D’amore, di morte, di potere, ma soprattutto d’amore

Pubblico un altro editoriale di Fabio Cantelli Anibaldi scritto su Lavialibera. Parte da una considerazione della saggista Anne Applebaum (di cui ho apprezzato il libro Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici) su Vladimir Putin per poi considerare una paura che accomuna tutti gli uomini ma che viene affrontata in modi molto diversi: la paura della morte. Riflette su come il potere e il suo esercizio possano regalare l’illusione di dominare il tempo e, di conseguenza, sottomettere la morte. Solo facendo pace con il proprio limite, con le proprie paure, con il proprio bisogno d’amore, si può arrivare ad amare sorella morte e apprezzare la vita come “un’avventura di amore e di pace, di passione e di conoscenza”. Ritengo che gli spunti di riflessione siano veramente molti.

Sembra ossessionato e pieno d’odio. Sembra entrato in una fase nuova. Non so di cosa abbia paura, se della morte o di perdere il potere. Di certo è vissuto isolato per due anni, a causa della pandemia. Mi chiedo cos’abbia fatto, cos’abbia letto e guardato, per tutto quel tempo, da solo. Oggi sembra un uomo malato, disturbato. Così parla di Vladimir Putin la saggista americana Anne Applebaum, vincitrice nel 2004 del Pulitzer con un monumentale studio sui Gulag sovietici, intervistata dal Corriere della Sera.
Parole che dicono l’incapacità e insieme il timore dell’Occidente a indagare le radici della guerra, limitandosi a una scontata condanna morale corroborata da manifestazioni in cui urlare la propria indignazione. Non metto in dubbio la buona fede di chi è “sceso in piazza” né la buona volontà del Papa che invita anche i non cristiani a digiunare il primo giorno di Quaresima. Penso solo che non serva a nulla, che la guerra non si ferma denunciandone l’orrore – quante migliaia di volte è stato fatto? – e che chi la fa troverà sempre una buona ragione o almeno un alibi per continuare a farla, tanto più se i suoi accusatori lo definiscono un criminale: cosa che, lungi dal ferirli, esalta i criminali.
Le parole di Applebaum sono in tal senso emblematiche. La studiosa si avvicina al nocciolo della questione quando osserva che, dopo la pandemia, Putin pare entrato in una fase nuova: ossessiva, disturbata, malata. Ma subito se ne allontana quando commenta: “non so di cosa abbia paura, se della morte o di perdere il potere”.

È proprio questa presunta alternativa a impedirle di capire che le due paure sono, in realtà, una: paura della morte e di perdere il potere sono facce di una stessa medaglia quando l’esercizio del potere assume forme patologiche, ossia quando diventa, come perlopiù accade, una droga.  In tal senso per Putin – come per tutti i potenti della Terra – la lunga stagione del covid dev’essere stata un incubo. Non tanto o non solo perché ha sentito la propria incolumità in pericolo, ma perché il covid ha dimostrato un potere sulle vite degli altri infinitamente maggiore del suo. Per un uomo di potere – politico o economico che sia – la morte è pietra d’inciampo, smacco, scandalo perché è l’unica cosa sulla quale il suo potere non può nulla. La morte rivela la natura fittizia, teatrale del delirio di onnipotenza degli esseri umani quando non sono educati a riconoscere il loro limite costitutivo, il loro essere irrimediabilmente mortali. Delirio che però non riguarda solo gli uomini che concentrano su di sé enormi quantità di potere. Troppo bello se il problema fosse riducibile ai Putin, ai Bolsonaro e alle loro imitazioni in salsa pseudodemocratica tipo Johnson. O ancora, spostandosi in ambito economico-finanziario, ai vari Bezos, Musk, Zuckerberg… Il problema si estende agli innumerevoli che, se fossero al posto dei succitati, si comporterebbero allo stesso modo se non peggio. Se concentrato nelle mani di un autocrate vero o potenziale – cioè di qualunque persona si identifichi con un “io” non avendo scoperto come Rimbaud che «io è un altro» – il potere è droga che fa sentire onnipotenti perché decide sulla vita e la morte degli altri, considerati alla stregua di sudditi, soldati o impiegati di quel potere. 
Lo stesso vale per il denaro. Il time is money di Rockfeller e dei primi miliardari moderni si è capovolto in money is time: possedere denaro dà l’illusione di vivere più a lungo, accumularlo quella di vivere per sempre. Il predominio del capitale poggia su una garanzia di durata: se sono ricco potrò fronteggiare gli imprevisti della vita, se ho miliardi di euro o dollari ne uscirò indenne da quasi tutti. Quel “quasi” allude all’incontro con la morte, eventualità che i super-ricchi e gli autocrati rimuovono costantemente dal loro orizzonte psichico e esistenziale proprio perché la temono come nulla al mondo. La morte: screanzata guastafeste che osa presentarsi nella sala dove il potente e la sua cricca stanno ridendo, ballando, gozzovigliando, fornicando per ricordare a tutti che la festa un giorno finirà. Magnati e dittatori sono accomunati dalla stessa priorità: rimuovere il pensiero della morte per abbandonarsi spensierati all’ebbrezza che procura l’eccesso di soldi e di potere.
Chissà cos’ha fatto, si chiede Applebaum, Putin durante l’epidemia? Cosa avrà pensato nei momenti infinitamente lunghi in cui il suo potere non valeva quasi più nulla? In cui non poteva più addobbarsi di costumi magniloquenti o intimidatori, in cui era stato sottratto alla sua scena?  Se non fosse l’omuncolo tronfio e anche pavido che è, si sarebbe sentito mancare il terreno da sotto i piedi e, abbandonandosi al vuoto, avrebbe fatto pace con il suo limite, con le sue paure, con il suo bisogno d’amore, il bisogno d’amore che segna il soggiorno degli umani su questa Terra perché nasce dalla consapevolezza di esserne ospiti contingenti, viandanti mortali.  Ma è come togliere a un tossicomane l’eroina: superata la crisi d’astinenza si pone per lui il vero problema, cioè avere il coraggio di cambiare davvero, di andare al fondo delle sue paure – in primis quella di morire – e scoprire cosa c’è alla radice della dipendenza, il bisogno di amare e di essere amato, di sentirsi nutrito e protetto come nel grembo materno. Se questo coraggio non c’è e se non c’è nemmeno l’umiltà di chiedere sostegno affinché maturi in lui, il canto delle sirene della droga diventa richiamo ammaliante e irresistibile. Putin questo coraggio non ce l’ha avuto, come miliardi di uomini su questa Terra, ed ecco allora che il mondo dopo la pandemia si prospetta minacciosamente simile se non uguale al precedente, come se la lezione della pandemia – siete tutti interdipendenti, siete tutti vulnerabili – non fosse servita a nulla. Uscire da una crisi ma uscirne uguali è il peggio che ci si possa augurare: una crisi è, sempre, un’occasione di cambiamento cioè di vita, perché la vita è nella sua essenza divenire. La vita gira al largo dalle anime cristallizzate, si ritira dagli uomini che non mollano la presa da sé stessi, gli uomini che si preoccupano soltanto  di affermarsi e durare.
Tornando alla guerra, è la rimozione della mortalità a rendere crudele il potere e intrinsecamente violento il sistema che gli fa capo. Chi detiene il potere ma disconosce la sua mortalità per ciò stesso si costruisce un’immunità psicologica dalla morte uccidendo o facendo uccidere. La logica che, a loro insaputa – ne sono vittime ma non lo sanno – guida tutti i Putin di questa Terra può essere espressa così: ti faccio uccidere quindi prendo il posto della morte impersonale che colpisce a caso, la morte che accade a tutti e per tutti meno che a me, che la eguaglio per onnipotenza. Una civiltà che non riconosce la morte la infligge, e quel che resta dell’Occidente è un infliggere la morte per sentirsi onnipotenti e, finché si può, immortali.
Poi c’è modo e modo d’infliggere la morte e in tal senso mi pare che si debba almeno riconoscere a Putin il merito di giocare a carte scoperte, usando gli eserciti e le armi. C’è un modo più subdolo e vigliacco di uccidere con l’economia. Si parla in questi giorni di “sanzioni” contro la Russia come se il sistema economico neoliberista non fosse di per sé sanzionatorio, mosso da una logica selettiva che prevede diritti ridotti a privilegi, appannaggi riservati a chi se li può permettere, cioè a chi ha i soldi per acquisirli. Il “mercato” è una prosecuzione su vasta scala della logica dei lager o dei gulag, dove, tolti i comandanti dei campi e le loro cricche – i Rudolf Höss, gli Franz Stangl, i Naftaly Frenkel – non veniva subito ucciso solo chi era in grado di lavorare, venendo ucciso poi dal carico di lavoro, dalla fame, dalle malattie. 
In conclusione, come uscire da questo circolo vizioso che riguarda non solo autocrati e magnati ma la natura umana in generale, come ci racconta da sempre la grande arte e letteratura, affascinata di come basti un po’ di potere per corrompere l’animo dell’uomo, essere in gran parte codardo, incapace di guardare in faccia la sua fragilità?È evidente che non se ne esce senza una nuova cultura ed educazione che, a differenza di quelle tecnologiche/tecnocratiche, tutte volte a formare impiegati del “sistema mercato”, insegni a riconoscere e a rispettare la morte, a tenerne conto. E infine a volerle bene, perché è per lei, grazie a lei, che sentiamo il bisogno di amare e di essere amati, è solo per lei che la vita può essere una meravigliosa avventura di amore e di pace, di passione e di conoscenza.”

Undicesima stazione

So che siamo nel periodo dell’Avvento, è appena iniziato. Molti cristiani, ieri, hanno acceso la prima delle quattro candele della loro corona. Eppure mi soffermo su una riflessione di più di vent’anni fa di Mario Luzi (1914-2005), scritta in occasione della Via Crucis di quell’anno per l’XI stazione, quella di Gesù inchiodato alla croce. L’ho trovata su La rivista de Il Mulino. Sono parole messe in bocca a Gesù stesso. Scrive Luzi:

“Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto. È bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto in un suo angolo quieto tra gente povera, amabile e esecrabile.
Mi sono affezionato alle sue strade, mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, le vigne, perfino i deserti. È solo una stazione per il figlio Tuo la terra, ma ora mi addolora lasciarla e perfino questi uomini e le loro occupazioni, le loro case e i loro ricoveri mi dà pena doverli abbandonare. Il cuore umano è pieno di contraddizioni ma neppure un istante mi sono allontanato da te. Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi o avessi dimenticato di essere stato. La vita sulla terra è dolorosa, ma è anche gioiosa: mi sovvengono i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali. Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario. Congedarmi mi dà angoscia più del giusto. Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
E terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
La nostalgia di Te è stata continua e forte, tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna. Padre, non giudicarlo questo mio parlarti umano quasi delirante, accoglilo come un desiderio d’amore, non guardare alla sua insensatezza. Sono venuto sulla terra per fare la Tua volontà eppure talvolta l’ho discussa.
Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego”.

Resto convinto che i testi delle religioni siano in grado di essere occasione di riflessione per tutti, credenti e non credenti: non farei il lavoro che faccio se non ne fossi convinto. Certo saranno riflessioni dalle molteplici sfaccettature, frutto della diversità umana. Prendo questo dubbio di Gesù e lo porto nel tempo che stiamo vivendo: eccesso o difetto di umanità? “Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?”. Qual è, mi chiedo, lo sguardo che sto gettando sul mondo? Qual è l’atteggiamento che ho? Su quale fronte mi schiero? L’interrogativo del Gesù di Luzi è retorico, perché la risposta alle domande è contenuta nella prima parte: “È bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto in un suo angolo quieto tra gente povera, amabile e esecrabile. […] ora mi addolora lasciarla e perfino questi uomini e le loro occupazioni, le loro case e i loro ricoveri mi dà pena doverli abbandonare […] Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi o avessi dimenticato di essere stato”. Si tratta di un Gesù che ha fatto un’immersione completa nell’umanità, anche quella più lontana, anche quella più inaspettata, anche quella inascoltata o dimenticata, quella per la quale è così difficile provare empatia, creare uno spazio d’ascolto dentro di me. Eppure, nonostante tutto questo, conserva un dubbio, quello di essere stato autoreferenziale, quello di aver assecondato una propria volontà, una propria preferenza, un proprio desiderio: “Sono venuto sulla terra per fare la Tua volontà eppure talvolta l’ho discussa”. Come faccio a comprendere, a discernere tra il gesto egoista e il gesto puramente altruistico? Lo so che nel gesto di generosità è contenuta l’autogratificazione e so che è normale. Ma quale può essere la bussola per non perdermi e non confondere la “Tua volontà”. Troppe volte, in nome di una supposta volontà superiore, si sono compiuti danni inenarrabili! Provo ancora a cercare tra le parole di Luzi una risposta e mi colpiscono queste: “La vita sulla terra è dolorosa, ma è anche gioiosa: mi sovvengono i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali. Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario”. Ieri sera a cena con noi c’era una coppia di cari amici: Mariasole passava da un braccio all’altro, li guardava negli occhi, sorrideva, sprizzava gioia da ogni particella del suo corpo. Diceva con tutta se stessa e con le parole: “che bello stare insieme”. Ecco l’umano a cui dovrei cercare di somigliare ogni giorno, ecco l’umano da cercare in questo Avvento affinché il divino possa continuare a trovare albergo nella grotta di ogni cuore…Un brano di Nick Cave rifatto dalla tredicenne Nell Smith insieme ai The Flaming Lips per meditarci su (tutto Where the Viaduct Looms è un cover album pazzesco secondo me!).

Un’arsura di senso

Riprendo la questione della manifestazione per il clima del 15 marzo, su cui avevo già detto brevemente la mia, attraverso due diversi pezzi: uno di riflessione e uno di inchiesta. Il primo è questo qui sotto di Alessandro D’Avenia. Il secondo, nel prossimo post…

Fonte dell’immagine

«Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle operazioni mie, sempre ebbi e ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e mezzo, io non me n’avvedo, se non rarissime volte: se io vi diletto o vi benefico, non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle cose, o non fo quelle azioni, per dilettarvi o giovarvi. E se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei». Così la Natura risponde al protagonista del famoso dialogo leopardiano, l’Islandese che ha cercato in tutti i modi una felicità che sembra incompatibile con una vita ferita dalla fragilità, dagli altri e dalla realtà. Egli, scoperta la propria irrilevanza e l’indifferenza della Natura, sferra l’ultima domanda: «Dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o giova questa vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e morte di tutte le cose che lo compongono?». La Natura tace e l’Islandese in attesa della risposta muore: o divorato da due leoni affamati che sopravvivono qualche ora grazie al misero pasto; o essiccato da un vento equatoriale, che lo ricopre di sabbia e lo trasforma in una mummia conservata in un museo europeo…
Per Leopardi la Natura è un fatale meccanismo indifferente e necessario di cui l’uomo è, suo malgrado, l’unico frammento consapevole e autocosciente. Sapendo di esistere egli va oltre la Natura, la trascende, la supera: è più che naturale, è sopra-naturale. Così diventa un ricercatore di senso ma, alla domanda: «Se tutto deve morire a che serve vivere?», la Natura non sa rispondere. Leopardi sa che l’uomo è vivo proprio se non rinuncia a questa domanda da cui ha origine la creatività umana: con la cultura infatti l’uomo cerca di affrancarsi dalla corsa dell’entropia verso l’abisso e di contrastare la fine di tutte le cose. Non a caso i gesti con cui è iniziata la novità umana sono stati scheggiare la pietra, seppellire i morti, dipingere le grotte: con la cultura l’uomo, faber e sapiens, realizza la vita autenticamente umana in dialogo con la Natura, che riceve come dono e come compito.
Sono migliaia gli adolescenti scesi in piazza in quello che è stato considerato uno dei più sorprendenti fenomeni di massa dal ‘68: il #fridayforfuture. Adolescenti di fatto perfettamente integrati nella fede del Progresso e nei ritmi di produzione di cui godono il benessere e gli strumenti, si sono riversati in tutte le città occidentali spinti dal richiamo di una sedicenne svedese: Greta Thunberg. Vogliono forse vivere in campagna o tornare al mondo senza cellulari, televisori, motorini, computer, frigoriferi, aerei? Dubito. Non rinunceranno ai trionfi della Tecnica, ma credo abbiano nostalgia dell’armonia perduta tra Natura e Uomo. Naturalmente il sogno della sedicenne è stato subito – come ormai capita sistematicamente – da un lato strumentalizzato, dall’altro reso oggetto di feroci critiche. C’è chi la santifica facendone la profetessa di una vecchia religione in cui la Natura è il Bene e l’uomo il Male, le offre pulpiti e premi impensabili per la sua età, e un libro in uscita in tante lingue; c’è chi la ritiene il fantoccio di un complotto globale o la «gallina dalle uova d’oro» di genitori avidi. Di fatto, è un iconico capro espiatorio delle ideologie degli adulti, abbattuta da alcuni e divinizzata da altri, per aggregare le loro forze esangui e disperse. Ma al di là delle strumentalizzazioni e dell’azione degli spin doctor dell’opinione pubblica, che cosa ha fatto sì che i giovani rispondessero? Che cosa rappresenta per loro «questa» ragazza? Questo mi interessa prima del suo messaggio climatico, sul merito del quale proprio la scienza è tutt’altro che unanime.
Greta, come l’Islandese, ha incontrato la Natura ma, questa volta, l’ha trovata in crisi. Il dialogo leopardiano si è ribaltato: l’uomo si è vendicato della divina indifferenza naturale e si è liberato dal suo giogo. Il divorzio tra Natura e Uomo è sancito in Occidente nel XVII secolo da Francesco Bacone, che si sbarazzò della tradizione secolare per cui la verità sulle cose e sull’uomo era un’armonia divina da indagare e rispettare. Il filosofo immaginò Nuova Atlantide, città-laboratorio governata da scienziati che a qualsiasi costo devono garantire il benessere ai cittadini, la loro scienza è finalizzata alla tecnica, che serve a incatenare la Natura: «sapere è potere». La cultura non serve più a curare e ampliare il Giardino, che nel racconto biblico Dio affida ad Adamo da «custodire e coltivare» (Gn 2,15), ma a costruire un giardino alternativo, artificiale: tutto fatto dall’uomo e finalmente libero dal male. Bacone inaugura la fede nel Progresso, religione che, rimosso Dio, l’uomo occidentale ha del tutto interiorizzato, diventando l’uomo-dio raccontato di recente da Harari in Sapiens e in Homo-Deus. Il XXI sarà il secolo della biologia-cibernetica, l’uomo diventerà totalmente padrone della vita e della morte, gli ultimi presidi che la Tecnica cerca di strappare alla Natura. La conseguenza, già in atto, è una cultura che ha disfatto qualsiasi verità non «costruita» da noi: non avendo su cosa radicare il proprio stare al mondo e il senso da dare al viaggio, l’io-soggetto, ciò che sta sotto (sub-iectum) e cresce affrontando i conflitti della vita, si è sbriciolato, lasciando l’io-individuo, un io senza fondamento e destino, che deve creare e procurasi con le sue forze (se le ha): «Puoi e devi diventare ciò che vuoi: sei onnipotente». Chi nasce non riceve più la patente dell’esistenza, se la deve conquistare, ma le tante verità contraddittorie a disposizione non gli permettono di farsi «soggetto»: è un oggetto in balia di correnti emotive e di potere, una pianta che comincia dallo stelo e deve poi procurarsi le radici. Non sa da dove viene e quindi chi è e dove va, e si oppone alla disintegrazione interiore con uno sforzo titanico della volontà ma, non cercando e non trovando dentro di sé quello che vuole diventare, fallisce e si sfinisce, come mostrano disagi psichici, dipendenze e suicidi. Non può trasformare il destino ricevuto, ciò che è, in destinazione: sospeso nel vuoto egli deve fabbricarsi da solo il pavimento su cui camminare, il terreno in cui mettere radici per slanciarsi nella vita. Che cosa sono i beat rabbiosi e tribali del rap, tanto amati dai ragazzi, se non il bisogno di ancorarsi a qualcosa di primordiale, proprio mentre si solleva il frastuono di una vita che va in pezzi? Ci stanno forse chiedendo una vita più «naturale»?
Gli adulti affondano e i ragazzi cercano in una coetanea l’indicazione di un fondamento. Un tragicomico ribaltamento delle parti, in cui i giovani provano a ri-fondarsi, e gli adulti, invece di consegnare loro una storia da cui partire, li inseguono, imitano o usano. I ragazzi, orfani di senso, intravedono una via d’uscita dal nichilismo adulto, in un nuovo eroismo: vorrebbero essere come Greta, avere una visione che li definisca, li unisca e dia senso alla vita. «La Natura è una struttura stupenda che possiamo capire solo in modo molto imperfetto e davanti alla quale una persona riflessiva deve sentirsi pervasa da un profondo senso di umiltà. La mia religiosità consiste in un’umile ammirazione di quello Spirito immensamente superiore che si rivela in quel poco che noi, con il nostro intelletto debole e transitorio, possiamo comprendere della realtà. Voglio sapere come Dio creò questo mondo. Voglio conoscere i suoi pensieri», scrive Einstein: o torniamo a indagare i pensieri di Dio come creature, parola latina che indica una vita ricevuta da custodire e portare a compimento con slancio e rispetto, o distruggeremo il creato. Siamo giardinieri non creatori: la Vita non l’abbiamo fatta noi e non è a nostra totale disposizione, non c’è bisogno di essere credenti per vederlo, basta osservare la realtà e conoscere un po’ di storia. La vita umana è una corrente tra i due poli di necessità e libertà, terra e cielo, natura e cultura: se non li teniamo uniti e distinti in una verità superiore, continueremo a inquinare la Vita, e di conseguenza la Terra. L’assenza di senso, alimentando individualismo, nichilismo e consumismo, porta a non avere niente e nessuno da rispettare, ma solo potere da affermare: questo è il clima in cui la Vita soffoca e muore.
Una sedicenne ha risvegliato nella sua generazione la nostalgia di una Vita «naturale». Ma credo che prima di «che mondo lascerete ai vostri figli?» ci stia chiedendo «a quali figli lo lascerete?». Lo sapranno curare e sviluppare solo quelli a cui avremo dato non solo la vita ma il senso della vita. E che senso ha? Lo sappiamo dire loro? La risposta non ce l’hanno né il Progresso né la Natura. Il letto da rifare è allora chiedere periodicamente a vostro figlio/a: «Che cosa fai oggi per rendere la Vita migliore di come l’hai trovata?». E se di rimando vi chiederà: «Tu cosa fai?». Che cosa risponderete (oltre a: «ho fatto te»)?”

Idolatri senza dèi

dèi

Riporto parte di un testo che sto leggendo di Salvatore Natoli e che è per me fonte di molte riflessioni.
Un argomento o un personaggi esistono se appaiono nei media. Se escono di scena è come se non fossero mai esistiti. Ci sono personaggi – e molti – ma c’è assenza d’opera. Fantasmi di verità, fantasmi di libertà. Peraltro, la comunicazione di massa vive e si alimenta di scoop, crea icone e devoti; fan impazziti eseguono danze tribali intorno all’idolo del momento. A ciò si accompagna una sorta di superstizione delle cose, la dipendenza – a seconda delle persone – da questo o quell’oggetto, quasi fosse un amuleto della vita quotidiana. […]
Che fine ha fatto l’Illuminismo? […] la nostra contemporaneità … certamente mostra segni di cattiva salute e quello di essere idolatri senza neppure dèi è il più preoccupante. L’esito tragico del titanismo novecentesco ha mostrato come fossero fallaci quegli idoli a cui si erano innalzati altari e sacrificate vittime, ma dalle ceneri dei titani è emersa una miriade di idoli tascabili. Dèi di un giorno, ed è già troppo. Gli dèi minori che oggi popolano la terra hanno poco da spartire con gli antichi dèi, nel cui nome si celebravano i grandi misteri della vita: la generazione, la nascita, la morte. La stessa idea cristiana di salvezza – promessa e mai compiuta – si è spenta. Al suo posto è subentrata quella di benessere, e la felicità, lungi dal coincidere con la realizzazione di sé, è identificata piuttosto con l’efficienza, con l’effetto fitness. Oggi più che un politeismo tollerante ci imbattiamo in un monoteismo perverso: l’Io/Dio.”
(Salvatore Natoli, “Non ti farai idolo né immagine”, Il Mulino)

On the turning away

C’è un testo che viene spesso citato per commentare episodi di indifferenza, disimpegno o menefreghismo, un testo la cui origine è piuttosto oscura: qualcuno lo attribuisce al pastore luterano Martin Niemöller e qualcuno a Bertolt Brecht. “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari. E fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei. E stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.”. Sembra che Niemöller abbia pronunciato queste parole contro la passività degli intellettuali tedeschi nei confronti dell’ascesa nazista. Le sue parole mi sono tornate alla mente domenica sera, mentre ascoltavo per l’ennesima volta uno dei brani dei Pink Floyd che, da sempre, preferisco: “On the turning away”. Si viene invitati a non volgere lo sguardo altrove rispetto ai “pallidi e oppressi”, rispetto a parole pronunciate e difficili da capire per noi. Si viene invitati a non rassegnarsi ai dolori degli altri: “Non accettare che i fatti siano solo sofferenze altrui i ti scoprirai unito a chi si volge altrove”. Ci si rammarica del fatto che la luce della speranza si affievolisca e diventi ombra: l’egoismo porta a indurire il cuore, l’orgoglio porta alla solitudine (“È un peccato che a suo modo la luce trapassi in ombra e proietti il suo velo su tutto quanto sappiamo. Inconsapevoli del crescere dei ranghi, guidati da un cuore di pietra, potremmo scoprirci ben soli in un sogno d’orgoglio”). E’ con l’avvicinarsi di una nuova luce, di una nuova alba, di un nuovo giorno, di una nuova possibilità, che può rinascere la speranza di un cambiamento (“Sulle ali della notte, mentre si risveglia il giorno, mentre il popolo taciturno unito in accordo silenzioso con parole che scoprirete strane e ipnotiche come la luce della fiamma, percepisce il soffio del mutamento sulle ali della notte”). Basta distogliere lo sguardo da chi non ha forze ed è sfinito, dal freddo interiore: guardare in faccia la realtà e darsi da fare (“Non più volgersi altrove da chi è debole e esausto, non più volgersi altrove dal gelo interiore. Un solo mondo da condividere, non basta stare a guardare. È solo un sogno che si possa non più volgersi altrove?”). E’ uno dei testi dei Pink Floyd più chiari ed espliciti.


On the turning away
From the pale and downtrodden
And the words they say
Which we won’t understand
“Don’t accept that what’s happening
Is just a case of others suffering
Or you’ll find that you’re joining in
The turning away”

It’s sin that somehow
Light is changing to shadow
And casting its shroud
Over all we have known
Unaware how the ranks have grown
Driven on by a heart of stone
We could find that we’re all alone
In the dream of the proud

On the wings of the night
As the daytime is stirring
Where the speechless unite
In a silent accord
Using words you will find are strange
Arid mesmerised as they light the flame
Feel the new wind of change
On the wings of the night

No more turning away
From the weak and the weary
No more turning away
From the coldness inside
Just a world that we all must share
It’s not enough just to stand and stare
Is it only a dream that there’ll be
No more turning away?
(Ho utilizzato la traduzione disponibile qui)

Un umanesimo da rivitalizzare

magritte.jpgNei giorni della rinuncia di Benedetto XVI mi ero perso un’interessante intervista di Laura Badaracchi al filosofo e sociologo Zygmunt Bauman per Avvenire del 12 febbraio. Ecco un estratto delle sue parole.

“L’attuale crisi è l’estrema conseguenza dell’aver sostituito l’umanesimo con la rivalità e la concorrenza. Ma contro gli interessi economici si può riscoprire una convivenza basata su cooperazione, condivisione, fiducia reciproca, rispetto, amicizia e solidarietà.

Assistiamo ora al crescente divorzio tra potere (la possibilità di realizzare cose) e politica (la capacità di decidere di quali cose abbiamo bisogno e quali devono essere realizzate), il cui esito è un’acuta crisi. Da una parte, ci confrontiamo con le potenze mondiali in un’extraterritoriale ‘terra di nessuno’ emancipata dal controllo politico, dall’altra con strumenti politici ‘locali’ (confinati al territorio di singoli Stati), come succedeva prima che cominciasse la globalizzazione dell’interdipendenza, e per questo motivo siamo afflitti da un deficit invalidante del potere… Quindi ci stiamo confrontando con un impegno analogo a quello dei vostri antenati del Risorgimento: ci troviamo di fronte alla sfida di integrare una moltitudine di autonomie locali – o realtà etniche e politiche quasi autonome – all’interno di nazioni e Stati moderni, ma con la necessità di farlo su scala molto più ampia.

Abbiamo il compito di costruire ‘umanità’ fuori dalla pletora di Stati-nazione, in modo accorato e con urgenza: è letteralmente una questione di vita o di morte dell’umanità, che a molti di noi sembra travolgente e che trascende la capacità umana.

… La situazione attuale è l’estrema conseguenza per aver messo al posto dell’umanità concorrenza e rivalità, barattando il grande desiderio e la nostalgia per una convivenza basata su cooperazione, condivisione, fiducia reciproca, riconoscimento e rispetto. Ma non c’è alcun vantaggio o benefit nell’avidità: una convinzione che sarà capita e accolta dalla maggioranza di noi. Interroga le persone sui valori a loro cari: le probabilità sono che molti nomineranno in primo luogo l’uguaglianza, il rispetto reciproco, la solidarietà e l’amicizia. Ma poi osservi attentamente il loro comportamento quotidiano, la loro vita concreta: si può scommettere che emergerà una classifica completamente diversa di valori… Si stupirà di scoprire quanto sia ampio il divario tra ideali e realtà, parole e azioni. Può essere colmato? Beh, non per niente si usa la parola ‘realtà’ per indicare argomenti troppo importanti per discuterne a distanza, temi su cui i nostri leader politici continuano a dirci che ‘non c’è alternativa’. Molti di noi credono che ci sia un’alternativa, anche se ci vorranno molta volontà, determinazione e un lavoro impegnativo per renderla realtà.

Tuttavia, come ricostruire la solidarietà dopo un’erosione durata decenni attraverso un individualismo invadente e insidioso e tramite la privatizzazione d’interessi e preoccupazioni? La società che è emersa da questi processi non dà asilo alla solidarietà umana. Sono state svilite le situazioni esistenziali in cui esprimevamo collaborazione e promosse, invece, la rivalità, la competizione e il sospetto reciproco. Tutto ciò accade in un tempo in cui abbiamo bisogno di solidarietà come mai era successo prima, per ottenere il bene comune della nostra sopravvivenza… Ma non sono ancora pronte ‘tabelle di marcia’ infallibili che ci indichino come procedere; nessuna garanzia di successo.”

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