viene”. Il Vangelo ci ha raccontato di una donna. Ecco come viene definita la Siro-fenicia (Mc 7,24-30): una donna, prima di ogni ruolo, prima che madre, donna. È una donna coraggiosa perché davanti a Gesù, che dentro la sua cultura, la sua educazione traccia un confine (“sono venuto solo per i figli, non per gli stranieri”, che in modo dispregiativo si chiamavano “cani”), questa donna gli insegna a sconfinare. Questa volta, sì, è proprio Gesù che accetta la lezione della donna. Anche mia figlia straniera, che sta morendo, ha diritto al pane, alla vita, alla dignità. Non ci sono figli di serie A e figli di serie B, figli perfetti e figli imperfetti. «I figli sono figli, e basta…», come ha detto bene Eduardo De Filippo in Filumena Marturano. La storia non si fa sui mausolei dei faraoni, sulle tombe dei generali, ma sulle ossa dei piccoli, degli ultimi, delle donne e degli uomini liberi e coraggiosi. Anche la Valda è stata una donna coraggiosa. Nel senso che aveva molto cuore (cor-cordis, come significa la parola). Ricordava quando i fascisti buttavano giù la porta di casa ai Molini di San Michele Extra (Verona) dove era nata, per catturare suo zio Nello, partigiano. Aveva imparato che si può resistere al male. Che anche in guerra si può scegliere da che parte stare (I bambini ci guardano, un film di Vittorio de Sica, ce lo ricorda). La mamma vedendo i bambini di Gaza diceva “avranno un rifugio dove ripararsi?”, come capitava a lei e ai suoi fratelli durante la Seconda guerra mondiale. Il Vangelo è una pagina aperta, da riscrivere ogni volta. Era capitato anche alla mamma di vivere l’abbandono del padre. Poi lui era tornato invecchiato, malato e chiedeva di esaudire un ultimo desiderio: essere accolto in casa. Morire a casa… E lei disse “vieni”. Tutti ricordiamo la parabola di quel padre che accoglie un figlio andato lontano. Ma non ce n’è una che racconta di un figlio, di una figlia, che ri-accoglie il padre. Forse intendeva questo Gesù, quando dice: “Non vi meravigliate, vedrete cose più grandi di queste”? Il Vangelo cioè può continuare a farci immaginare storie inedite, che sconfinano, che inventano cose che ora ancora non vediamo. Questo può capitare a tutti, a chi pensa di credere e a chi pensa di non credere. Perché il Vangelo, come diceva ancora Pasolini, è pienezza di umanità. La mamma ci ha insegnato queste cose, ai suoi figli, ai suoi nipoti, ai suoi pronipoti. Ci ha insegnato la dolcezza della resistenza. Malata, era stata per tre anni (dai 17 ai 19) prima a Padova e poi a Malcesine per curarsi di Tbc. Il professore aveva chiamato lei e nostro papà, allora giovani “morosi”. “Vedo che vi volete bene so che volete sposarvi”, aveva detto serio, “ma come ho già detto a te, Valda, lo devo dire anche a Raffaele, non potrete avere bambini”. Loro si sposarono invece, e ogni figlio lo portarono puntualmente alla clinica, davanti agli occhi allibiti del professore: uno, due e tre, fino a che questi aveva detto: “Ho capito, Valda, hai fatto bene, ci siamo sbagliati noi”. Ecco, questo è un frammento della piccola, immensa resistenza delle donne… Ora che il viaggio è compiuto rimane questa supplica al divino della madre, ora che la morte è arrivata, questa arcaica e rivoluzionaria preghiera si accende perché la madre, la vita, non voglia morire nei nostri occhi, nel tremore delle mani, nella corteccia dell’olmo e nelle primavere che verranno quando sarà di nuovo sciolta la neve: «Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…».
Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE
Su Avvenire è stata inaugurata una nuova rubrica curata dalla fisica Gabriella Greison. Il nome è Interferenzee così la presenta l’autrice: “Scrivo questa rubrica perché sono — come tutti, forse — alla ricerca. Una ricerca che non è fatta solo di archivi, formule o viaggi nei luoghi dei fisici del Novecento, ma anche e soprattutto di un bisogno interiore: dare un nuovo significato alle cose del mondo. Viviamo in un’epoca in cui le spiegazioni sembrano a portata di mano. Tutto è un link, un tutorial, un algoritmo che completa la frase al posto nostro. Eppure più le risposte si moltiplicano, più mi accorgo che le domande sono quelle che contano. Non basta dire “come funziona” — serve chiedersi “perché ci riguarda”, “che senso ha per me”. In questo cammino, Einstein è il mio faro. Non tanto per la relatività o per le fotografie spettinate che conosciamo tutti, ma per la sua capacità di tenere insieme due cose che di solito vengono separate: il rigore della scienza e il senso del mistero. Einstein non ha mai smesso di cercare, non ha mai smesso di stupirsi, non ha mai avuto paura di nominare Dio quando sentiva che le parole della fisica non bastavano più. Einstein come altri fisici (soprattutto quantistici) a cui sono legata e che scavano nel profondo per riemergere con nuove illuminazioni. Questa rubrica nasce così: dal desiderio di abitare quel confine invisibile tra scienza e spiritualità, dove i numeri non cancellano le emozioni, e le emozioni non negano i numeri. Voglio provare a raccontare storie che aprano spazi, che lascino entrare aria nuova, che mettano insieme ciò che spesso separiamo. Non so ancora dove porterà questa ricerca. Ma so che partire da Einstein significa partire da un luogo sicuro: il luogo in cui il pensiero più razionale si lascia attraversare dallo stupore, e l’uomo più logico del Novecento ammette che senza mistero la vita si spegne. Ecco cosa farò in queste righe: camminerò in quella zona di confine, raccoglierò indizi, proverò a dare voce a ciò che sfugge. Non con trattati, ma con racconti. Non con soluzioni definitive, ma con riflessioni aperte. Perché se il mondo ha ancora bisogno di senso, forse il primo passo è ricominciare ad ascoltare la spiritualità che ci abita. Domanda per voi: E voi? Quando è stata l’ultima volta che vi siete lasciati sorprendere da qualcosa che non sapevate spiegare? State sicuri che leggerò tutte le vostre risposte. Potete inviarle a lettere@avvenire.it”.
Riprendo la parola per dire che riguardo ad Albert Einstein quest’anno cadono, tondi tondi, diversi anniversari: 120 anni dalla teoria della relatività ristretta, 110 anni dalla relatività generale e 70 anni dalla morte avvenuta il 18 aprile 1955. Ma ecco il pezzo di Gabriella Greison.
“Da ragazzo Albert Einstein non aveva nessuna predisposizione al sacro. Anzi, al ginnasio di Monaco la religione gli stava stretta: dogmi, preghiere obbligate, riti che gli sembravano gusci vuoti. A quindici anni, con la stessa radicalità con cui più tardi avrebbe spezzato le catene della fisica classica, decise di liberarsi da ogni idea di un Dio personale. «Un’illusione infantile», la chiamava. Poi arrivò la sua maturità scientifica, il suo trasferimento in America, e con esso l’illuminazione. Non nel senso mistico, ma in quello che appartiene a chi attraversa le profondità dell’universo e scopre che non tutto può essere spiegato con la logica. Mentre scardinava le leggi di Newton, mentre piegava lo spazio e il tempo, Einstein cominciava a percepire che c’era qualcosa di più grande. Lo chiamava «il Vecchio». Non era un Dio che ascolta le preghiere, ma un’entità più sottile: l’ordine nascosto della natura, la razionalità misteriosa dell’universo. «Voglio sapere come Dio ha creato il mondo — scriveva — non mi interessano questo o quel fenomeno, questa o quella particella. Voglio conoscere i Suoi pensieri, il resto sono dettagli». Era un parlare con Dio senza crederci davvero. Un dialogo che somigliava più a un esercizio filosofico che a una devozione. Eppure in quelle frasi si sente il respiro di un uomo che ha visto troppo per restare ateo in senso stretto. Einstein illuminato non abbraccia mai una religione. Non si converte, non fa professioni di fede. Ma riconosce che il linguaggio della fisica, da solo, non basta. «Il misterioso è ciò che non possiamo penetrare, e che tuttavia percepiamo come significato più profondo della nostra esistenza». È questo il suo salto: da ragazzo scettico ad adulto capace di parlare con Dio — non per ricevere risposte, ma per non smettere di fare domande. E così, il fisico che ha dato al mondo la teoria della relatività finisce per regalarci una visione più assoluta: un Dio senza altari, fatto di equazioni e meraviglia, un’entità che non giudica ma che invita a guardare più in profondità. Einstein non si immaginava certo un signore con la barba bianca seduto tra le nuvole a dispensare premi e punizioni. Eppure parlava spesso di religione. E lo faceva con una formula che spiazza ancora oggi: «Il più bel sentimento che possiamo provare è il senso del mistero. È la fonte di ogni vera arte e di ogni vera scienza. Chi non lo conosce, chi non sa più fermarsi davanti allo stupore e restare rapito, è già come morto: i suoi occhi sono spenti». In pratica, aveva trasformato tutto questo in un sentimento di religious feeling. Non religione come dogma, ma religione come vibrazione interiore, come consapevolezza che la realtà nasconde qualcosa di infinitamente più grande di noi. Non un catechismo: un’emozione. Non un trattato di teologia: un brivido. Perché lo scienziato che più di tutti ha cambiato la nostra visione del mondo — ha piegato lo spazio, ha curvato il tempo, ha fatto ballare la luce — in fondo ci diceva che la vera radice non era la matematica, ma il mistero. E qui sta il punto. Oggi siamo così abituati ad avere risposte pronte che ci dimentichiamo la bellezza delle domande. Google risolve i dubbi, Alexa risponde in un secondo, l’intelligenza artificiale completa le frasi prima che le abbiamo pensate. Ma Einstein ci ricorda che la scienza nasce non dalle risposte, bensì dall’incapacità di smettere di stupirsi. C’è qualcosa di profondamente spirituale in questo. Non nel senso confessionale, ma in quel confine sottile dove la fisica diventa poesia. Quando Einstein diceva che «il misterioso è l’emozione fondamentale», stava riconoscendo che la realtà non è mai del tutto addomesticabile. Non tutto si lascia misurare, non tutto si lascia prevedere. Ogni volta che pensiamo di aver incasellato l’universo, lui ci sorprende con un paradosso, una particella, un lampo di inatteso. E allora la domanda che ci resta è: come risuona oggi questa idea? Forse così: la vita è meno lineare di quanto vorremmo, meno controllabile di quanto speriamo. Possiamo programmare agende, pianificare carriere, prenotare voli low cost per i prossimi sei mesi. Ma poi arriva l’imprevisto, l’inaspettato, il salto quantico che non avevamo considerato. Ed è lì che ci accorgiamo di essere vivi. Il senso del mistero non è una fuga dall’incertezza, ma la sua accoglienza. È accettare che non sappiamo tutto, e che va bene così. È riconoscere che c’è una bellezza nella domanda non risolta, una luce negli angoli bui. Einstein non ci stava invitando a costruire un tempio. Ci stava suggerendo di abitare la meraviglia. Di non perdere quello sguardo da bambini che si incantano davanti a una coccinella, a un’eclissi, a una formula scritta male sulla lavagna che però apre universi. Forse la sua vera eredità non è solo la relatività, ma questa: custodire il mistero come il bene più prezioso. Perché senza mistero non c’è ricerca, non c’è arte, non c’è spiritualità. E soprattutto: non c’è vita.”
“Come state?”. Ho iniziato l’ora nel mio solito modo. “Prof, è lunedì…” è stata la risposta lasciata in sospeso ma sufficientemente esplicativa. Mi sono venute in mente una canzone, un’immagine, una riflessione. La canzone è Lunedì di Vasco, in cui si sente “Sono stato anche beccato dalla Polizia; mi han detto, “Prego, si accomodi lì; passerà qualche giorno qui, ma vedrà che probabilmente uscirà certo prima di lunedì” Voglio restare qui, odio quel giorni lì!”. L’immagine è quella di Miele, il cane che è con noi da luglio. Credo che abbia già capito la routine: inizio di settimana con molto tempo a casa da solo, per poi passare in compagnia e mille attività la parte dal giovedì alla domenica. Ecco, la sua espressione di stamattina, quando l’ho lasciato in cucina, diceva “… è lunedì…”. La breve riflessione che mi è venuta in mente è stata scritta in un pezzo di Alessandro Dehò pubblicato su Avvenire proprio oggi. E’ un testo che certamente parla di fede, ma è anche un testo che parla di tenerezza e che è in grado di dire molto anche a chi non ha fede e di metterci in connessione con le altre persone. Mi piace augurarvi con esso buon lunedì! Eccolo.
“Dulcinea, il mio cane, entra di corsa mentre io, inginocchiato davanti al crocifisso tento di pregare, lei trema, mi cerca, chiede rifugio tra le mie braccia, ha paura. Non so cosa abbia visto, non so cosa le sia successo, probabilmente l’incontro ravvicinato e inaspettato con qualche animale selvatico, non so e non lo saprò mai, so solo che la mia mano si apre naturalmente, e piano, e con grazia, e inizia ad accarezzarle il pelo, lentamente, e lei rimane e si lascia fare, diventa piccola sulle mie ginocchia e rimane lì, come su una zattera di salvataggio, come avesse trovato lo spazio per poter continuare a vivere. Intanto gli occhi scorrono le righe dei salmi della giornata nel tentativo di risvegliare il cuore alla preghiera, mentre la mano destra continua il suo rosario di carezze all’animale impaurito esplode nei miei occhi una passaggio del salmo 30, è come una piccola illuminazione: “Mi affido alle tue mani…”. Di colpo mi sento come Dulcinea, sento fisicamente che ho bisogno della carezza di Dio su di me e in quell’attimo mi pare di percepire anche tutta la felicità di un Dio che finalmente può permettersi di aprire le sue dita e perdersi in un mare di carezze d’affetto per la sua creatura. Sentirsi cercati è commovente. Mentre questo piccolo inutile indispensabile gesto si compie in una casa dispersa tra i monti dell’Appennino la mia preghiera si apre al pensiero per tutte le mani che come fiori stanno sbocciando in ogni parte del mondo. È lunedì e milioni di mani sono ingranaggi per tenere in vita la complessità dell’esistere, mani che stringono, spingono, aprono, mani che digitano messaggi sui telefoni, mani che curano, mani che guidano, mani che stringono altre mani, mani sicure e mani impaurite, mani che accolgono vite nuove e mani che scivolano via per l’ultima volta… “mi affido alle tue mani”. Forse tanti nostri affanni derivano dalla distanza creata tra i nostri gesti ordinari e un corpo vivo, magari un corpo tremante, un corpo bisognoso da accudire, forse tanti nostri affanni derivano dal fatto che non sentiamo più distintamente che qualcuno si affida anche alle nostre mani. Penso sarebbe salvifico per ognuno di noi percepire distintamente che ogni gesto appassionato sul mondo non è altro che il nostro tentativo per rendere affidabile l’esistenza, atto di fede. Nella trama infinita di mani che provano a ripetere l’infinito tentativo di tenere in vita la vita ci siamo anche noi, con il nostro piccolissimo tentativo di carezza. Ci siamo anche noi, e siamo divini, siamo segno visibile di un Invisibile che dal cuore del Mistero prega la sua creatura: “mi affido alle tue mani” per stare, vivo e risorto, nella trama della città degli uomini.”
Il 4 ottobre è stata firmata “Dilexi te” la prima esortazione apostolica da Robert Francis Prevost, papa Leone XIV. Prendo la notizia e un articolo di presentazione da Vatican News. Il testo integrale si può trovare qui, sul sito della Santa Sede.
“Dilexi te, “Ti ho amato”. L’amore di Cristo che si fa carne nell’amore ai poveri, inteso come cura dei malati; lotta alle schiavitù; difesa delle donne che soffrono esclusione e violenza; diritto all’istruzione; accompagnamento ai migranti; elemosina che “è giustizia ristabilita, non un gesto di paternalismo”; equità, la cui mancanza è “radice di tutti i mali sociali”. Leone XIV firma la sua prima esortazione apostolica, Dilexi te, testo in 121 punti che sgorga dal Vangelo del Figlio di Dio che si è fatto povero sin dal suo ingresso nel mondo e che rilancia il Magistero della Chiesa sui poveri negli ultimi centocinquant’anni. “Una vera miniera di insegnamenti”.
Sul solco dei predecessori Il Pontefice agostiniano con questo documento firmato il 4 ottobre, festa di San Francesco d’Assisi, il cui titolo è tratto dal Libro dell’Apocalisse (Ap 3,9), si inserisce così sul solco dei predecessori: Giovanni XXIII con l’appello ai Paesi ricchi nella Mater et Magistra a non rimanere indifferenti davanti ai Paesi oppressi da fame e miseria (83); Paolo VI, la Populorum progressio e l’intervento all’Onu “come avvocato dei popoli poveri”; Giovanni Paolo II che consolidò dottrinalmente “il rapporto preferenziale della Chiesa con i poveri”; Benedetto XVI e la Caritas in Veritate con la sua lettura “più marcatamente politica” delle crisi del terzo millennio. Infine, Francesco che della cura “per i poveri” e “con i poveri” ha fatto uno dei capisaldi del pontificato.
Un lavoro iniziato da Francesco e rilanciato da Leone Proprio Francesco aveva iniziato nei mesi prima della morte il lavoro sull’esortazione apostolica. Come con la Lumen Fidei di Benedetto XVI, nel 2013 raccolta da Jorge Mario Bergoglio, anche questa volta è il successore a completare l’opera che rappresenta una prosecuzione della Dilexit Nos, l’ultima enciclica del Papa argentino sul Cuore di Gesù. Perché è forte il “nesso” tra amore di Dio e amore per i poveri: tramite loro Dio “ha ancora qualcosa da dirci”, afferma Papa Leone. E richiama il tema della “opzione preferenziale” per i poveri, espressione nata in America Latina (16) non per indicare “un esclusivismo o una discriminazione verso altri gruppi”, bensì “l’agire di Dio” che si muove a compassione per la debolezza dell’umanità. Sul volto ferito dei poveri troviamo impressa la sofferenza degli innocenti e, perciò, la stessa sofferenza del Cristo (9).
I “volti” della povertà Numerosi gli spunti per la riflessione, numerose le spinte all’azione nella esortazione di Robert Francis Prevost, in cui vengono analizzati i “volti” della povertà. La povertà di “chi non ha mezzi di sostentamento materiale”, di “chi è emarginato socialmente e non ha strumenti per dare voce alla propria dignità e alle proprie capacità”; la povertà “morale”, “spirituale”,“culturale”; la povertà “di chi non ha diritti, non ha spazio, non ha libertà” (9).
Nuove povertà e mancanza di equità Di fronte a questo scenario, il Papa giudica “insufficiente” l’impegno per rimuovere le cause strutturali della povertà in società segnate “da numerose disuguaglianze”, dall’emergere di nuove povertà “più sottili e pericolose” (10), da regole economiche che hanno fatto aumentare la ricchezza, “ma senza equità”. La mancanza di equità è la radice dei mali sociali (94).
La dittatura di un’economia che uccide “Quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale”, afferma Leone XIV (13). Da questo punto di vista, saluta “con favore” il fatto che “le Nazioni Unite abbiano posto la sconfitta della povertà come uno degli obiettivi del Millennio”. La strada tuttavia è lunga, specie in un’epoca in cui continua a vigere la “dittatura di un’economia che uccide”, in cui i guadagni di pochi “crescono esponenzialmente” mentre quelli della maggioranza sono “sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice” e in cui sono diffuse le “ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria” (92).
Cultura dello scarto, libertà del mercato, pastorale delle élite È segno, tutto questo, che ancora persiste – “a volte ben mascherata” – una cultura dello scarto che “tollera con indifferenza che milioni di persone muoiano di fame o sopravvivano in condizioni indegne dell’essere umano” (11). Il Papa stigmatizza allora i “criteri pseudoscientifici” per cui sarà “la libertà del mercato” a portare alla “soluzione” del problema povertà, come pure quella “pastorale delle cosiddette élite”, secondo la quale “al posto di perdere tempo con i poveri, è meglio prendersi cura dei ricchi, dei potenti e dei professionisti” (114). Di fatto, i diritti umani non sono uguali per tutti (94).
Trasformare la mentalità Ciò che invoca il Papa è, dunque, una “trasformazione di mentalità”, affrancandosi anzitutto dalla “illusione di una felicità che deriva da una vita agiata”. Cosa che spinge molte persone a una visione dell’esistenza imperniata su ricchezza e successo “a tutti i costi”, anche a scapito degli altri e attraverso “sistemi politico-economico ingiusti” (11). La dignità di ogni persona umana dev’essere rispettata adesso, non domani (92).
In ogni migrante respinto c’è Cristo che bussa Ampio lo spazio che Leone XIV dedica poi al tema delle migrazioni. A corredare le sue parole, l’immagine del piccolo Alan Kurdi, il bimbo siriano di 3 anni divenuto nel 2015 simbolo della crisi europea dei migranti con la foto del corpicino senza vita su una spiaggia. “Purtroppo, a parte una qualche momentanea emozione, fatti simili stanno diventando sempre più irrilevanti come notizie marginali” (11), constata il Pontefice. Al contempo ricorda l’opera secolare della Chiesa verso quanti sono costretti ad abbandonare le proprie terre, espressa in centri accoglienza, missioni di frontiera, sforzi di Caritas Internazionale e altre istituzioni (75). La Chiesa, come una madre, cammina con coloro che camminano. Dove il mondo vede minacce, lei vede figli; dove si costruiscono muri, lei costruisce ponti. Sa che il suo annuncio del Vangelo è credibile solo quando si traduce in gesti di vicinanza e accoglienza. E sa che in ogni migrante respinto è Cristo stesso che bussa alle porte della comunità (75). Sempre in tema migrazioni, Robert Prevost fa suoi i famosi “quattro verbi” di Papa Francesco: “Accogliere, proteggere, promuovere e integrare”. E di Papa Francesco mutua pure la definizione dei poveri non solo oggetto della nostra compassione ma “maestri del Vangelo”. Servire i poveri non è un gesto da fare “dall’alto verso il basso”, ma un incontro tra pari… La Chiesa, quindi, quando si china a prendersi cura dei poveri, assume la sua postura più elevata (79).
Le donne vittime di violenza ed esclusione Il Successore di Pietro guarda poi all’attualità segnata da migliaia di persone che ogni giorno muoiono “per cause legate alla malnutrizione” (12). “Doppiamente povere”, aggiunge, sono “le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti” (12).
“I poveri non ci sono per caso…” Papa Leone XIV traccia una approfondita riflessione sulle cause stesse della povertà: “I poveri non ci sono per caso o per un cieco e amaro destino. Tanto meno la povertà, per la maggior parte di costoro, è una scelta. Eppure, c’è ancora qualcuno che osa affermarlo, mostrando cecità e crudeltà”, sottolinea (14). “Ovviamente tra i poveri c’è pure chi non vuole lavorare”, ma ci sono anche tanti uomini e donne che magari raccolgono cartoni dalla mattina alla sera giusto per “sopravvivere” e mai per “migliorare” la vita. Insomma, si legge in uno dei punti focali di Dilexi te, non si può dire “che la maggior parte dei poveri lo sono perché non hanno acquistato dei meriti, secondo quella falsa visione della meritocrazia dove sembra che abbiano meriti solo quelli che hanno avuto successo nella vita” (14).
Ideologie e orientamenti politici Talvolta, osserva Papa Leone, sono gli stessi cristiani a lasciarsi “contagiare da atteggiamenti segnati da ideologie mondane o da orientamenti politici ed economici che portano a ingiuste generalizzazioni e a conclusioni fuorvianti”. C’è chi continua a dire: “Il nostro compito è di pregare e di insegnare la vera dottrina”. Ma, svincolando questo aspetto religioso dalla promozione integrale, aggiungono che solo il governo dovrebbe prendersi cura di loro, oppure che sarebbe meglio lasciarli nella miseria, insegnando loro piuttosto a lavorare (114)
L’elemosina spesso disdegnata Sintomo di questa mentalità è il fatto che l’esercizio della carità risulti talvolta “disprezzato o ridicolizzato, come se si trattasse della fissazione di alcuni e non del nucleo incandescente della missione ecclesiale” (15). A lungo il Papa si sofferma sulla elemosina, raramente praticata e spesso disdegnata (115). Come cristiani non rinunciamo all’elemosina. Un gesto che si può fare in diverse maniere, e che possiamo tentare di fare nel modo più efficace, ma dobbiamo farlo. E sempre sarà meglio fare qualcosa che non fare niente. In ogni caso ci toccherà il cuore. Non sarà la soluzione alla povertà nel mondo, che va cercata con intelligenza, tenacia, impegno sociale. Ma noi abbiamo bisogno di esercitarci nell’elemosina per toccare la carne sofferente dei poveri (119).
Indifferenza da parte dei cristiani Sulla stessa scia, il Papa denota “la carenza o addirittura l’assenza dell’impegno” per la difesa e promozione dei più svantaggiati in alcuni gruppi cristiani (112). Se una comunità della Chiesa non coopera per l’inclusione di tutti, ammonisce, “correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti” (113). Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri (36)
La testimonianza di santi, beati e ordini religiosi A controbilanciare questo atteggiamento di indifferenza, c’è un mondo di santi, beati, missionari che, nei secoli, hanno incarnato l’immagine di “una Chiesa povera per i poveri” (35). Da Francesco d’Assisi e il suo gesto di abbracciare un lebbroso (7) a Madre Teresa, icona universale della carità dedita ai moribondi dell’India “con una tenerezza che era preghiera” (77). E ancora San Lorenzo, San Giustino, Sant’Ambrogio, San Giovanni Crisostomo, il suo Sant’Agostino che affermava: “Chi dice di amare Dio e non ha compassione per i bisognosi mente” (45). Leone ricorda ancora l’opera dei Camilliani per i malati (49), delle congregazioni femminili in ospedali e case di cura (51). Ricorda l’accoglienza nei monasteri benedettini a vedove, bambini abbandonati, pellegrini e mendicanti (55). E ricorda pure francescani, domenicani, carmelitani, agostiniani che hanno avviato “una rivoluzione evangelica” attraverso uno “stile di vita semplice e povero” (63), insieme a trinitari e mercedari che, battendosi per la liberazione dei prigionieri, hanno espresso l’amore di “un Dio che libera non solo dalla schiavitù spirituale, ma anche dall’oppressione concreta” (60). La tradizione di questi Ordini non si è conclusa. Al contrario, ha ispirato nuove forme di azione di fronte alle schiavitù moderne: il traffico di esseri umani, il lavoro forzato, lo sfruttamento sessuale, le diverse forme di dipendenza. La carità cristiana, quando si incarna, diventa liberatrice (61).
Il diritto all’educazione Il Pontefice richiama inoltre l’esempio di San Giuseppe Calasanzio, che diede vita alla prima scuola popolare gratuita d’Europa (69), per rimarcare l’importanza dell’educazione dei poveri: “Non è un favore, ma un dovere”. I piccoli hanno diritto alla conoscenza, come requisito fondamentale per il riconoscimento della dignità umana (72).
La lotta dei movimenti popolari Nell’esortazione il Papa fa cenno pure alla lotta contro gli “effetti distruttori dell’impero del denaro” da parte dei movimenti popolari, guidati da leader “tante volte sospettati e addirittura perseguitati” (80). Essi, scrive, “invitano a superare quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri” (81).
Una voce che svegli e denunci Nelle ultime pagine del documento, Leone XIV fa appello all’intero Popolo di Dio a “far sentire, pur in modi diversi, una voce che svegli, che denunci, che si esponga anche a costo di sembrare degli stupidi”. Le strutture d’ingiustizia vanno riconosciute e distrutte con la forza del bene, attraverso il cambiamento delle mentalità ma anche, con l’aiuto delle scienze e della tecnica, attraverso lo sviluppo di politiche efficaci nella trasformazione della società (97).
I poveri, non un problema sociale ma il centro della Chiesa È necessario che “tutti ci lasciamo evangelizzare dai poveri”, esorta il Papa (102). “Il cristiano non può considerare i poveri solo come un problema sociale: essi sono una questione familiare. Sono dei nostri”. Pertanto “il rapporto con loro non può essere ridotto a un’attività o a un ufficio della Chiesa” (104). I poveri sono nel centro stesso della Chiesa (111).”
A inizio estate, su Vox, è stato pubblicato un articolo interessante di Katherine Kelaidis sul legame tra religione e politica negli USA di Donald Trump. Da studioso delle religioni e dei fenomeni ad esse legati, è un argomento che mi piace approfondire. In pochissime parole l’autrice sostiene che si tratti di una fede politica: una religione dell’identità e della nazione, che usa il linguaggio della fede per ottenere potere. Il pezzo è molto lungo, per cui ne propongo una sintesi. In fondo, accompagno il testo con un video del giornalista Francesco Costa, direttore de Il Post: affronta il tema del rapporto tra statunitensi e religione ed è dell’aprile 2024 (pre-elezioni USA).
Per oltre sessant’anni la “destra religiosa” americana è stata quella dei boomer: un movimento cristiano tradizionalista, teocratico, che voleva “rimettere Dio nelle scuole” e ispirare la legge civile ai principi biblici. Con Donald Trump nasce però qualcosa di nuovo. Il suo progetto non è far conformare lo Stato alla Chiesa, ma piegare la Chiesa alla volontà del nazionalismo americano — un’ideologia che identifica la libertà e la prosperità degli Stati Uniti come privilegio esclusivo dei cittadini bianchi, eterosessuali e patriottici. L’articolo sottolinea che questo modello somiglia più alla Russia di Putin (dove la Chiesa ortodossa è subordinata al Cremlino) che a una teocrazia come quella iraniana. In altre parole: la religione viene svuotata e sostituita con un culto politico di “America First”. Trump ha creato una Religious Liberty Commission e tre consigli consultivi formati da leader religiosi, esperti giuridici e laici. Ufficialmente, dovrebbero analizzare la storia della libertà religiosa negli Stati Uniti. Ma, secondo l’autrice, l’obiettivo reale è riscrivere quella storia da una prospettiva nazionalista e ideologica. I presidenti precedenti (Bush, Obama, Biden) avevano invece un Office of Faith-Based and Neighborhood Partnerships, cioè un ufficio di collaborazione con le organizzazioni religiose per problemi sociali (povertà, traffico di esseri umani, ambiente). Trump lo ha abolito. Nel suo modello, non è la religione a migliorare la società, ma è l’America stessa a diventare la fonte di religione e moralità. Le chiese prosperano o falliscono in base a quanto si adeguano alla “vera” identità americana. Dei 39 membri della Commissione, non c’è nessun protestante “storico” (metodisti, presbiteriani, episcopali), che un tempo rappresentavano la “religione civile americana”. Al loro posto: evangelici conservatori, cattolici tradizionalisti, ebrei ortodossi, un arcivescovo greco-ortodosso, due musulmani convertiti bianchi e Ben Carson, avventista del settimo giorno. Questa composizione rivela che la nuova alleanza non è teologica, ma culturale. È un fronte interreligioso unito dal sentirsi “assediato” su temi come genere, sessualità e razza. Le differenze dottrinali vengono accantonate: ciò che conta è difendere una certa visione identitaria della nazione. Contrariamente a quanto afferma la propaganda, il movimento non mira a restaurare il passato, ma a trasformare radicalmente la società americana. Se la vecchia destra religiosa era teologica e poi politica, la nuova crea una teologia a misura della politica. Trump è visto come una figura quasi messianica: non un salvatore delle anime, ma dell’America stessa. In questo contesto, il linguaggio religioso serve solo come strumento di legittimazione politica. Kelaidis cita due casi emblematici che rappresentano una religione civile dove l’oggetto di fede è l’America stessa, non Dio. Ismail Royer, musulmano convertito e membro della Commissione, è stato condannato per aver aiutato persone a unirsi a un gruppo terroristico in Pakistan. Ora promuove la libertà religiosa come arma politica e dichiara: “L’America è un paese cristiano fondato su principi cristiani”. Per lui, la teologia conta poco: ciò che importa è la comune battaglia culturale contro il liberalismo. Eric Metaxas, scrittore e attivista evangelico, ha percorso un cammino simile: il suo interesse non è la dottrina cristiana, ma la difesa di una certa idea di ordine sociale e politico. Una differenza cruciale con la “vecchia” destra religiosa: il nuovo movimento non parla quasi mai di salvezza, inferno o vita eterna. L’obiettivo non è più influenzare le anime, ma modellare la società nel presente. In questo senso, l’autrice paragona la “religione di MAGA” al culto imperiale romano, centrato sulla potenza e fertilità della nazione. La preoccupazione per la natalità, il rifiuto dei trattamenti medici che rendono sterili i giovani trans, la retorica contro l’aborto come “perdita di cittadini americani”: tutto questo rientra nella logica di un culto della forza e della riproduzione nazionale, più che in una dottrina cristiana. Trump ha poi promosso parate militari, nuove feste nazionali e ora una riscrittura agiografica della storia americana. Questi elementi costituiscono, secondo l’autrice, una forma moderna di religione civile imperiale: l’America come realtà sacra, il patriottismo come fede, Trump come pontefice politico. L’autrice, infine, si sofferma sui metodi per lottare contro questo modo di vedere le cose: i metodi che funzionavano contro la vecchia destra religiosa (smascherare ipocrisie morali, appellarsi alla Bibbia) non funzionano più. Il nuovo movimento non prova vergogna, non risponde a richiami teologici o morali: è animato solo dall’utilità politica. Per combatterlo, serve una nuova alleanza tra progressisti e credenti conservatori che restano fedeli a principi morali autentici — cioè che riconoscono un’autorità superiore allo Stato o al leader politico. Questi “tradizionalisti non MAGA” (vescovi cattolici, protestanti moderati, mormoni) potrebbero essere alleati inattesi nel contrastare la “Chiesa di MAGA”. In conclusione, Trump e il movimento MAGA hanno dichiarato una guerra religiosa non solo contro il secolarismo, ma anche contro la religione tradizionale che rifiuta di sottomettersi al nazionalismo. Non è una teocrazia, ma qualcosa di più nuovo e insidioso: una religione della nazione e dell’identità, mascherata da fede. Per affrontarla, conclude Katherine Kelaidis, non basteranno le Scritture né gli appelli alla coscienza. Bisognerà riconoscerla, smascherarla e costruire alleanze inattese con chiunque creda ancora in un potere più alto di Donald Trump.
Lo scorso anno scolastico, grazie alla proposta di due colleghe, ho accompagnato due classi a vedere una mostra sul giudice Rosario Livatino ospitata nei locali dell’Università di Udine. Il 21 settembre è corso il 35° anniversario dalla sua uccisione e sul sito Vivi, dedicato dall’associazione Libera alle vittime innocenti di mafia, ho trovato una pagina che ben racconta la sua storia.
“STD. Tre lettere puntate. Un acronimo misterioso che a lungo ha impegnato gli inquirenti che indagavano sulla tragica uccisione del giudice Rosario Livatino. Tre lettere che comparivano, con assiduità, in fondo alle pagine degli scritti e delle agende private del magistrato. Quando il rebus è stato risolto, è stato chiaro che in quelle tre lettere c’era tanto della personalità, del pensiero, della vita di questo giovane giudice ammazzato dalla Stidda a 38 anni e poi diventato il primo magistrato beato nella storia della Chiesa. STD, Sub Tutela Dei, nelle mani di Dio. Un’invocazione a Dio perché guidasse i suoi passi, le sue scelte, le sue decisioni. In definitiva, la sua stessa vita. Una vita, quella di Livatino, iniziata il 3 di ottobre del 1952 a Canicattì, in provincia di Agrigento. Papà Vincenzo era un impiegato dell’esattoria comunale e Rosario era stato il frutto del suo amore per Rosalia Corbo. Una famiglia tranquilla, in cui Rosario crebbe ben educato, rispettoso, attento allo studio e ai suoi doveri. Si diplomò al Liceo classico Ugo Foscolo di Canicattì, affiancando allo studio l’impegno nell’Azione Cattolica, per poi iscriversi, nel 1971, alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo. Il binomio fede e diritto comincia, sin dagli anni dell’adolescenza e della prima gioventù, a caratterizzare la sua esistenza. Un binomio sul quale la sua riflessione continuerà a lungo, costituendo di certo uno dei tratti più significativi della sua elaborazione di uomo, di cristiano, di intellettuale e di professionista. Conseguì la laurea cum laude nel 1975, non ancora ventitreenne, per poi ricoprire, vincitore di un concorso pubblico, il ruolo di vicedirettore in prova presso l’Ufficio del Registro, negli anni tra il 1977 e il 1979.
Le indagini sulla mafia agrigentina Intanto però Rosario inseguiva un altro sogno, quello cioè di dedicarsi al diritto e alla giustizia. Spinto da questa sorta di vocazione laica, partecipò al concorso per l’ingresso in magistratura, uscendone tra i primi in graduatoria, sebbene giovanissimo. Così, nel 1978, divenuto magistrato, fu assegnato al Tribunale di Caltanissetta e poi, un anno dopo, a quello di Agrigento, come sostituto. Ad Agrigento rimase ininterrottamente in servizio come sostituto procuratore fino al 1989, prima di essere nominato giudice a latere. Furono anni di lavoro intensissimo. Nonostante la sua giovane età, Rosario seppe misurarsi, con grande capacità e spiccata lucidità, con indagini assai difficili e delicate, che scavarono in profondità nelle pieghe delle relazioni ambigue e perverse tra mafia, imprenditoria e politica. Come quando si occupò di alzare il velo sui finanziamenti regionali sulle cooperative giovanili di Porto Empedocle; o quando indagò su un enorme giro di fatture false o gonfiate per opere mai realizzate; o ancora quando si dedicò a una serie di indagini su alcuni eclatanti episodi di corruzione, dando il via a quella che sarebbe passata poi alla storia come la Tangentopoli siciliana e applicando, tra i primi in Italia, la misura della confisca dei beni ai mafiosi. Il colpo più significativo fu probabilmente il lavoro investigativo che portò al maxiprocesso contro le cosche di Stidda di Agrigento, Canicattì, Campobello di Licata, Porto Empedocle, Siculiana e Ribera. Per celebrare il processo, iniziato nel 1987, fu necessario utilizzare un’ex palestra adibita ad aula bunker. Alla fine, furono 40 le condanne ottenute. Un colpo durissimo alla mafia agrigentina, quella Stidda nata per contrapporsi a Cosa nostra e allo strapotere dei Corleonesi, che pretendevano di estendere il loro dominio anche nelle zone centro-meridionali della Sicilia.
La fede e il diritto A un ruolo pubblico che, in funzione delle sue capacità professionali e dei suoi successi investigativi, lo rendeva via via più “esposto”, Rosario continuò per tutta la sua esistenza a preferire una condotta riservatissima, fatta di una vita familiare discreta, di una profonda fede cristiana, di valori etici che trasferiva con coerenza e fedeltà nel lavoro. È un’elaborazione intellettuale molto profonda quella che ha affidato ai suoi scritti e ad alcuni suoi interventi pubblici che ci aiutano a delineare con nettezza il suo pensiero e la sua visione del magistrato. “L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività” (Rosario Livatino – intervento sul tema “Il ruolo del giudice nella società che cambia” – Canicattì, 7 aprile 1984). Parole che lasciano trasparire con chiarezza il senso di profondo rigore morale di questo giovane magistrato, la sua visione etica della professione. Un’etica del dovere non disgiunta dalla consapevolezza del peso di quella responsabilità che porta chi è chiamato a giudicare e deve farlo con rispetto anche per chi è ritenuto colpevole. Valori, pensieri, riflessioni senz’altro frutto anche della sua profonda fede, del suo continuo interrogarsi, da laico, su quel binomio tra fede e diritto sul quale ci ha lasciato parole altrettanto chiare: “Il compito (…) del magistrato è quello di decidere; (…): una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. (…) Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia” (Rosario Livatino – intervento sul tema “Fede e diritto” – Canicattì, 30 aprile 1986).
Tra Canicattì e Agrigento ci sono poco meno di 40 chilometri. Ci si sposta lungo la Strada Statale 640 che collega Caltanissetta alla costa meridionale della Sicilia. Mezz’ora di strada che Rosario percorreva regolarmente per raggiungere il Tribunale. Lo fece anche la mattina del 21 settembre 1990. Senza scorta, a bordo della sua vecchia Ford Fiesta amaranto. All’altezza a del viadotto Gasena – oggi intitolato a lui – la sua auto fu affiancata e speronata da un’altra vettura, da cui furono esplosi alcuni colpi di pistola. Rosario, benché già ferito ad una spalla, tentò una disperata fuga nei campi accanto alla strada. Ma fu inutile. Inseguito dai killer, fu ucciso senza pietà. Aveva appena 38 anni. Sul luogo dell’omicidio giunsero poco dopo i colleghi del Tribunale di Agrigento. Da Palermo arrivarono il Procuratore Pietro Giammanco e l’aggiunto Giovanni Falcone. Da Marsala, il Procuratore Paolo Borsellino. La morte di Rosario fece rumore. E provocò polemiche, anche molto aspre. I colleghi agrigentini Roberto Saieva e Fabio Salomone, pochi giorni dopo l’omicidio, denunciarono le condizioni difficili in cui i magistrati erano costretti a lavorare. I Procuratori di tutta la Sicilia minacciarono le dimissioni in blocco se lo Stato non avesse agito con immediatezza contro quel delitto efferato. Qualcuno parlò delle responsabilità dei superiori di Livatino, della loro inerzia. E poi quelle parole ambigue pronunciate il 10 maggio del 1991 dal Presidente della Repubblica Cossiga sul tabù dei “giudici ragazzini”: “non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza”. Parole rinnegate solo dodici anni più tardi, quando l’ormai ex Presidente chiarì che non si riferiva a Rosario Livatino, definendolo anzi un eroe e un santo.
La vicenda giudiziaria La verità sulla morte del giudice Livatino è passata attraverso tre processi. Il primo, nell’immediatezza dei fatti, fu reso possibile dalle dichiarazioni di un agente di commercio di origini milanesi che passava sul viadotto Gesena per caso e che assistette all’omicidio. Pietro Nava decise coraggiosamente di testimoniare e le sue parole consentirono, già il 7 ottobre del 1990, l’arresto di due ragazzi di 23 anni, Paolo Amico e Domenico Pace. Furono presi nei pressi di Colonia, in Germania, dove ufficialmente facevano i pizzaioli. In realtà erano organici alla Stidda di Palma di Montechiaro. Nel novembre del ’91 furono condannati entrambi all’ergastolo come esecutori materiali del delitto. La collaborazione di Gioacchino Schembri, anch’egli esponente della Stidda di Palma, consentì poi l’apertura di un nuovo processo, il Livatino bis, che portò all’arresto, nel 1993, degli altri membri del gruppo di fuoco: Gateano Puzzangaro (23 anni) Giovanni Avarello (28 anni) e Giuseppe Croce Benvenuto. I primi due furono condannati all’ergastolo. Benvenuto invece decise di collaborare, aprendo la strada al Livatino ter. Il processo, iniziato nel 1997, si è basato sulle dichiarazioni di Benvenuto e di un altro “pentito”, Giovanni Calafato, che hanno indicato i mandanti dell’omicidio nei capi della Stidda di Canicattì e Palma: Antonio Gallea, Salvatore Calafato, Salvatore Parla e Giuseppe Montanti. Al termine del processo di primo grado, nel 1998, Gallea è stato condannato all’ergastolo. 24 anni per Calafato. Assoluzione per Parla e Montanti. Entrambi sono stati poi condannati all’ergastolo nel settembre del 1990 dalla Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta, che ha esteso all’ergastolo anche la condanna di Calafato. Sentenze poi confermate, tra il 2001 e il 2002, anche in Cassazione.
Memoria viva Il 9 maggio del 1993, Giovanni Paolo II, nel suo memorabile discorso dalla Valle dei Templi di Agrigento, definì Rosario Livatino un “martire della giustizia e indirettamente della fede”. In quello stesso anno, il vescovo di Agrigento Carmelo Ferraro diede mandato di avviare il lavoro di raccolta delle testimonianze per la causa di beatificazione. Il 19 luglio 2011 è arrivata la firma del decreto per l’avvio del processo diocesano di beatificazione, che si è aperto ufficialmente il 21 settembre successivo. 45 persone hanno testimoniato sulla vita e la santità del giudice Livatino. Tra loro anche Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer. Il 6 settembre 2018, l’annuncio della chiusura del processo diocesano e l’invio in Vaticano, alla Congregazione per le cause dei santi, delle 4000 pagine di notizie e testimonianze raccolte. È stato poi Papa Francesco, il 21 dicembre del 2020, ad autorizzare la Congregazione alla promulgazione del decreto riguardante il martirio, aprendo la strada alla beatificazione, avvenuta il 9 maggio 2021 nella Cattedrale di Agrigento. La memoria di Rosario Livatino si celebra il 29 ottobre, nel giorno in cui, trentaseienne, ricevette il sacramento della confermazione. In un processo di memoria laica che rende viva la sua testimonianza di coraggio e impegno, a Rosario sono intitolati i Presidi di Libera a Sanremo, nel Basso Polesine, a Pomezia e a Mogoro, in provincia di Oristano. Portano il suo nome anche due case di accoglienza ad Andria e la Cooperativa Libera Terra di Naro, in provincia di Agrigento. A Rosarno, gli studenti dell’Istituto superiore Raffaele Piria producono un olio intitolato a lui. Nel 1992, Nando dalla Chiesa ha pubblicato il suo “Il giudice ragazzino”, riprendendo polemicamente l’ambigua definizione del Presidente Cossiga. Nella sinossi si legge: “Alla vicenda del magistrato si intreccia la ricostruzione dei casi più clamorosi e delle polemiche più dirompenti che hanno contrapposto, nell’arco del decennio, mafia, società civile e istituzioni, troppo spesso nel segno di un attacco diretto all’attività di quei “giudici ragazzini” mandati a rappresentare lo Stato in prima linea” (Nando dalla Chiesa – Il giudice ragazzino. Storia di Rosario Livatino assassinato dalla mafia sotto il regime della corruzione, Einaudi 1992).Con lo stesso titolo, “Il giudice ragazzino”, la storia di Rosario è stata raccontata, nel 1994, anche nel film di Alessandro Robilant con Giulio Scarpati. Nel 2006, a sostegno della causa di beatificazione, è stato prodotto il documentario “La luce verticale”. Dieci anni più tardi, nel 2016, è uscito invece il documentario indipendente “Il giudice di Canicattì – Rosario Livatino, il coraggio e la tenacia” curato da Davide Lorenzano e con la voce narrante dello stesso Scarpati, che ha rivelato nuovi episodi di vita e immagini inedite di Rosario (visibile qui). Tra tutto quanto ha scritto e ci ha lasciato in eredità, di lui, uomo di fede e di giustizia, resta in particolare una frase. Poche parole, che graffiano la coscienza e pesano come macigni: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili” (Rosario Livatino).”
Fulvio Ferrario è professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma. A inizio settembre ha firmato un articolo per la rivista Confronti sui 1700 anni dal Concilio di Nicea. Il taglio è teologico: non è di difficile comprensione, più che altro si sofferma su concetti sui quali molte persone, anche credenti, non sono abituate a riflettere e che magari sono espressi con parole ormai ripetute in modo automatico ogni domenica (“della stessa sostanza del Padre”). Buona lettura.“Secondo una celebre e felice formulazione del teologo ebreo Shalom Ben Chorin, la fede di Gesù unisce ebrei e cristiani, la fede in Gesù li divide. La fede di Gesù è, naturalmente, quella del popolo di Israele; la fede in Gesù è quella che vede nell’uomo di Nazareth la rivelazione definitiva del volto di Dio e del suo progetto nei confronti della creazione e, in essa, dell’umanità. Il Concilio ecumenico di Nicea del 325, del quale si celebra, nel 2025, il XVII centenario, può forse essere considerato il passo decisivo mediante il quale la comunità cristiana chiarisce il carattere unico, privo di analogie, del rapporto tra Gesù e il Dio di Israele. Per la verità, il rapporto tra Chiesa e Israele non è affatto in primo piano nella problematica affrontata a Nicea: o meglio, non lo è in modo diretto ed esplicito. La Chiesa del IV secolo si comprende, da tempo, come una realtà religiosa altra rispetto all’Ebraismo, e come tale è percepita da quest’ultimo. Il problema fondamentale del Concilio, invece, è totalmente interno all’universo simbolico cristiano e può essere riassunto così: stabilito, con tutto il Nuovo Testamento, che il rapporto con Dio passa attraverso la persona di Gesù, nella quale (per usare le parole del IV evangelista) si incarna il “la Parola” di Dio, come dobbiamo pensare quest’ultima? La proposta del presbitero Ario ha il pregio della nitidezza: il Verbo va considerato come la prima tra le creature, una realtà chiamata all’essere dall’unico Dio, prima che il mondo fosse, e che costituisce il progetto della creazione intera. In tal modo, il rigoroso monoteismo, condiviso con Israele, sembra confermato, così come la radicale trascendenza di Dio, che entra in rapporto con la realtà solo attraverso la mediazione del “Verbo”. La tesi che esce vincente dal Concilio, tuttavia, è ben diversa. Tra le parole chiave della posizione nicena, la più famosa è probabilmente un aggettivo che in italiano si può tradurre con “consustanziale” [ὁμοούσιος, homoousios ndr]: il Verbo è della stessa “sostanza” di colui che i cristiani chiamano il Padre, cioè, in termini più vicini ai nostri, è Dio nello stesso senso nel quale lo è il Padre. L’obiezione è ovvia: se il Padre è Dio e lo è anche il Verbo, gli “Dei” sono due (come minimo: la situazione, com’è noto, si complicherà ulteriormente). Ci vorrà parecchio tempo perché la Teologia, mediante equilibrismi terminologici abbastanza audaci, elabori quella che diventerà la dottrina trinitaria, cioè una comprensione di Dio come unità differenziata e non come monade. Le Chiese dei nostri giorni, tuttavia, vivono in una società totalmente estranea già alle narrazioni bibliche, figuriamoci alle elucubrazioni della Teologia dei primi secoli. Le liturgie utilizzano abbastanza placidamente le antiche formulazioni, come segno della continuità della Chiesa nel tempo; che però coloro che le recitano ne comprendano il significato, è più che dubbio. Molti e molte si chiedono se non sia opportuno che le comunità di oggi esprimano la loro fede con parole che sentono e comprendono. Personalmente, la ritengo un’esigenza legittima: come diceva non un relativista postmoderno, bensì Tommaso d’Aquino, la fede si rivolge a Dio e non alle formulazioni su Dio, il che autorizza le diverse generazioni alla stessa audacia espressiva utilizzata dai nostri padri e dalle nostre madri nella fede. A Nicea non è stato indicato un punto d’arrivo (come del resto dimostra la storia successiva), bensì un punto di non ritorno: secondo la Chiesa cristiana, il nome del Dio tre volte santo, del Dio di Israele, non può in alcun modo essere separato dalla storia di Gesù. L’affermazione secondo la quale una storia umana è decisiva per la relazione con colui che è eterno è paradossale per le tradizioni religiose del mondo antico e non solo, mentre Nicea la afferma in modo irreversibile. Per tale ragione, l’affermazione di Shalom Ben Chorin dalla quale siamo partiti mantiene la propria validità. Le modalità nelle quali la Chiesa può anzitutto vivere, e poi anche esprimere, la relazione tra Dio e Gesù non possono essere confinate dalla Chiesa nel suo passato, ma costituiscono il suo futuro”.
Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE
Ho tenuto per ultimo l’articolo più corposo e meno recente. Non è una lettura leggera, ma la ritengo interessante e adatta a concludere questo trittico sulle polarizzazioni. Si tratta di un testo di Diego Fares e Austen Ivereigh, pubblicato sul Quaderno 4047 de La Civiltà Cattolica il 2 febbraio 2019. E’ importante sapere la data perché vi sono alcune cose che vanno contestualizzate. “Comunicare in una società polarizzata, essere promotori di unione, di incontro, di riconciliazione, di corrispondenza nella diversità: qual è l’atteggiamento, la forma mentis necessaria per essere buoni comunicatori in un contesto in cui la polarizzazione vuole imporre la propria legge a ogni discorso pubblico o privato? La polarizzazione è un fenomeno antico quanto l’uomo, ma che oggi tende a incrementarsi esponenzialmente di fronte a cambiamenti e incertezze su vasta scala. Negli Usa, Paese in cui attualmente quasi la metà degli elettori, sia democratici sia repubblicani, vedono i propri avversari politici come una minaccia al benessere della nazione, la crescente polarizzazione ha dato origine a studi e progetti finalizzati a superarla (Cfr i risultati dell’inchiesta del Pew Research Center, «Partisanship and Political Animosity in 2016», 22 giugno 2016). In questo ambito spicca lo psicologo sociale Jonathan Haidt [noto ultimamente per il best seller “La generazione ansiosa” ndr], che in The Righteous Mind ha sottolineato l’importanza delle «intuizioni morali» e il fatto che le persone cerchino argomenti per difenderle (Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione, Torino, Codice, 2013). Per oltrepassare il fossato che li separa, liberali e conservatori hanno bisogno di apprendere quali sono le intuizioni morali che rispettivamente li motivano. L’organizzazione civica Better Angels cerca di «depolarizzare l’America», attuando progetti pratici nei quali riunisce sostenitori dei democratici e dei repubblicani. Il fondatore, David Blankenhorn, che descrive se stesso come una persona ferita dalle culture wars americane, ha individuato sette «atteggiamenti» per «depolarizzare» il conflitto, deducendoli dalle sette virtù classiche del cristianesimo. Le tre virtù più elevate, secondo Blankenhorn, sono: 1) «criticare da dentro», vale a dire criticare l’altro a partire da un valore che si ha in comune (riconoscendo che le intuizioni morali di solito sono universali); 2) «guardare ai beni in gioco», cioè riconoscere che, mentre alcuni conflitti riguardano il bene in contrasto con il male, la maggior parte di essi avvengono tra beni, e l’incombenza pertanto non consiste tanto nel separare il bene dal male, quanto nel riconoscere e soppesare beni in competizione tra loro; 3) «contare più di due», cioè superare la tendenza a dividere per binomi antagonistici, che conducono a pseudo-contrasti. (Gli altri quattro atteggiamenti riguardano l’importanza di dubitare, di precisare, di sfumare e di mantenere la conversazione. Cfr «The Seven Habits of Highly Depolarizing People», in ; D. Blankenhorn, «Why polarization matters»). Anche nella Chiesa cattolica americana possiamo riscontrare tentativi di superare le acute divisioni intraecclesiali tra praticanti «progressisti» e «conservatori». Nel giugno del 2018, per esempio, la Georgetown University ha patrocinato un incontro di 80 autorevoli esponenti cattolici con lo scopo di superare la polarizzazione sulla base della dottrina sociale della Chiesa e dell’insegnamento di papa Francesco. Uno dei relatori, il cardinale e arcivescovo di Chicago Blase Joseph Cupich, ha fatto notare la distinzione tra «parteggiare» e «polarizzarsi». Il primo atteggiamento comporta divisione o disaccordo, e tuttavia consente di lavorare assieme per raggiungere finalità condivise; invece, nel secondo caso, l’isolamento e la sfiducia degli uni verso gli altri rende impossibile la cooperazione. Cupich ha fatto riferimento a san Giovanni Paolo II e alla sua equiparazione della polarizzazione a un peccato, perché suscita ostacoli che paiono insuperabili rispetto all’attuazione del piano di Dio per l’umanità.
La posizione di papa Francesco nei confronti della polarizzazione Papa Francesco ha osservato che «ci capita di attraversare un tempo in cui risorgono epidemicamente, nelle nostre società, la polarizzazione e l’esclusione come unico modo possibile per risolvere i conflitti» (Omelia nel Concistoro, 19 novembre 2016). Nel suo ultimo messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali ha affermato: «Nei social web troppe volte l’identità si fonda sulla contrapposizione nei confronti dell’altro, dell’estraneo al gruppo: ci si definisce a partire da ciò che divide piuttosto che da ciò che unisce, dando spazio al sospetto e allo sfogo di ogni tipo di pregiudizio (etnico, sessuale, religioso, e altri)» («Siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,25). Dalle «community» alle comunità. Messaggio per la 53a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2019). Il Papa ha riflettuto sull’essere membra gli uni degli altri come la motivazione più profonda del dovere di custodire la verità, la quale infatti si rivela nella comunione. E ha descritto la Chiesa come «una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui like, ma sulla verità, sull’amen, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri». Uno dei discorsi più importanti pronunciati da papa Francesco al riguardo è stato quello al Congresso degli Stati Uniti: «Ma c’è un’altra tentazione da cui dobbiamo guardarci: il semplicistico riduzionismo che vede solo bene o male, o, se preferite, giusti e peccatori. Il mondo contemporaneo, con le sue ferite aperte che toccano tanti dei nostri fratelli e sorelle, richiede che affrontiamo ogni forma di polarizzazione che potrebbe dividerlo tra questi due campi». Il Papa proseguiva esponendo un possibile paradosso: «Nel tentativo di essere liberati dal nemico esterno, possiamo essere tentati di alimentare il nemico interno. Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto. Questo è qualcosa che voi, come popolo, rifiutate» (Discorso all’ Assemblea plenaria del Congresso degli Stati Uniti d’America, 24 settembre 2015. In un’altra occasione il Papa ha anche detto: «Il virus della polarizzazione e dell’inimicizia permea i nostri modi di pensare, di sentire e di agire. Non siamo immuni da questo e dobbiamo stare attenti perché tale atteggiamento non occupi il nostro cuore, perché andrebbe contro la ricchezza e l’universalità della Chiesa» (Francesco, Omelia nel Concistoro, cit.). Sotto il profilo cristiano, questo rifiuto, questa resistenza è un «criterio di sanità e ortodossia cristiana [che] non sta tanto nel modo di agire quanto nel modo di resistere». Una resistenza personale, che riconosce che la polarizzazione nasce anzitutto nel cuore umano, per essere successivamente alimentata dai media e dalla politica. Nel Messaggio per la 50a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali il Papa ha precisato che il cattivo uso dei mezzi di comunicazione può «condurre a un’ulteriore polarizzazione e divisione tra le persone e i gruppi» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo. Messaggio per la 50a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2016). Allo stesso modo, una politica è malsana se prospera in funzione dei conflitti, accentuandoli per accrescere il potere o l’influenza del politico «intermediario», diversamente da una politica sana, che si sforza di conciliare le persone per il bene comune e nella quale il politico «mediatore» sacrifica se stesso a favore del popolo (J. M. Bergoglio, trascrizione della lezione inaugurale del Corso di formazione e riflessione politica, Cefas, 1 giugno 2004). Già nel 1974, quando era stato da poco nominato provinciale dei gesuiti, Bergoglio metteva in risalto che negli Esercizi Spirituali il peccato è «fondamento disgregatore della nostra appartenenza al Signore e alla nostra santa madre, la Chiesa» (Nel cuore di ogni padre. Alle radici della mia spiritualità, Milano, Rizzoli, 2014, 139). Il peccato disintegra anche la nostra appartenenza all’umanità. Inoltre affermava che «l’unico nemico reale è il nemico del piano di Dio», perché, come dice Paolo, «tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). E concludeva: «È questa l’ermeneutica per discernere ciò che è principale da ciò che è accessorio, ciò che è autentico da ciò che è falso», le «contraddizioni del momento» dal tempo di Dio, che è «più grande delle nostre contraddizioni».
Una «forma mentis» depolarizzatrice Analizzeremo ora quattro atteggiamenti di papa Francesco che possono aiutarci a configurare la forma mentis necessaria per discernere come comunicare bene in una società polarizzata. Si tratta di due «no» e di due «sì». Innanzitutto, non discutere con chi cerca di polarizzare, e non lasciarsi confondere da false contraddizioni. Poi, dire di sì, più con le opere che a parole, alla misericordia come paradigma ultimo, e dirlo in quel dialetto materno che raggiunge il cuore di ogni persona nella sua specifica cultura. Consideriamo innanzitutto alcune situazioni in cui il Papa, con poche parole (a volte gli sono bastati un gesto, una pausa o un silenzio significativo), ha comunicato bene in un contesto di polarizzazione. Nell’incontro che si è tenuto all’Augustinianum sul dialogo intergenerazionale, in occasione della presentazione del libro La saggezza del tempo (Francesco, La saggezza del tempo. In dialogo con papa Francesco sulle grandi questioni della vita, Milano, Rizzoli, 2018), papa Francesco ha dialogato con una coppia di nonni che gli esprimevano la necessità di essere aiutati per riuscire a parlare bene con i loro figli. Gli dicevano: «Nonostante i nostri sforzi, come genitori, di trasmettere la fede, i figli qualche volta sono molto critici, ci contestano, sembrano respingere la loro educazione cattolica. Che cosa dobbiamo dire loro?». Il Papa ha fatto una brevissima pausa, e poi ha risposto con fermezza: «C’è una cosa che ho detto una volta, perché mi è venuta spontanea, sulla trasmissione della fede: la fede va trasmessa “in dialetto”. Sempre. Il dialetto familiare, il dialetto… Pensate alla mamma di quei sette giovani di cui leggiamo nel Libro dei Maccabei: per due volte il racconto biblico dice che la mamma li incoraggiava “in dialetto”, nella lingua materna, perché la fede era stata trasmessa così, la fede si trasmette a casa» (Dialogo intergenerazionale, Incontro con i giovani e anziani all’Augustinianum, Roma, 23 ottobre 2018). Poi ha aggiunto: «Mai discutere, mai, perché questo è un tranello: i figli vogliono portare i genitori alla discussione. No. Meglio dire: “Non so rispondere a questo, cerca da un’altra parte, ma cerca, cerca…”. Sempre evitare la discussione diretta, perché questo allontana. E sempre la testimonianza “in dialetto”, cioè con quelle carezze che loro capiscono». La forza di quel breve dialogo tra il Papa e la coppia di genitori-nonni contiene un nucleo comunicativo che disarma chi, intenzionalmente o involontariamente, polarizza. Si tratta di adottare questi due atteggiamenti: dare testimonianza in dialetto e non discutere. Non discutere presuppone che si faccia un discernimento: dire «no» a una falsa polarizzazione e dire «sì» a un paradigma che la supera, quello della misericordia. Questi atteggiamenti affiorano in altri due episodi del pontificato di Francesco. Il primo durante il volo di ritorno dal viaggio apostolico in Irlanda. Una giornalista gli fece una domanda a proposito delle accuse di copertura lanciate quella mattina dall’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò (Conferenza stampa durante il volo di ritorno dall’Irlanda, 26 agosto 2018). La domanda sollecitava il Papa a dichiarare se quelle accuse (sulla vicenda di abusi sessuali in cui era coinvolto l’ex cardinale McCarrick) fossero effettivamente vere. Anziché rispondere secondo i termini tratteggiati da Viganò, Francesco replicò che per il momento non avrebbe detto nemmeno una parola: invitava piuttosto i giornalisti a indagare in prima persona sulla verità delle accuse. Il suo silenzio è stata interpretato in vario modo, più o meno favorevolmente; ma l’importante è stato il fatto che il Papa abbia scelto di mantenere il silenzio. Su questo torneremo più avanti. L’altro episodio ha avuto luogo nel volo di ritorno dal viaggio apostolico in Myanmar e Bangladesh (Saluto ai giornalisti durante il volo di ritorno dal Bangladesh, 2 dicembre 2017). Durante la visita si era creata una polarizzazione rispetto all’eventualità di pronunciare il termine rohingya, un’etnia che le autorità militari del Myanmar non riconoscono. Il Papa aveva evitato di usare quel termine in Myanmar ma, una volta giunto in Bangladesh, ha avuto un commovente incontro con 16 rifugiati di quella etnia, nel quale ha detto che «la presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya» (A. Tornielli, «Il Papa: “La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya”», in Vatican Insider, 1 dicembre 2017). Nella conferenza stampa a bordo dell’aereo, il Papa ha spiegato che usare quel termine nei suoi discorsi ufficiali sarebbe equivalso a sbattere la porta in faccia all’interlocutore, e «simili atti di aggressività chiudono il dialogo, chiudono la porta, e il messaggio non arriva». Piuttosto, nei suoi discorsi in Myanmar aveva parlato dell’importanza di includere tutti, dei diritti e della cittadinanza, e questo successivamente, nei suoi incontri privati, gli aveva consentito di «andare oltre». Poi, nell’incontro interreligioso di Dacca, quel termine gli era sfuggito spontaneamente quando aveva salutato i rifugiati. Riferisce il Papa: «Io cominciai a sentire qualcosa dentro: “Ma io non posso lasciarli andare senza dire una parola”, e ho chiesto il microfono. E ho incominciato a parlare… Non ricordo cosa ho detto. So che a un certo punto ho chiesto perdono. […] Io piangevo. Facevo in modo che non si vedesse. Loro piangevano pure». Francesco ha completato così la sua riflessione: «E, visto tutto il trascorso, tutto il cammino, io ho sentito che il messaggio era arrivato». Egli aveva un messaggio da comunicare, un messaggio incentrato sulla misericordia e sull’inclusione e, per comunicarlo, era stato capace di superare le polarizzazioni.
Non discutere con chi accusa La testimonianza e il consiglio di Francesco sono di non discutere in un contesto polarizzato, sia che si tratti di un contesto familiare, con la raccomandazione rivolta ai genitori quando i figli cercano di trascinarli in una discussione, sia che si tratti di discussioni pubbliche, in cui si lanciano accuse cariche di aggressività mediatica, come quelle del caso Viganò. Il contesto familiare nel quale il Papa ha messo in luce il criterio di «non discutere» ci mostra come il «virus della polarizzazione» si annidi perfino tra coloro che si amano. Questo stesso fatto aiuta a comprendere il tranello in cui solitamente cadiamo quando ci lasciamo trasportare dallo spirito di discussione. Con coloro che ci amano, il non discutere si congiunge con il parlare loro «in dialetto», sapendo che essi comprenderanno questo linguaggio d’amore. Con coloro che non ci amano e ci attaccano, il non discutere si accompagna, invece, al fare silenzio e, come si comportava il Signore quando non rispondeva alle provocazioni degli scribi e dei farisei, a lasciarli «cuocere nel loro brodo». Afferma il Papa: «Con le persone che non hanno buona volontà, con le persone che cercano soltanto lo scandalo, che cercano soltanto la divisione, che cercano soltanto la distruzione, anche nelle famiglie: silenzio. E preghiera» (Francesco, Omelia in Santa Marta, 3 settembre 2018). Il silenzio evita che si rimanga impigliati nella spirale di accuse e condanne, dietro le quali c’è sempre lo spirito cattivo del «grande Accusatore» (fra il 3 e il 20 settembre 2018, dopo il silenzio mediatico che si era imposto riguardo alle accuse di Viganò, il Papa ha pronunciato otto omelie contro «il grande Accusatore», del quale ha descritto ampiamente l’atteggiamento nel contesto adeguato, quello della predicazione della parola di Dio). Di fronte all’accanimento aggressivo è possibile soltanto un atteggiamento: quello di Gesù. «Il pastore, nei momenti difficili, nei momenti in cui si scatena il diavolo, dove il pastore è accusato, ma accusato dal grande Accusatore tramite tanta gente, tanti potenti, soffre, offre la vita e prega» (Omelia in Santa Marta, 18 settembre 2018). È un silenzio che svela l’unica contraddizione reale: quella che si instaura tra il padre della menzogna e Cristo crocifisso (Satana «vide Gesù così disfatto, stracciato e, come il pesce affamato che va all’esca attaccata all’amo, lui è andato lì e ingoiò Gesù […], ma in quel momento ingoiò pure la divinità, perché era l’esca attaccata all’amo col pesce» (ivi, 14 settembre 2018). «In momenti di oscurità e grande tribolazione, quando i “grovigli” e i “nodi” non si possono sciogliere, e neppure le cose chiarirsi, allora bisogna tacere: la mansuetudine del silenzio ci mostrerà ancora più deboli, e allora sarà lo stesso demonio che, facendosi baldanzoso, si manifesterà in piena luce, mostrerà le sue reali intenzioni, non più camuffato da angelo della luce, ma in modo palese» (Non fatevi rubare la speranza, Milano, Mondadori, 2013, 85-108). Contro il grande Accusatore il criterio è quello del Signore, che non parla di sé, ma lo vince con la parola di Dio (Omelia in Santa Marta, 3 settembre 2018). Questo atteggiamento di «non discutere» non ha nulla a che vedere con la pace quietista e con il falso irenismo che, secondo la logica della polarizzazione, implicherebbero parzialità («chi tace acconsente») o fuga dal conflitto. Niente è più lontano dal pensiero del Papa e dal suo atteggiamento. Non soltanto egli accoglie il conflitto e la tensione come opportunità creative, ma discerne l’azione dello spirito cattivo nel suo tentativo di camuffare la vera contraddizione e di proporre la pace come se fosse un affare e non un lungo cammino. In una meditazione proposta agli studenti del Colegio Máximo, in occasione della fine dell’anno 1980 (J. M. Bergoglio, Natale, Milano, Corriere della Sera, 2014, 107 ss), Bergoglio faceva notare che le tentazioni contro l’unità possono essere molte, ma la principale «si fonda nel rifiuto del modello bellico della vita spirituale; e si può respingerlo o perché si vagheggia un irenismo, o perché ci si affretta dietro al prurito di un raccolto prematuro, accentuando le contraddizioni». E affermava: «L’irenismo delinea una specie d’illusoria “pace a qualsiasi costo”, in ossequio alla quale si negozia ciò che non è negoziabile e si perde la capacità di condannare. […] L’altra tentazione è una caricatura del senso bellico della vita». Allo stesso modo egli in seguito dirà nell’Evangelii gaudium (EG): «Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (EG 227). Di fronte a un mondo polarizzato, quella di astrarsi o di disinteressarsi non è un’opzione, ma piuttosto una tentazione. Essa è comprensibile, forse, in un contesto mimetico in cui il rischio di restare contaminati è molto grande, e tuttavia il suggerimento di Francesco è di entrare, ma con discernimento. Egli invita ad assumere un atteggiamento chiaramente missionario: l’accusa di se stessi, che ci porta a dialogare con la Misericordia di Dio, invece di entrare nella dinamica del sentirci vittime e di accusare gli altri («Accusare se stesso è il sentimento della mia miseria, di sentirsi miserabili, misero, davanti al Signore. Il sentimento della vergogna. E infatti accusare se stesso non si può fare a parole, bisogna sentirlo nel cuore», Omelia in Santa Marta, 6 settembre 2018), va di pari passo con l’uscita missionaria ad annunciare il Vangelo. Anziché restarsene chiusa nella discussione e operare «contromosse», la Chiesa fa un passo «verso coloro che hanno più bisogno di lei», verso quelli che ancora non hanno ascoltato il Vangelo. La Chiesa, quando venne perseguitata, diventò missionaria.
Non vedere contraddizioni dove ci sono solo contrasti Invece di discutere, bisogna discernere. Infatti, quando è in atto una polarizzazione, non si tratta soltanto di uno scontro di idee, ma anche di spiriti (Cfr J. M. Bergoglio, «La dottrina della tribolazione», in Civ. Catt. 2018 II 214). Lo spirito cattivo, soprattutto in un contesto di tribolazione, cerca di trasformare i dissensi in conflitti. Come dice Gustave Thibon, «uno dei segni fondamentali della mediocrità di spirito è vedere contraddizioni dove ci sono soltanto contrasti». I quattro princìpi di papa Francesco, in particolare due di essi, sono i criteri per tale discernimento. La lucidità che è richiesta per discernere che «l’unità prevale sul conflitto»[39] è una lucidità paziente, che «accetta di sopportare il conflitto» per riuscire a risolverlo, senza rimanerne imprigionati. È richiesta lucidità anche per discernere che «la realtà è più importante dell’idea». È più importante, perché la realtà non è mai contraddittoria. Per Guardini, la contraddizione è qualcosa che si dà soltanto nel pensiero e nel linguaggio, non nella realtà. La realtà – quella che egli chiama il «concreto vivente» – è sempre complessa; tutti i poli vi trovano posto; ogni essere vivente è una trama di relazioni che sono tra loro in contrasto, ma non in contraddizione. Guardini descrive le tensioni tra sopra-dentro, interno-esterno, forma-pienezza, struttura-forza vitale. Una realtà non contraddice quella precedente, ma la assume, la trasforma o se la lascia dietro. Per questo, come scriveva il Papa al popolo cileno, «discernere presuppone imparare ad ascoltare ciò che lo Spirito vuole dirci. E potremo farlo soltanto se siamo capaci di ascoltare la realtà di ciò che accade» (Francesco, Lettera al Popolo di Dio pellegrino in Cile). Nel suo scritto «Alcune riflessioni sull’unione degli animi», pubblicato nel 1990, Bergoglio chiarisce la differenza tra contraddizione e contrapposizione o contrasto: la contraddizione è sempre escludente, non concede spazio alle alternative, è disgiuntiva. La contrapposizione, invece, indicherebbe piuttosto le cose che, apparentemente e/o realmente contrarie, possono accordarsi (J. M. Bergoglio, Non fatevi rubare la speranza, Milano, Mondadori, 2013, 152). Le diversità di idee, di affetti, di immaginazioni e di mozioni che affiorano quando si prega e si discerne possono raggiungere «una nuova unità interiore, continua ma distinta da quella che c’era prima che avesse inizio il processo di discernimento» (il processo avviene nel dialogo interiore, contraddistinto dalla pace. Bergoglio afferma che, «se esaminiamo con attenzione la nostra esperienza interiore, possiamo notare che le tensioni si risolvono su un piano superiore, mantenendo – nella nuova armonia raggiunta – la potenzialità delle diverse particolarità»). La nuova armonia si può sempre «disarmonizzare», e ciò richiede che noi siamo costantemente aperti a nuove sintesi. «Tutto questo processo configura ciò che potremmo definire etimologicamente un “conflitto” («Sant’Ignazio non teme il conflitto. Anzi, si insospettisce quando, negli Esercizi spirituali, luogo privilegiato di discernimento e di lotta di spiriti, non lo riscontra») […]. Questo conflitto interiore, che preferisco chiamare “contrapposizione” piuttosto che “contraddizione”, è il riferimento interiore che abbiamo di unità nella diversità per capire cos’è, nel corpo della Compagnia, l’unità nella diversità» e, per analogia, ciò che è unità nella diversità nella Chiesa e nella società. Per questo il Papa ha potuto riporre fiducia nel processo sinodale, a volte turbolento e conflittuale, che ha dato luogo alla nuova prassi pastorale dell’Amoris laetitia. Attraverso la riflessione, lo scambio di punti di vista, la preghiera e il discernimento «lo spirito buono ha prevalso», nonostante le tentazioni lungo il percorso.
Il «sì» al paradigma della Misericordia Il discernimento che ci rafforza nel dire «no» alla discussione che polarizza ha il suo principio e fondamento in un «sì» più profondo e radicale: il «sì» della Misericordia divina a tutto il creato. La Misericordia incondizionata di Dio, che per noi è divenuta concreta in Gesù, è l’unica realtà capace di risanare e armonizzare ogni falsa contraddizione con la forza dell’amore di Dio che, «per sua natura, è comunicazione» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo). La Misericordia «è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio» (GE 105), come afferma efficacemente il Pontefice. È il paradigma ultimo, il più alto, e la nostra missione è annunciarlo con le opere e con le parole. Ne troviamo il modello nella parabola del Buon Samaritano insegnataci da Gesù. Questa non contiene soltanto una rivelazione soprannaturale, ma anche una rivelazione di ciò che è più teneramente umano. Alla pratica delle opere di misericordia cosiddette «corporali», in quanto riguardano la carne del prossimo, è complementare quella delle opere di misericordia «spirituali», che consistono nella buona comunicazione: insegnare a chi non sa, dare un buon consiglio a chi ne ha bisogno, correggere colui che sbaglia, perdonare le offese, consolare chi è afflitto, sopportare pazientemente i difetti degli altri e pregare per tutti. Praticare queste opere di misericordia significa lanciare un messaggio chiaro, che tocca il cuore di chi ne viene a conoscenza. Il Papa fa notare: «Ciò che diciamo e come lo diciamo, ogni parola e ogni gesto dovrebbe poter esprimere la compassione, la tenerezza e il perdono di Dio per tutti. […] La mite misericordia [di Cristo] è la misura della nostra maniera di annunciare la verità e di condannare l’ingiustizia. È nostro precipuo compito affermare la verità con amore (cfr Ef 4,15). Solo parole pronunciate con amore e accompagnate da mitezza e misericordia toccano i cuori di noi peccatori» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo). Francesco vuole che «lo stile della nostra comunicazione sia tale da superare la logica che separa nettamente i peccatori dai giusti» e che al tempo stesso generi «prossimità […] in un mondo diviso, frammentato, polarizzato». Il criterio di discernimento della buona comunicazione è lo stesso di quello della vita di ogni cristiano, e della vita della Chiesa in generale: è quello di verificare se la misericordia cresce. «Il modo migliore per discernere se il nostro cammino di preghiera è autentico sarà osservare in che misura la nostra vita si va trasformando alla luce della misericordia» (GE 105).
Dare testimonianza «in dialetto» Si tratta, dunque, di dire e di fare le cose «nello stile di Gesù», con un spirito buono, come diceva san Pietro Favre. L’espressione che usa Francesco è «dare testimonianza in dialetto». Il contenuto di tale testimonianza è ciò che il Papa chiama «dottrina»: verità sentite, non meramente conosciute. La dottrina forgia l’unità vera, perché «le cose di Dio sommano sempre. Non sottraggono. Radunano» (J. M. Bergoglio, Natale). Ma per la stessa ragione essa genera opposizione e resistenza: «È soltanto quando la Chiesa afferma la dottrina che affiora il vero scisma». Il pensiero e la testimonianza di Francesco offrono, pertanto, un percorso di depolarizzazione che si potrebbe applicare a molti contesti in cui ci sono «partiti» contrapposti: per esempio, tra liberali e conservatori nella Chiesa o, in Inghilterra, tra i sostenitori di Remain e Leave, divisi sulla Brexit. È un cammino che accoglie la tensione e il disaccordo come opportunità per creare qualcosa di superiore in base a una diversità conciliata e al paradigma della misericordia, evitando le trappole mortifere della sterile polarizzazione. È una maniera di dialogare non a partire dai disaccordi, ma ascoltando gli uni i sogni degli altri. Trovare il modo di dare testimonianza dell’amore e della misericordia nel «dialetto materno» è il nucleo di un comportamento che vale sia nell’ambito ristretto del dialogo familiare sia in quello ampio delle discussioni pubbliche. In sostanza, per comunicare bene, il punto decisivo è trovare il filo di quel linguaggio che è alla base della vita, là dove dietro le parole si nasconde la fonte della tenerezza che ha reso possibile la vita in comune di ogni famiglia, di ogni comunità e di ogni popolo. Questa è la sfida: trovare e non perdere il filo di tale linguaggio materno che unisce ogni realtà, per fronteggiare il linguaggio astratto delle ideologie che separano. «Fratelli, le idee si discutono, le situazioni si discernono. Siamo riuniti per discernere, non per discutere» (Francesco, Lettera ai vescovi cileni, 15 maggio 2018).”
Oggi pubblico un articolo piuttosto denso, dedicato più a colleghe e colleghi che a studentesse e studenti. A scrivere è la teologa Selene Zorzi sulle pagine di Rocca. Si parla di teologia: di quanto sia importante oggi e di come sarebbe interessante proporne l’insegnamento. E’ un punto di vista chiaro, netto, fuori dal coro. Era inevitabile che suscitasse la mia attenzione. Buona lettura.
“La teologia italiana oggi vive in un paradosso: mentre il patrimonio culturale e spirituale del cristianesimo permea la storia e l’identità nazionale (“donna, madre e cristiana”), la riflessione teologica rimane sostanzialmente sconosciuta ai più. Questa situazione genera una frattura tra l’eredità cristiana come fenomeno culturale e la sua comprensione critica da parte della società civile. Il cittadino medio che volesse approfondire questioni teologiche si trova di fatto escluso dai percorsi formativi esistenti: da un lato gli Istituti teologici (o gli Issr), sotto stretto controllo dell’autorità ecclesiastica e orientati prevalentemente alla formazione intraecclesiale; dall’altro la teologia è estromessa dalle facoltà universitarie statali. Cosa può fare chi, pur non condividendo la fede cristiana – magari ateo e materialista – è intellettualmente attratto da questioni teologiche che nutre legittime riserve verso l’istituzione ecclesiastica ma che riconosce la rilevanza culturale e filosofica del pensiero teologico? È un profilo tutt’altro che marginale nella società contemporanea! Le università che offrono un percorso di Storia del pensiero teologico (perché la parola Teologia non può essere usata in ambito pubblico senza il patrocinio Cei) sono pochissime e comunque nessuna università italiana concede un titolo in Teologia che del resto non avrebbe sbocchi. Le resistenze ad iscriversi ad un corso di Teologia confessionale sono comprensibili: la diffidenza verso il clero, acuita dalle recenti cronache di abusi; il timore dell’indottrinamento; l’incompatibilità tra i propri impegni professionali e la struttura rigida dei corsi ecclesiastici. Queste barriere stanno creando un disastro culturale. Il cristianesimo finisce per essere rappresentato solo nei suoi lati più imbarazzanti: politici che sventolano rosari, il cristianesimo associato solo alla retorica moralista, gli scandali del clero che fanno perdere credibilità al messaggio evangelico. Tutto il resto, la ricchezza filosofica e culturale di secoli di pensiero, rimane ignorato o sottostimato. Anche le agorà culturali, al di là dell’entusiasmo, che può avere vita breve, non trasmettono né accompagnano in approfonditi percorsi di riflessione teologica.
IL PARADOSSO DELLA TEOLOGIA ITALIANA Mancano strutture in grado di rispondere all’esigenza di colmare questo vuoto ma non è difficile immaginarle anche sulla base del fatto che da decenni si sono moltiplicati luoghi di studio e diffusione della teologia (Scuole di Teologia diocesana, percorsi spirituali e culturali nelle foresterie monastiche, corsi o incontri promossi da parrocchie, reti e associazioni). Nessuno di questi appare del tutto scollegato da un beneplacito ecclesiastico. Oggi vediamo anche il moltiplicarsi di proposte di riflessione e percorsi biblici e teologici, permesse soprattutto dalla presenza virtuale e dal nuovo protagonismo delle teologhe (si pensi al successo che hanno i corsi di Teologia online del Coordinamento teologhe italiane). In tale moltiplicazione di iniziative si trova anche chi ha il coraggio di offrire una riflessione fuori dalle braccia di Madre Chiesa. Nel contesto italiano, dove la teologia è spesso ancora intrecciata con l’autorità ecclesiastica, tale autonomia di pensiero rischia di essere letta come minaccia o arroganza. L’accusa implicita di egocentrismo, l’invito a lavorare “in rete” e la diffidenza nei confronti di iniziative autonome e fuori dagli schemi tradizionali pone quindi una domanda cruciale: chi ha il diritto di fare teologia? E come? Chi vive una tensione tra competenza personale e il riconoscimento istituzionale può sentire una frustrazione che però potrebbe essere generativa di nuove posture: la marginalità e il desiderio di portare la teologia fuori dai recinti ecclesiastici possono costituire una opportunità. Sembra emergere oggi un bisogno: in un’epoca di crescente secolarizzazione, ma anche di nuove ricerche di senso e di crisi delle certezze moderne, la riflessione teologica può assolvere ad una missione culturale più ampia. Mantenerla confinata negli ambienti ecclesiastici significa privarla della sua potenziale funzione pubblica. Occorre quindi pensare e moltiplicare centri culturali capaci di operare secondo principi radicalmente diversi da quelli degli istituti ecclesiastici tradizionali. Queste “scuole” dovrebbero adottare un approccio storico-filosofico o comparativo alle questioni teologiche, privilegiando il rigore critico rispetto all’adesione confessionale. Questo non significa necessariamente coltivare luoghi di ostilità verso la fede o la Chiesa cattolica, ma piuttosto la creazione di uno spazio dove credenti e non credenti possano confrontarsi su un piano paritario (fa scuola la cattedra dei non credenti creata dal card. Martini). La teologia deve avere il coraggio di diventare divulgativa senza cadere nell’apologia o nel catechismo: andrebbe quindi abbandonato il gergo specialistico per adottare un linguaggio diretto e comprensibile. La fortuna che hanno fenomeni come Vito Mancuso, Michela Murgia, Massimo Recalcati non sta solo nel fatto che hanno intercettato un bisogno evidente nella società di oggi, ma soprattutto perché hanno saputo spezzare l’involuto linguaggio teologico per renderlo accessibile a tutti. Non si tratta di semplificare i contenuti, ma tradurli in modo da rendere le questioni fondamentali accessibili anche a chi non possiede una formazione (ecclesiale). Un elemento determinante per garantire l’autonomia intellettuale di questi percorsi e l’apertura al di fuori dei confini confessionali sarà il fatto che i preti dovranno lasciare la scena: il corpo docenti dovrà essere formato da laici. E oggi sono soprattutto le donne a garantire una riflessione teologica sottratta alle dinamiche di autorità proprie delle istituzioni ecclesiastiche per il fatto che non possono essere ordinate. D’altra parte le donne stesse dovranno vigilare a non riprodurre dinamiche di controllo o di potere da Congregazione per la dottrina della fede che avendo subito possono inconsapevolmente essere messe in atto. La lezione di “autodeterminazione” che abbiamo imparato dal femminismo deve valere per noi ma anche per le generazioni dopo di noi. Superando il modello della lezione frontale, questi luoghi dovrebbero privilegiare metodologie partecipative: seminari, tavole rotonde, classi capovolte, laboratori di pensiero che favoriscano il confronto critico e la co-costruzione del sapere. Il modello “formazione” già abbondantemente presente nelle aziende (e che viene imposto oramai sempre più purtroppo anche ai ragazzi nelle scuole, dove però sortisce effetti anche controproducenti) si presenta come metodo più adatto per gli adulti. Particolare attenzione andrebbe rivolta al dialogo interdisciplinare, invitando esperti di altre discipline – filosofi, sociologi, psicologi, scienziati – a confrontarsi con le questioni teologiche contemporanee. In questo senso, tematiche come l’etica dell’intelligenza artificiale, la teologia della sostenibilità ambientale, o l’analisi critica dei messaggi populisti che strumentalizzano il religioso, la relazione con le scienze, le arti e la letteratura, il cinema, la musica, potrebbero rappresentare terreni privilegiati di incontro e reciproca fecondazione tra saperi diversi. Il presupposto teoretico fondamentale è che la teologia, in quanto riflessione sistematica sul rapporto tra umano e trascendente, costituisce un patrimonio culturale che trascende i confini confessionali. Le grandi questioni teologiche – il senso dell’esistenza, il rapporto con il limite e la finitudine, la dimensione simbolica dell’esperienza umana – interpellano ogni essere pensante, indipendentemente dalle sue convinzioni religiose.
VERSO UNA TEOLOGIA PUBBLICA E PARTECIPATIVA L’urgenza di questo approccio si manifesta con particolare evidenza nel contesto delle crisi contemporanee. I conflitti bellici che attraversano l’Europa orientale e il Medio Oriente riattualizzano drammaticamente la questione teologica del male e della teodicea, mentre le derive populiste che investono le democrazie occidentali sollevano interrogativi profondi sul rapporto tra religione e potere politico. La crisi sistemica del capitalismo neoliberista pone con forza rinnovata la questione della giustizia sociale e dell’economia della condivisione, temi centrali nella tradizione profetica biblica. In un mondo come l’attuale, dove la vita delle persone appare senza “valore” se non produce ricchezza, dove il sapere tecnico diventa l’unico pattern per pensare, credere di poter mantenere il monopolio della teologia significa non credere nel suo potenziale pubblico e sociale, oltre ad essere una operazione impraticabile. L’implementazione di un tale progetto non è senza ostacoli. Primo fra tutti, la resistenza del mondo ecclesiastico, che potrebbe percepire questa iniziativa come una sottrazione di competenze, autorità e di uditorio. In secondo luogo, la diffidenza del mondo laico, che potrebbe sospettare strategie di proselitismo mascherato. Per non parlare delle questioni logistiche ed economiche. Esperienze già attuate e presenti dimostrano la fattibilità di simili progetti magari sponsorizzati da aziende o da privati in forma di accordo economico con un/a professionista. Immaginare una teologia che sappia uscire dalle proprie roccaforti istituzionali per confrontarsi con la complessità del mondo contemporaneo significa riconoscere che la verità teologica, se tale è, non può temere il confronto con altre forme di sapere. Restituire alla teologia la sua vocazione pubblica, sottraendola al monopolio ecclesiastico e al disinteresse laico costringe a immaginare percorsi che meritano la libertà di essere sperimentati, nella convinzione che il dialogo critico e rispettoso tra visioni del mondo diverse costituisca una risorsa preziosa per l’intera società. Occorre il coraggio di sollevare i vescovi dall’obbligo di dare la loro “benedizione” a percorsi che essi non possono e non devono riconoscere. Solo così si potrà evitare che il cristianesimo continui a essere percepito unicamente attraverso le sue manifestazioni più deteriori, e si potrà favorire una comprensione più profonda e articolata del suo contributo al pensiero occidentale e alla ricerca di soluzioni per le sfide epocali che ci attendono. Il dissidio della teologia italiana tra le forme istituzionali appiattite su dinamiche di potere da un lato e un crescente bisogno di pensiero, spiritualità e confronto proveniente dalle periferie ecclesiali e culturali attraversa potentemente l’esperienza di chi ha maturato competenze teologiche e intende avviare percorsi teologici fuori dall’asfittico mondo seminaristico. La frustrazione che ne emerge può funzionare da detonatore per iniziative nei quali proprio la marginalità diventi luogo teologico e il desiderio di portare la teologia fuori dai recinti ecclesiastici costituisca nuove forme di fecondazione per la teologia. In questa tensione si apre infatti una possibilità feconda: quella di una teologia che non cerca solo riconoscimento, ma significato, che non si misura sulla base della legittimità ricevuta dall’alto, ma della risonanza che genera nei vissuti concreti delle persone. Si tratta, in sostanza, di pensare la teologia non come sistema dottrinale da trasmettere, ma come strumento di pensiero critico e di discernimento, capace di generare coscienza e orientamento. Abbiamo bisogno di luoghi di studio che si presentino come “cattedra dei non credenti”, con persone professionalmente competenti per una consulenza teologica (non basta sentirsi ontologicamente superiori per avere anche capacità di gestione di un dialogo spirituale): laboratori di umanizzazione. Proprio lì, nel punto in cui l’io incontra il limite, si può aprire lo spazio per una teologia incarnata, significativa, politica.”
Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE
Sulle pagine di Avvenire, senza dichiararlo esplicitamente, la prof.ssa Paola Muller ritorna su alcuni concetti che sono stati al centro delle risposte di Leone XIV ai giovani nella veglia di sabato 2 agosto a Tor Vergata: Agostino, l’utilizzo del tempo, le scelte, il bene, il futuro.“
«Che cos’è dunque il tempo?». È una delle domande più celebri – e più disarmanti – della storia del pensiero. Agostino la pone all’inizio dell’undicesimo libro delle Confessioni, dopo aver raccontato la propria conversione e aver meditato sulla creazione del mondo: In principio Dio creò il cielo e la terra. Ma che cosa significa “principio”? Si tratta di un istante? Di un inizio cronologico? Oppure di qualcosa che sfugge alla nostra immaginazione? Nel riflettere sul tempo, Agostino non costruisce una teoria astratta. Parte piuttosto da un’esperienza che tocca ogni essere umano: il tempo ci accompagna in ogni istante, ma sfugge appena tentiamo di definirlo. “Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so” (Confessioni XI, 14.17). Per Agostino, il tempo è un paradosso vissuto. Parliamo continuamente di passato, presente e futuro, eppure – se ci pensiamo bene – il passato non è più, il futuro non è ancora, e il presente, se lo si prova a misurare, non ha estensione. Appena lo afferriamo, è già trascorso. Eppure, ricordiamo, attendiamo, calcoliamo durate. Com’è possibile? Dove si dà il tempo, se non ha consistenza né stabilità? Agostino propone una risposta radicale: il tempo non è qualcosa di esterno, ma è nell’anima. Non è una cosa, né un flusso oggettivo di eventi: è una modalità del vivere, una tensione interiore. Il tempo – per l’uomo – è vissuto prima che misurato. La chiave per capire questa visione è un’espressione centrale nella riflessione agostiniana: distensio animi (Confessioni XI, 26.33). L’anima, dice Agostino, è “distesa” tra ciò che ricorda e ciò che attende. Non vive in un eterno presente puntiforme, ma in una continua tensione tra passato e futuro, raccolta nell’attenzione al presente. Questa idea ha un’enorme forza antropologica. Per Agostino, l’uomo non è semplicemente un essere che “passa nel tempo”, ma una creatura capace di tenere insieme ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà. La memoria, l’attenzione e l’attesa sono le tre forme con cui l’anima si misura col tempo. Non misuriamo il tempo perché lo possediamo fuori di noi, ma perché lo custodiamo in noi. Esso è un tratto costitutivo della nostra coscienza. Agostino ricorre a un’immagine musicale per descrivere questa esperienza: l’anima è come un cantore che conosce il brano che sta per eseguire (Confessioni, XI, 28.38). All’inizio, tutto è attesa. Mentre canta, una parte del canto è passata, un’altra è ancora da eseguire. Solo nel presente l’anima tiene insieme ciò che ha già cantato e ciò che deve ancora cantare. Così avviene anche nella vita: la nostra coscienza non è mai pura immediatezza, ma è sempre memoria di ciò che è stato, attenzione a ciò che accade e anticipazione di ciò che verrà. In ogni istante, l’uomo è un essere narrativo, che tiene unito il proprio passato e il proprio futuro. La memoria è una delle grandi scoperte agostiniane. Non è un deposito passivo di ricordi, ma un atto vitale dell’anima, capace di dare senso al tempo vissuto. Nel De Trinitate (XV, 21.40), Agostino paragona la memoria al grembo in cui viene concepita la coscienza. Senza memoria, il tempo sarebbe un susseguirsi indistinto di frammenti. È la memoria che ci dà identità, che rende possibile la continuità del sé. Questa riflessione è quanto mai attuale. In un’epoca che tende a vivere nel presente perenne dell’istante, nella dispersione delle notifiche, nel consumo compulsivo di stimoli, nella rincorsa al “prossimo evento”. Ma se il tempo è una distensione dell’anima, come suggerisce Agostino, allora ogni accelerazione impone una domanda: dove sono io, in questo tempo che corre? Il tempo autentico non è solo quello che scorre, ma quello che raccoglie, che trasforma, che custodisce il senso. Agostino ci ricorda che la profondità della vita dipende dalla nostra capacità di fare memoria. Una società che dimentica non solo la storia, ma il proprio vissuto interiore, è una società che si disgrega nel tempo. Il cuore teologico della riflessione agostiniana sul tempo si gioca nel confronto con l’eternità. Dio non è nel tempo: è il Creatore del tempo. In Lui non c’è successione, ma solo presenza piena, totale, senza mutamento. L’eternità, scrive Agostino, è il “sempre ora”: non una durata infinita, ma una totalità senza inizio né fine. Questa differenza è decisiva: mentre l’uomo vive nella distensione, Dio vive nella pienezza. Mentre il tempo umano è instabile e fragile, Dio è stabile e immutabile. Ma proprio questa distanza non allontana, bensì chiama. Il tempo è la forma del nostro desiderio: viviamo nel tempo perché siamo fatti per l’eternità. Questa tensione si rivela nel cuore stesso della fede: se Dio ha creato il tempo, è perché vi vuole abitare. Se il Verbo si è fatto carne, è perché l’eternità ha voluto entrare nella storia. Il tempo, allora, non è un carcere da cui fuggire, ma il luogo in cui si compie il cammino della redenzione. Agostino sa che il tempo può disperdere, ma anche redimere. Il passato non è solo nostalgia, ma memoria trasfigurata; il futuro non è solo incognita, ma promessa. Il presente – spesso vissuto come un attimo fugace – diventa il luogo della decisione: è nel presente che si gioca la conversione, cioè il ritorno a Dio. Il passato può essere redento, il futuro può essere affidato, il presente può essere abitato. La conversione – nel linguaggio di Agostino – è un atto del presente, ma nasce dalla memoria e guarda alla speranza. È il momento in cui l’anima si riallinea alla verità, ritrova il ritmo dell’eterno. Per questo, nel pensiero agostiniano, il tempo ha anche un valore spirituale. Non è solo ciò che passa, ma ciò che può cambiare. È lo spazio della libertà, in cui l’uomo può voltarsi indietro per rileggere la propria vita e alzare lo sguardo per rivolgersi a un bene più alto. La preghiera, ad esempio, è un atto profondamente temporale: è memoria della promessa di Dio, attenzione alla sua presenza, attesa del compimento. Pregare è vivere il tempo non come qualcosa da subire, ma da offrire. Nei Salmi, che Agostino commenta a lungo, il tempo è spesso protagonista. Il tempo del lamento, del silenzio, della supplica, ma anche quello della lode. Il tempo della prova non è mai tempo perso, se diventa invocazione. E il presente – fragile e fugace – diventa il luogo dove la grazia può visitare l’anima. La distensio animi, allora, non è solo una struttura psicologica, ma una disposizione morale. È la condizione per vivere il tempo non come condanna, ma come occasione. Viviamo in un tempo inquieto, frammentato, contraddittorio. Siamo bombardati da stimoli, compressi tra nostalgia e ansia. Ma se, come dice Agostino, il tempo è nell’anima, allora l’unico tempo che ci salva è quello che ci riconduce a noi stessi. Il tempo abitato, pensato, offerto. Il tempo che diventa sapienza. Agostino non offre una soluzione tecnica, né una ricetta psicologica. Prospetta un cammino. Un cammino fatto di memoria, di presenza, di attesa. Ci offre una direzione: imparare a vivere il tempo come apertura all’eterno. Non si tratta di misurare meglio il tempo, ma di misurarlo su ciò che conta. E ciò che conta – per Agostino come per noi – è imparare a riconoscere la presenza del bene anche nel tempo che fugge. È lì che inizia la sapienza. Un tempo umano, perché fatto di desiderio. Un tempo cristiano, perché attraversato da una promessa”.
Pubblico, per chi se le fosse perse o semplicemente volesse tornarci sopra, domande e risposte della veglia di sabato 2 agosto a Tor Vergata durante il Giubileo dei Giovani. La fonte è il sito del Vaticano (ho tenuto solo la parte in lingua italiana). Forte è stata la tentazione di mettere in evidenza dei passaggi che mi hanno particolarmente toccato, ho preferito non “grassettare” nulla. Buona lettura. In fondo il video integrale della veglia.
“Domanda 1 – Amicizia
Santo Padre, sono Dulce María, ho 23 anni e vengo dal Messico. Mi rivolgo a Lei facendomi portavoce di una realtà che viviamo noi giovani in tante parti del mondo. Siamo figli del nostro tempo. Viviamo una cultura che ci appartiene e senza che ce ne accorgiamo ci plasma; è segnata dalla tecnologia soprattutto nel campo dei social network. Ci illudiamo spesso di avere tanti amici e di creare legami di vicinanza mentre sempre più spesso facciamo esperienza di tante forme di solitudine. Siamo vicini e connessi con tante persone eppure, non sono legami veri e duraturi, ma effimeri e spesso illusori. Santo Padre, ecco la mia domanda: come possiamo trovare un’amicizia sincera e un amore genuino che aprono alla vera speranza? Come la fede può aiutarci a costruire il nostro futuro?
Carissimi giovani, le relazioni umane, le nostre relazioni con altre persone sono indispensabili per ciascuno di noi, a cominciare dal fatto che tutti gli uomini e le donne del mondo nascono figli di qualcuno. La nostra vita inizia grazie a un legame ed è attraverso legami che noi cresciamo. In questo processo, la cultura svolge un ruolo fondamentale: è il codice col quale interpretiamo noi stessi e il mondo. Come un vocabolario, ogni cultura contiene sia parole nobili sia parole volgari, sia valori sia errori, che bisogna imparare a riconoscere. Cercando con passione la verità, noi non solo riceviamo una cultura, ma la trasformiamo attraverso scelte di vita. La verità, infatti, è un legame che unisce le parole alle cose, i nomi ai volti. La menzogna, invece, stacca questi aspetti, generando confusione ed equivoco. Ora, tra le molte connessioni culturali che caratterizzano la nostra vita, internet e i media sono diventati «una straordinaria opportunità di dialogo, incontro e scambio tra le persone, oltre che di accesso all’informazione e alla conoscenza» (Papa Francesco, Christus vivit, 87). Questi strumenti risultano però ambigui quando sono dominati da logiche commerciali e da interessi che spezzano le nostre relazioni in mille intermittenze. A proposito, Papa Francesco ricordava che talvolta i «meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati, dipendenti dal consumo» (Christus vivit, 105). Allora le nostre relazioni diventano confuse, sospese o instabili. Inoltre, come sapete, oggi ci sono algoritmi che ci dicono quello che dobbiamo vedere, quello che dobbiamo pensare, e quali dovrebbero essere i nostri amici. E allora le nostre relazioni diventano confuse, a volte ansiose. È che quando lo strumento domina sull’uomo, l’uomo diventa uno strumento: sì, strumento di mercato, merce a sua volta. Solo relazioni sincere e legami stabili fanno crescere storie di vita buona. Carissimi, ogni persona desidera naturalmente questa vita buona, come i polmoni tendono all’aria, ma quanto è difficile trovarla! Quanto è difficile trovare un’amicizia autentica! Secoli fa, Sant’Agostino ha colto il profondo desiderio del nostro cuore – è il desiderio di ogni cuore umano – anche senza conoscere lo sviluppo tecnologico di oggi. Anche lui è passato attraverso una giovinezza burrascosa: non si è però accontentato, non ha messo a tacere il grido del suo cuore. Agostino cercava la verità, la verità che non illude, la bellezza che non passa. E come l’ha trovata? Come ha trovato un’amicizia sincera, un amore capace di dare speranza? Incontrando chi già lo stava cercando, incontrando Gesù Cristo. Come ha costruito il suo futuro? Seguendo Lui, suo amico da sempre. Ecco le sue parole: «Nessuna amicizia è fedele se non in Cristo. È in Lui solo che essa può essere felice ed eterna» (Contro le due lettere dei pelagiani, I, I, 1); e la vera amicizia è sempre in Gesù Cristo con fiducia, amore e rispetto. «Ama veramente il suo amico colui che nel suo amico ama Dio» (Discorso 336), ci dice Sant’Agostino. L’amicizia con Cristo, che sta alla base delle fede, non è solo un aiuto tra tanti altri per costruire il futuro: è la nostra stella polare. Come scriveva il beato Pier Giorgio Frassati, «vivere senza fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere una lotta per la Verità non è vivere, ma vivacchiare» (Lettere, 27 febbraio 1925). Quando le nostre amicizie riflettono questo intenso legame con Gesù, diventano certamente sincere, generose e vere. Cari giovani, vogliatevi bene tra di voi! Volersi bene in Cristo. Saper vedere Gesù negli altri. L’amicizia può veramente cambiare il mondo. L’amicizia è una strada verso la pace.
Domanda 2 – Coraggio per scegliere
Santo Padre, mi chiamo Gaia, ho 19 anni e sono italiana. Questa sera tutti noi giovani qui presenti vorremmo parlarLe dei nostri sogni, speranze e dubbi. I nostri anni sono segnati dalle decisioni importanti che siamo chiamati a prendere per orientare la nostra vita futura. Tuttavia, per il clima di incertezza che ci circonda siamo tentati di rimandare e la paura per un futuro sconosciuto ci paralizza. Sappiamo che scegliere equivale a rinunciare a qualcosa e questo ci blocca, nonostante tutto percepiamo che la speranza indica obiettivi raggiungibili anche se segnati dalla precarietà del momento presente. Santo Padre, le chiediamo: dove troviamo il coraggio per scegliere? Come possiamo essere coraggiosi e vivere l’avventura della libertà viva, compiendo scelte radicali e cariche di significato?
Grazie per questa domanda. La pregunta es ¿cómo encontrar la valentía para escoger? Where can we find the courage to choose and to make wise decisions? La scelta è un atto umano fondamentale. Osservandolo con attenzione, capiamo che non si tratta solo di scegliere qualcosa, ma di scegliere qualcuno. Quando scegliamo, in senso forte, decidiamo chi vogliamo diventare. La scelta per eccellenza, infatti, è la decisione per la nostra vita: quale uomo vuoi essere? Quale donna vuoi essere? Carissimi giovani, a scegliere si impara attraverso le prove della vita, e prima di tutto ricordando che noi siamo stati scelti. Tale memoria va esplorata ed educata. Abbiamo ricevuto la vita gratis, senza sceglierla! All’origine di noi stessi non c’è stata una nostra decisione, ma un amore che ci ha voluti. Nel corso dell’esistenza, si dimostra davvero amico chi ci aiuta a riconoscere e rinnovare questa grazia nelle scelte che siamo chiamati a prendere. Cari giovani, avete detto bene: “scegliere significa anche rinunciare ad altro, e questo a volte ci blocca”. Per essere liberi, occorre partire dal fondamento stabile, dalla roccia che sostiene i nostri passi. Questa roccia è un amore che ci precede, ci sorprende e ci supera infinitamente: è l’amore di Dio. Perciò davanti a Lui la scelta diventa un giudizio che non toglie alcun bene, ma porta sempre al meglio. Il coraggio per scegliere viene dall’amore, che Dio ci manifesta in Cristo. È Lui che ci ha amato con tutto sé stesso, salvando il mondo e mostrandoci così che il dono della vita è la via per realizzare la nostra persona. Per questo, l’incontro con Gesù corrisponde alle attese più profonde del nostro cuore, perché Gesù è l’Amore di Dio fatto uomo. A riguardo, venticinque anni fa, proprio qui dove ci troviamo, San Giovanni Paolo II disse: «è Gesù che cercate quando sognate la felicità; è Lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è Lui la bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è Lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare» (Veglia di preghiera nella XV Giornata mondiale della Gioventù, 19 agosto 2000). La paura lascia allora spazio alla speranza, perché siamo certi che Dio porta a compimento ciò che inizia. Riconosciamo la sua fedeltà nelle parole di chi ama davvero, perché è stato davvero amato. “Tu sei la mia vita, Signore”: è ciò che un sacerdote e una consacrata pronunciano pieni di gioia e di libertà. “Tu sei la mia vita, Signore”. “Accolgo te come mia sposa e come mio sposo”: è la frase che trasforma l’amore dell’uomo e della donna in segno efficace dell’amore di Dio nel matrimonio. Ecco scelte radicali, scelte piene di significato: il matrimonio, l’ordine sacro, e la consacrazione religiosa esprimono il dono di sé, libero e liberante, che ci rende davvero felici. E lì troviamo la felicità: quando impariamo a donare noi stessi, a donare la vita per gli altri. Queste scelte danno senso alla nostra vita, trasformandola a immagine dell’Amore perfetto, che l’ha creata e redenta da ogni male, anche dalla morte. Dico questo stasera pensando a due ragazze, María, ventenne, spagnola, e Pascale, diciottenne, egiziana. Entrambe hanno scelto di venire a Roma per il Giubileo dei Giovani, e la morte le ha colte in questi giorni. Preghiamo insieme per loro; preghiamo anche per i loro familiari, i loro amici e le loro comunità. Gesù Risorto le accolga nella pace e nella gioia del suo Regno. E ancora vorrei chiedere le vostre preghiere per un altro amico, un ragazzo spagnolo, Ignacio Gonzalvez, che è stato ricoverato all’ospedale “Bambino Gesù”: preghiamo per lui, per la sua salute. Trovate il coraggio di fare le scelte difficili e dire a Gesù: Tu sei la mia vita, Signore”. “Lord, You are my life”. Grazie.
Domanda 3 – Richiamo del bene e valore del silenzio
Santo Padre, mi chiamo Will. Ho 20 anni e vengo dagli stati Uniti. Vorrei farLe una domanda a nome di tanti giovani intorno a noi che desiderano, nei loro cuori, qualcosa di più profondo. Siamo attratti dalla vita interiore anche se a prima vista veniamo giudicati come una generazione superficiale e spensierata. Sentiamo nel profondo di noi stessi il richiamo al bello e al bene come fonte di verità. Il valore del silenzio come in questa Veglia ci affascina, anche se incute in alcuni momenti paura per il senso di vuoto. Santo Padre, le chiedo: come possiamo incontrare veramente il Signore Risorto nella nostra vita ed essere sicuri della sua presenza anche in mezzo alle difficoltà e incertezze?
Proprio all’inizio del Documento con il quale ha indetto il Giubileo, Papa Francesco scrisse che «nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene» (Spes non confundit, 1). Dire “cuore”, nel linguaggio biblico, significa dire “coscienza”: poiché ogni persona desidera il bene nel suo cuore, da tale sorgente scaturisce la speranza di accoglierlo. Ma che cos’è il “bene”? Per rispondere a questa domanda, occorre un testimone: qualcuno che ci faccia del bene. Più ancora, occorre qualcuno che sia il nostro bene, ascoltando con amore il desiderio che freme nella nostra coscienza. Senza questi testimoni non saremmo nati, né saremmo cresciuti nel bene: come veri amici, essi sostengono il comune desiderio di bene, aiutandoci a realizzarlo nelle scelte di ogni giorno. Carissimi giovani, l’amico che sempre accompagna la nostra coscienza è Gesù. Volete incontrare veramente il Signore Risorto? Ascoltate la sua parola, che è Vangelo di salvezza! Cercate la giustizia, rinnovando il modo di vivere, per costruire un mondo più umano! Servite il povero, testimoniando il bene che vorremmo sempre ricevere dal prossimo! Rimanete uniti con Gesù nell’Eucaristia. Adorate l’Eucarestia, fonte della vita eterna! Studiate, lavorate, amate secondo lo stile di Gesù, il Maestro buono che cammina sempre al nostro fianco. Ad ogni passo, mentre cerchiamo il bene, chiediamogli: resta con noi, Signore (cfr Lc 24,29)! Resta con noi Signore! Resta con noi, perché senza di Te non possiamo fare quel bene che desideriamo. Tu vuoi il nostro bene; Tu, Signore, sei il nostro bene. Chi ti incontra, desidera che anche altri ii incontrino, perché la tua parola è luce più chiara di ogni stella, che illumina anche la notte più nera. Come amava ripetere Papa Benedetto XVI, chi crede, non è mai solo. Perciò incontriamo veramente Cristo nella Chiesa, cioè nella comunione di coloro che il Signore stesso riunisce attorno a sé per farsi incontro, lungo la storia, ad ogni uomo che sinceramente lo cerca. Quanto ha bisogno il mondo di missionari del Vangelo che siano testimoni di giustizia e di pace! Quanto ha bisogno il futuro di uomini e donne che siano testimoni di speranza! Ecco, carissimi giovani, il compito che il Signore Risorto ci consegna. Sant’Agostino ha scritto: «L’uomo, una particella del tuo creato, o Dio, vuole lodarti. Sei Tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per Te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Te. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti e ti invochi credendoti» (Confessioni, I). Accostando questa invocazione alle vostre domande, vi affido una preghiera: “Grazie, Gesù, per averci raggiunto: il mio desiderio è quello di rimanere tra i Tuoi amici, perché, abbracciando Te, possa diventare compagno di cammino per chiunque mi incontrerà. Fa’, o Signore, che chi mi incontra, possa incontrare Te, pur attraverso i miei limiti, pur attraverso le mie fragilità”. Attraverso queste parole, il nostro dialogo continuerà ogni volta che guarderemo al Crocifisso: in Lui si incontreranno i nostri cuori. Ogni volta che adoriamo Cristo nell’Eucaristia, i nostri cuori si uniscono in Lui. Perseverate dunque nella fede con gioia e coraggio. E così possiamo dire: grazie Gesù per averci amati; grazie Gesù per averci chiamati. Resta con noi, Signore! Resta con noi!”.
Maddalena Feltrin è allieva della Scuola Superiore di Toppo Wassermann di Udine. Recupero un suo pezzo di un mese fa, scritto per Treccani. Il tema è di nuovo quello delle scelte, del libero arbitrio e del determinismo. Ci vuole un po’ di concentrazione, ma gli interrogativi che suscita sono numerosi e interessanti, così come le possibilità di approfondimento.“
Accettando l’analisi che viene proposta da alcuni neuroscienziati come J.D. Haynes e B. Libet, si è costretti all’ammissione di una visione deterministica del mondo, ossia la concezione della realtà per la quale tutti i fenomeni sono collegati l’un l’altro secondo un ordine necessario e invariabile. In altre parole, in natura, data una causa o una legge, può verificarsi soltanto un certo effetto o un particolare fenomeno e non un altro. Nell’Universo non c’è spazio per una variazione spontanea né per il perseguimento di una libera scelta. Questa visione del mondo comporta degli effetti su molti aspetti del nostro approccio alla vita, ed è emblematico il caso della legislazione, che necessita di essere completamente rivista. La legge è, infatti, basata sull’idea che le persone siano responsabili delle loro azioni (tranne in eccezionali occasioni) ma, se ogni prassi umana è ricondotta a prevedibili schemi di risposta a degli stimoli, non si può più pensare di punire un uomo: egli, ontologicamente, non ha mai preso una vera decisione! Conseguentemente, la negazione del libero arbitrio mette in discussione l’esistenza stessa del sistema giuridico e di qualsiasi forma normativa. Di fronte a questa conclusione, alcuni filosofi come T. Nagel, P. van Inwagen e C. McGinn ribadiscono l’importanza dell’intuizione della libertà. Essa è la condizione ineliminabile dei giudizi morali e lo stesso Haynes ammette come – non appena si comincia ad interpretare il comportamento delle altre persone – sia virtualmente impossibile credere che esse non stiano attivamente prendendo delle decisioni. Siamo, quindi, condannati a credere nella libertà, anche se abbiamo buone ragioni per pensare deterministicamente. Pertanto, dobbiamo – a loro detta – ammettere il paradosso di dover credere a qualcosa la cui esistenza sembra impossibile da provare: come scrive Inwagen, «il libero arbitrio sembra […] essere impossibile. Ma sembra anche che il libero arbitrio esista. Perciò l’impossibile sembra esistere». Per rispondere a questa contraddizione, il biofisico H. Atlan recupera il senso di responsabilità del singolo in una visione deterministica con un confronto tra le neuroscienze e Dio. Egli, riprendendo la visione spinoziana della mente e del corpo intesi come aspetti diversi della stessa sostanza, sviluppa il suo pensiero a partire da un verso in un antico trattato ebraico, Capitoli dei padri 3:15 (Pirkei Avot, ndr): Tutto è previsto ma viene concesso il permesso [di scegliere]; e, successivamente, utilizza nella sua argomentazione un passo dal Salmo di Davide (Ps 141:4): Non inclinare il mio cuore ad alcuna cosa malvagia, per commettere azioni malvagie con i malfattori, e fa che io non mangi delle loro delizie. In questi passaggi delle Sacre Scritture, infatti, l’uomo non percepisce di aver determinato le proprie azioni, ma viene ugualmente definito responsabile di esse. Davide, infatti, sembra quasi accusare Dio di manipolazione o inclinazione perversa, implicitamente dichiarandolo ‘autore’ delle sue azioni malvagie – ma ciò è impossibile, in quanto all’Altissimo non può essere attribuito alcun atto ingiusto. La spiegazione teologica che viene data in risposta a questo paradosso è la stessa che si può utilizzare per recuperare il senso di responsabilità in una visione deterministica su base scientifica: dal momento che la libertà di scelta è puramente un’illusione, gli uomini possono solamente osservare l’agire di una forza esterna nel loro stesso corpo. Contemporaneamente, tuttavia, sono ritenuti imputabili di qualsiasi loro pensiero e gesto in quanto essi stessi si illudono di poter scegliere. Inoltre, non sarebbe possibile giudicare moralmente un agente non umano (che sia Dio o la legge di natura delle cose): la preghiera del re di Israele non è una critica morale all’Onnipotente, ma è una supplica che semplicemente riflette il modo con cui Dio opera e ‘funziona’. Le azioni divine non sono il risultato di una scelta etica, ma sono un modo di essere. Il senso di responsabilità implicato nelle nostre azioni è qualcosa che appartiene alla nostra logica, e che ha senso solamente se si mantiene separato dal concetto di determinismo neurale. Anche se la possibilità di scelta, in senso assoluto, potrebbe essere un’illusione, il concetto di responsabilità è perfettamente reale. Questi due piani possono essere distinti più facilmente nella lingua inglese, che distingue tra consciousness e conscience: con la prima si intende ‘coscienza di sé, consapevolezza di esser vivi’, con la seconda invece la sensibilità etica dell’individuo. Conseguentemente, si può mantenere una responsabilità per ciò che accade attraverso il proprio corpo, indipendentemente dal controllo della consciousness (riservato a Dio, o al naturale corso degli eventi), ma nella loro piena acquiescenza in una fase di conscience. Tuttavia, il concetto rimane per noi sfuggente e difficile da accettare in quanto queste due funzioni, nei fatti, operano come un unico sistema integrato e con assoluta interdipendenza tra le parti.”
Ha molto impressionato la fotografia del presidente statunitense Donald Trump, seduto alla scrivania della Casa Bianca, circondato da Paula White, pastora della cosiddetta teologia della prosperità, e da altri esponenti religiosi. L’occasione è stata quella della firma di un ordine esecutivo presidenziale per l’istituzione, presso la Casa Bianca, di un Ufficio della Fede (ne ha scritto Massimo Gaggi sul Corriere della Sera). Approfitto per segnalare un video di Francesco Costa, giornalista de Il Post, sul rapporto degli statunitensi con la religione e come questa si incroci anche con la politica americana (video pubblicato prima del voto elettorale):
Inoltre pubblico interamente un pezzo di Luca Colacino per Treccani dal titolo Politica e religione negli Stati Uniti di Trump“La sensibilità politica europea di oggi non può che essere sorpresa da uno degli aspetti più evidenti dell’amministrazione del quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti: la forte presenza della religione nella sfera pubblica. Si tratta di un evidente ritorno della religione come parte integrante della cultura politica di una democrazia liberale occidentale. In seguito all’illuminismo e alla Rivoluzione francese, l’Europa ha subito un processo di secolarizzazione definito da un marcato sentimento anti-religioso fondato nella certezza che una politica della sola ragione potesse condurre ad una società libera dall’ingiusta oppressione morale e dall’intolleranza che si credeva le religioni portassero nella sfera pubblica. Diverso è il sentimento che anima l’affermazione del presidente Donald Trump la mattina di giovedì 6 febbraio 2025, all’annuale “National Prayer Breakfast” in Washington D.C. in cui egli afferma: «Dobbiamo resuscitare la religione, la dobbiamo resuscitare con molta più forza». La domanda è la seguente: Il ritorno della religione nella politica di Trump è un esempio della storica strategia in cui la religione è fonte di legittimazione del potere che desidera essere incontrastato o è riconoscimento autentico di una necessità politica più profonda? La risposta completa a questa domanda dovrà aspettare il giudizio della storia a venire, ma alcune considerazioni possono essere fatte già da ora. La prima riguarda l’onestà con cui i padri fondatori della repubblica americana hanno sempre riconosciuto che il successo degli ideali americani di libertà, progresso e giustizia dipendesse dal contesto culturale in cui i cittadini condividevano una visione cristiana del mondo. Il successo della politica, secondo loro, dipende dal successo della religione nella vita dei cittadini. Ad esempio, John Adams, il secondo presidente degli Stati Uniti, dichiarò nella famosa lettera alle milizie del Massachusetts che «la Costituzione americana è stata creata solo per persone religiose con una determinata moralità e perciò è completamente inadeguata al governo di qualsiasi altro tipo di persone». Nonostante il governo americano abbia sempre supportato la marcata separazione istituzionale tra Chiesa e Stato, essa non ha mai approvato la separazione culturale tra religione e politica. Le religioni istituzionali, seppure non riducibili alla dimensione temporale, sono sempre state fonte di una visione comune del mondo che permetteva una vera deliberazione sul bene comune. La religione cristiana in Occidente, infatti, è stata per anni una sorgente spirituale e intellettuale di riflessione sulla natura del bene comune. La stessa difesa delle libertà personali e della libertà di coscienza, di cui l’America è sempre stata grande promotrice, si basava sull’ipotesi di una società in cui gli individui erano responsabili delle proprie azioni davanti a Dio, la cui legge morale è una realtà oggettiva e intellegibile, almeno in parte, nelle categorie naturali e razionali. Questo non significa che la politica informata dalla religione smetta di deliberare e di avere visioni diverse sul bene comune. Infatti, la crisi della politica contemporanea non si basa sull’incapacità di essere d’accordo sulla natura del bene comune (il quale non è mai accaduto nella storia della politica); piuttosto, si basa sull’incapacità di trovare degli assiomi di pensiero comuni su cui costruire un dialogo di deliberazione e confronto politico effettivo. La politica di oggi è una politica senza metafisica, incapace di trovare degli assiomi filosofici comuni per la deliberazione sul bene comune. Ad esempio, senza una metafisica capace di definire l’esistenza reale e non nominale di una comune natura umana è molto difficile deliberare su quali siano effettivamente i cosiddetti “diritti umani”. Se non esiste una realtà metafisica di natura umana che sia intellegibile, allora questa diventa un concetto non scoperto ma costruito dall’intelletto e dalla volontà di ognuno. Per questo, la crisi contemporanea della politica senza metafisica è dovuta all’incapacità di avere un consenso di base sulle categorie filosofiche classiche. Ma cosa c’entra questo con la religione nella politica? Si è detto che l’Europa, e con essa l’Occidente, è figlia di Atene, quale culla della cultura filosofica greca, e di Gerusalemme, quale sorgente della spiritualità e religiosità giudaico-cristiana. In effetti, la filosofia greca è stata tradotta nella cultura europea attraverso la mediazione della religione cristiana. Con il fenomeno della secolarizzazione, poi, si è cercato di rendere l’Occidente indipendente da Gerusalemme. Oggi, però, il problema della politica contemporanea non è l’incapacità di essere d’accordo su Gerusalemme, piuttosto è l’incapacità di avere Atene come punto di riferimento comune per una vera politica del confronto sul bene comune. La questione riguarda la possibilità dell’Occidente, ormai orfano delle proprie radici filosofiche e spirituali, di ritornare ad Atene come punto d’incontro della ragione universale all’infuori dalla mediazione di Gerusalemme. In altre parole, in una modernità che ha perso il senso di una ragione universale, abbandonando ogni credenza metafisica riguardo le categorie oggettive di bene comune e natura, è possibile riportare una vera politica del confronto senza la religione? Sembra che gli Stati Uniti, a differenza dell’Europa, abbiano sempre riconosciuto che l’eredità filosofica di Atene per una politica capace di un vero confronto sul bene comune dipendesse dall’integrità della religione come interlocutore sociale. In questo senso vanno intese le parole di Trump nell’intervento alla National Prayer Breakfast in cui egli afferma: «Dai primi giorni della nostra repubblica, la fede in Dio è sempre stata la sorgente ultima della forza e il cuore pulsante della nostra nazione. Dobbiamo resuscitare la religione, la dobbiamo resuscitare con molta più forza. L’assenza della religione è stato uno dei problemi maggiori degli ultimi tempi. L’America è stata e sarà una nazione sotto la guida di Dio». Quest’affermazione richiede una seconda considerazione sull’eccezionalismo americano nel contesto del ritorno della religione nella sfera pubblica. Non sono mancati, infatti, nelle ultime settimane, riferimenti al mandato di Trump come una manifestazione della provvidenza divina per il destino degli Stati Uniti. Nello stesso discorso alla National Prayer Breakfast, il presidente Trump ha fatto menzione di Roger Williams, pastore presbiteriano che ha fondato lo Stato di Rhode Island nominando la sua capitale Providence, e di John Winthrop, puritano inglese che sarebbe diventato governatore del Massachusetts, il quale nel celebre sermone La città sulla collina si richiama alle parole di Gesù nel Discorso della montagna per descrivere l’America come terra scelta da Dio per risplendere da esempio per il mondo intero. In linea con questo tradizionale sentimento con cui gli americani si vedono strumenti della provvidenza divina per il benessere del mondo, il presente mandato di Trump, sin dall’inaugurazione presidenziale del 20 gennaio, è stato presentato come dono della provvidenza per la rinascita culturale e politica degli Stati Uniti, per il benessere di tutti gli americani e dei loro alleati. All’inizio della cerimonia di inaugurazione, infatti, Franklin Graham ha condotto i presenti in una preghiera in cui ha ringraziato Dio «per aver innalzato con mano potente il presidente Donald Trump». In maniera simile, la preghiera di benedizione del pastore Lorenzo Sewell nella stessa cerimonia ha parlato di Trump nei termini di un miracolo della provvidenza che lo ha salvato dall’attentato dello scorso 16 luglio come segno d’approvazione divina del suo mandato. Seguendo questa logica, però, la storia ha lasciato trascorrere i più grandi mali dittatoriali sotto la credenza di una provvidenza divina che giustificasse incondizionatamente le autorità in potere. Se da un lato il rientro della religione nella politica è una necessità effettiva e potenzialmente buona, dall’altro lato questo rientro va qualificato e ragionato teologicamente. La retorica della provvidenza e dell’eccezionalismo che incorniciano il presente mandato presidenziale ci pone davanti a una questione teologica da cui dipende il successo del ritorno della religione in politica. Occorre infatti un correttivo proprio della fede cattolica alla credenza unilaterale nella provvidenza che gli Stati Uniti hanno ricevuto dalla tradizione protestante dei loro padri fondatori. Il pensiero cattolico, infatti, è solito tenere insieme due estremi in tensione tra di loro. In questo caso, la provvidenza divina, sotto la cui guida non sfugge nessun governo politico, deve essere accompagnata dalla credenza nella libertà e responsabilità personale delle autorità politiche. Per questo, durante la cerimonia di inaugurazione solo le preghiere del cardinale Dolan e di un altro sacerdote cattolico hanno attenuato il clima trionfalistico e provvidenziale delle altre preghiere con una sobria richiesta a Dio di concedere al presidente Trump e al suo vice, J.D. Vance, il dono della sapienza. Questo significa che affinché il ritorno della religione della politica non sia solo strumento di legittimazione, la religione e la Chiesa devono mantenere una distanza dalle autorità politiche che permetta loro di esercitare un ruolo profetico capace di richiamare la politica all’ordine morale qualora fosse opportuno, non di diventare serve e mere leggittimatrici della politica. Nell’Antico Testamento, infatti, i profeti avevano un ministero divino istituito per mantenere un sistema di equilibrio nei confronti del potere regale e politico del re. L’ultima considerazione, perciò, riguarda il modo in cui la Chiesa deve esercitare il proprio ruolo profetico nei confronti della politica. Molto controverso, infatti, è stato l’appello diretto a Trump della vescova anglicana di Washington nella funzione religiosa di preghiera per la nazione il giorno dopo l’inaugurazione presidenziale. La vescova ha lanciato un appello diretto al presidente chiedendo, nel nome di Dio, di avere pietà verso i migranti e i transgender che in questo momento hanno paura a causa delle sue politiche. A questo appello, Trump ha risposto su X dicendo che la vescova «ha portato la sua chiesa nel mondo della politica in un modo molto scortese. Era cattiva nei toni, non convincente o intelligente. Non ha menzionato il gran numero di migranti illegali che sono entrati nel nostro Paese e hanno ucciso persone». Qualsiasi siano le ragioni di entrambe le parti, riconoscendo sia la necessità profetica di richiamare il potere a unire giustizia e misericordia, sia la natura complessa della questione, ciò che è chiaro è che il ruolo profetico della religione verso la politica richiede un coinvolgimento più ragionato della religione nel processo deliberativo e decisionale di quello che un’omelia o un tweet possono fare. Una deliberazione politica più sostanziale infatti è alla base delle ordinanze presidenziali a sostegno della vita che Trump ha attuato nei primi giorni del nuovo mandato. La difficoltà della religione nel relazionarsi alla politica in modo costruttivo si è vista anche con lo scontro tra la Conferenza episcopale statunitense e il vicepresidente, cattolico praticante, J.D. Vance. La Conferenza episcopale ha pubblicato una dichiarazione che condanna le politiche anti-migratorie della nuova amministrazione presidenziale. J.D. Vance ha prontamente risposto alla condanna in un’intervista insinuando che la Conferenza episcopale abbia mosso accusa perché le politiche della nuova amministrazione significherebbero una perdita di 100 milioni di dollari l’anno che la Conferenza ha finora ricevuto dal governo federale per aiutare a reinsediare gli immigrati clandestini. Un’indagine giornalistica, tuttavia, sembrerebbe provare che la Conferenza episcopale avrebbe dovuto aggiungere altri fondi a quelli federali per la realizzazione del progetto con i migranti, dimostrando perciò che le accuse del vicepresidente sono infondate. Ancora una volta, la realtà dei fatti è più complessa di quello che può essere comunicato con dichiarazioni prive di un confronto e una vera deliberazione. Perciò, il grande ritorno della religione nella politica, seppure un’autentica necessità, dipenderà sia dalla capacità della religione di mantenere insieme la fiducia nella provvidenza divina e la chiamata alla responsabilità personale davanti a Dio, ma anche dalla capacità che la politica e la religione avranno di performare un vero dialogo culturale e filosofico non guidato da brevi e polarizzanti dichiarazioni incapaci di includere la complessità delle questioni discusse”.
Il Corriere della Sera ha realizzato un’intervista a suor Beatrice e a suor Enrica, clarisse di clausura.
“«Vorrei sfatare l’idea che noi siamo fuori dal mondo. Non siamo angeli, non siamo speciali, invisibili o meno umane, non siamo migliori o diverse, viviamo “qui dentro” felicità, tristezze, gioie, dolori fatiche, fragilità e tutto ciò che vivono gli uomini e le donne nel mondo. Siamo nell’assoluta normalità, anche perché essere altro significherebbe il contrario di ciò che ci hanno insegnato Chiara e Francesco. E, soprattutto, contrario alla logica della fede nostra cristiana». Sorridono molto mentre parlano, anzi spesso ridono proprio di gusto: per le domande formulate con lunghi e cauti giri di parole (che loro interrompono per sintetizzare in modo diretto e crudo) sia per le battute che loro stesse si concedono raccontandosi. Nella sala arredata in modo essenziale, si coglie l’eco di un silenzio padrone di casa, ma la conversazione lievita come in un qualsiasi salotto. Sono suore, Clarisse di clausura. Chiara e Francesco sono i loro riferimenti costanti, la guida della loro scelta di vivere la fede cristiana in modo totalizzante, li nominano più volte come se li incontrassero spesso nel corso delle loro giornate silenziose e indaffarate. Però non siamo in un eremo lontano da tutto, ma nel mezzo di un popoloso quartiere della periferia Nord di Milano. Zona Gorla, nella piazza dedicata ai Piccoli Martiri del bombardamento alleato del 1944. Pochi mesi prima di quel tragico 20 ottobre il primo gruppo di «Sorelle povere», come si chiamano davvero le Clarisse, si insediò qui. Hanno accettato di lasciarsi intervistare, ma volevano «esprimere l’idea di fraternità, di comunità, non di individualità» e così a parlare sono in due: suor Beatrice, 51 anni, originaria di Lecco e suor Enrica Serena, nata a Melegnano 52 anni fa. Al citofono rispondono dicendo «pace e bene», al portone salutano stringendo la mano e per parlare hanno disposto tre sedie attorno a un tavolo, non sono dietro alla grata che sta su un lato del salone: ma da una dozzina d’anni non la usano più (come era in passato, anche per incontrare i parenti), proprio per non segnare una loro distanza dal mondo. «Ma questa è la nostra scelta – sottolineano – ogni monastero, ogni comunità fa le sue». Rispondono alternativamente alle domande, si sovrappongono, una integra la risposta dell’altra, ma chiedono che le loro voci siano riportate come una sola. Quante suore vivono qui? «La nostra fraternità è composta, al momento, da 17 sorelle, di età che varia dai 29 ai 102 anni». Centodue? «Sì, suor Maria Consolata, che fece parte del primo gruppo di sorelle che arrivò qui nel 1944. Soffre gli acciacchi dell’età, ma è lucidissima. Non sa usare il computer ma detta le sue e-mail». Quali sono le vostre regole? «Siamo qui per vivere il Vangelo, come San Francesco. La nostra fraternità si ispira a Santa Chiara, la prima donna nella storia della Chiesa che abbia composto una Regola scritta per le donne, approvata dal Papa. Gli elementi costitutivi della nostra forma di vita sono la fraternità, la povertà e la centralità della relazione con Dio, nella preghiera, e la stabilità che, soprattutto nel passato, era espressa attraverso forme di separazione materiale. Come vede alle mie spalle c’è una grata, fino a circa dodici anni fa ricevevamo le nostre visite, anche quelle dei parenti, rimanendo là dietro, poi abbiamo deciso che non fosse necessaria. E queste sono regole che variano in ogni comunità, molto dipende anche dal contesto sociale, dalle domande che arrivano dall’esterno, ma noi decidiamo comunque tutto insieme». Cioè, si va ai voti e prevale una maggioranza? «Diciamo che ci confrontiamo, discutiamo anche, ciascuna esprime il suo parere, a volte sono processi molto lunghi». Litigate? «Ma guardi che siamo umane! Vivere insieme è molto bello, anche se è difficile condividere tutto 24 ore su 24. Ciascuna di noi ha risposto a una sua chiamata, non ci siamo scelte, magari fuori di qui non ci sceglieremmo. Quindi sì, ci sono anche i conflitti, ma abbiamo il Vangelo come riferimento e guida e allora pratichiamo l’ascolto, il dialogo, il perdono, la comprensione dell’altro, la ricerca di un’armonia al di là delle difficoltà. Per noi la fraternità è anche testimonianza di questo. E la presenza del nostro piccolo monastero in un quartiere di una città vuole essere anche questo: una testimonianza. Io, per esempio, sono stata inizialmente in un altro monastero in un posto bellissimo, ma un po’ separato: quando ho conosciuto questa comunità, immersa nel quartiere, circondata da case, segno evidente che la nostra presenza è accanto alla gente, in mezzo alla vita di tutti, ecco, ho intuito che qui io ero chiamata. Ed eccomi qui, da 29 anni, in un luogo nato per testimoniare la pace proprio dove ha colpito la guerra». Com’è la giornata-tipo qui dentro? «Sveglia alle 5.15 e preghiera personale e liturgica, alle 6.30 le Lodi tutte insieme e alle 7 la messa. Poi la colazione, in silenzio, tutti i pasti li consumiamo nel silenzio. Alle 8.30 l’Ufficio delle letture, cioè preghiera fino alle 9.15 circa. Poi inizia il tempo del lavoro, un caposaldo degli insegnamenti di Chiara: ciascuna ha il suo compito, gestione della casa, pulizie, cucina portineria, cura delle anziane – facciamo tutto noi, qui non ci sono collaboratori esterni – e poi lavori di confezionamento di prodotti artigianali, come la decorazione di ceri e candele, creazione di calendari, correzione di bozze di testi religiosi, creazioni in cuoio… Alle 12.15 c’è l’Ora sesta della liturgia e poi il pranzo, con una sorella che, a turno, legge per le altre articoli che lei stessa ha selezionato». Ecco, appunto, come vi informate? Cosa arriva dal mondo esterno? «Televisione, radio, Internet, giornali e riviste cattoliche. Siamo informate, non siamo tagliate fuori dal mondo, magari abbiamo imparato a selezionare, con un esercizio disciplinato dell’uso del nostro tempo: meno quantità ma più qualità, non ci lasciamo sommergere dalle notizie ma le seguiamo, facciamo in modo che non ci scivolino addosso, ne discutiamo anche fra noi. Per esempio, abbiamo approfondito il tema della transizione ecologica e delle conseguenze sull’economia, a partire dalla protesta dei trattori, oppure proprio oggi è stato davvero interessante ascoltare l’intervista a un dottore di Medici senza frontiere». E durante il pranzo una legge e le altre stanno in silenzio? «Sì, è un momento di riflessione, risponde al bisogno di fermarsi e lasciar sedimentare. Fuori di qui è più difficile gestire i tempi e le situazioni». Torniamo all’agenda quotidiana: dopo il pranzo? «Riordiniamo, e a quel punto chiacchieriamo tra noi, per poi tornare al silenzio alle 14, quando la campana annuncia il tempo personale per ciascuna di noi, dedicato al riposo, alla preghiera personale dell’Ora Nona, allo studio. Alle 16.30 riprendiamo i lavori in casa, a volte facciamo formazione o riceviamo visite dall’esterno, alle 18 recitiamo i Vespri e poi dopo un altro momento di preghiera personale, alle 19 ceniamo. E dopo per circa un’oretta viviamo la nostra “ricreazione”, parliamo, qui attorno al tavolo, ascoltiamo anche della musica, scelta a turno da una per le altre». Di cosa parlate? «Di tutto, magari ci raccontiamo la giornata, per esempio stasera probabilmente racconteremo alle altre di quest’intervista (ridono). Diciamo, non temi che richiedano discernimento. Poi, verso le 21.15 c’è l’ultima preghiera, la Compieta, e dopo ciascuna va nella sua cella». Cella, non stanza? «Ma sì, noi la chiamiamo così, comunque è una stanzetta con un letto, un tavolino, un armadio e un lavandino con acqua fredda». Ricevete molte visite dall’esterno? «Sì, arrivano qui gruppi, per esempio giornate di ritiro, e di solito lasciano un’offerta che ci aiuta per il mantenimento del monastero. Sono soprattutto occasioni di condivisione, noi offriamo ciò che abbiamo: la nostra testimonianza, questo spazio per fermarsi, l’accompagnamento a chi sente il bisogno di nutrire la propria relazione con Dio e anche – tanto – a chi chiede ascolto. Sa che riceviamo tante richieste di ascolto personale? Anche da parte di persone non credenti. In una città come questa c’è un bisogno enorme di ascolto, di fermarsi, di un’oasi di silenzio, anche perché dalle domande vere spesso si scappa. Ecco, noi questo possiamo offrirlo, non abbiamo le risposte ma possiamo affiancarci al cammino di vita delle persone». A proposito di non credenti. Ma a chi, come voi, ha scelto di dedicare l’intera vita alla fede, non viene mai il pensiero… «… che Dio non esista? Ma figuriamoci se no! (ridono). Come diceva il cardinale Carlo Maria Martini, in ogni cristiano convivono un credente e un non credente. E noi non abbiamo alcuna prova scientifica dell’esistenza di Dio. Ma ciascuna di noi ha sentito questa chiamata della fede e ha scelto di viverla pienamente. Però, a prescindere da questo, sfatiamo il luogo comune: noi non siamo fuori dal mondo, non siamo speciali o diverse, non siamo migliori perché siamo qui dentro: felicità, tristezze, gioie, dolori fatiche, fragilità e tutto ciò che succede agli esseri umani. E come tutti attraversiamo dubbi, fatiche, anche nel credere. Siamo nell’assoluta normalità, anche perché essere altro significherebbe il contrario di ciò che ci hanno insegnato Chiara e Francesco. La differenza, semmai, è la ricerca su come abitare le cose che vivono tutti, per esempio come evitare che un conflitto sfoci in violenza, su come vivere la tristezza e la fragilità». Allora affrontiamo un’altra domanda ricorrente quando si parla delle suore di clausura: una volta compiuta la grande scelta di dedicare la propria vita alla fede, perché proprio in un monastero e non in qualche missione sociale là dove c’è bisogno di aiuto e conforto? «Quando mi sono innamorata del Signore studiavo per gli ultimi esami di medicina e ho vissuto due anni di lotta interiore attorno a questa domanda: “Con tutto quello che c’è da fare, tu vuoi andare a rinchiuderti in preghiera in un monastero?”. Poi ho elaborato la convinzione che vedo con nitidezza ancora oggi: questa mia, nostra testimonianza risponde a un bisogno non meno importante degli esseri umani, quanto il pane e la salute. La mia missione è qui, con la pratica quotidiana di un gesto minimo, per dire a tutti che la vita non si esaurisce in “cose”, la vita custodisce un vuoto, uno spazio di ristoro, l’inutile, il gratuito. E questo è molto più vero in una città come Milano, dove è richiesto a tutti di essere performanti e facilmente si perdono pezzi di umanità». Le vocazioni sono in calo costante da anni. Come immaginate il futuro di questo monastero? «Eravamo quasi trenta, quando siamo arrivate e adesso siamo in 17, con una sola novizia. Sappiamo che la realtà è questa, ma siamo anche convinte che possa essere un’opportunità, perché, come dice un salmo, “l’uomo nella prosperità non comprende”, e in fondo – per noi che crediamo nella bellezza del sine proprio, cioè del vivere senza appropriarci di nulla, cioè di nessuna proprietà personale – non ci appartiene neanche questa forma di vita. Quindi seguirà l’evoluzione che sarà necessaria, i numeri non esprimono il valore, la qualità non ha un criterio unico, figuriamoci quella di una vita di fede. L’importante è che viva il Vangelo».”
Ho letto, sul nuovo numero di Rocca (n. 7 del 1 aprile 2024) un articolo molto bello e interessante di Selene Zorzi dal titolo La morte come buco nero. Vengono trattati argomenti di teologia e di scienze, di morte, amore e di buchi neri e bianchi. Vengono citati Carlo Rovelli, Shelly Rambo e Hans Urs von Balthasar. Attenzione, però, non ha niente a che vedere con l’ambito delle dimostrazioni scientifiche. “Possiamo usare le parole della scienza in analogia…”: sono esplicite le parole della teologa. E molto affascinanti: “Il filo dell’amore non si spezza al bordo della realtà, anzi accade che mentre procediamo in quel tempo e spazio deformati nel trauma del dolore, ha luogo una trasformazione. Ci accorgiamo che lo stiamo costeggiando quel bordo, poi ci ritroviamo a camminare accanto ad esso, infine ci accorgiamo di aver camminato sull’abisso e di aver ripreso a vivere”. Buona lettura. La fonte è qui.
“La teologia è fede che vuole comprendersi e dirsi con le parole, i concetti e le conoscenze del proprio tempo, per parlare ai contemporanei e per – come si dice nella prima lezione di teologia – rendere ragione della fede (cfr. 1Pt 3,15: «Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi»). Cosa può dire la fisica quantistica alla teologia? Può forse offrire un linguaggio o delle metafore per poter parlare alla fede? In un entusiasmante testo, il fisico teorico e divulgatore scientifico Carlo Rovelli, nel suo recente libro Buchi bianchi parla dello spazio come granulare, come una rete, dicendo che la struttura profonda della stessa materia dell’universo è fatta di relazione. Non è in fondo ciò che intende dire la Bibbia quando dice che l’essere umano è «ad immagine» di Dio (Gn 1,26) e che siccome il Logos è costitutivamente pros ton theon, rivolto verso il seno del Padre (Gv 1,1;18) l’essere «presso» è il costitutivo creaturale, infatti tutto è fatto «in vista di lui» (Col 1,16). Scienza e fede sono due discipline autonome ma anche intrecciate nei loro contenuti e nelle loro dinamiche. Se consideriamo il buco nero come l’orizzonte dell’esistenza oltre il quale nessuno riesce a guardare e dal quale «nessuno è tornato mai a raccontare» (Buchi bianchi p. 47) esso può ben essere una metafora di quello che la teologia cristiana prova a dire sulla morte. Rovelli lavora «sull’ipotesi che i buchi neri si possano trasformare in bianchi» (p.17). La fisica dell’infinitamente piccolo, la fisica quantistica, ci dice che la tessitura del mondo, la realtà è una rete tessuta all’interno di una relazione; che «la struttura profonda della materia è granulare» (p. 68), dunque non si spezza perché il suo fondamento è la relazione. Immaginando quindi una massa che cada in un buco nero essa si condenserà sempre. Secondo Rovelli tuttavia questa caduta non sarà infinita. Perché lo spazio che è fatto di questa materia relazionale non si può spezzare.
La relazione come struttura del tutto Anche la prospettiva cristiana afferma che la struttura profonda del tutto è relazionale; la Scrittura lo dice affermando che siamo fatti «ad immagine di Dio» (Gn 1,26) che questo Dio è relazione in se stesso (Trinità). Quando diciamo che «Dio è amore» (1 Gv 4,16) intendiamo dire questo. Propongo quindi un’interpretazione della Risurrezione secondo il paradigma della testimonianza: un modello diverso da quello che abbiamo imparato a vedere nelle figurine dei catechismi. Non si tratta cioè di seguire il modello trionfalistico della risurrezione, che contrappone la vita alla morte, che salta direttamente dalla crocifissione alla risurrezione, dal Venerdì Santo alla Domenica, che vedrebbe un Gesù risorgere in carne e ossa «più bello che pria», con la bandierina in mano, salire folgorante e vittorioso verso il cielo. Questo modello non prende sul serio né il dolore, né la morte, né i nostri traumi. Ripropongo la lettura dalla teologa femminista Shelly Rambo, in Quel che resta del dolore. Il trauma e la testimonianza dello Spirito (Ed. San Paolo, 2013). Il fisico ipotizza che la materia assorbita dal buco nero, cadendo dentro questo campo, dove spazio e tempo sono deformati, entrerebbe in una sorta di imbuto che tuttavia non è infinito: in fondo c’è ancora qualcosa e questo qualcosa è la rete granulare dello spazio che non si spezza e che forse potrebbe trasformarsi in un buco bianco. Secondo la fisica quantistica la materia presenta una tessitura profonda, come una rete granulosa che non può bucarsi (p. 68)? La Tradizione cristiana parla della Discesa agli inferi di Cristo (1Pt 3,19), e l’arte ha dipinto questa discesa al fondo della morte dove Cristo ha ritrovato Adamo che era caduto nel vuoto e con esso ha liberato tutti, proprio tutti (Adam è l’umanità), dalla morsa della morte, risalendo alla vita. La liturgia parla di un amore divino che non ha potuto abbandonare Cristo nel sonno della morte (cfr. Sal 15).
Il vuoto del Sabato santo Il teologo H. U. v. Balthasar parlava del Subabbraccio dell’amore di Dio nel vuoto del Sabato santo. Tra il Venerdì di passione e la domenica della vita c’è, infatti, un interim del Sabato santo, un luogo strano dove c’è ancora la morte, non c’è la vita risorta ma resta ancora l’amore. Per il credente è lo Spirito, il tra dell’amore divino, che delicatamente vibra sul caos (come all’inizio della creazione, Gn 1,1), che si esprime nel linguaggio balbettato (i gemiti inesprimibili dello Spirito, Rm 8,26) perché quando la vita va a finire in un buco nero, la vita di chi rimane sul bordo è una vita costantemente segnata dall’esperienza della morte. Questa continua sofferenza di una vita che continua dopo una morte, è l’enigma del trauma (cfr. S. Rambo). Nel trauma la morte persiste nella vita; vita e morte non hanno più confini precisi così come spazio e tempo sono deformati. Il tempo del lutto è un tempo che si riferisce a chi è fuori. Dentro non c’è tempo lineare. Chi ama oscilla continuamente tra le fratture della vita, resistendo agli strappi. Così al fondo della morte, resta l’eros, il legame dell’amore, la relazione alla persona amata. La struttura profonda dell’esistenza è la relazione. Ecco perché abbiamo bisogno della testimonianza di Maria Maddalena, ecco perché lei è la prima. Maria resta al bordo del sepolcro dimora nell’amore, senza comprendere, né vedere bene (Gv 20,11), ma rivolgendosi a quell’intimità della relazione con Gesù che, sebbene sia stato inghiottito dal buco nero della morte, non sarà assorbita all’infinito nel nulla. Quella relazione resta (Gv 20,16). La morte non può assorbire l’amore (non più come diceva il Primo Testamento: «forte come la morte è l’amore», Ct 2,8): così anche al bordo della vita può continuare la relazione con Colui che è stato per lei il senso della sua vita. Il filo dell’amore non si spezza al bordo della realtà, anzi accade che mentre procediamo in quel tempo e spazio deformati nel trauma del dolore, ha luogo una trasformazione. Ci accorgiamo che lo stiamo costeggiando quel bordo, poi ci ritroviamo a camminare accanto ad esso, infine ci accorgiamo di aver camminato sull’abisso e di aver ripreso a vivere. Perché lo Spirito cova sull’abisso (Gn 1,2). Certo è un amore debole, un filo, come il «mormorio di un soffio leggero» (1Re 19,12): in fondo abbiamo semplicemente continuato a respirare nonostante il dolore. La Ruah mantiene il ponte dell’amore nel suo punto più fragile e ci rende capaci di rimanere (menein Gv 15), di persistere; non di trionfare o di conquistare. Tra morte e vita persiste lo Spirito Paracleto, promesso da Gesù come continua presenza di Dio con i discepoli, nell’assenza fisica di Gesù. Essi stessi ora dovranno essere il luogo della nuova forma di vita in cui Dio verrà ad abitare: rimanete nel mio amore (Gv 15,9); «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). Dice Rambo che tutta la forza dello Spirito sta nella capacità di farci immaginare una vita quando non la si riesce più a concepire. Una vita riconcepita attraverso, dentro la tempesta stessa. Tornando al nostro fisico teorico: «la struttura quantistica dello spazio del tempo impedisce alla materia di schiacciarsi ulteriormente. È diventata una stella di Planck, che rimbalza e inizia ad esplodere» (p. 126).
Il buco bianco della Risurrezione Il buco bianco della Risurrezione «potrebbe essere – cito il fisico – come un pezzettino di capello che fluttua» (p. 129) e siccome «non interagisce con la luce, non la si vede». Eppure ciò che non vediamo potrebbe essere costituito da «miliardi e miliardi di questi delicati piccoli buchi bianchi che ribaltano il tempo dei buchi neri ma non troppo e fluttuano lievi nell’universo come libellule» (p. 130). La struttura quantistica dello spazio e del tempo impedisce lo schiacciarsi ulteriormente dell’amore nel nulla da cui Dio mantiene permanentemente in essere l’universo. La trasformazione da morte a vita non può essere semplicemente vista. Nessuno vide l’ora della tua Risurrezione. Forse la nostra vita è piena di tanti fili di Resurrezione che non vediamo. Il credente sa che la struttura stessa della vita è relazione: è relazione il Dio trinitario, è relazione la creazione, è relazione quel restare amoroso al bordo della morte. Questa relazione amorosa che resta come un sottile alito di vita è il Tra del Padre e del Figlio, è l’alito dello Spirito, che in ebraico è femminile. È il debole amore che resta nei traumi di quando perdiamo qualcuno che amiamo e che è finito oltre l’orizzonte. Questo «restare attaccati all’inferno» (come diceva Serafino di Sarov) può diventare una spinta che spinge verso la vita. Insomma, che l’universo sia prodotto da un Big Bang o da un rimbalzo cosmico come un Big Bounce poco importa: possiamo usare le parole della scienza in analogia per dire come in Cristo, l’uomo che ha amato fino in fondo, la creatura che ha accolto totalmente le potenzialità offerte da Dio realizzandole fin nelle estreme possibilità umane e facendo della sua stessa esistenza l’apertura totale a questa relazione e a questo amore, entrando nel buco nero della morte ha ribaltato il tempo. Ecco perché diciamo che «Cristo è lo stesso ieri oggi e sempre» (Eb 13,8). Ecco perché il credente non torna indietro a celebrare un sepolcro ma è sospinto verso la vita («va’ dai miei fratelli», Gv 20,17).”
“Questa è la mia prima e ultima gemma, e come mia prima e ultima gemma, porto Il Decalogo (Dekalog), di Krzysztof Kieślowski, una serie cinematografica destinata alla televisione polacca rilasciata tra l’88 e l’89. Il Decalogo è composto da 10 mediometraggi di circa 55 minuti uno, e ogni puntata si ispira a uno comandamento biblico. Questa serie l’ho scoperta per caso a fine gennaio, dopo aver completato la trilogia dei Tre Colori sempre dello stesso regista, e mi sono imbattuto in uno dei capolavori più monumentali della storia del cinema. Ogni episodio esplora uno o diversi dilemmi morali o etici, questioni filosofiche esistenziali, che da sempre affliggono l’anima umana, riguardanti la vita, la morte, l’amore, l’odio, la verità, il peccato e il tempo, toccando argomenti come la religione, l’assassinio, l’adulterio, il furto, e così via. Kieślowski con Dekalog, dunque, con un budget relativamente minuscolo e una sceneggiatura eccezionale curata insieme allo sceneggiatore Krzysztof Piesiewicz, riesce con tanta semplicità a drammatizzare le vicissitudini e le contraddizioni che caratterizzano ognuno di noi. Ho scelto questa serie, come mia prima e ultima gemma, perché oltre ad essere una vera gemma in tutti i sensi, avendolo vista di recente, quindi durante il quinto anno del liceo, ho pensato di associare Il Decalogo a uno degli anni scolastici più impattanti per la maturazione di una persona. In questo ultimo periodo, dopo vari alti e bassi vissuti durante la mia adolescenza, sto sviluppando sempre più consapevolezza di me e una maggiore conoscenza del mondo; e Dekalog sicuramente mi ha lasciato un segno. Attraverso il cinema, che da poco sto scoprendo sempre di più, si può navigare nelle complessità della natura umana”. (J. classe quinta)
“Ho deciso di portare questa collana perché è la mia collana del battesimo e da quando ho scoperto di averla 4 anni fa non me la sono più tolta. Sin da quando me la sono messa mi sono sempre sentita protetta e non mi sono sentita mai più sola. Nonostante da piccola fossi molto credente, con il tempo e con l’inizio delle superiori avevo perso di vista la mia religione e la mia fede in Dio. Portando questa collana ogni giorno, sento Dio sempre più vicino a me e credere in lui mi da forza. È strano e difficile parlare di questo tema con ragazzi della mia età perché in molti non credono nella religione ma penso che credere in Dio possa dare speranza a tutti coloro che si possano trovare in difficoltà. Io non credo nella chiesa per tutte le corruzioni che ci sono sempre state ma per me la vera fede è avere Dio vicino a me e credere in lui. Per me Dio è immenso” (B. classe quarta).