Quelli che vedi sono solo i miei vestiti, adesso facci un giro e poi mi dici

Nelle classi del triennio, la settimana scorsa, abbiamo cercato di capire cosa sia successo sulla questione referendum e Corte Costituzionale. Non siamo entrati troppo nel merito del tema dell’eutanasia (a cui dedicheremo delle ore specifiche), ma ho letto l’editoriale della rivista Lavialibera e vi trovo spunti molto interessanti per approfondire ulteriormente la questione. Le parole sono di Fabio Cantelli Anibaldi, vicepresidente del Gruppo Abele, scrittore (autore de La quiete sotto la pelle, sulla sua esperienza nella comunità di San Patrignano, da cui è tratta la docu-serie Sanpa su Netflix), originario di Gorizia.

“Ci sono leggi che difendono dal male che altri ci potrebbero infliggere, ma su ciò che è bene per ciascuno di noi nessuna legge dovrebbe sindacare e decidere, a meno che quel bene sia dannoso per altri. Questo mi pare il nocciolo perlopiù ignorato della questione eutanasia, ossia la facoltà di scegliere la morte qualora la vita diventi insopportabile a causa del dolore fisico e psichico, ostaggio di un’invalidità così vasta e incurabile da toglierle la dignità del poter scegliere e del poter fare: vita ridotta a esserci dolente, inerme, inerte. Prima che per legge è per compassione che a uno sventurato in questa condizione dovrebbe essere concesso di poter morire senza ricorrere al suicidio tramite la somministrazione guidata di farmaci letali, in un ambiente accogliente e riscaldato dalla presenza dei propri cari, in luoghi dove l’occhio, un istante prima di chiudersi, possa perdersi in infiniti di cieli, vette e mari, non sbattere contro fredde pareti d’ospedale o grigi muri urbani.
Unico ostacolo a questa pietosa concessione, l’eventuale opposizione di famigliari o parenti, ma non mi risulta che una persona legata al malato si sia mai opposta a ciò che il malato stesso chiedeva o, se non era più in grado di chiedere, implorava con gli occhi e il corpo: la morte come liberazione dal male, la morte come uscita dall’incubo di un vivere asfissiante perché meccanico. Non mi risulta che ci siano stati famigliari che hanno reagito diversamente da Giuseppe Englaro (padre di Eluana, ndr), Mina Welby (moglie di Piergiorgio, ndr), Valeria Imbrogno (fidanzata di Fabiano Antoniani, ndr), cui è toccata una sorte terribile: non solo soffrire per una persona cara irrimediabilmente invalida ma lottare per liberarla da uno stato vegetativo permanente, come nel caso di Eluana Englaro, o da una vita sentita come una prigione come in quelli di Pergiorgio Welby e Fabiano Antoniani.
Ma perché – poste le condizioni di cui sopra – nel nostro Paese non viene riconosciuta a una persona condannata all’ergastolo di una vita ridotta a mera sopravvivenza la facoltà di porre fine alla pena? Per tre ragioni, mi sembra.
La prima è la rimozione della morte. In Occidente – vale a dire in tutto il mondo, ormai – alla morte che colpisce uno sconosciuto si reagisce con un moto di studiata rassegnazione, ma anche quando si è intimi del defunto la riflessione sulla propria mortalità viene perlopiù elusa, come se a morire siano e saranno sempre gli altri. La maggior parte degli esseri umani vive come se fosse immortale e le conseguenze della finzione sono sotto gli occhi di tutti: la nostra è una società orribile, fondata su relazioni strumentali e posticce, una società dove il non parlare di morte si traduce in violenze esplicite come quelle delle guerre o implicite come quella selettiva che regola il mercato economico: mors tua vita mea. Anche nel caso della minaccia incombente e illimitata della pandemia, l’Occidente ha dato il peggio di sé, riuscendo a distogliere lo sguardo. Ecco allora i bollettini quotidiani, i calcoli statistici, le previsioni matematiche: la riduzione della morte a cifra come base di una rimozione di massa, forse la più grande dell’Occidente moderno. Si può immaginare allora quanto una riflessione sull’eutanasia possa risultare sgradita: la scelta del malato di morire per il rifiuto di ridursi a entità organica può rivelare per contrasto l’insensatezza delle vite sane fondate sul puro durare, vite che vivono come se non dovessero mai finire.
La seconda ragione – figlia della prima – è l’assenza di empatia. Per negare a chi è inchiodato a un’incurabile sofferenza il conforto di un accompagnamento alla morte, bisogna eludere una domanda che dovrebbe sorgere spontanea di fronte al dolore altrui, prima ancora di quella su come mitigarlo: “Come reagirei, se fossi al posto suo?”. Il mettersi nei panni degli altri anche – anzi, soprattutto – quando sono panni scomodi è la premessa dell’empatia, ma l’immedesimazione è impossibile in carenza di sensibilità o quando la sensibilità è addestrata a sentire solo ciò che non perturba. Per sentire il dolore degli altri e provarne turbamento bisogna prima aver riconosciuto e accolto la propria alterità: senza quest’inquietante ma decisiva scoperta è impossibile comunicare davvero col dolore del mondo.
Terza ragione: il potere condizionante della dottrina cattolica. Parlo di dottrina e non di fede perché, se vissuta con la necessaria radicalità, la fede non esclude l’inquietudine e anche la crisi di coscienza. La dottrina no: la dottrina decide a priori cosa è bene e cosa è male, e riguardo all’esistenza umana stabilisce – come noto – che essa è un dono di Dio, dono di cui però non è dato disporre. Ma è ancora un dono una vita ridotta a tortura o a stasi vegetativa? È ancora un dono la vita per chi la sente come un incubo, una spoliazione di libertà e dignità? Qui si pone l’antico problema teologico sollevato da Sant’Agostino nelle Confessioni con la domanda “si Deus est, unde malum?”: se Dio esiste, come può esserci il male? Problema che la dottrina aggira attraverso un’acrobazia dialettica sintetizzata nell’articolo 311 del catechismo cattolico, il quale comincia col dire che gli uomini, peccatori all’origine, hanno introdotto nel mondo il male morale “incommensurabilmente più grave del male fisico” per poi concludere che “Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene”. Dunque il Dio che ci ha dato in dono la vita, ma non la facoltà di disporne, consente il male morale essendo in grado, dall’alto della Sua onnipotenza, di trasformarlo in bene. Quanto alla malattia invalidante e letale che coglie di sorpresa e senza apparente ragione, la dottrina non parla – verrebbe da dire grazie a Dio – di utilità del dolore in quanto viatico al Cielo, lasciando così intendere che resti valido il principio secondo il quale la vita è un dono divino di cui è impossibile disporre anche quando non è nient’altro che angosciata impotenza, dipendenza assoluta, pena infinita.
Viene da pensare che il problema di fondo della questione eutanasia sia quello sollevato da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, problema della libertà quando, da libero arbitrio, si trasforma in responsabilità. Da sempre ma forse oggi più che mai l’uomo vuole essere libero da leggi e limiti, ma quando la libertà lo pone di fronte a una scelta di coscienza esige un’autorità o una legge che lo sollevi dall’onere di decidere.
Una legge per l’eutanasia difficilmente sarà approvata in un Paese come il nostro, ma se mai accadesse da un lato esulterei, dall’altro non potrei fare a meno di constatare quanto sia orribile sancire per decreto quello che dovrebbe essere un moto istintivo dell’anima. Davvero siamo così corrotti da dover rendere la pietà un obbligo di legge?”.

Simili? (e non è la Pausini…)

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L’Agenzia di Stampa della Federazione delle chiese evangeliche in Italia ha pubblicato questo articolo:
Il PEW Research Center ha presentato i risultati di un’indagine sulle differenze teologiche in Europa occidentale e Stati Uniti. Dalla ricerca emerge una sostanziale similitudine di visioni fra protestanti e cattolici su molti temi riguardanti la fede, la grazia, la Bibbia, le opere, la Riforma e gli insegnamenti della chiesa. Ne parliamo con Gabriella Lettini, pastora valdese, docente di teologia etica presso la Facoltà Starr King School for the Ministry della Graduate Theological Union di Berkeley (California).
La metodologia di indagine ha visto due diversi approcci in Europa occidentale (dove sono state effettuate interviste telefoniche a 24.599 persone in 15 paesi) e negli Stati Uniti (dove l’indagine è stata condotta online tra 5.198 partecipanti). Poco più della metà dei protestanti statunitensi (52%) afferma che sono necessarie buone azioni e fede in Dio per “entrare in paradiso”, una posizione storicamente cattolica. Il 46% sostiene che sia sufficiente la sola fede per ottenere la salvezza (uno dei quattro principi fondamentali della Riforma: sola Scriptura, solus Christus, sola Gratia, sola Fide). Anche in Europa emerge la stessa tendenza, e dati simili riguardano chi sostiene che la Bibbia fornisca tutte le istruzioni religiose di cui un cristiano ha bisogno. Il 52% dei protestanti americani intervistati sostiene che i cristiani dovrebbero cercare la guida dagli insegnamenti e dalle tradizioni della chiesa, oltre che dalla Bibbia (una posizione tradizionalmente cattolica). Solo il 30% di tutti i protestanti statunitensi afferma che sono sufficienti la sola Fide e la sola Scriptura. Altro dato significativo, per cattolici e protestanti dell’Europa occidentale: c’è un livello relativamente alto di disaffiliazione (per fare due esempi, il 15% in Italia, fino al 48% in Olanda, sono le percentuali di chi si descrive come ateo, agnostico o “nulla in particolare”; ma, fra i protestanti praticanti olandesi, la percentuale di quelli che pregano quotidianamente (58%) e frequentano la chiesa ogni settimana (43%) è la più alta in Europa. In tutti i paesi europei, sia protestanti sia cattolici dicono di essere disposti ad accettare membri dell’altra tradizione come vicini o familiari.
Dalla ricerca sembrerebbe emergere un certo analfabetismo religioso; può confermarlo?
Penso che in parte questa ignoranza dottrinale sia il fatto che per molte persone il linguaggio dottrinale del passato non sembri più rilevante alla loro fede nel presente. Per molti credenti, poi, essere cristiani non si esprime necessariamente nella fedeltà ad una dottrina, ma nel seguire la chiamata di Cristo nella vita di tutti i giorni, nel modo in cui trattano il prossimo e si fanno promotori di pace e giustizia. L’occidente teologico cristiano ha dato molto valore all’ortodossia, ma per molti credenti, in tante parti del mondo, la fede si esprime soprattutto nell’ortoprassi. Le teologie della liberazione si sono fatte portavoci di questa posizione.
In ambito teologico e dogmatico, quanto sono, ancora, importanti i concetti di sola Scriptura, solus Christus, sola Gratia, sola Fide?
La ricerca PEW ci fa vedere come siano le correnti evangelicali più conservatrici, e non i Protestanti delle chiese storiche, a parlare di sola fede e sola scriptura. Molti di loro stanno offrendo supporto all’ideologia per nulla cristiana del presidente Trump. Personalmente preferisco la creazione di nuovi linguaggi teologici che ci aiutino ad essere più vicini al messaggio di amore e giustizia del vangelo, che alla fedeltà a categorie che non sono necessariamente più così rilevanti o sono magari diventate problematiche.
Secondo lei, c’è qualche problema nelle chiese riformate (ma anche cattoliche) nell’approccio alla fede, alla lettura della Bibbia, all’approfondimento in generale?
Per me credo il problema principale sia il fatto che il Cristianesimo sia spesso stato complice, se non istigatore, di alcune fra le più grandi atrocità della storia del mondo. Solo pensando agli ultimi 500 anni, abbiamo la conquista coloniale e il genocidio nelle Americhe, la tratta degli schiavi africani, l’apartheid e la segregazione razziale, l’anti-semitismo, la giustificazione della discriminazione e della violenza contro le donne e le persone omosessuali e transessuali, lo sviluppo del capitalismo. Com’è stato possibile che le teologie dell’Occidente “Cristiano” non siano riuscite ad offrire un correttivo a queste aberrazioni della fede Cristiana? Forse ci sarebbero dovute essere altre questioni al centro del pensare teologico.”

Le 12 tesi di Spong. 12

Pubblico la dodicesima e ultima tesi di John Shelby Spong. Qui la cornice di inquadramento del suo lavoro e qui la fonte.

Tutti gli esseri umani sono fatti a immagine di Dio e devono essere rispettati per quello che sono. (…). Ciò appare ovvio in teoria, ma nella storia cristiana è stato difficile per i credenti viverlo realmente. (…). Come è possibile che l’antisemitismo sia stato il prodotto della religione fondata sull’ebreo Gesù? Che i leader della Chiesa abbiano giustificato guerre chiamate “crociate” per uccidere quegli infedeli dei musulmani che vivevano nella terra che i cristiani definivano santa? Che i cristiani abbiano cercato di mantenere pura e intatta la loro fede bruciando nei roghi chi discordava dall’ortodossia del loro credo? Su che base etica hanno praticato la schiavitù alcuni papi nella storia contro i neri? (…). Quando la schiavitù è stata sostituita dalla segregazione, com’è possibile che coloro che rivendicavano l’identità cristiana si siano opposti al suo superamento resistendo a base di idranti, di cani e di bombe nelle chiese in cui a morire erano bambine? samaritanoCom’è possibile che i leader cristiani abbiano potuto definire la metà femminile dell’umanità come sub-umana, non permettendo alle donne di avere proprietà a loro intestate fino al XIX secolo, né di andare all’università fino al XX, di votare, di esercitare determinate professioni, di essere ordinate, di partecipare alla politica e candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti fino alla fine dello stesso XX secolo o all’inizio del XXI? Com’è possibile che la Chiesa abbia continuato a credere che l’omosessualità sia uno stile di vita motivato da una malattia mentale o dalla depravazione morale (…)? (…). Il mandato di Gesù di amare il prossimo come se stessi sembra non sia stato ascoltato dalla Chiesa. La parabola del buon samaritano, che suggerisce si debba amare l’oggetto delle proprie paure e dei propri più profondi pregiudizi, è stata ignorata. (…). Vi sono senza dubbio molte cose nella storia della Chiesa di cui bisogna pentirsi. L’unico cammino che abbiamo davanti è compiere questo atto di penitenza apertamente, con onestà, e chiedere perdono alle nostre vittime. (…). Nel servizio battesimale della mia Chiesa si pone ai candidati al battesimo, ai loro genitori e ai loro padrini la seguente domanda: «Cercherai Cristo in ogni persona, amando il tuo prossimo come te stesso?». Ed essi rispondono: «Lo farò, con l’aiuto di Dio». Questa deve essere la risposta di tutta la Chiesa cristiana se spera di sopravvivere nel futuro.”

Le 12 tesi di Spong. 2

Pubblico la seconda tesi di John Shelby Spong. Qui la cornice di inquadramento del suo lavoro e qui la fonte.

Dal momento che Dio non può essere concepito in termini teisti, non ha senso cercare di intendere Gesù come “l’incarnazione di una divinità teista”. I concetti tradizionali della cristologia sono, pertanto, in bancarotta.
Il cristianesimo è nato da un’esperienza di Dio associata alla vita di un ebreo del I secolo chiamato Gesù di Nazareth. Quali siano state le dimensioni precise di quella esperienza è difficile da dire. I vangeli sono stati scritti tra 40 e 70 anni dopo la condanna a morte di quest’uomo, cosicché non sappiamo come articolarono realmente tale esperienza quelli che furono i suoi primi discepoli nella prima generazione della storia cristiana. La maggior parte di questi era morta prima che si scrivessero i vangeli. Fin dove possiamo sapere, i primi discepoli erano convinti che tutto quello che avevano sempre pensato su Dio lo avevano sentito presente nella vita di Gesù. Questo è stato il nucleo del messaggio ed è così che è iniziato il cristianesimo. Pare che al principio i seguaci di Gesù si limitassero a proclamare il nucleo della propria esperienza: “Dio era in Cristo”. Questo è tutto ciò che l’apostolo Paolo dice all’inizio della sua vita cristiana (2Cor 5,19). (…). Dopo, tuttavia, intorno all’anno 56 o 58, quando scriveva ai romani (…), Paolo suggerì che nella resurrezione Dio avesse elevato l’umano Gesù fino a renderlo Dio (Rm 1,1-4). (…). Con il tempo, questa sarebbe diventata un’eresia, l’adozionismo, ma fin qui era arrivato il pensiero sulla natura divina di Gesù a metà e alla fine degli anni cinquanta del I secolo. Il problema era quello già indicato. La mente umana poteva concepire Dio solo in termini teisti. (…). Se questa era la definizione di Dio, allora la questione era: come era entrato questo Dio esterno nella vita di Gesù perché la gente ne sperimentasse in essa la presenza? Questa era la domanda a cui sentivano di dover rispondere e le risposte, nella misura in cui venivano sviluppate, cominciarono, nel corso degli anni, a configurare il cristianesimo in modi nuovi.
Quando il Vangelo di Marco, il primo, venne scritto, intorno all’anno 72, venne introdotta nelle menti dei Battesimo-di-Gesuseguaci di Gesù una nuova spiegazione del legame tra lui e Dio. Nel primo capitolo, Gesù, adulto e pienamente umano, è condotto al fiume Giordano perché lo battezzi un uomo chiamato Giovanni Battista. Nel suo racconto del battesimo, Marco dice che i cieli – il regno di Dio – si aprirono. Si concepiva l’universo come una superficie coperta da una cupola gigantesca. Il cielo era il tetto che separava il regno di Dio da quello degli umani (…). Così, un buco apparve nel tetto e il Dio che viveva lassù semplicemente mandò lo Spirito Santo sull’umano Gesù (…), uno spirito che, in ultima istanza, ridefiniva la sua umanità. Marco dice che, in quel momento, la voce di Dio proclamò dal cielo che Gesù era suo figlio, il figlio in cui si era compiaciuto. (…). Si cominciò a pensare a lui come a un essere umano pieno di Dio. A questo stadio si trovava la comprensione cristiana di Gesù negli anni settanta del I secolo.
Questo processo è andato avanti nella nona e nella decima decade, quando sono stati scritti i vangeli che chiamiamo di Matteo (intorno all’anno 85) e di Luca (89-93). In questi due vangeli, si pensava a Gesù non solo come a un essere umano permeato da Dio, ma come a una presenza di Dio nella sua forma umana.
Il momento in cui si dice che il Dio teista si è unito a Gesù si è andato spostando indietro: dalla resurrezione, che è quando Dio adotta Gesù secondo Paolo, al battesimo, che è quando Dio entra in Gesù secondo Marco, fino ad arrivare al concepimento (…). È stato allora che la tradizione della nascita verginale si è incorporata al racconto cristiano. (…). Nel pensiero cristiano, si è passati a pensare allo Spirito Santo come al padre biologico di Gesù. La sua umanità era ormai permanentemente compromessa. (…). Per quanto importante sia tale cambiamento, non sarebbe stato tuttavia il punto d’arrivo di questo sviluppo cristologico. Quando si completò il quarto Vangelo, verso la fine degli anni novanta dell’era cristiana (anni 95-100), si disse che Gesù era già parte di Dio; era il Verbo di Dio che era con Dio dal principio della creazione. (…). Giovanni stava affermando che il Dio teista che è nell’alto dei cieli aveva assunto forma umana in Gesù e che in lui Dio abitava tra noi. (…). Si erano così poste le basi tanto della dottrina dell’Incarnazione quanto di quella della Santissima Trinità. (…).
Tuttavia, se l’idea di un Dio nell’alto dei cieli è in bancarotta, lo è ugualmente, di conseguenza, l’idea che questo Dio teista si sia incarnato nel Gesù umano. (…). Ebbene, ciò significa che l’esperienza che tale spiegazione intendeva esprimere non è reale né valida? Non credo. Ma significa, questo sì, che bisogna cercare nuove parole che la spieghino. Le antiche non funzionano più. (…). Allora, (…) cosa c’è stato intorno a Gesù da far sì che la gente credesse di aver incontrato Dio in lui? Questo è quanto la ricerca della verità ci chiama oggi a scoprire. (…). L’esperienza di trovare Dio in Gesù deve essere stato qualcosa di originale e trasformatore. (…). Forse le persone hanno visto e sperimentato nella sua vita “la Fonte della Vita”, nel suo amore “la Fonte dell’Amore” e nel suo essere “il Fondamento dell’Essere”. Forse hanno sentito in lui e da lui la chiamata a vivere in pienezza, ad amare generosamente e ad essere tutto ciò che ciascuno poteva essere. Forse con questa esperienza sono arrivati a capire che si erano incontrati con la santità nelle dimensioni dell’umano. (…). Forse l’esperienza è reale e, una volta respinte le spiegazioni antiquate e irrilevanti, la realtà di tale esperienza può allora proporsi ancora una volta. Che realtà è stata quella che ha portato i seguaci di Gesù a sviluppare dottrine come quelle dell’Incarnazione e della Trinità? Come descrivere oggi tale realtà? Possiamo ancora pensare a Gesù, oggi, come essere divino senza intenderlo come incarnazione di una divinità soprannaturale che vive al di là del cielo? Quando è stata formulata la dottrina dell’Incarnazione, la gente pensava in termini dualisti. Il divino e l’umano si opponevano. Ma supponiamo che il divino e l’umano non siano due regni separati, ma una sola realtà continua. Forse il cammino verso la pienezza e anche verso il divino consiste nel farsi profondamente e pienamente umani. Forse l’impulso biologico verso la sopravvivenza non è il valore supremo per gli umani; forse questo valore supremo consiste piuttosto nel trascendere la necessità di sopravvivere e nell’essere capaci di donare se stessi nell’amore per gli altri.
Forse quando oltrepasseremo i limiti della nostra sicurezza tribale, di genere, di orientamento sessuale, di razza, di credo o di status, sperimenteremo un’umanità non legata all’istinto di sopravvivenza. Forse si incontra Dio nella libertà di permettere – e, in realtà, di accettare – la responsabilità di aiutare gli altri a essere quello che ciascuno è stato creato per essere, senza imporre loro le nostre idee. (…).
Interpretata letteralmente, l’Incarnazione non ha senso in un mondo il cui pensiero non è più dualista. Ma è infinitamente significativa quando la si vede non come una spiegazione ma come un’esperienza. Possiamo recuperare questo concetto cristiano per il XXI secolo? Credo di sì. Se il cristianesimo deve sopravvivere, credo che dobbiamo farlo. E il cristianesimo potrebbe risultare molto più profondo di quanto avevamo immaginato.”

Le 12 tesi di Spong. 1

teismo

Pubblico la prima tesi di John Shelby Spong. Qui la cornice di inquadramento del suo lavoro e qui la fonte.

Il teismo come modo di definire Dio è morto. Non può più intendersi Dio in modo credibile come un essere dal potere soprannaturale, che vive al di sopra del cielo ed è pronto a intervenire periodicamente nella storia umana, perché si compia la sua divina volontà. Pertanto, oggi, la maggior parte di ciò che si dice su Dio non ha senso. Dobbiamo trovare un nuovo modo di concettualizzare Dio e di parlarne. (…).
La persona che, a mio giudizio, diede inizio a una nuova visione della realtà che ancora oggi sfida la credibilità del modo tradizionale di esprimere la mentalità cristiana fu un devoto monaco polacco del XVI secolo, Niccolò Copernico. Tuttavia, (…) nessuno comprese la profondità della rivoluzione che aveva cominciato, tant’è che, alla sua morte, egli venne accolto nel seno della Madre Chiesa.
Il successore intellettuale immediato di Copernico fu un astronomo italiano del XVII secolo, Galileo Galilei, anche lui, come Copernico, profondamente cattolico. (…). La teoria di Copernico sulla localizzazione del sole al centro dell’universo era qualcosa di cui Galileo era giunto a convincersi. (…). A differenza di Copernico, tuttavia, Galileo, non viveva in convento. Era un noto scienziato, una figura pubblica abituata a pubblicare le proprie scoperte. Fu allora che scoprì che le sue opere stavano provocando dibattiti e controversie che lo avrebbero inevitabilmente condotto a uno scontro diretto con la gerarchia della Chiesa cattolica.
In quel momento storico, la Chiesa era ancora una potente forza politica. Il suo potere era nella sua pretesa, ampiamente accettata, di avere l’autorità per parlare in nome di Dio. (…). Di certo, qualunque dubbio che – da qualsiasi parte venisse – potesse erodere questo aspetto del ruolo della Chiesa avrebbe rappresentato una sfida alla sua autorità. (…). La Chiesa e il suo sistema di fede funzionavano, così, come un sistema di controllo incredibilmente potente del comportamento umano. Era questo, in sostanza, che tanto Copernico quanto Galileo sembravano mettere direttamente in discussione. Era una sfida non solo a ciò che si percepiva come la verità, ma anche al potere politico. (…) Così, Galileo venne accusato di eresia. (…).
Il processo ebbe molta risonanza. (…). La visione di Galileo era considerata contraria alla “Parola di Dio” così come era rivelata nelle Sacre Scritture, che, in quel momento, si credeva fossero state dettate da Dio in maniera letterale. Se Galileo aveva ragione, la Bibbia e la Chiesa si sbagliavano. Questa era la conclusione ecclesiastica che avrebbe segnato il destino di Galileo. Quasi in ogni pagina della Bibbia c’era un racconto secondo cui Dio viveva al di sopra del cielo, nello strato superiore di un universo organizzato su tre livelli. (…). Galileo aveva sfidato questa antica e universalmente accettata visione del mondo (…). Aveva alterato la forma dell’universo. L’intuizione di Galileo espelleva Dio dalla sua divina dimora e, in fin dei conti, lo trasformava in un senza tetto. Se Dio non abitava in cielo, dove si trovava? (…). Non sorprende che al processo fosse ritenuto colpevole di eresia. (…).
La verità, tuttavia, non può essere respinta semplicemente perché non risulta conveniente, e le scoperte di Galileo avevano la verità dalla loro parte. Nel dicembre del 1991 il Vaticano annuncerà finalmente che Galileo aveva ragione. (…).
Le antiche interpretazioni sulla configurazione del mondo e sul concetto di Dio a essa vincolato iniziarono a venir meno. Le nuove definizioni non si erano ancora chiarite del tutto, era ancora difficile assumerle intellettualmente ed emotivamente. Il cristianesimo e la sua autorità, tuttavia, cominciavano a traballare. Questo traballare sarebbe diventato più intenso, molto di più di quanto si percepisse allora, nella misura in cui, nella coscienza umana, iniziavano a farsi strada altre scoperte, in altre discipline. Galileo aveva fatto sì che il mondo sperimentasse un periodo di trasformazione e di crescita rapide, cosicché, precipitando tutti questi cambiamenti sulla coscienza umana, sarebbe presto divenuto ovvio come il cristianesimo, così come era stato inteso tradizionalmente, non trovasse più posto nel nuovo mondo che stava nascendo.
L’anno della morte di Galileo nacque, in Inghilterra, Isaac Newton. (…). Studiò la causalità, la gravità e l’interrelazione di tutti gli esseri viventi. Non c’era posto nell’universo di Newton per un Dio esterno che interviene in maniera soprannaturale nella storia umana. I margini per la realizzazione di ciò che chiamavamo “miracoli” si riduceva sensibilmente. (…). Dio, espulso dal cielo da Galileo, cominciava ora a essere svincolato da qualunque funzione relativa ai modelli climatici. (…). I traumi nel concetto tradizionale di Dio avrebbero continuato a farsi sentire nella misura in cui l’esplosione della conoscenza influiva su di noi, derivante anche da altre fonti. Ora, Dio non solo era un senza tetto, ma, progressivamente, stava diventando un disoccupato. (…).
Negli anni ’30 del XIX secolo, il naturalista inglese Charles Darwin iniziò il suo viaggio intorno al mondo a bordo della Beagle. (…). Nel 1859, pubblicò le sue scoperte nel libro L’origine delle specie. Pochi anni dopo, sarebbe seguito il libro L’origine dell’uomo. In quelle opere, Darwin sosteneva che la vita si fosse evoluta nel corso di milioni e anche di miliardi di anni, a partire dalle semplici cellule. Cosicché tutta la vita era connessa: nessuna specie esisteva in forma permanente, bensì era sempre in divenire; l’umanità era sorta dalla famiglia dei primati e il racconto della creazione della Genesi non era corretta né biologicamente né storicamente. Iniziava a farsi evidente che non eravamo stati creati, in nessun senso, a immagine di Dio, bensì che Dio era stato creato a immagine dell’umanità. E, anche, che gli esseri umani non erano poco meno degli angeli, come suggeriva il libro dei Salmi (Sal 8), ma, di fatto, poco più delle scimmie. (…). Con sempre maggiore rapidità il concetto teista di Dio veniva messo all’angolo nella coscienza umana.
Al principio del XX secolo, il medico tedesco Sigmund Freud iniziò a esplorare la mente umana con il suo studio sulla natura dell’inconscio, sulle emozioni e sulle attività di quella che una volta chiamavamo “anima”. (…). Molti dei simboli che un tempo costituivano il nucleo del racconto cristiano apparivano ora assai diversi se analizzati nella prospettiva freudiana. Il “Dio Padre” del cielo era una mera proiezione dell’autorità paterna umana? Il potere della colpa, su cui si era basata una parte così importante della vita cristiana, era qualcosa di più di una forma di controllo del comportamento umano? Questa potente forza della colpa si era proiettata anche nell’altra vita, vita di eterna beatitudine o di eterni tormenti, ma ora, in modo piuttosto repentino, sembrava derivare non dalla rivelazione divina, ma da disordini psichici. (…). Il timore di Dio, che costituiva buona parte del cristianesimo, con le sue immagini del cielo e dell’inferno, iniziò a venire meno. (…).
Sempre nel XX secolo, il fisico tedesco Albert Einstein (…) cominciò a studiare quella che si sarebbe chiamata “relatività”. Si scoprì che il tempo e lo spazio non erano infiniti, ma finiti, e relativi sempre l’uno all’altro. (…). Tutto quello che facciamo e diciamo, lo facciamo e lo diciamo in mezzo alla relatività dello spazio e del tempo. Ciò significa che non c’è un qualcosa come una verità assoluta. Anche se ci fosse una verità assoluta, non potrebbe essere pensata né espressa nel quadro dell’esperienza umana.
Con questa conclusione, qualsiasi pretesa religiosa di oggettività veniva meno. Non c’è un qualcosa come “la religione autentica” o “la vera Chiesa”. Come un papa o una Bibbia infallibili. Come (…) una dottrina particolare che possa definirsi vera per tutti i tempi. La vita umana è vissuta, piuttosto, in un mare di relatività. (…). Nessuna istituzione umana, inclusa la Chiesa, possiede la verità eterna, né può possederla. Gli esseri umani e le loro istituzioni possono solo, per dirla con le parole di Paolo, vedere «come in uno specchio, in maniera confusa» (1Cor 13,12).
Questa cronaca dell’articolazione della conoscenza umano dal XVI secolo a oggi, così breve e pertanto imperfetta, ci rende almeno coscienti del fatto che la maniera in cui gli esseri umani hanno pensato a Dio nel passato è stata stravolta nei suoi fondamenti. E, tuttavia, nelle liturgie di tutte le Chiese cristiane continuiamo a usare concetti del passato come modello su cui disegnare il culto. Anche se, intellettualmente, tali concetti sono stati già rifiutati. Così, diciamo ancora «Padre Nostro che sei nei cieli». Una preghiera che si rivolge a un Dio concepito come essere dal potere soprannaturale, che abita nell’alto dei cieli di un universo disposto su tre livelli da cui crediamo ancora che controlli il nostro mondo. (…). Ci avviciniamo ancora a questo Dio, concepito come giudice, in ginocchio, supplicando misericordia, chiedendo favori e cercando salute. Quando una tragedia ci colpisce, ancora ci chiediamo perché e ancora ci domandiamo se tale tragedia sia un riflesso della volontà di Dio di punirci per i nostri peccati. «Che ho fatto per meritare questo?», ci chiediamo.
Definiamo “teismo” questo modo di intendere Dio. (…). Un concetto che non ha più senso nel nostro mondo. Non c’è una divinità soprannaturale al di sopra del cielo in attesa di venire in nostro aiuto. (…). Questo linguaggio, pertanto, è privo di senso. Ebbene, questo significa che Dio non ha senso? Questa è la questione più importante che il cristianesimo ha oggi di fronte a sé. (…). Possiamo rinunciare alle nostre definizioni teiste di Dio senza dover negare al tempo stesso la realtà di Dio? Credo che possiamo e so che dobbiamo provarci. (…). Se il cristianesimo, come religione, deve sopravvivere, deve sviluppare una comprensione del divino che abbia senso nel XXI secolo. Questa è diventata la nostra massima priorità.
(…). Tutti gli dei che gli esseri umani hanno concepito nella storia assomigliano sempre agli umani, ma senza i loro limiti. Ricorriamo ancora al linguaggio della liturgia. «Dio onnipotente ed eterno», diciamo nelle preghiere. Quello che stiamo dicendo è: Dio, tu non sei limitato nel potere o nel tempo. Questo Dio è anche quello che sa tutto, che scruta i segreti del nostro cuore. Questa divinità onnisciente è in definitiva poco più di una costruzione umana.
Se la comprensione teista di Dio è morta, allora si pone la questione se è Dio a essere morto o la definizione umana di Dio. (…). La Bibbia ha definito l’idolatria come il culto a qualcosa che è costruito da mani umane. Il teismo è una comprensione di Dio sviluppata da menti umane. (…). Il teismo è una manifestazione dell’idolatria umana. Di modo che respingiamo il teismo come una definizione creata da noi, gli umani, e ci proponiamo di cambiare strada, verso la realtà di Dio. Un passo molto più rivoluzionario di quanto la maggioranza di noi può immaginare, ma questo è il mondo nel quale il cristianesimo deve imparare a vivere.”

Le 12 tesi di Spong. Intro

Oggi inizio una serie di 13 pubblicazioni che metterò nella categoria “Pensatoio” (ma non solo). Si tratta di un insieme di riflessioni del vescovo episcopaliano Spong su un tema che ho già toccato qualche giorno fa, quello del futuro delle religioni e del cristianesimo in particolare. Sono raccolte in 12 tesi, all’inizio delle quali metterò sempre il link a questa prefazione. La fonte è la rivista Adista. Qui l’introduzione di Claudia Fanti:
Spong_portrait_2006Tra i teologi più impegnati nel compito di riformulare il messaggio cristiano in un linguaggio che possa risultare comprensibile – e dunque nuovamente rilevante e significativo – alle donne e agli uomini contemporanei, il vescovo episcopaliano John Shelby Spong appare senz’altro in prima fila. E ciò fin da quando, attento ai numerosi segnali di declino evidenziati da ogni parte dalla religione cristiana, ha compreso, «come vescovo e come cristiano impegnato», che l’unica maniera di «salvare il cristianesimo come forza per il futuro» è quella di trovare nella Chiesa il coraggio che la renda «capace di rinunciare a molti schemi del passato». Un impegno, il suo, tradottosi, alla vigilia del XXI secolo, in un libro diventato una pietra miliare in questo cammino di riflessione teologica: Why Christianity Must Change or Die (“Perché il cristianesimo deve cambiare o morire”), successivamente ridotto a un manifesto in 12 tesi attaccato, «alla maniera di Lutero», all’ingresso principale della cappella del Mansfield College, all’Università di Oxford, nel Regno Unito, e poi inviato per posta a tutti i leader cristiani del mondo. Non poteva dunque assolutamente mancare un suo contributo nell’importante numero della rivista di teologia Horizonte (pubblicata dalla Pontificia Università Cattolica di Minas Gerais; n. 37/2015) dedicato al “Paradigma post-religionale”, cioè al tema della presunta morte della religione – intesa come la configurazione storica, contingente e mutevole che l’insopprimibile dimensione spirituale dell’essere umano ha assunto dall’età neolitica – in direzione di una nuova espressione religiosa compatibile con le recenti acquisizioni scientifiche: senza dogmi, senza dottrina, senza gerarchie, senza la pretesa di possedere la verità assoluta. Su invito della rivista Horizonte, Spong ha così ripreso le sue celebri 12 tesi, ripercorrendole una ad una nella sua rilettura post-teista del cristianesimo (oltre, cioè, il concetto di Dio come un essere che dimora al di sopra di questo mondo e che da “lassù” interviene nelle vicende umane al di fuori delle leggi naturali).”

Qui un estratto della premessa di Spong alle sue 12 tesi:
Alla vigilia del XXI secolo, con le celebrazioni del millennio alle porte, mi sentii sempre più chiamato a esaminare lo stato della religione cristiana nel mondo. Da tutte le parti si vedevano molteplici segni del suo declino e persino, forse, di una sua morte imminente. Sempre meno persone frequentavano le chiese in Europa, e quelle che lo facevano erano sempre più anziane. Le Chiese del Nord America affondavano o in vuoto tanto liberale quanto insulso, o in un fondamentalismo anti-intellettuale. Le Chiese sudamericane si allontanavano sempre di più dalle preoccupazioni della gente e nessuno dei leader sembrava capace di rispondere a queste preoccupazioni con autorità. Nulla di tutto ciò era nuovo. Nel corso degli ultimi 500 anni, spong bookdinanzi a ogni scoperta proveniente dal mondo della scienza riguardo alle origini dell’universo e della vita stessa, le spiegazioni offerte dalla Chiesa cristiana sembravano sempre più sorpassate e irrilevanti. I leader cristiani, incapaci di assumere la rivoluzione della conoscenza, sembravano credere che l’unico modo di preservare il cristianesimo fosse quello di non alterare i vecchi modelli e di non prestare attenzione alle nuove conoscenze (e tanto meno metterle in pratica).
Nella misura in cui affrontavo tali questioni come vescovo e come cristiano impegnato, giunsi a convincermi che l’unica maniera di salvare il cristianesimo come forza per il futuro fosse trovare nella Chiesa il coraggio che la rendesse capace di rinunciare a molti schemi del passato. Cercai di articolare questa sfida nel mio libro Why Christianity Must Change or Die (“Perché il cristianesimo deve cambiare o morire”), pubblicato proprio alla vigilia del XXI secolo. (…). Poco dopo la pubblicazione di questo libro ridussi il suo contenuto a 12 tesi, che attaccai, alla maniera di Lutero, all’ingresso principale della cappella del Mansfield College, all’Università di Oxford, nel Regno Unito. E che dopo inviai per posta a tutti i leader cristiani del mondo, compresi il papa, il patriarca dell’ortodossia orientale, l’arcivescovo di Canterbury, i leader del Consiglio Ecumenico delle Chiese, quelli delle Chiese protestanti tanto negli Stati Uniti come in Europa, e alle più note voci televisive del cristianesimo evangelico. Un tentativo di invitarli a un dibattito sui veri problemi che – ero certo – la Chiesa cristiana ha di fronte a sé oggi. (…). Recentemente, gli editori della rivista Horizonte mi hanno chiesto di spiegare (…) le ragioni per invitare al dibattito intorno a queste 12 tesi. Sono felice di avere l’occasione di farlo. (…).”

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