Sono passati 10 anni, proprio adesso. Sto scrivendo al pc e la campana del mio paese ha appena dato il rintocco dell’01:00. Le finestre sono aperte dopo questa calda e anomala giornata di aprile. Esattamente 10 anni fa, succedeva quello che racconta questo articolo de IlPost.“Nella notte tra il 14 e il 15 aprile del 2014, dieci anni fa, alcuni miliziani del gruppo islamista e terrorista Boko Haram fecero irruzione in una scuola secondaria di Chibok, città a maggioranza cristiana nel nord-est della Nigeria, e rapirono 276 studentesse tra i 16 e i 18 anni. Alcune di loro riuscirono a scappare lanciandosi giù dai furgoni su cui erano state caricate, altre furono liberate negli anni successivi in varie operazioni dell’esercito nigeriano, in cambio di grossi riscatti. Di un centinaio di loro si sono perse le tracce.
Il rapimento delle studentesse di Chibok ebbe un’enorme risonanza anche fuori dalla Nigeria. Fu raccontato in documentari, libri e fu oggetto di molte manifestazioni. Nacque anche un movimento, chiamato “Bringbackourgirls” (“Ridateci le nostre ragazze”), che ancora oggi chiede di trovare e liberare le studentesse disperse.
Il rapimento di Chibok è diventato un po’ il simbolo di un problema che in Nigeria esiste ancora oggi: i rapimenti di massa continuano a essere frequenti, attuati con modalità simili a quelle di Chibok, sia da gruppi terroristici che da gruppi criminali comuni, e i vari governi non sono mai stati in grado di gestirli.
Il 14 aprile del 2014 i miliziani raggiunsero la scuola a bordo di furgoni. A Chibok, dove vivono circa 66mila persone, c’erano già stati attacchi di Boko Haram, e nelle ore precedenti al rapimento in città erano già circolate voci sull’arrivo del gruppo, per via di alcune telefonate di residenti di città vicine che avevano visto un convoglio di furgoni dirigersi verso Chibok.
Una volta raggiunta la scuola, i miliziani fecero irruzione al suo interno. Nonostante gli attacchi precedenti, la città non era dotata di un’adeguata sicurezza. Una quindicina di soldati lì presenti si scontrarono coi miliziani e cercarono di fermarli: gli scontri durarono circa un’ora, ma non arrivarono rinforzi. I miliziani di Boko Haram erano di più e più armati: uccisero alcuni soldati e iniziarono a rapire le studentesse, minacciandole di morte se non li avessero seguiti, e a caricarle sui furgoni. Poi diedero fuoco alla scuola.
Una volta terminato il rapimento, il convoglio di furgoni si diresse verso la foresta Sambisa, un’enorme area che si estende per oltre 500 chilometri quadrati e che è considerato da tempo un nascondiglio e luogo di addestramento dei miliziani di Boko Haram. L’operazione durò in tutto cinque ore. Le studentesse che riuscirono a lanciarsi giù dai furgoni e a scappare furono una cinquantina. Nei giorni successivi alcuni familiari delle altre si unirono e si addentrarono nella foresta, a bordo di moto e con armi artigianali, senza successo.
Il rapimento suscitò reazioni molto intense da parte dell’opinione pubblica nigeriana e non solo: il fatto che un gruppo di terroristi potesse agire quasi indisturbato, rapendo quasi 300 persone all’interno di una città, bruciando una scuola e scappando, divenne l’esempio della grave inadeguatezza delle istituzioni, e di come gruppi criminali e terroristici potessero sfruttarla per rafforzarsi. Nei mesi successivi, inoltre, organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International accusarono l’esercito nigeriano di essere stato a conoscenza del pericolo di quel rapimento e di non aver fatto nulla per evitarlo.
Le autorità locali promisero di impiegare tutte le risorse umane e materiali necessarie al ritrovamento e alla liberazione delle studentesse, ma ci vollero tre anni per ottenere le prime liberazioni. Con uno scambio di prigionieri organizzato dal governo nigeriano, a maggio del 2017 furono liberate 82 studentesse. Oltre allo scambio di prigionieri il governo nigeriano pagò un riscatto dell’equivalente di 3 milioni di euro: la cifra dell’importo fu rivelata con una lunga inchiesta del Wall Street Journal, di fatto il primo resoconto dettagliato di come si fosse arrivati alla liberazione di gran parte delle studentesse rapite.
Con la liberazione delle studentesse arrivarono anche i primi racconti sulla prigionia: alcune ragazze raccontarono di conversioni forzate all’Islam, di matrimoni forzati con miliziani di Boko Haram e del fatto che chi si rifiutò fu costretta a violenze e lavori forzati. Alcune studentesse morirono di parto, altre durante attacchi compiuti dall’esercito nigeriano contro Boko Haram.
Negli anni successivi furono liberate alcune altre studentesse, diventate ormai adulte, ma di molte altre non si ebbero più notizie. L’interesse dell’opinione pubblica andò scemando, e si diffusero anche teorie del complotto secondo cui il rapimento di Chibok non sarebbe in realtà mai avvenuto e sarebbe stato inventato per fini politici.
I rapimenti sono continuati anche negli anni successivi, sia da parte di gruppi terroristici che da parte di criminali comuni. Quelli compiuti nelle scuole sono stati i più frequenti: scuole e collegi si trovano molto spesso in luoghi isolati e fuori dai centri cittadini, in punti in cui la sicurezza è ancora più precaria o assente che in città. Rapire gruppi numerosi di studenti, bambini o adolescenti rende anche più facile l’ottenimento di un riscatto, per la pressione dei media nazionali e internazionali e dell’opinione pubblica nigeriana per la loro liberazione.
Secondo l’organizzazione Save the Children, dal 2014 a oggi sono stati rapiti circa 1.600 studenti e studentesse solo nel nord del paese, area in cui tendono a essere più attivi gruppi radicali islamisti come Boko Haram. Solo il mese scorso, in tre diverse operazioni, sono stati rapiti oltre 300 studenti.
I governi che si sono succeduti finora in Nigeria non solo non sono stati in grado di gestire questi problemi, ma a volte ne hanno a loro volta approfittato per arricchirsi. In passato i flussi di denaro per i riscatti sono stati anche un’occasione di guadagno per funzionari pubblici di medio livello, che nei casi in cui il governo gestiva i negoziati con i rapitori hanno iniziato a trattenere parte della somma destinata a liberare gli ostaggi.
Nel corso degli anni sono stati avviati vari progetti, come il Safe Schools Initiative, promosso dalle Nazioni Unite per rafforzare la sicurezza attorno alle scuole, e la cui realizzazione è stata ostacolata da vari problemi, tra cui la corruzione dei politici locali e la stessa instabilità politica del paese. I rapimenti di massa sono però diminuiti dal 2022, quando il governo ha approvato una legge che rende illegale pagare i riscatti e ha reso i rapimenti punibili con la pena di morte nel caso in cui le persone rapite muoiano.”
11 settembre, sentirsi altro
Stamattina ho trovato un articolo di due anni fa di Sabika Shah Povia, giornalista freelance italo-pakistana. E’ un pezzo contenuto all’interno di un approfondimento de Il Mulino per i 20 anni dall’attacco dell’11 settembre 2001. Così il Sommario: “Vent’anni fa gli attentati di Al Qaida e la guerra al terrore modificarono anche la vita dei musulmani italiani. Che, come mai prima di allora, iniziarono a sentirsi come altro. Una percezione che esiste ancora e che non è destinata a sparire presto”. Considero l’articolo molto interessante e quindi lo riporto integralmente.
“Ero al secondo anno di liceo. La mia vita era abbastanza routinaria. Ogni giorno uscivo da scuola alle 14 e prendevo un autobus per tornare a casa. Arrivavo alle 14:30, prendevo qualcosa da mangiare e mentre mangiavo chiacchieravo dal telefono fisso in salotto, davanti alla televisione sempre accesa, con la mia amica Flaminia, quella con cui avevo appena trascorso sei ore a scuola, che però non ci erano bastate per raccontarci tutte le cose che si vogliono raccontare due adolescenti di 14 anni. Anche quel giorno fu così. Ci stavamo dedicando a una profonda analisi della giornata, chi si era preso una cotta per chi, quale prof era stato il più antipatico e di che colore si era tinta i capelli quella ragazza del quinto, ignare del fatto che quello che sarebbe successo da lì a poco, precisamente alle 14:46, avrebbe cambiato per sempre le nostre vite. In televisione cominciarono a mandare in onda le immagini in diretta dell’attentato alle Torri Gemelle. Ricordo lì per lì di aver chiesto a Flami dove fossero, perché credevo fossero a Parigi. Conoscevo poco il mondo, non avevo ancora iniziato a girarlo, anche perché quando sei figlia di immigrati, ogni tua vacanza da bambina, la passi a trovare i parenti nel tuo Paese di origine, nel mio caso il Pakistan, il fino a quel momento anonimo Pakistan.
Quando da piccola passeggiavo per le vie di Roma mano nella mano con mia madre in abito tradizionale, ci fermavano sempre per chiederci di dove fossimo. «Che belle che siete. Siete dell’India?» «No, del Pakistan». «E dov’è?» «Vicino all’India». «E allora vedete che avevo ragione io! Siete indiane». E così eravamo indiane. Eravamo «belle». Non eravamo pericolose, non eravamo vittime, non eravamo ancora musulmane. Da quel giorno in poi sarebbe però cambiato tutto. E non solo per me.
Maham non era ancora rientrata dalle sue vacanze in Pakistan. Aveva da poco compiuto i diciotto anni. Nonostante fosse nata a Roma, aveva ottenuto la cittadinanza italiana da soli tre mesi. Finalmente era una cittadina a tutti gli effetti. Finalmente faceva parte di questa comunità, o almeno così credeva. Stava guardando le notizie alla televisione, mentre cercava disperatamente di contattare gli zii che aveva a New York e che lavoravano dentro uno dei grattacieli. «È allora che cominciò questa retorica del noi e del voi», ricorda. «All’inizio non capivo se io ero noi o voi, essendo io italiana, ma anche musulmana. Questo senso di spaesamento, mi portò ad avvicinarmi al movimento Stop the War Coalition. Avevo scoperto di non essere l’unica esclusa da questa dicotomia». Maham iniziò il suo attivismo e le sue battaglie per i diritti di tutti allora. «Avevo la speranza che se ci fossimo uniti per ciò che era giusto, chi era al potere non avrebbe potuto fare a meno di ascoltarci. Vent’anni dopo mi rendo conto che il potere del popolo non riesce a ottenere molto, se non il fatto che la solidarietà mantiene viva la speranza per un futuro migliore».
SiMohamed non andava mai in Marocco a settembre, però aveva finito il liceo proprio quella estate e dopo la maturità era partito in vacanza con i suoi amici e la sua ragazza. Decise quindi di posticipare il consueto viaggio per trovare i parenti a settembre. Era a Casablanca con suo zio, seduto a chiacchierare davanti alla televisione. Al Jazeera cominciò a trasmettere la diretta dell’attacco. «Pensavo fosse un film, ma non lo era», ricorda. «La stessa paura che ha colto chi non era di fede musulmana, ha colto anche chi lo era, perché tutto quello che è accaduto ha avuto come vittime persone, al di là del loro credo religioso». Oggi SiMohamed insegna educazione civica, cultura e lingua araba in un liceo di Genova. «Vent’anni dopo è come se i pregiudizi nati nei confronti dei musulmani dopo l’11 settembre si siano cristallizzati nel tempo. Però noi come comunità abbiamo preso coscienza del problema e ci siamo attivati perché l’azione dei singoli non diventi la condanna della maggioranza».
Le immagini della diretta dalle Torri Gemelle interruppero la Melevisione. Fatima aveva 7 anni e si spaventò pensando ci fosse una guerra. Il padre le spiegò che cosa stava succedendo, ma non avrebbe potuto prevedere quello che ne sarebbe seguito. «Da lì in poi andare a scuola divenne un incubo», mi racconta Fatima. «Venivo associata a Bin Laden perché ero musulmana come lui. È da allora che cominciò questa esigenza di doversi dissociare continuamente». Fatima lentamente si ritrovò ad avere sempre più amici figli di immigrati. «Mi aggregavo ai miei simili, allontanandomi sempre di più dagli italianissimi». Oggi Fatima non vive più in Italia, ma ne parla, ne scrive, e si racconta attraverso le sue poesie. «Dopo vent’anni di questa narrazione negativa dei musulmani, sono cambiata nel mio modo di approcciare queste questioni. Non sento più l’esigenza di dover dare spiegazioni e mi fa arrabbiare chi se lo aspetta. Oltre che per quelle degli attentati, mi dispiace per le vittime dei mass media che non sanno guardare oltre ciò che viene proposto».
Yassine oggi è il presidente dell’Unione delle comunità islamiche d’Italia, ma già all’epoca si occupava di associazionismo giovanile tra i musulmani. «Fummo travolti da un’ondata di odio e di islamofobia che riempiva i nostri giornali e telegiornali», mi dice. «Per strada la gente ci guardava con sospetto». Chiunque era visibilmente musulmano, quindi gli uomini con la barba o le ragazze con il velo, venivano presi di mira. «Qualche ragazza rimase anche vittima di aggressioni fisiche. Per non parlare dei controlli negli aeroporti che erano diventati molto più scrupolosi, per noi in particolare. E nelle scuole si continuava a discutere di terrorismo, e il terrorismo, agli occhi del mondo intero, era terrorismo islamico. Ormai esisteva solo quello. E noi musulmani eravamo tutti potenziali terroristi, sia per i media sia per i politici». Secondo Yassine, l’islamofobia ha preso sempre più piede nelle società europee, anche per via dei numerosi attentati terroristici che sono seguiti a quella data. Quello che però lui non accetta è la legittimazione dell’islamofobia da parte delle istituzioni. «Diversi Paesi europei hanno fatto azioni politiche o approvato leggi che vanno a limitare le libertà della comunità islamica. Una singola azione perpetrata da un gruppo di terroristi ha cambiato la vita di un miliardo e mezzo di persone nel mondo. E ne paghiamo ancora il prezzo».
Sumaya era nello studio dentistico di suo suocero, in attesa di suo marito. Vide anche lei le immagini dell’attacco sulla tv, in sala d’attesa. «Da quel momento, noi che viviamo qui abbiamo vissuto il grande peso di dover render conto di qualcosa che ovviamente non era colpa nostra», si sfoga. Sumaya è stata per anni consigliera al Comune di Milano. «È dura, specialmente per le donne che come me indossano il velo. L’opposizione strumentalizza ogni questione, ti accusa di presunti fanatismi e sostiene l’incompatibilità dei valori islamici con quelli occidentali. Ma noi sappiamo che non è così e non ci arrendiamo perché vogliamo essere parte costruttiva e propositiva della società». Oggi Sumaya ha tre figli e tanta speranza. «Ho molta fiducia nelle nuove generazioni. Percepisco un cambiamento di attitudine in loro. Sono più aperti alla pluralità e spero che questo aiuti a creare più ponti per dialogare, e per sentirci parte di una grande comunità e vivere al meglio le nostre vite».
Per Igiaba doveva essere un bel giorno. Era il primo nella redazione della rivista «Latinoamerica». Le cominciarono ad arrivare dei messaggi mentre andava a lavoro. Non capì la gravità della questione finché non vide le immagini. «Prima dell’11 settembre ero stata vittima solo di razzismo e afrofobia per via del colore della mia pelle. Poi si è aggiunta anche l’islamofobia. I controlli massicci nonostante il passaporto italiano, lo scoprire di essere colpevole di tutto». Igiaba oggi è una scrittrice di successo e riflette su cosa le è rimasto di quel giorno. «Più che quella data, rimangono le vittime di quel giorno, le conseguenze e la lettura tossica che ne hanno fatto i media e i politici. Invece di partire da lì per costruire un mondo migliore e combattere gli estremismi di tutti i tipi, si è colpevolizzata un’intera religione e i suoi fedeli. Ancora oggi c’è chi pensa che i musulmani siano la colonna del terrorismo. Io spero che dopo vent’anni saremo più capaci di dialogare, liberare i musulmani da questo stigma e riflettere per non avere mai più attentati e mai più colpevolizzare intere popolazioni».
Secondo una ricerca condotta dal Pew Research Center, oggi i musulmani in Italia sono circa 2,7 milioni, ovvero il 4,9% della popolazione residente. Eppure, i dati raccolti da Ipsos Mori nella ricerca sui pericoli della percezione, dimostrano che gli italiani sovrastimano la presenza musulmana al 19%. Perché? E perché il 69% degli italiani si dichiara contrario alla presenza dei musulmani nel Paese? Tutto questo è una conseguenza del racconto che è stato fatto di questo gruppo minoritario da parte di media e politici. Dopo l’11 settembre, i media hanno iniziato a occuparsi di più di questioni islamiche, anche se il più delle volte solo per riaffermare gli stereotipi islamofobi già esistenti nella società attraverso una narrazione sensazionalistica e che ha lasciato più spazio a voci e vicende estreme, che alla popolazione comune.
I politici hanno contribuito ad acuire questa situazione presentando l’Islam, i musulmani, ma anche gli stranieri più in generale, come minacce alle tradizioni e alla cultura italiana. Tale retorica ha legittimato in qualche modo l’esclusione e la discriminazione dei musulmani, e li ha resi bersaglio di intolleranza, di incitamento all’odio e persino di crimini.
Vent’anni di questa narrazione non si cancelleranno facilmente, ma prenderne consapevolezza oggi è una nostra responsabilità e un passo in più verso una società rispettosa dell’individuo, che sappia vedere nella diversità, anche religiosa, una ricchezza, e non un pericolo.
La scuola di al-Azhar
A proposito di Islam moderato o moderno o evoluto… scrive Michele Brignone su Oasis:
“Mentre nel quarto anniversario della Rivoluzione l’Egitto vive le sue convulsioni politiche, nel Paese continua il dibattito sull’Islam e sulle sue interpretazioni, dopo che il 1° gennaio scorso il presidente egiziano al-Sisi aveva chiesto alle autorità islamiche di «uscire» da un pensiero religioso percepito come una minaccia da gran parte dell’umanità per produrre un pensiero più «illuminato». A conclusione del suo appello, al-Sisi si era rivolto con tono solenne all’imam Ahmad al-Tayyib, shaykh della moschea di al-Azhar: «Lei ha una grande responsabilità davanti a Dio. Tutto il mondo si aspetta una parola da Lei».
E le parole dello shaykh non si sono fatte attendere. Tra le iniziative prontamente intraprese dall’importante guida religiosa per dar seguito all’invito di al-Sisi spicca la lunga intervista apparsa il 14 gennaio scorso su Al-Masry al-Yowm, la «prima rilasciata a un giornale del Medio Oriente da quando ha assunto il suo incarico», come con orgoglio riporta la testata. Lo shaykh ha toccato molti temi: il ruolo di al-Azhar, l’estremismo islamista, la formazione degli imam, l’insegnamento religioso, l’attentato a Charlie Hebdo, i rapporti con i Fratelli Musulmani e con lo Stato egiziano.
«La missione di al-Azhar – ha detto al-Tayyib – è presentare il carattere mediano e tollerante dell’Islam […]. Al-Azhar è pienamente consapevole del fatto che ci troviamo in mezzo alle onde impetuose provocate dai grandi cambiamenti e dai conflitti politici, economici, sociali e culturali e che la religione è una delle carte che i contendenti tentano di giocarsi nella lotta […]. Al-Azhar si adopera giorno e notte per contrastare queste onde […], ma non tocca solo a lei farlo perché questo deve avvenire anche a livello dello Stato con la cooperazione del ministero dell’istruzione». Inoltre, aggiunge l’imam, «nessuno può dire che l’estremismo verrà cancellato dalla società con facilità o in poco tempo. Ci troviamo di fronte a un fenomeno sociale con un radicamento decennale».
L’intervista dedica poi abbondante spazio a una questione molto “egiziana”, ma che non è priva di analogie con il dibattito che si registra in altri contesti, anche occidentali, cioè il profilo e la formazione dei predicatori che parlano dai pulpiti delle moschee. Commentando la decisione dello Stato egiziano di vietare l’accesso ai pulpiti a chi non sia in possesso di un diploma di al-Azhar, lo shaykh è convinto che sia «un passo che va nella giusta direzione», visto che «vista la loro rilevanza e funzione, non è possibile lasciare i pulpiti nel caos in cui versavano in precedenza».
Sollecitato a rispondere sui metodi di insegnamento di al-Azhar, recentemente messi sotto accusa da alcuni intellettuali, al-Tayyib invita l’intervistatore a riflettere sul fatto che «tranne una sola eccezione, nessuno degli ideologi dell’estremismo e del radicalismo di tutto il mondo si è diplomato ad al-Azhar […] ed è perciò spiacevole che al-Azhar sia continuamente accusata di essere responsabile del terrorismo».
Riguardo agli attentati di Parigi lo shaykh afferma che «tra i modi di difendere l’Islam e il suo profeta non ci sono l’uccisione barbara e i massacri, il cui prezzo è pagato dai musulmani di ogni parte del mondo», e precisa che «i musulmani sono ovunque chiamati a condannare e a rifiutare pubblicamente atti criminali come questo». Tuttavia, interrogato su come sia possibile che un persona che pronuncia la shahâda (la professione di fede) decapiti un altro uomo e dichiari di essere musulmano, al-Tayyib fa riferimento alla distinzione tra peccatore e miscredente, tema cruciale e dibattuto nell’Islam fin dalla primissima riflessione teologica (VII secolo). I jihadisti restano musulmani e non possono essere dichiarati miscredenti, altrimenti si aprirebbe un ciclo di condanne reciproche senza fine. Si domanda infatti al-Tayyib: «In quale fattispecie rientra un musulmano che decapita un altro musulmano? Nel taglione. Deve essere ucciso così come ha ucciso, ma non è un miscredente, perché la miscredenza è un’altra cosa e colui che crede in Dio, nei suoi angeli, nei suoi libri, nel suo profeta, nel giorno del giudizio e nei decreti divini è un credente e non può essere accusato di non esserlo. E se commette un peccato grave come uccidere un uomo o bere del vino diventa un miscredente? No. […] Se apriamo la porta dell’anatema non si salverà nessuno».
È infine interessante rilevare l’insistenza con cui al-Tayyib si premura di delimitare la funzione e le prerogative della moschea di al-Azhar, un’istituzione che a torto viene spesso descritta come il centro del sunnismo mondiale o addirittura il “Vaticano dell’Islam”: «L’opinione di al-Azhar non è vincolante, e noi non siamo una magistratura che emette sentenze né un organo esecutivo che può promulgare dei decreti. Non abbiamo un bastone con cui punire chi non si conforma alla nostra opinione. […] Non esercitiamo alcuna tutela né siamo un potere religioso».
In generale, l’imam non nega l’esistenza di problemi all’interno della moschea, ma respinge sistematicamente i tentativi di dipingerla come fomentatrice di quella violenza di cui parte dell’Islam è oggi malato. Le parole di al-Tayyib sono rappresentative di una cultura religiosa probabilmente piuttosto diffusa nelle società islamiche, che condanna senza reticenze le violenze perpetrate in nome di Dio, ma è in maggiore difficoltà quando deve interloquire positivamente con le istanze della società contemporanea e con le aspirazioni che le Rivoluzioni arabe hanno portato in superficie anche se in maniera apparentemente fugace.
Si tratta peraltro di una posizione scomoda, perché presa nella morsa di una duplice contestazione. Da un lato quella islamista, per la quale la quantità e la qualità dell’Islam presenti nella società non sono mai sufficienti. Il giorno prima della pubblicazione dell’intervista, un importante studioso della stessa moschea di al-Azhar, Muhammad ‘Imara, vicino ai Fratelli Musulmani, denunciava «l’inaridimento delle fonti della religiosità in Egitto».
Dall’altra quella modernista, che senza mettere direttamente in discussione il ruolo della religione nella società, vorrebbe un Islam finalmente conciliato con la ragione e la scienza e capace di lasciarsi alle spalle una tradizione che contempla l’uccisione dell’apostata, la discriminazione tra musulmani e non musulmani, la sottomissione della donna, come ha scritto l’analista ‘Adil Numaan sullo stesso giornale che ha ospitato l’intervista allo shaykh di al-Azhar.
Dopo il discorso del presidente al-Sisi la partita tra queste diverse letture è aperta, almeno in Egitto. In assenza di un’autorità religiosa deputata all’interpretazione corretta dell’Islam (lo ha ricordato lo stesso shaykh), il ruolo di arbitro spetterà probabilmente alla politica. E, se ne avrà la forza, alla società civile.”

