Una tarda primavera rosa

Una settimana fa, quindi prima della vicenda successa a Sonia Dridi, la giornalista francese molestata in diretta tv in piazza Tahrir in Egitto, su Limes è apparso questo articolo di Luca Attanasio. Fa impressione leggere: “La sicurezza nelle strade, le piazze, a partire da Tahrir – dichiara Azza Soliman (Center for Egyptian Women) -, specialmente per le donne, è drasticamente diminuita”. Il pezzo, di cui riporto solo un estratto, parla del ruolo delle donne nel dopo primavera araba in Tunisia, Egitto e Libia.

“A quasi due anni di distanza, la situazione delle donne dei paesi travolti dalla primavera araba è cambiata? Se sì, il cambiamento è stato in meglio? Cosa pensano le donne dell’avvento al potere di partiti islamisti? Che posto si sono guadagnate nelle loro società storicamente patriarcali? Ne abbiamo parlato con alcune delle voci più rappresentative dei movimenti femminili in Egitto, Tunisia e Libia.

egitto_donne.jpgSecondo Youad Ben Rejeb, direttrice dell’Università femminista Ilhem Marzouki e membro del direttivo dell’Association tunisienne des femmes démocrates, al grande sforzo garantito dalle donne per liberarsi del regime e dare un corso più democratico alla Tunisia non è corrisposto il dovuto riconoscimento politico, economico e sociale. “Abbiamo giocato un ruolo primario nel preparare il terreno alla rivoluzione e nel condurla in porto, siamo state protagoniste nell’Haute instance pour la réalisation des objectifs de la Révolution (una sorta di costituente, ndr) riuscendo a imporre liste con quote ‘rosa’ al 50% e il principio dell’alternanza (nella composizione delle liste a un candidato uomo segue obbligatoriamente un candidato donna o viceversa, ndr) e abbiamo girato il paese per convincere i cittadini a registrarsi nelle liste elettorali, giungendo allo storico risultato di 3.890.000 tunisini over 18 iscritti (il 45% donne, ndr). Dopo tutto questo lavoro abbiamo avuto solo il 7% di donne capolista, mentre nell’Assemblea nazionale costituente siedono 58 donne, il 26%” (in Italia circa il 20%!, ndr). C’è stata, in ogni caso, una netta inversione di tendenza e cresce, tra le donne, la consapevolezza di poter giocare un ruolo sempre più determinante nella scena politica nazionale. Si spiegano così la continua partecipazione massiccia a forme di protesta contro i tentativi di ‘confessionalizzare’ il nuovo Stato e l’incessante pressione sul governo e l’Assemblea costituente che, proprio in queste settimane, ha portato al ritiro dell’emendamento alla costituzione che puntava a sostituire la parola “uguaglianza” con il termine “complementarietà”.

Va peggio alle donne egiziane. Dopo aver partecipato in massa alle dimostrazioni pacifiche che hanno condotto alla caduta di Mubarak, aver conquistato a caro prezzo visibilità e spazi, essere assurte a leader politiche e mediatiche della rivolta, nel periodo della giunta militare (Scaf) sono passate attraverso repressioni, violenze di ogni tipo, test di verginità, volgari e continue derisioni, e registrano oggi arretramenti nei diritti oltre a una presenza molto inferiore a quella di cui godevano sotto il regime in ogni sfera decisionale (anche se, all’epoca, quella presenza era spesso di mera facciata). “Le donne elette – denuncia Bothaina Kamel, unica donna a correre per le presidenziali, arrestata, maltrattata, allontanata dalla conduzione del notiziario della televisione per cui lavorava e minacciata – raggiungono a malapena il 2%; la loro presenza nei gangli decisionali è davvero minima, mentre le uniche tre donne facenti parte della commissione governativa non sono particolarmente rappresentative della società civile femminile”. “La sicurezza nelle strade, le piazze, a partire da Tahrir – dichiara Azza Soliman (Center for Egyptian Women) -, specialmente per le donne, è drasticamente diminuita e uno dei primi effetti di ciò è il fatto che, come suggeriscono gli ultimi indicatori, le ragazze vanno meno a scuola: di conseguenza, i matrimoni in giovane età per le donne sono nuovamente in ascesa”. Preoccupano le impunità dei crimini perpetrati dallo Scaf, le scelte anti-democratiche del governo Morsi – che “ha vinto solo perché moltissima gente non è andata a votare o ha scelto lui perché vedeva in Shafik l’assurda riposizione del vecchio regime” – e proposte di emendamenti alla nuova costituzione in cui si prevede l’uguaglianza tra uomo e donne senza, però, “contraddire i precetti della Legge Islamica”. “Ma il tabù sulle capacità femminili di presenza in politica, economia e vita sociale è infranto – è sicura la Soliman – e da qui in poi non si tornerà più indietro”.

La Libia è un caso davvero singolare nel panorama dei paesi travolti dalla primavera araba. Similmente all’Albania post Enver Hoxha, esce da un periodo lunghissimo di dittatura durante la quale ha sperimentato repressione, povertà e chiusura pressoché totale al mondo esterno. Inoltre, in Libia, si è combattuta una lunga e sanguinosissima guerra. “Questo – spiegano due rappresentanti di una ong che richiedono l’anonimato per le continue minacce subite – ha un’immediata, drammatica ricaduta sulla questione femminile”. Sì, perché all’arretratezza sociale ed economica endemica di questo paese che ha relegato la donna a un ruolo di esclusione si aggiunge il fenomeno degli stupri di massa consumati lungo tutto il conflitto (perpetrati, in realtà, anche su uomini e bambini). Nella cultura islamica lo stupro subìto comporta il definitivo isolamento della donna, mentre parlare di violenza sessuale è praticamente impossibile. Il ruolo delle donne libiche che affrontano con grande coraggio, tra i tanti, anche quest’ultimo tema, è cresciuto in maniera esponenziale nell’ultimo anno, e la loro presenza nelle istituzioni, la partecipazione alla politica, l’economia, la società, è senza precedenti. Alle ultime elezioni le donne andate alle urne sono state tra il 40 e il 50% “e in parlamento – racconta Amina Megheirbi, eletta con The National Force Alliance – abbiamo conquistato 33 seggi su 200, il 16,5%. Le ong femminili, poi, sono letteralmente esplose dalla metà del 2011 in poi, andando a riempire gli enormi vuoti di potere”.

Photoshop in salsa araba

La notizia girava in rete già qualche giorno fa, ma mi ero dimenticato di riprenderla. Oggi mi è arrivato il tweet di Internazionale e allora metto qui il breve pezzo di Christian Caujolle.

catalogo-ikea.jpg“Ikea – il gigante svedese del mobile facile da montare e delle decorazioni di interni sobriamente eleganti, adatte a qualsiasi ambiente, possibilmente arredato con mobili svedesi dal nome bizzarro che si possono comprare in tutto il mondo – fa nuovamente parlare di sé. Questa volta però gli svedesi c’entrano poco. I concessionari sauditi del marchio – che in questo caso ha dimostrato di non esercitare un controllo particolarmente stretto sui suoi rappresentanti locali – hanno candidamente cancellato, con un rapido tocco di Photoshop, tutte le donne presenti nell’ultimo catalogo. Il risultato di questa pensata surreale è tanto desolante quanto buffo. In un’immagine che mostra un bagno si vedono dei piccoli orfanelli che tendono le mani verso il vuoto originariamente riempito dalle loro madri. Ancora più assurda e clamorosa l’immagine che mostra tre uomini in un salotto, seduti a una certa distanza l’uno dall’altro, in posizioni assurde. La loro goffagine è però più evidente della loro solitudine. Trattandosi di un paese in cui le donne non hanno il diritto di mostrarsi senza velo né di guidare l’automobile, questa autocensura è dannosa solo per il marketing. Ma le ministre svedesi hanno immediatamente reagito definendo “medievale” questa “pulizia di genere”. Chissà se le donne saudite hanno ancora voglia di comprare certi mobili.”

L’altra Istanbul

Ho già avuto modo di scrivere che mi piace molto questo genere di articoli, dove si raccontano storie, e tramite quelle storie si conoscono realtà. Sono gli articoli che ti fanno sentire parte di un viaggio che non hai fatto. Questo pezzo è di Lorenzo Posocco, appena comparso sul sito di Limes. Buona lettura.

DSC_7403.jpg“Gentrification, povertà, lavoro minorile, tre fenomeni strettamente connessi. Il legame certamente non è dei più espliciti ma la realtà è davanti agli occhi di tutti e ad Istanbul si manifesta nei dintorni di Şişli, nel centrale Beyoğlu e in altri quartieri, come tra i Rom di Sulukule. Questi fenomeni filano su tre binari che, come linee parallele in una geometria riemanniana, ovviamente s’incontrano. Percorro Tarlabaşı Boulevard, lungo viale che inizia in Taksim Square e si snoda tra immensi cartelloni-bugia raffiguranti donne e uomini al passo coi tempi, felici, sorridenti in un quartiere anch’esso moderno, tra architetture che anticipano una nuova realtà fatta di Starbucks e di McDonald’s. L’occidentalizzazione passa di qui, passa per la gentrificazione, la distruzione forzata d’interi quartieri storici della città. In previsione della crescita economica gli immobili di aree povere vengono acquistati dalla fascia benestante della popolazione, con le alterazioni socio-culturali che seguono in casi del genere. Le famiglie che risiedevano in queste zone non ce la fanno, non reggono i costi dei nuovi appartamenti, e sono costrette a emigrare o mandare i bambini a lavorare per le strade. Sono su Tarlabaşı Boulevard, a poche centinaia di metri dal centro città, tra il rumore assordante del traffico e il caldo che in questi giorni si mescola all’umidità autunnale. Avverto un forte odore di escrementi. Alla mia destra è la seconda guerra mondiale: case distrutte, immondizia all’interno, cani e gatti che s’aggirano su pavimenti di spazzatura, ma anche persone. Mi addentro in una delle arterie di Tarlabaşı Boulevard e la prima cosa che scorgo, tra la miseria delle abitazioni, sono i bambini. Alcuni giocano, si rincorrono, urlano, mentre le mamme li controllano da lontano rinchiuse nelle loro case, sbraitando dalle finestre sbarrate; altri lavorano sodo; alcuni non hanno famiglia. I bambini di strada sono lustrascarpe, vendono soğuk su (acqua fresca) per venticinque centesimi a bottiglia o lavano automobili in posti improvvisati, spesso proprio sul ciglio della strada. Vivono in una città congestionata dal traffico, esposti alle polveri sottili. Rischiano di essere travolti dagli autoveicoli. Possono essere volontariamente o involontariamente coinvolti in furti o abuso di droga, contrarre malattie come l’epatite A o B o l’HIV. Corrono il rischio di essere picchiati e abusati dalle gang o dai clienti cui vendono le loro merci. Il piccolo Bedrettin, cinque anni, picchiato per aver oltrepassato il territorio di altri bambini, è solo uno dei tanti. Durante il giorno i bambini lavorano, quindi non beneficiano dell’istruzione scolastica. Il lavoro minorile sembra essere autorizzato, a Istanbul: lavorare in strada è considerato una sorta di apprendistato per la vita adulta, un modo per imparare a superare le difficoltà che, si sa, si presenteranno sempre. È preferito all’elemosina ed è considerato una forma di solidarietà domestica in caso di necessità. Ho visto bambini di cinque anni suonare una pianola di plastica nel bel mezzo di un torrente di volti in Istiklal Caddesi, meravigliosa via di collegamento tra Galata, il vecchio quartiere genovese, e Taksim, quartiere multiculturale. Suonano piccoli strumenti fatti per piccoli bambini, ma con i piccoli strumenti si gioca, non si elemosina. Sono i figli di Istanbul e delle vicine aree rurali, come magistralmente ha dichiarato Imre Azem, direttore di quella magnifica opera d’arte che è il documentario Ekümenopolis. La nuova politica voluta dalla Toki (ente amministratore dello sviluppo urbano), arteria pulsante e onnipotente del governo turco, viene qui a mietere le sue vittime.

Terribile, spaventosa realtà in tanta bellezza. Com’è possibile? “Siamo ad Istanbul. Non lo dimenticare”, risponde l’anziano Ohran, che si guadagna da vivere suonando il saz e vendendo quel poco che possiede. Eppure dietro le parole di Ohran si cela una realtà difficile da accettare: sembra che la semplice equazione gentrificatione-povertà-bambini-di-strada non sia poi tanto semplice, e che tali dinamiche rientrino nello spettro di ciò che Gramsci definì con il termine egemonia. Non si può contrastare ciò che non si comprende. Anche i turisti, o soprattutto loro, trovano solo ciò che cercano. Racconteranno del Medio Oriente una volta tornati a casa; nel Bazar compreranno dei regali. I turisti spendono, così la Turchia sfrutta l’onda. Mostra strade principali pulite e moderne, nasconde quelle secondarie dietro immensi cartelloni-bugia. Sfoggia una storia limpida, attraente nei colori dei giannizzeri di Sultan Fatih, musicale nelle rotazioni dei dervisci, mette da parte quella sporca; nel frattempo si occidentalizza. Mentre cammino per Tarlabaşı Boulevard, l’immagine di un buffo conduttore di circo si fa largo nella mia mente. È un ometto basso dai baffi prussiani, doppiopetto rosso e bombetta. Esclama: “A voi il nuovo numero signori! Assistete all’ultimo ritrovato: la fusione funzionale di tecnologia e scienza dei media applicati alla speculazione edilizia! Non senza una piccola spruzzatina di cinismo, s’intende.” La magia è compiuta ed ecco che Istanbul diventa una metropoli europea in cui all’Occidente, diciamo, piace specchiarsi. In fondo a Istanbul ci si può andare. Così si dice: Istanbul è europea.

Poi accade che di domenica, nel quartiere di Harbyie, abbia sede un mercato pubblicizzato su diversi giornali. Al mercato delle pulci di Harbyie vanno i turisti che poi scappano via terrorizzati dalla povertà, dai volti di chi tenta di sopravvivere al caro immobili della politica straight-to-the-West. I turisti cambiano strada, non s’inoltrano tra le vie periferiche, scelgono quelle principali, ma se non cercassero ciò che cercano, vedrebbero i volti di Ali, Alpay, Koray, Aziz, tutti intenti a lucidare i cerchioni delle automobili o le loro scarpe. I turisti mostrano una sovrana insofferenza per realtà del genere: eppure, tutto fa credere che cose del genere siano accadute un tempo anche da loro. E che forse accadano ancora.”

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