Cosa deve fare un medico se si presenta una coppia che chiede di circoncidere il figlio? Ferdinando Fava è Antropologo all’Università di Padova e su Popoli ha risposto alla domanda, facendo riferimento alla sentenza di un tribunale tedesco.
“È lecito per un medico circoncidere un bambino per motivi religiosi su richiesta dei suoi genitori? Secondo un tribunale tedesco, questa pratica contiene alcuni elementi per la configurazione di un reato, ma poiché la giurisprudenza al riguardo non è uniforme, se il medico accettasse commetterebbe un inevitabile errore di diritto, proprio per questa mancanza di omogeneità. Egli agirebbe dunque non solo senza intenzionalità dolosa, ma neppure per negligenza o superficialità. Così si conclude la sentenza pronunciata il 7 maggio 2012 dal tribunale regionale di Colonia, resa pubblica il 26 giugno successivo, e che è immediatamente rimbalzata, in parte deformata, nel circuito mediatico scatenando reazioni molto contrastanti e dai toni molto duri. Perché questa sentenza e questa risonanza? I fatti cui si riferisce risalgono al novembre 2010. I giudici del tribunale respingevano il ricorso della procura contro l’assoluzione, in primo grado, di un medico incriminato di avere arrecato lesioni personali a un bambino di quattro anni, nella sentenza indicato come «K1» (per tutelarne la minore età), circoncidendolo nel proprio ambulatorio. I genitori del bambino, a distanza di due giorni dall’intervento, erano dovuti ricorrere al pronto soccorso del dipartimento pediatrico dell’ospedale universitario della città per arginare un’inarrestabile emorragia. Il perito esterno cui i giudici si erano rivolti confermava che il medico aveva agito correttamente secondo gli standard sanitari correnti (l’anestesia locale, la sutura di quattro punti e la visita domiciliare la sera stessa del giorno dell’intervento) ma asseriva anche che la circoncisione, almeno in Europa centrale, non è assolutamente necessaria come cura profilattica. I giudici respingevano l’appello confermando il giudizio di assoluzione del tribunale di primo grado.
Il dispositivo della sentenza è proprio ciò che è all’origine del dibattito che ne è seguito, multiforme e dai toni molto aspri. Ci sembra utile ripercorrerlo brevemente. La corte stabiliva che il bisturi usato con perizia dal medico incriminato non poteva essere considerato uno strumento pericoloso (come sostenuto invece dalla procura), ma riconosceva ciononostante che al bambino era stata certo arrecata una lesione personale. Secondo il tribunale, l’adeguatezza sociale della circoncisione per motivi religiosi, anche se operata in modo corretto da un medico su un bambino incapace di dare il proprio consenso e quindi solo grazie a quello dei suoi genitori, non la assicura dal non presentare elementi di reato. Detto diversamente, per la circoncisione non si prospetta apparentemente il problema della sua corrispondenza a un’ipotesi di reato, perché essa «va da sé» cioè è «socialmente invisibile, generalmente accettata e storicamente approvata e quindi non soggetta allo stigma formale della legge». Questo, però, non implica che la sua conformità alla aspettativa sociale la preservi dalla presenza di possibili elementi di reato: per il tribunale questa conformità dice proprio l’impossibilità di formulare un giudizio di disapprovazione legale. L’azione del medico inoltre, secondo il tribunale, non può essere giustificata dal consenso: il bimbo di quattro anni non ha la maturità per darlo, e quello dei genitori non giustifica la lesione personale che ne consegue. Il diritto all’educazione dei figli concerne quelle misure prese nel loro migliore interesse e questo non può risolversi in una lesione personale permanente.
Pertanto per il tribunale, a questo punto facendo appello alla letteratura accademica, la circoncisione di un bambino non capace di consenso non è una pratica che promuove il suo più grande interesse, che sia quello di evitare la sua esclusione dalla sua stessa comunità religiosa o di adempiere il diritto costituzionale dei genitori alla sua educazione. Questo diritto fondamentale è, infatti, secondo la corte, ristretto da quello altrettanto fondamentale del bambino alla propria integrità fisica e all’autodeterminazione. I diritti civili e politici non sono limitabili dall’esercizio della libertà religiosa: vi sarebbe dunque una fondamentale «barriera costituzionale» al diritto all’educazione dei genitori. Nel giudizio di proporzionalità cui ricorrere quando questi due diritti fondamentali vengono a collidere, la violazione irrimediabile dell’integrità fisica del bambino dovuta alla circoncisione implicata per la sua educazione religiosa, non è commisurata a questo fine anche se necessaria. Essa, infatti, cambia il suo corpo in modo irreversibile e irreparabile: cambiamento che potrebbe in seguito essere contrario agli interessi stessi del bambino, al suo decidersi indipendente, più avanti negli anni, circa la propria appartenenza religiosa. Il diritto fondamentale dei genitori, secondo i giudici, non sarebbe inaccettabilmente meno leso nel chiedere loro di aspettare il momento in cui il figlio possa decidere da se stesso l’assunzione di un segno visibile della propria affiliazione alla religione, in questo caso, musulmana. Il tribunale confermava così l’assoluzione del medico, senza colpa, per avere commesso allora un inevitabile errore sulla legge penale.
Il dibattito che la sentenza ha scatenato è apparso subito composito, sviluppandosi su piani interpretativi molteplici e correlati: quello giuridico, quello religioso, quello socio-culturale e politico. Ma non poteva essere diversamente. Nella sentenza, infatti, si cristallizzano le tensioni chiave che segnano il divenire oggi delle nostre democrazie liberali e i cui tentativi di soluzione, a loro volta, contribuiscono a costruirne la coesione e l’identità: la tensione e l’articolazione tra i diritti universali (umani, civili e politici) e quelli particolari (religiosi e culturali), tra il diritto del singolo, quello del suo gruppo culturale e della società più ampia in cui sono situati, la natura e i limiti dell’intervento dello Stato sull’educazione dei figli nella privacy famigliare. E tutto questo in una congiuntura storica nella quale i giudici, bisogna notarlo, proprio per l’oggetto, il dispositivo della sentenza e il contesto politico e geografico, si espongono all’accusa, tanto superficiale quanto politicamente strumentale, di islamofobia, di antisemitismo, o più in generale d’intolleranza alla religione di matrice razionalistica e liberale.
La sentenza tenta di definire una posizione terza non riconducibile alla separazione rigida e riduttiva che pone in tensione la legge dello Stato da una parte e le pratiche culturali e religiose dei suoi cittadini dall’altra. Essa appare molto più articolata delle caricature che di essa sono state fatte in molte delle sue critiche roventi. Non è nostro obiettivo valutare se essa riesca a salvare tutti i diritti in gioco e se l’argine che pone, la priorità dell’integrità fisica del bambino, sia giuridicamente fondato. Ma certo è che essa, mettendo in primo piano la circoncisione maschile religiosa, non solo ci invita ad approfondire il senso di una pratica che agli orecchi europei suona ancora scontata, innocua o salutistica, sopratutto nella sua versione medicalizzata routinaria, ma anche – e da qui allargando il cerchio dell’analisi -, a sollevare il problema dell’equità di genere rispetto alla facile criminalizzazione della sola circoncisione religioso-culturale femminile o ancora, estendendo l’ascolto e lo sguardo, ad analizzare l’iscrizione corporea del rapporto tra individuo e società come esso si configura proprio nella sempre più diffusa e invadente chirurgia estetica genitale. Insomma, è l’occasione per interrogarci oggi sulle pratiche di manipolazione dei corpi. Anche attraverso queste, il «corpo sociale» ormai globalizzato mantiene le sue molteplici gerarchie e pone in essere i propri confini, inscrivendoli nel corpo individuale proprio perché corpo sessuato. Quest’ultimo è portatore, infatti, rispetto al primo, di un’irriducibile ambiguità: fonte rassicurante della riproduzione del corpo sociale, esso è anche la costante minaccia del suo disfacimento. L’iscrizione corporea ordina il corpo sessuato al corpo sociale, ma di quest’ultimo ne dissimula così la radicale precarietà e dipendenza. Queste pratiche del corpo sono dunque «fatti ambivalenti»: sono fatti sicuramente religiosi e culturali, i cui rituali cristallizzano ideologie e dotano gli individui d’istruzioni per agire circa la personalità, i rapporti di genere, la cosmologia, lo status sociale, ma sono anche «fatti» irriducibilmente fisio-anatomici, modifiche irreversibili, che non possono non interpellare la riflessione etica e l’impalcatura giuridica, trovando nei diritti umani quel possibile fondamento condiviso, tanto universale quanto precario e problematico.”