Gemme n° 215

So che sembro ripetitiva quando parlo di questo argomento, ma lo faccio perché per me è molto importante, veramente molto importante”. Con queste parole M. (classe quarta) ha presentato la sua gemma, questo video:

La vocazione del custodire non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero Creato, la bellezza del Creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo… Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo!… Quando parliamo di ambiente, del Creato, il mio pensiero va alle prime pagine della Bibbia, al Libro della Genesi, dove si afferma che Dio pose l’uomo e la donna sulla terra perché la coltivassero e la custodissero (cfr 2,15). E mi sorgono le domande: che cosa vuol dire coltivare e custodire la terra? Noi stiamo veramente coltivando e custodendo il Creato? Oppure lo stiamo sfruttando e trascurando? Il verbo “coltivare” mi richiama alla mente la cura che l’agricoltore ha per la sua terra perché dia frutto ed esso sia condiviso: quanta attenzione, passione e dedizione! Coltivare e custodire il Creato è un’indicazione di Dio data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi; è parte del suo progetto; vuol dire far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un giardino, un luogo abitabile per tutti…”. Sono tutte frasi dell’attuale pontefice.

Kierkegaard: estetica, etica, religione

Un articolo di Matteo Andriola su cui riflettere e meditare. Uno di quei pezzi che ti fanno pensare “Mmm… devo approfondire le cose”… per cui didatticamente interessante 🙂

Søren Kierkegaard, BøgerHo sempre considerato Søren Kierkegaard come un filosofo anomalo, un pensatore illuminato e affascinante, poco propenso a fornire soluzioni e risposte, quanto piuttosto orientato verso la spiegazione e l’analisi di problematiche e situazioni che lo conducono a erigere strutture di pensiero sempre figlie di profonde osservazioni e meticolose elaborazioni. Spesso per tale motivo, a torto, lo si ritiene lontano dalla grandezza di altri filosofi, ma personalmente ho sempre visto in lui un pensatore straordinario, moderno e conservatore al tempo stesso, in grado di fornire continuamente fondamentali argomenti d’indagine. Quello della “scelta” è sicuramente uno di questi.

Partendo dall’assunto che l’esistenza umana si riduca fondamentalmente alla “possibilità”, in Enten-Eller, cui la comune traduzione Aut-Aut non rende completamente giustizia, il filosofo danese presenta la celeberrima contrapposizione tra i due ideali di condotta di vita: quello estetico e quello etico. Nella vita estetica, incarnata dalla figura di Don Giovanni, dominano la fugace ricerca del piacere e dell’estemporanea ebbrezza quali condizioni tese a impedire l’incanalamento dell’esistenza verso finalità concrete e definite, strumenti atti a evitare una qualsivoglia concretizzazione dell’esperienza vitale. L’esteta infatti, di fronte alla possibilità, di fatto rinuncia a scegliere, coltivando esclusivamente l’interessante, subendo passivamente la bellezza anziché dominarla attivamente. È proprio questa vita inconcludente e incompiuta ad appagare l’esteta, che ha nella rinuncia alla scelta in luogo del godimento dell’istante, la propria esaltante vittoria. La non scelta però, teorizza Kierkegaard, violenta se stessa nel momento in cui subentra nell’esteta la consapevolezza che rifiutarsi di scegliere sia in realtà l’innesco di un rovesciamento dell’essenza stessa della possibilità che, proprio in virtù della non scelta, diviene di fatto impossibile e dunque, ciò che in prima istanza appariva appagante, in realtà non risulta tale proprio perché irresoluto e incompiuto. Senza concretizzazione, la possibilità genera quindi angoscia, e la ripetitività dell’incompiutezza vanifica un percorso, quello estetico, che porta l’esteta a “non essere” o, se si preferisce, a “poter essere” in eterno.

Kierkegaard, sulla cui filosofia le personali tribolazioni religiose e sentimentali lasciano un segno molto più netto di quanto si voglia ammettere, sviluppa una teorizzazione che spesso, troppo frettolosamente si crede di aver dominato. Infatti, occorre uno sforzo intellettuale significativo per comprendere come il pensatore danese non cada in contraddizione sostenendo che, contrariamente alla concezione che in origine convince l’esteta della propria assoluta indipendenza, la libertà risieda in definitiva proprio nella scelta che inizialmente rifuggeva, nel poter scegliere in vista di una realizzazione individuale; il soggetto estetico, se vorrà realizzare se stesso e la propria essenza, rinunciando alla condotta estetica, non potrà fare a meno di svoltare in direzione etica. La virata etica non deve ritenersi però la tappa di un naturale e progressivo percorso, quanto piuttosto un cambiamento drastico ed emotivamente violento, una presa di coscienza del nulla insito in sé o, se si preferisce, va inteso come quella scelta che l’individuo, fintanto che si trovava a vivere lo stadio estetico, rifiutava a priori e di cui in realtà era assolutamente incapace. Tra le possibilità che gli si prospettano, l’uomo etico, incarnato dalla figura del marito, diviene tale proprio sgombrando il campo dalle opzioni e decidendo di scegliere una e una sola via, quella che gli permetterà di dare concretezza a se stesso, divenendo ciò che è. Strumento determinante affinché l’esteta possa virare in direzione etica è la disperazione, quel sentimento generato dalla presa di coscienza della propria nullità. La disperazione dunque, nella concezione kierkegaardiana si configura come condizione necessaria e per certi aspetti addirittura positiva, in quanto la sola a permettere all’esteta la piena comprensione del valore della scelta. La scelta etica però, a conti fatti, è a sua volta un palliativo poiché non necessariamente salva l’individuo dall’errore del peccato, in quanto il rispetto delle norme vigenti nella società in cui vive diviene, in seguito alla scelta, una nuda e cruda conformazione alle consuetudini, un moralismo figlio di un senso del dovere scaturente dal fatto che quella determinata società impone “conditio sine qua non” il rispetto aprioristico di determinate norme. L’obbligatorietà dell’allineamento a una norma però non rende necessariamente il suo rispetto un ossequio, quanto piuttosto soltanto un accettabile compromesso, un viatico per poter vivere entro quella società che porta però l’individuo etico a sprofondare nell’abisso dell’universalità, anziché in quello della singolarità come avveniva per l’esteta. Neppure l’ideale etico dunque può considerarsi un traguardo accettabile, e il ripiegamento su Dio diviene, a giudizio di Kierkegaard, inevitabile, anche se certamente non privo di difficoltà. È ancora una volta la disperazione, peraltro consapevole, a generare quell’insoddisfazione necessaria per gettarsi a capofitto nella scelta religiosa. Si tratta della svolta più difficile e coraggiosa in quanto richiede il totale annichilimento della ragione in luogo dell’assurdo, del paradossale e dell’incomprensibile; in altri termini, la scelta religiosa richiede un totale annullamento di sé, paradossalmente funzionale all’affermazione della propria individualità. Nella fede infatti, pur ritrovando la propria individualità, occorre spogliarsi di qualunque residuo di razionalità e lanciarsi nell’abisso dell’incomprensibile, nel profondo e spiazzante abisso di Dio. Secondo Kierkegaard infatti, Dio chiede ossequio incondizionato verso qualcosa che alla ragione non può che apparire assurdo e irragionevole se misurato secondo un criterio razionale, in quanto si sottrae completamente al suo metro di valutazione. Occorre credere a Dio, e per certi versi fidarsi di ciò che chiede senza condizioni accettando l’imperscrutabile e l’incomprensibile. Soffermiamoci infatti sull’episodio del sacrificio di Isacco: cosa ci può essere di razionale nella richiesta avanzata da Dio ad Abramo? Come può la ragione comprendere una richiesta così terribile e razionalmente ingiustificabile? Non la può comprendere, ma la svolta religiosa richiede accettazione e solitudine.”

Non tutti in crisi…

oxfamPubblico un estratto del Rapporto “Grandi disuguaglianze crescono” elaborato da Oxfam, una rete di 17 organizzazioni di paesi diversi volta a ottenere un maggior impatto nella lotta globale contro la povertà e l’ingiustizia.
Secondo il Rapporto Grandi disuguaglianze crescono di Oxfam, la ricchezza detenuta dall’1% della popolazione mondiale supererà nel 2016 quella del restante 99%. Il fatto che questa disuguaglianza sia in continua e costante crescita rende necessarie misure dirette a invertire la tendenza. Alla vigilia del World Economic Forum di Davos, il Rapporto denuncia il fatto che l’esplosione della disuguaglianza frena la lotta alla povertà in un mondo dove oltre un miliardo di persone vive con meno di 1,25 dollari al giorno, e 1 su 9 non ha nemmeno abbastanza da mangiare. Winnie Byanyima, direttrice esecutiva di Oxfam International, userà quest’anno tutta l’influenza che deriva dal suo ruolo di co-chair al Forum per chiedere un’azione urgente volta ad arginare la marea crescente della disuguaglianza, partendo da una proposta di contrasto reale all’elusione fiscale delle multinazionali e da una spinta verso l’adozione di un trattato globale di lotta ai cambiamenti climatici.
Grandi disuguaglianze crescono è il documento di analisi pubblicato oggi da Oxfam, da cui emerge che l’1% della popolazione ha visto la propria quota di ricchezza mondiale crescere dal 44% del 2009 al 48% del 2014 e che a questo ritmo si supererà il 50% nel 2016. Gli esponenti di questa elite avevano una media di 2,7 milioni di dollari pro capite nel 2014. Del rimanente 52% della ricchezza globale, quasi tutto era posseduto da un altro quinto della popolazione mondiale più agiata, mentre il residuale 5,5% rimaneva disponibile per l’80% del resto del mondo: vale a dire 3,851 dollari a testa, 700 volte meno della media detenuta dal ricchissimo 1%.
Vogliamo davvero vivere in un mondo dove l’1% possiede più di tutti noi messi insieme? – ha detto Winnie Byanyima – La portata della disuguaglianza è semplicemente sconcertante e nonostante le molte questioni che affollano l’agenda globale, il divario tra i ricchissimi e il resto della popolazione mondiale rimane un totem, con ritmi di crescita preoccupanti.”
Negli ultimi 12 mesi, i leader mondiali – dal Presidente Obama a Christine Lagarde – hanno più volte ribadito quanto necessario e importante sia affrontare il tema della grande disuguaglianza. Ma ancora poco è stato fatto in termini concreti ed è arrivato il momento per i nostri leader di prendersi carico degli interessi della stragrande maggioranza per intraprendere un cammino verso un mondo più giusto per tutti.”
Se il quadro rimane quello attuale anche le elite ne pagheranno le conseguenze – afferma Roberto Barbieri, Direttore Generale di Oxfam Italia – perché non affrontare il problema della disuguaglianza riporterà la lotta alla povertà indietro di decenni. I più poveri sono poi colpiti 2 volte: perché hanno accesso a una fetta più piccola della torta e perché in assoluto ci sarà sempre meno torta da spartirsi, visto che la disuguaglianza estrema impedisce la crescita.”
Lo scorso anno, Oxfam ha dominato la scena a Davos, rivelando che gli 85 paperon de’ paperoni del mondo detenevano la ricchezza del 50% della popolazione più povera (3,5 miliardi di persone). Quest’anno il numero è sceso a 80, una diminuzione impressionante dai 388 del 2010. La ricchezza di questi 80 è raddoppiata in termini di liquidità tra il 2009-2014. Oxfam chiede ai governi di adottare un piano di sette punti per affrontare la disuguaglianza:
1. contrasto all’elusione fiscale di multinazionali e individui miliardari;
2. investimento in servizi pubblici gratuiti, come salute e istruzione;
3. distribuzione equa del peso fiscale, spostando la tassazione da lavoro e consumi verso capitali e ricchezza;
4. introduzione di salari minimi e graduale adozione di salari dignitosi per tutti i lavoratori;
5. introduzione di una legislazione ispirata alla parità di retribuzione, e politiche economiche che prevedano una giusta quota per le donne;
6. reti di protezione sociale per i più poveri, incluso un reddito minimo garantito;
7. un obiettivo globale di lotta alla disuguaglianza.
Il documento di analisi di oggi, che arriva dopo il rapporto di ottobre Partire a pari merito: eliminare la disuguaglianza estrema per eliminare la povertà estrema, fa luce sul fatto che le grandi ricchezze siano passate alle generazioni successive e che le elite mobilitino ingenti risorse per piegare regole e leggi a loro favore. Più di un terzo dei 1.645 miliardari della classifica Forbes ha ereditato parte o tutta la ricchezza che detiene. Il 20% dei miliardari ha interessi nei settori finanziario e assicurativo, un gruppo che ha visto la propria liquidità crescere dell’11% nei 12 mesi precedenti a marzo 2014. Questi settori hanno speso 550 milioni di dollari per fare lobby sui decisori politici a Washington e Bruxelles nel 2013. Nel 2012 negli Stati Uniti solo durante il ciclo elettorale, il settore finanziario ha speso 571 milioni di dollari in contributi per le campagne.
I miliardari che hanno interessi nei settori farmaceutico e sanitario hanno visto il loro patrimonio netto collettivo crescere del 47% in un solo anno. Questi settori, durante il 2013, hanno speso oltre 500 milioni di dollari in lobby a Washington e Bruxelles.
La preoccupazione di Oxfam è che il potere di lobby di questi settori possa essere un ostacolo alla riforma del sistema fiscale globale e all’adozione di regole sulla proprietà intellettuale che non precludano l’accesso dei più poveri a medicine salva-vita. Come più volte ribadito da più parti, Fondo Monetario Internazionale in primis, la disuguaglianza estrema non è soltanto una pessima notizia per gli ultimi del mondo ma anche un danno enorme per la crescita economica.”
Per chi desidera un approfondimento maggiore:
Paper-Davos-2015_finale

Gemme n° 24

In una delle mie classi (una quinta) non ero ancora riuscito a spiegare questa nuova iniziativa delle gemme. L’ho fatto stamattina: finisco la descrizione, mostro un esempio e A. mi chiede “Prof! E se io avessi la gemma già qui?”. Eccola:

Ho visto questo video pochi giorni fa e mi ha profondamente colpito ed emozionato. Ho voluto condividerlo con la classe perché penso sia importante poter permettere a una persona di potersene andare con dignità” ha concluso A. Ne abbiamo parlato molto brevemente in aula, lo commento qui con poche parole: pietà, pietà per la persona, per se stessi, per la condizione umana, profondamente umana.

Etica, scienze, scienze sociali

chicciolina

Con questo post inauguro una nuova categoria (la prossima settimana ce ne sarà un’altra…). Ho infatti deciso di inaugurare una sezione in cui poter “sparare un po’ più alto”: si tratta di una raccolta di articoli che richiedono un po’ più di attenzione del solito, un po’ più di concentrazione. La nuova categoria si chiama “Pensatoio” e la inauguro con un articolo di Piero Dominici apparso ieri sulla rubrica de IlSole24ore “Fuori dal prisma”, spazio che ho scoperto da poco e che frequenterò e “saccheggerò” spesso e volentieri…
Al di là delle questioni riguardanti, da una parte, la politica, la società civile e la sfera pubblica (corruzione, legalità, familismo amorale, cultura della furbizia, irresponsabilità, trasparenza, etica pubblica etc.) e, dall’altra, le importanti scoperte scientifiche tradotte in innovazione tecnologica, la riflessione sull’etica – molto “parlata”, promossa e discussa, non solo a livello mediatico, poco praticata (coerenza dei comportamenti e questione culturale) – sembra essere tornata di attualità ed essersi riproposta, oltre che come una delle questioni sociali e politiche centrali (per non dire, forse, quella più importante per le ricadute e le implicazioni), anche come “oggetto di studio” (e si spera anche di ricerca) non soltanto per le diverse discipline umanistiche, ma anche – ed è questa forse la novità, soprattutto per come ciò è avvenuto – di quelle scientifiche. Una ritrovata centralità che affonda senza dubbio le sue radici nell’avvento della Modernità[1] – e del progetto illuminista che ne ha costituito il sostrato etico e culturale – una fase storica di mutamento globale dei sistemi e dei processi culturali e produttivi che, pur nella sua complessità e ambivalenza, presenta a mio avviso già i “germi” di quella che, successivamente, sarà chiamata società della conoscenza (2003). Un’epoca caratterizzata dalla crisi delle ideologie, dal crollo di tutte le utopie che si erano poste come obiettivi fondamentali la creazione di un’umanità nuova, di un individuo “perfetto”, autonomo e consapevole fino in fondo, ma anche di una società ideale fondata su scienza e tecnica, e sui valori di ragione e progresso; ma, soprattutto, un’epoca segnata dalla decostruzione, dalla critica radicale (operata da tutto il pensiero di fine Ottocento – inizio Novecento) e dalla confutazione di tutti i dogmi, compresi quelli della scienza, fino ad allora accettati tout court e (quasi) mai messi in discussione.
Il pensiero moderno e contemporaneo sembra affondare le sue radici proprio nella presa di coscienza della debolezza dei tradizionali sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo; nella consapevolezza che non esistono più conoscenze indiscutibilmente esatte, culture egemoni e/o predominanti, valori assoluti, verità incontrovertibili bensì, conoscenze probabilisticamente e statisticamente attendibili (valide), valori relativi, spiegazioni ed analisi della complessità molteplici. Peraltro, tali dinamiche vengono accelerate proprio grazie al contributo determinante delle cd. scienze esatte che forniscono linfa vitale a tutti i saperi nel loro percorso di autocritica e ridefinizione dei confini disciplinari e del metodo empirico. Si tratta fondamentalmente di una crisi della razionalità occidentale e dei modelli di società da essa prodotti. D’altra parte, la scienza servendosi della tecnica, suo “braccio armato”, ha spalancato di fronte all’umanità orizzonti impensabili e inimmaginabili nella prassi dell’agire individuale e collettivo. Da tale divaricazione sono sorte nuove istanze etiche e morali, nuove problematiche che mettono in grave difficoltà la decisione individuale e/o politica: di fronte a tale (iper)complessità, come e dove si collocano le scienze sociali? Come si devono porre nei confronti dei problemi etici e/o morali, della questione cruciale dei “valori” che orientano il comportamento individuale (e collettivo) e che, inevitabilmente, hanno ripercussioni sociali difficilmente quantificabili o valutabili empiricamente (si pensi alla tema dell’etica pubblica…post in preparazione)? Anche perché, l’etica e le scienze sociali un tempo si frequentavano (basti pensare ai grandi classici di area sociologica, politologica ed economica), poi l’obiettivo cruciale di presentarsi/accreditarsi – e, soprattutto, essere percepite e riconosciute – come scienze ha creato una distanza che tuttora fatica ad assottigliarsi; e questo, anche paradossalmente, dal momento che, da tempo, proprio le scienze “esatte” stanno sempre più progressivamente prendendo coscienza del sostrato etico su cui si fondano. A tal proposito, ribadiamo l’assoluta urgenza di superare distinzioni come questa, che hanno soltanto prodotto danni e rallentato il cammino, anche sociale, di produzione e distribuzione della conoscenza (inclusione sociale). In altre parole, occorre riprendere un dialogo complesso ma possibile, anzi, auspicabile soprattutto se si considera la rilevanza delle dimensioni del rischio/incertezza e della vulnerabilità all’interno dei sistemi e delle organizzazioni. Max Weber, consapevole dell’impossibilità di una conoscenza realmente avalutativa, ha evidenziato come proprio il mutamento etico, più che quello tecnologico, determini/inneschi quello sociale (come sottolineato più volte, le cause dei fenomeni sono sempre molteplici e occorre evitare spiegazioni riduzionistiche e deterministiche); lo stesso Émile Durkheim ha evidenziato magistralmente come sia sempre una base di tipo morale a rendere possibili l’integrazione e la coesione di un sistema sociale, anche il più complesso. D’altronde, seppur con prospettive differenti, gran parte della letteratura scientifica non soltanto sociologica – nell’analisi dell’individuo e nello studio delle motivazioni più profonde che lo spingono all’azione – converge inequivocabilmente sulla questione cruciale dell’etica e dei valori condivisi.
I principi etici (e/o morali), i valori, all’interno delle società umane (ma il discorso vale anche per le organizzazioni, che lavorano tanto sulla definizione di una cultura organizzativa proprio per questi stessi motivi), svolgono in primo luogo la fondamentale funzione di garantire il consenso (che si traduce spesso in conformismo), assicurando la prevedibilità dei comportamenti, oltre che la formazione, il rafforzamento e la condivisione di una visione del mondo comune e condivisa. Tuttavia, la cultura (e i modelli culturali), pur svolgendo la funzione essenziale di attribuire senso e significato alla realtà, rendendola – come detto – interpretabile e apparentemente prevedibile, talvolta perfino rassicurante, conserva al suo interno anche gli elementi della sua contraddizione (qualcuno avrebbe parlato di “germi”), che consentono agli attori sociali di metterla in discussione, fino a negarla e a negarne forme e oggettivazioni. E, quindi, questi stessi valori/principi, non appartengono ad una sfera che potremmo definire metafisica ma anzi, al contrario, sono strettamente connessi ad un complesso processo di acquisizione intersoggettiva legato, a sua volta, all’esistenza concreta e pratica degli individui (storicamente determinata), al gruppo di riferimento e alla loro comunità di appartenenza, nei confronti della quale dovrebbero essere responsabili, cioè rispondere delle proprie azioni. Dunque, è possibile studiare l’etica partendo dai presupposti propri delle scienze sociali? Noi siamo evidentemente convinti di sì, proprio per il legame indissolubile esistente tra quegli stessi principi etici (e morali) e i contesti storico-sociali nei quali nascono, vengono elaborati e si diffondono, fino a cristallizzarsi nelle norme giuridiche; che, ricordiamolo,rappresentano anch’esse una risposta di tipo culturale a istanze e problematiche socioculturali da cui scaturiscono le forme di conflittualità, proprie della società ipercomplessa (2003-5). La ricerca sull’etica e i valori sociali e, su un altro piano, la ricerca di un’etica condivisa rappresentano forse le risposte più significative alla nuova complessità sociale, sempre più sfuggente e ambigua.
[1] Nella sterminata letteratura sulla modernità, e sulle molteplici dimensioni che la costituiscono, mi limito a segnalare: J.Habermas (1985), Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, trad.it. Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1987; M.Berman (1982), All that is Solid Melts into Air. The Experience of Modernity, Simon and Schuster, New York, trad.it. L’esperienza della modernità, Il Mulino, Bologna 1985; Z.Bauman (2000), Liquid Modernity, Polity Press Blackwell Publishers Ltd., Oxford, trad.it. Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002.”

Tra cultura, istruzione e scuola

ritorno-a-scuola

Questo post è rivolto non tanto agli studenti quanto a colleghi e a chiunque si occupi di istruzione e cultura. Durante una piccola discussione su twitter, il professor Piero Dominici, che gestisce la rubrica “Fuori dal prisma” su Il Sole24ore, mi ha segnalato questo suo bellissimo articolo, molto interessante (i grassetti sono miei). Penso che non sarebbe male se, almeno ogni tanto, i Collegi Docenti si confrontassero su questi argomenti. Sì, mi piace sognare…

Ripartiamo, e articoliamo, una nostra riflessione sviluppata a partire da un post di Luca De Biase (che ringrazio ancora per lo spunto) su questioni che ritengo, a dir poco, cruciali e strategiche per il tentativo di rilanciare questo Paese; questioni a “parole” considerate importanti ma, nel momento dei “fatti” e delle scelte politiche, (spesso) non riconosciute, fino in fondo, come tali. Tanto da far pensare “altro che società della conoscenza…” (si veda p.e. l’ultimo Rapporto OCSE sull’istruzione). E allora, abbiamo provato a ragionare, in quel caso, e Fuori dal Prisma intende riproporre quella riflessione (aggiornata), sulla ben nota “questione culturale” – spesso evocata ma non argomentata – e sulle relative implicazioni. A cosa intendiamo riferirci quando affermiamo che “la questione è culturale”? Proveremo a riflettere e ad evidenziare come, non solo tale questione riguardi da vicino l’ipercomplessità sociale, ma costituisca di fatto un indicatore da non sottovalutare nell’analisi dei sistemi sociali e della loro resilienza al mutamento. Una complessità sociale che sfugge ai tradizionali dispositivi di controllo e sorveglianza e che richiederebbe, come in passato ho avuto modo di argomentare più volte, una riformulazione del pensiero ed una ridefinizione dei saperi che dovrebbero contribuire proprio a ridurre tale complessità, definendo, quanto meno, condizioni di prevedibilità dei comportamenti all’interno ed all’esterno delle organizzazioni e dei sistemi: in tal senso, Edgar Morin parla di “riforma del pensiero”: «La riforma del pensiero esigerebbe una riforma dell’insegnamento (primario, secondario, universitario), che a sua volta richiederebbe la riforma di pensiero. Beninteso, la democratizzazione del diritto a pensare esigerebbe una rivoluzione paradigmatica che permettesse a un pensiero complesso di riorganizzare il sapere e collegare le conoscenze oggi confinate nelle discipline. […] La riforma del pensiero è un problema antropologico e storico chiave. Ciò implica una rivoluzione mentale ancora piú importante della rivoluzione copernicana. Mai nella storia dell’umanità le responsabilità del pensiero sono state così enormi. Il cuore della tragedia è anche nel pensiero». Perché scuola e istruzione non di qualità (concetto che andrebbe sciolto) creano le condizioni strutturali per una società diseguale, non in grado di garantire neanche le condizioni di eguaglianza delle opportunità di partenza. L’argomento è estremamente delicato e difficile da sciogliere per le tante implicazioni. Certamente possiamo partire da un assunto: esiste una stretta correlazione tra scuola/istruzione e una cittadinanza realmente attiva e partecipata (ne abbiamo parlato anche in un altro post), a maggior ragione in sistemi sociali, come il nostro, caratterizzati da scarsa (per non dire inesistente) mobilità sociale verticale e da un familismo (im)morale diffuso che rendono ancora questa società fortemente corporativa e resiliente al (vero e profondo) cambiamento e all’innovazione sociale. Nelle società avanzate (non solo), scuole, istruzione e formazione rappresentano da sempre le uniche possibilità di riscatto sociale e di miglioramento della propria condizione sociale di partenza; ancora di più lo potrebbero/dovrebbero essere in una società rigidamente strutturata…insomma gli unici “ascensori sociali”, ormai (purtroppo) quasi del tutto bloccati da tempo: la crisi dei sistemi di welfare completa un quadro estremamente problematico che, nel rendere la precarietà condizione esistenziale, ha determinato un indebolimento dei meccanismi di solidarietà, mettendo in discussione anche il diritto alla conoscenza delle persone (cittadini). «C’è un’inadeguatezza sempre più ampia, profonda e grave tra i nostri saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una parte, e realtà o problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari dall’altra. In questa situazione, diventano invisibili: gli insiemi complessi; le interazioni e le retroazioni fra le parti e il tutto; le entità multidimensionali; i problemi essenziali» (Edgar Morin).
Sinteticamente, propongo alcune considerazioni per sottolineare l’assoluta rilevanza delle questioni, scusandomi in anticipo, per la semplificazione di alcune di queste che meriterebbero ben altro approfondimento…Procedo per punti.

1) Il nostro è un Paese dal quadro normativo e legislativo complesso e articolato: esistono molte leggi (forse, troppe), codici professionali, carte deontologiche, linee guida, sistemi di regole formali, sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo. Eppure questi “strumenti” si sono rivelati condizione necessaria ma non sufficiente, perché esiste una dimensione, cruciale e fondante allo stesso tempo, che è quella della responsabilità; una dimensione che sfugge a qualsiasi tipo di “gabbia” e/o sistema di controllo, perché attiene proprio alla libertà delle persone (altro discorso da approfondire, legato al tema dell’emancipazione nella modernità: interessante il concetto di “libertà generativa”). E da questo punto di vista, come non essere d’accordo con chi afferma che viviamo in una “società degli individui”, che sentono di non dover rispondere a nessuno dei loro atti, tanto meno ad una “comunità” i cui legami si sono fortemente indeboliti (e c’è chi parla di fine del legame sociale). Qualche anno fa, intitolai un mio libro “La società dell’irresponsabilità” proprio per connotare questa condizione critica, ricollegabile solo in parte alla crisi economica (o ad indicatori di tipo economico): la “questione culturale” mette in luce, ancora una volta, non solo la crisi delle istituzioni formative, ma anche la debolezza dei vecchi apparati e delle vecchie logiche di controllo e repressione che non risolvono mai i problemi alla base; che sono sempre strategie di “breve periodo” (cultura dell’emergenza vs. cultura della prevenzione, a tutti i livelli e in tutti i settori della prassi). Dobbiamo confrontarci con una “natura” intrinsecamente problematica e complessa dei sistemi sociali, non più riconducibile alle sole categorie (significative) di rischio, incertezza, vulnerabilità, liquidità etc. A ciò si aggiunga che, quasi paradossalmente, mai come in questi anni si è discusso (e si discute) di etica e di responsabilità in tutti i campi dell’azione sociale (dalla politica alla cultura, dall’informazione all’innovazione scientifica e tecnologica etc.).Si potrebbe semplificare tale paradosso con la “formula”: trionfo dell’etichetta sull’etica. Paese di paradossi e contraddizioni (non soltanto sul piano culturale): da una parte, per ogni “nuovo” problema si invocano subito nuove leggi, nuovi codici deontologici, nuove prescrizioni, nuovi divieti; dall’altra, culturalmente, consideriamo quelle stesse leggi, norme,“regole” come un ostacolo alla nostra autoaffermazione ed al nostro successo/prestigio sociale. D’altra parte, ciò che spesso sembra venire a mancare è proprio la coerenza dei comportamenti che, comunicativamente parlando, risulterebbe (è!) molto più efficace delle parole e dei principi spiegati attraverso un linguaggio, più o meno, politicamente corretto. Da questo punto di vista, come peraltro sottolineato da più parti, siamo di fronte ad una vera e propria “emergenza educativa” legata ad una molteplicità di fattori e variabili, che hanno determinato una trasformazione profonda dei processi di socializzazione ed una crisi delle tradizionali agenzie/istituzioni deputate all’interiorizzazione dei valori ed alla formazione delle personalità/identità (riconoscimento-rispetto-altruismo-senso civico-cittadinanza vissuta e non subita). Mi riferisco, in tal senso, al concetto di “policentrismo formativo” e richiamo Luca quando sottolinea l’urgenza di “disegnare percorsi di apprendimento pensati per queste materie per ricucire un’evoluzione culturale che per alcuni aspetti si è interrotta con l’interruzione di alcune relazioni tradizionali…”. Questo Paese non ripartirà senza affrontare seriamente tali problematiche: credo di non dover neanche argomentare la correlazione strettissima esistente tra istruzione (accesso,condivisione) e cittadinanza. In questa sede, si discute dei “cittadini di domani” che corrono seriamente il rischio di crescere e socializzarsi ad una cultura della furbizia, dell’illegalità e/o del familismo amorale (apparentemente?) dominante.

2) La “questione culturale”, qui più volte richiamata, è legata come detto anche, e soprattutto, ad un problema di interruzione/crisi della comunicazione tra le generazioni (concetto che andrebbe sciolto e sviluppato). Tuttavia, in questa prospettiva di analisi, non possiamo non registrare come i media (vecchi e nuovi, per non parlare dei social networks) – con il famoso “gruppo dei pari” – si siano letteralmente divorati lo spazio comunicativo e del sapere (?) gestito, in passato, della tradizionali istituzioni e agenzie educative e formative.

3) Sugli attori sociali e sulle professionalità protagoniste del processo educativo e formativo sono forse radicale, ma preferisco sempre dire apertamente ciò che penso (va precisato che, in questi ultimi decenni, scuola e università sono state pesantemente penalizzate da tagli e controriforme). Ci sono lavori/professioni che andrebbero fatti/scelti anche, e soprattutto, perché si avverte una “vocazione” e non soltanto per una forma di prestigio sociale e/o perché permettono magari di esercitare forme di micropotere sugli altri. ”Prendersi cura” di una persona (concetto complesso), insegnare, formare, condividere ed elaborare non significa soltanto trasmettere e/o impartire nozioni: i figli, gli studenti e, più in generale, i giovani – come dire – ti aspettano al varco, osservano “come ti comporti”. Insomma, contano i “fatti”, non le “parole”. La “tua” (nostra) credibilità e autorevolezza si fonda sui comportamenti e sulla loro coerenza rispetto a quanto affermiamo (problema che riguarda anche la politica). Se chiedi correttezza, devi darla per primo, se pretendi rispetto e senso di responsabilità, devi prima di tutto essere rispettoso dell’Altro e responsabile etc., anche se la relazione è asimmetrica a causa del ruolo e della gerarchia. E non puoi fingere, non nel lungo periodo. Ecco perché certi “ruoli” e certe “attività” richiedono, a mio avviso, consapevolezza, partecipazione, passione, perfino empatia (oltre alla preparazione!). E’ necessario “mettersi in gioco” puntando sull’inclusione dell’ALTRO. Fondamentale, quindi, ripartire da educazione e istruzione, basandole però su una ridefinizione della “qualità” della relazione tra gli attori dell’ecosistema formativo e comunicativo – nel rispetto dei reciproci ruoli (genitore, insegnante, docente etc.) – oltre che, evidentemente, sulla preparazione e sulle competenze. 
E, nel lungo periodo, per far questo abbiamo bisogno di “teste ben fatte”(Montaigne), e non di “teste ben piene”, che sappiano organizzare le conoscenze all’interno del nuovo ecosistema cognitivo (2005), altrimenti anche le opportunità della tecnologia saranno per pochi. E, come scrissi qualche anno fa, sarà la “società dell’ignoranza” e dell’incompetenza (non solo digitale…)->POTERE=CONOSCENZA”

Aspirando alla felicità

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Questo brano di Seneca penso possa essere utile a molte e a molti. Premetto anche che non lo intendo come riferimento alle recenti elezioni o alla politica; in questo momento do al brano un significato esclusivamente esistenziale in riferimento alle scelte di vita e adesso è tutto per E.

“Tutti aspiriamo alla felicità, ma, quanto a conoscerne la via, brancoliamo nel buio. E’ infatti così difficile raggiungerla che più ci affanniamo a cercarla, più ce ne allontaniamo, se prendiamo una strada sbagliata e se questa, poi, conduce addirittura in una direzione contraria (…)
(…) Perciò dobbiamo avere innanzitutto ben chiaro ciò che vogliamo, dopodiché cercheremo la via per arrivarci, e lungo il viaggio stesso, se sarà quello giusto, dovremo misurare giorno per giorno la strada che ci lasciamo indietro e quanto si fa più vicino quel traguardo a cui il nostro impulso naturale ci porta. (…) Non c’è nulla di peggio che seguire, come fanno le pecore, il gregge di coloro che ci precedono, perché essi ci portano non dove dobbiamo arrivare, ma dove vanno tutti. Questa è la prima cosa da evitare. Niente c’invischia di più in mali peggiori che l’adeguarci al costume del volgo, ritenendo ottimo ciò che approva la maggioranza, e il copiare l’esempio dei molti, vivendo non secondo ragione ma secondo la corrente. (…) Sforziamoci dunque di vedere e di seguire non i comportamenti più comuni ma cosa sia meglio fare, non ciò che è approvato dal volgo, pessimo interprete della verità, ma ciò che possa condurci alla conquista e al possesso di una durevole felicità.” (Dal “De vita beata”, Lucio Anneo Seneca)

Sui beni

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Su IlSole24ore di domenica 18 maggio, è apparso questo articolo di Remo Bodei. Forse quest’anno è tardi per una lettura in classe, lo terrò buono per il prossimo… Grazie alla collega Carla che me l’ha inviato.
In che misura è realisticamente possibile condividere dei beni che – da un punto di vista etico – dovrebbero appartenere a tutti? Di fatto una sorta di lotteria naturale ha distribuito i doni della terra (fertilità, acqua potabile, ricchezze minerarie) in maniera casuale rispetto agli abitanti di determinate zone. Ci sono quelli più fortunati che li posseggono e se ne sono appropriati e quelli meno fortunati che ne sono provvisti in scarsa misura o ne sono addirittura privi: gli abitanti di zone inospitali o desertiche, coloro che non hanno risorse nel loro sottosuolo o ne sono stati espropriati. Popoli e individui hanno da sempre combattuto per la loro sopravvivenza e per il relativo controllo delle risorse e le frontiere sono state per lo più disegnate dalle guerre.
Anche oggi, in una fase storica in cui il consumo di energia derivante dal petrolio o dall’uranio è enorme, l’economia e la politica sono dominate dal bisogno di assicurarsi, spesso con la forza o con l’astuzia, non solo questi beni, ma anche altri, sempre più indispensabili all’alta tecnologia. Un esempio è il coltan, un minerale metallico termo-resistente, (una combinazione tra colombite e tantalite), che si presenta come una sabbia nera da cui si estrae il tantalio, utilizzato per microconduttori, superleghe, computer o cellulari. Tale elemento radioattivo, l’ottanta per cento del quale si trova in Congo, dove viene raccolto a mani nude da uno stuolo di improvvisati scavatori, ha scatenato sanguinose guerre civili e internazionali, che coinvolgono l’Uganda e, nascostamente, le grandi potenze non africane.
Ponendo la domanda più radicale ma inaggirabile: Con quale diritto un individuo o un popolo abita la terra e sfrutta i suoi doni in maniera esclusiva? L’essere stati più favoriti dalla natura autorizza la disponibilità indiscussa di alcune risorse indispensabili oppure i loro benefici possono anche essere, almeno in parte, pacificamente ridistribuiti? Ma chi decide e in base a quali criteri? Non si tratta di una questione astrusa o ingenua, da spostare in un remoto futuro. Prendiamo il caso dell’acqua: come si risolverà la disputa in atto tra l’Etiopia e l’Egitto? Se gli etiopi finiranno di costruire la loro diga per imbrigliare il corso del Nilo Azzurro (sulla base di un progetto del valore di cinque miliardi di dollari e una energia erogata equivalente a quella di cinque centrali nucleari), la riduzione del limo derivante dalle esondazioni del fiume, in grado da millenni di assicurare all’Egitto una fiorente agricoltura in zone altrimenti desertiche, metterà in pericolo l’esistenza di novanta milioni di Egiziani.
La pace è minacciata proprio dalle prevedibili lotte che si scateneranno e già sono in corso per il controllo di risorse materiali che non possono essere condivise su questa Terra, dove, come dice Dante, «è mestier di consorte divieto» (Purgatorio, XIV, v. 87). Grazie a negoziazioni e ad arbitrati internazionali si potranno trovare , in questo o in altri casi, degli accordi soddisfacenti?
Entro certi limiti – ancora ristretti – si possono già mettere dei confini, giuridici e politici, all’appropriazione privata o nazionale di certi beni condivisibili, quelli il cui consumo da parte di qualcuno non escluda necessariamente gli altri o quelli che dovrebbero essere gratuiti per tutti (come i pesci in acque internazionali). Non di tutto ci si può appropriare in esclusiva, non tutto deve essere sottoposto a pure leggi di mercato. Le Nazioni Unite e alcuni parlamenti nazionali hanno attribuito la qualifica di common goods all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari (risoluzione 64/292 del 28 luglio 2010), al fondo marino e all’Antartide e la stanno estendendo alla Luna e al genoma umano. Per questi l’applicazione concreta di tale qualifica si tratta, per ora, di una prospettiva di lunga durata o di una utopia.
Riprendendo in esame il problema più urgente, quello dell’acqua, è facile profezia ipotizzare che l'”oro azzurro” sarà alla base di grandi contese, non solo a causa del previsto aumento della popolazione mondiale, specie nei paesi più poveri, ma anche per effetto del riscaldamento globale e della conseguente desertificazione di molte aree. Già ora, quasi un miliardo di uomini non dispone a sufficienza di acque potabili per soddisfare la sete, preparare il cibo e allevare il bestiame e neppure di acque non potabili per i servizi igienici (la mancanza d’acqua è, in generale, la seconda causa di morte su scala planetaria).
Anche ciò che appare meno urgente e che resta sullo sfondo del dibattito pubblico non deve però essere perso di vista, come la salvaguardia del genoma, perché essa mira alla tutela non solo della collettività dei viventi, ma dell’insieme della specie umana, presente e futura. Lo stesso vale per la possibile o paventata spartizione tra gli Stati dell’Antartide e della Luna (sebbene in questo caso sembri proprio di parlare di fantascienza), da trasformare in luoghi di sfruttamento esclusivo di determinate risorse – petrolio, minerali, terre rare, prodotti della pesca, compreso il krill (i piccoli crostacei che formano lo zooplancton) – o per conquistare posizioni militarmente strategiche.
L’emergenza è ormai diventata la norma e la percezione dell’insicurezza è giunta a un punto tale che studiosi seri sostengono che, da quando l’umanità è divenuta capace di auto-sopprimersi o con le armi di distruzione di massa o alterando le condizioni necessarie alla sua sopravvivenza – clima, riproducibilità delle risorse, inquinamento dell’aria, delle acque e del suolo – bisogna lucidamente prepararsi ad affrontare i disastri già avvenuti grazie a una teoria definita “catastrofismo illuminato”.

Tra fede e morale

Un interessante articolo di Simone Cosimi su Wired tratta l’argomento del rapporto tra il credere in Dio e la morale. Coloro che credono in Dio sono anche portatori di un alto tasso di moralità? I dati sono molto diversificati a livello mondiale (per fortuna!).
ethics“È necessario credere in Dio per essere persone migliori? A quanto pare un sacco di gente nel mondo la pensa così. Almeno nei quaranta Paesi coinvolti da un’indagine firmata dal celebre istituto statunitense Pew Research Center. Oltre 40mila individui intervistati nel corso degli ultimi due anni per capire il rapporto fra moralità e fede. Incrociandolo con la ricchezza prodotta in quelle aree del pianeta. Il primo risultato di massima è evidente: questa convinzione, e cioè che sia necessario credere in (un) Dio per considerarsi moralmente a posto in quanto legati all’osservanza di valori più giusti, è più diffusa nel Paesi poveri o in via di sviluppo rispetto a quelli sviluppati. Ma non mancano alcune eccezioni né diverse sfumature a livello macroregionale.
In più della metà dei Paesi, 22 su 40, una chiara maggioranza sostiene questo parallelo. Posizione prevalente per esempio in Africa. Si va dal Ghana, dove il 99% è convinto di questo rapporto, al Sudafrica dove pure solo il 21% ritiene che non sia necessario avere un qualche tipo di fede. Stesso tipo di dinamica in Medio Oriente: se gli egiziani (95%) o i giordani (94%) ma anche i palestinesi (85%) credono che questo rapporto sia essenziale l’unica eccezione dell’area è costituita da Israele, dove la percentuale scende al 37%. Sotto il 70% scende solo quel rompicapo di religioni che è il Libano. Significativo anche il dato della Turchia, dove appena il 9% della popolazione non considera la religione una garanzia di buoni valori di vita.
Il quadro si fa un po’ più diversificato in America Latina. Che appare piuttosto spaccata. Se a El Salvador il 93% sostiene l’assioma fede=valori, anche il Brasile non scherza con l’86%. Poco sopra l’80% della Bolivia o del Venezuela. La proporzione comincia a sbilanciarsi in Paesi come il Messico, dove il 40% non crede che sia necessario confidare in Dio per lustrare la propria moralità, mentre Argentina e Cile risultano quasi spaccate a metà. Tuttavia l’escursione più profonda avviene nella macroregione Asia-Pacifico, d’altronde troppo variegata in distanze, popoli e culture anche solo per tracciare una labile linea comune. Se Indonesia, Pakistan, Filippine e Malesia si muovono su percentuali plebiscitarie (rispettivamente 99%, 98%, 83%, 89%) e l’India si attesta su un massiccio 70%, la Corea del Sud si spacca 44%/54% mentre in Giappone e Australia vincono quelli che non ritengono la fede un elemento essenziale della moralità individuale.
E l’Europa? In nessuno dei nove Paesi presi in esame la maggioranza dei cittadini ritiene la fede essenziale per la propria moralità. Tuttavia la Grecia è praticamente divisa a metà e anche in Polonia il 44% è comunque convinto della bontà di questa affermazione. Percentuale che in Russia cala al 38%. Una caduta che continua in Germania (33%), in Italia (il 71% non ritiene che serva credere, il 27 sì, maggioranza fra gli ultracinquantenni), Gran Bretagna (20%), Spagna e Repubblica Ceca (19%) e Francia (15%). Insomma il pianeta è decisamente complicato: non sarà uno scontro di civiltà ma certo un quadro sempre delicato anche in ottica politica.
Unica eccezione alla schiacciante secolarizzazione occidentale è costituita dagli Stati Uniti. D’altronde per chiunque sia appassionato di politica Usa e segua le campagne elettorali non è una sorpresa: per il 53% degli americani (contro il 46) il legame fra fede e valori morali è essenziale. A rompere lo schema Paesi poveri credenti/Paesi ricchi non credenti ci pensa anche la Cina. Che certo è tutt’altro che un Paese in via di sviluppo nel senso tradizionale della formula, ma in cui il Prodotto interno lordo pro capite è comunque un sesto di quello statunitense: il 75% non è convinto che sia necessario credere in Dio per essere un’ottima persona. Ciononostante, qualche anno fa i credenti erano stati stimati in 300 milioni. Situazione singolare e frutto evidente della storia recente di un grande Paese dove il rompicapo delle (tante) religioni presenti è legato a doppio filo alle varie fasi del regime comunista.”

Il meglio, per favore

Io non voglio che un rappresentante politico, un governante, un politico, un dirigente siano persone normali. Voglio che siano persone speciali, che sappiano fare il loro lavoro con una competenza enorme ed eccellente, che mi facciano sentire orgoglioso di far parte di questa nazione o regione o città o gruppo di lavoro o comunità o qualsiasi altra cosa. E desidero che se qualcuno ha bisogno delle mie competenze o capacità pretenda da me altrettanto, ossia il massimo che posso dare nel ruolo che mi compete. Il sedicesimo presidente degli Stati Uniti, Abramo Lincoln, scrisse questa lettera all’insegnante di suo figlio:

lincoln“Il mio figlioletto inizia oggi la scuola: per lui, tutto sarà strano e nuovo per un po’ e desidero che sia trattato con delicatezza. È un’avventura che potrebbe portarlo ad attraversare continenti, un’avventura che, probabilmente, comprenderà guerre, tragedie e dolore. Vivere questa vita richiederà fede, amore e coraggio.
Dovrà imparare, lo so, che non tutti gli uomini sono giusti, che non tutti gli uomini sono sinceri.
Però gli insegni anche che per ogni delinquente, c’è un eroe; che per ogni politico egoista c’è un leader scrupoloso…
Gli insegni che per ogni nemico c’è un amico, cerchi di tenerlo lontano dall’invidia, se ci riesce, e gli insegni il segreto di una risata discreta.
Gli faccia imparare subito che i bulli sono i primi ad essere sconfitti… Se può, gli trasmetta la meraviglia dei libri… Ma gli lasci anche il tempo tranquillo per ponderare l’eterno mistero degli uccelli nel cielo, delle api nel sole e dei fiori su una verde collina.
Gli insegni che a scuola è molto più onorevole sbagliare piuttosto che imbrogliare…
Gli insegni ad avere fiducia nelle proprie idee, anche se tutti gli dicono che sta sbagliando…
Gli insegni ad essere gentile con le persone gentili e rude con i rudi.
Cerchi di dare a mio figlio la forza per non seguire la massa, anche se tutti saltano sul carro del vincitore…
Gli insegni a dare ascolto a tutti gli uomini, ma gli insegni anche a filtrare ciò che ascolta col setaccio della verità, trattenendo solo il buono che vi passa attraverso.
Gli insegni, se può, come ridere quando è triste. Gli insegni che non c’è vergogna nelle lacrime.
Gli insegni a schernire i cinici ed a guardarsi dall’eccessiva dolcezza.
Gli insegni a vendere la sua merce al miglior offerente, ma a non dare mai un prezzo al proprio cuore e alla propria anima.
Gli insegni a non dare ascolto alla gentaglia urlante e ad alzarsi e combattere, se è nel giusto.
Lo tratti con gentilezza, ma non lo coccoli, perché solo attraverso la prova del fuoco si fa un buon acciaio.
Lasci che abbia il coraggio di essere impaziente. Lasci che abbia la pazienza per essere coraggioso.
Gli insegni sempre ad avere una sublime fiducia in sé stesso, perché solo allora avrà una sublime fiducia nel genere umano.
So che la richiesta è grande, ma veda cosa può fare… E’ un così caro ragazzo mio figlio”.

La ricerca di un bandolo

E’ la notte tra il 24 e il 25 dicembre 1978. C’è un uomo, un giornalista, che non dorme. Non lo sa che quello sarà il suo penultimo Natale perché il 28 maggio 1980 sarà ucciso dal gruppo terroristico XVIII marzo. Si chiama Walter Tobagi, ha 31 anni e due figli (i “michelangiolini” del testo sotto). Nell’ultimo periodo ha dedicato molto tempo alla sua professione sacrificando la famiglia. Quella notte scrive, pertanto, una lettera alla moglie. Ne riporto una piccola parte da cui emerge l’attaccamento degli affetti, la passione per il lavoro e per la vita, il senso etico, la responsabilità in uno dei periodi più tribolati della storia italiana.
Walter-Tobagi“… al lavoro affannoso di questi mesi va data una ragione, che io sento molto forte: la ragione di una persona che si sente intellettualmente onesta, libera ed indipendente, e cerca di capire perché si è arrivati a questo punto di lacerazione sociale, di disprezzo dei valori umani.
Mi sento molto eclettico ideologicamente; ma sento anche che questo eclettismo non è un male, è una ricerca: è la ricerca di un bandolo fra tanti verità parziali che esistono, e non si possono né accettare né respingere in blocco…
Penso all’attaccamento di Luca, alle tenerezze della Babi. E mi sembra di non fare tutto quello che dovrei (e forse potrei) per loro: se un giorno non dovessi più esserci, ti prego di spiegargli, di ricordargli il motivo di tante assenze che oggi li fanno soffrire. Mi sentirei ancora più in colpa se non spendessi quei talenti che, bene o male, mi sono stati affidati… con la speranza che possa essere meno assurda la società in cui, fra un decennio, i nostri michelangiolini si trovassero a vivere la loro adolescenza…
In questa alba del Natale 1978, voglio ripetertelo con le parole più semplici: ti voglio bene, tanto bene.
E non riuscirei a fare nulla di quello che faccio se non ti sapessi così vicina a me in ogni momento.”

Qualche pensiero di Grün

Un po’ in seconda, un po’ in terza, un po’ in quinta, sono argomenti che stiamo trattando: valori, etica, crescita, fede, preghiera, religione. L’articolo è di Claudio Gallo ed è preso da La Stampa di venerdì 14 febbraio: ne pubblico solo alcune parti, sufficienti a offrire notevoli spunti di discussione.
“Si è appena conclusa la preghiera di mezzogiorno all’abbazia benedettina di Münsterschwarzach, ventidue chilometri da Würzburg, Baviera settentrionale, Franconia per la gente del posto. Capelli fluenti ormai scappati dalla fronte, la lunga barba incanutita, Anselm Grün, 69 anni, ha scritto trecento libri sulla psiche e sullo spirito, vendendo in tutto il mondo 20 milioni di copie.

Perché dovrei avere dei valori morali quando l’obiettivo supremo della nostra società, lagrun ricchezza, si raggiunge più facilmente senza?
«Al monastero mi capita spesso di fare conferenze a manager e banchieri. Ci sono due atteggiamenti: uno che non rispetta e non crede ai valori, l’altro che invece ha capito come sia importante salvaguardarli, perché alla fine un mondo senza valori danneggia anche l’economia».
L’economia rincorre la crescita illimitata, la morale del mercato è il desiderio infinito. Lei invece parla di senso del limite, perché?
«Come dice il Papa, il capitalismo puro diventa disumano. Per fortuna in Germania abbiamo l’economia di mercato sociale dove il capitalismo è sottoposto a una critica, a certe limitazioni. Limite ha due significati diversi: il primo è il limite personale, i miei limiti umani. Il secondo è la finitezza della natura, per cui ogni crescita è limitata e destinata a finire, a morire. Questo tipo di crescita naturale dovrebbe essere il modello dell’economia. La concezione di una crescita senza limiti è una idea malata».

Che cos’è la fede?
«La fede è un’esperienza. Quando un non-credente mi dice: io non posso credere, gli dico: non devi credere, prova! Gesù dice: Dio è il pastore, non manco di nulla. Non bisogna credere ma provare se questa parola è vera. Poi c’è un altro aspetto: che cosa vedo quando vedo la bellezza della natura, che cosa ascolto quando ascolto Mozart. Non è solo chimica. Nella bellezza della natura e nella bellezza della cultura riluce la bellezza assoluta. Questo è Dio. Quando uno dice non credo a Dio, in genere si riferisce a un’immagine particolare di Dio. Ma Dio è totalmente altro, mistero, come dice il teologo Karl Rahner. Quando uno ha il senso del mistero ha anche il senso di Dio».

Che cos’è la preghiera?
«La preghiera è un incontro con Dio. Mostro la mia verità a Dio. Alcuni credono che la preghiera serva a chiedere qualcosa, ma ciò che conta è l’incontro: offro la mia verità e le mie ombre a Dio perché lui le accetti».
Che cos’è la meditazione?
«La meditazione è un metodo. Una cinquantina di anni fa abbiamo riscoperto la meditazione dall’Oriente, grazie al buddhismo, ma la tecnica esisteva già nella nostra tradizione, nei padri del deserto o nell’esicasmo degli ortodossi. A volte bisogna andare lontano per trovare le cose vicine».”

Tra fede, finanza e moschee

moscheaDal sito di Nigrizia prendo questo forte e discusso articolo di Mostafa El Ayoubi pubblicato sul numero di gennaio.
“Finanza e fede. È il binomio sul quale si basa gran parte della politica estera del Qatar, specie quella che riguarda l’Europa. Sul versante finanziario dispone di ingenti investimenti in diversi settori: bancario, immobiliare, del calcio ecc. In Europa il mondo politico e quello economico-finanziario lo considerano un grande partner da corteggiare. Quanto alla variabile fede, il Qatar ha un’alleanza strutturale con i Fratelli musulmani (Fm) molto ramificati in Europa. Il piccolo emirato, che sogna un pan-islamismo sotto il suo controllo, considera i Fm uno strumento per estendere il suo potere sulla sfera religiosa. Persa di recente la sua influenza sul mondo arabo a favore del gigante saudita, il Qatar sta concentrando la sua crociata finanziaria e religiosa altrove. In Africa i “missionari” del Qatar sono al lavoro: dal Niger al Senegal, attraverso la rete di moschee, sono in sensibile espansione attraverso ingenti “donazioni” che fanno gola ad organizzazioni islamiche e governanti locali. Ma è verso il vecchio continente che la strategia espansionistica del Qatar sembra più orientata. Lo scopo è di estendere la sua egemonia sull’islam in Europa. Attraverso il finanziamento per la costruzione delle moschee, il Qatar sta spiazzando i tradizionali paesi dai quali proviene l’immigrazione islamica in Europa: Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Pakistan, Turchia ecc. E investe logicamente nei luoghi di culto sotto controllo dei Fm. In Francia svariati milioni di euro sono stati investiti nella realizzazione di nuove moschee, attraverso la Qatar Charity. Questa ong “caritativa” ha contribuito economicamente alla costruzione di diverse moschee: quelle di Nantes e Mulhouse, e quella di Marsiglia (ancora da realizzare). In Irlanda, il Consiglio municipale ha autorizzato la costruzione di una moschea – finanziata in parte dal Qatar – nella periferia di Dublino, città dove risiede l’European Council for fatwa and Research di cui al-Qaradawi (ideologo dei Fm) è il massimo esponente. Gli sceicchi del Qatar corteggiano i musulmani anche in Germania: a Monaco è prevista, con il loro contributo, la realizzazione di una moschea su 6000 mq con tanto di minareto, biblioteca, palestra, ristoranti, sala congressi e altro. In Italia, dal dicembre 2012 all’ottobre 2013, sono state inaugurate tre grandi moschee con ingenti contributi della Qatar Charity: la prima a Catania, la seconda a Ravenna e l’ultima a Colle di Val d’Elsa (Siena).
In passato non sono mancate aspre polemiche sulle moschee in Europa, sul ruolo dei finanziamenti stranieri e sul controllo finanziario e ideologico che i donatori esercitano sui musulmani. Oggi invece su questi finanziamenti si mantiene un profilo basso: i politici non ne fanno più un oggetto di propaganda e i media ne parlano poco, perché il Qatar è un paese amico con il quale si fanno molti affari. Il problema però è che l’ingerenza del Qatar (e altre petro-monarchie) negli affari della “diaspora” islamica in Europa nuoce alla sua integrazione e all’evoluzione di un islam europeo. Con il suo denaro il Qatar, oltre a comprare la coscienza di tanti musulmani in Europa, dispone anche del consenso di realtà politiche e culturali che si considerano attente alle questioni della libertà religiosa e dei diritti umani. Eppure si sa bene che attraverso le sue “donazioni” il Qatar – con l’ausilio dei Fm – diffonde la sua visione arcaica e approssimativa della religione islamica, che considera il dialogo interreligioso come uno strumento di proselitismo e di conversione. Nel “filantropo” Qatar, milioni di immigrati sono trattati come degli schiavi. Ad oggi sono morti decine di immigrati utilizzati nella costruzione degli impianti per i mondiali del 2022. E il razzismo nei confronti dei lavoratori immigrati dovrebbe far riflettere molto i musulmani in Europa – in gran parte di origine immigrata – sull’insidiosa carità dei principi qatarioti. È meglio una sala di preghiera piccola e dignitosa di una sontuosa moschea costruita con il contributo di uomini (ricchi) che ancora oggi schiavizzano i loro simili!”

Io, più uguale di te

ogiue-drawingNon penso che questo post otterrà molti “like”, ma non è certo per questo che scrivo. Semplicemente, a volte si affastellano dei pensieri che chiedono di essere espressi per suscitare, magari, una discussione in classe. Solo che non voglio farlo argomentando, e allora passo attraverso la fantasia di un breve dialogo tra me ed Esculapia, un’alunna che non ho mai avuto ma che riassume le parole di molti.

E: “Prof, ho bisogno di parlarle dopo. Ha un attimo?”
S: “Va bene, quando suona.”

Suona.

E: “E’ che la prof. di paleontologia (sai mai che qualche collega legga e si identifichi!) ci ha preso in picca, me e la Drusilla.”
S: mumble mumble
E: “Non ci tratta come tutti gli altri. Fa continuamente preferenze. Ci ha chiamate e noi abbiamo saputo come la Desdemona: lei il solito 8, noi il solito 6 che ci portiamo dalla prima interrogazione del primo anno.”
S: mumble mumble
E: “Davanti ai vostri occhi non dovremmo essere tutti uguali, senza preferenze, tutti sullo stesso piano?”
S: “Hai mai provato a parlarle? A esporre le tue perplessità, magari con meno foga?”
E: mumble mumble
S: “Domani ce l’hai la seconda ora, prova!”
E: “Uh no, prof. Domani non vengo: fra tre giorni c’è la simulazione di terza prova e sto a casa a studiare”
S: “State a casa tutti?”
E: “No, no, prof, stia tranquillo, la maggior parte c’è”
S: “Ma non siete tutti uguali, senza preferenze, tutti sullo stesso piano…”
E: stronzo!

Digestione

Gareth-Bale-shoots.jpgIn questi giorni commentavo in famiglia la notizia del possibile acquisto da parte del Real Madrid del calciatore Bale del Tottenham per una vagonata di euro (120 mln). Le chiacchiere erano simili a quelle che in questo periodo si possono ascoltare nei torridi dopocena di molte case: “non è etico”, “tutti a tirare la cinghia tranne questi”, “se poi ci metti anche quelli della tv o dello spettacolo”, “e poi hanno pure il coraggio di lamentarsi”… Discorsi che ti suscitano quel po’ di rabbia utile a una buona digestione… Il tenore delle parole che ho letto oggi, tramite twitter, su L’Huffington Post, è piuttosto diverso:

“Al Qaeda irrompe sul calciomercato internazionale. Il leader della cellula yemenita Ahmed Al Dossari ha postato su un blog un commento poco edificante in merito all’affare, ormai in via di definizione, tra Tottenham e Real Madrid per Gareth Bale: “Mercanti senza scrupoli – l’invettiva contro la squadra inglese – Ebrei che saranno puniti per la loro avidità”. La cifra record di 120 milioni di euro destinata a essere versata nelle casse degli Spurs sta scatenando parecchie perplessità negli ambienti sportivi e non. E al Qaeda ha colto la palla al balzo per lanciare strali contro la comunità ebraica. Il Tottenham infatti è il club del quartiere ebraico londinese e da sempre va fiero delle proprie origini. L’affare si dovrebbe concludere mercoledì 7 agosto a Miami. Secondo il Times, nella città della Florida è previsto il primo incontro tra il presidente del Tottenham Daniel Levy e Florentino Perez del Real, che è al seguito della squadra in tournee negli Usa. Il Real cercherà di concludere pagando 98 mln di euro, più il portoghese Fabio Coentrao, valutato 22 mln.”

Robe che la digestione resti bloccata definitivamente…

L’essenziale nella bisaccia

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Il blog è nato per accrescere il dialogo con gli studenti, per mettere a disposizione materiale interessante che magari in classe non riusciamo ad affrontare, per approfondire argomenti solo abbozzati. Tuttavia so che è letto anche da altre persone e da alcuni colleghi. Questo post penso che possa interessare maggiormente questi ultimi, soprattutto coloro che si ricordano di aver studiato sui testi del “mitico” Enrico Chiavacci. Come insegnanti di Udine abbiamo anche avuto il piacere (per me ascoltare un toscano è sempre un piacere, per le orecchie e per il cuore, perché mi ricorda le sere dei campiscuola passate a sentire la cadenza di una cara persona che non c’è più) di seguire, qualche anno fa, un corso di aggiornamento tenuto da lui. Il pezzo qui sotto verte su laicità-laicismo, clericalismo-anticlericalismo e, a mio avviso, è in grado di provocare molte riflessioni e pensieri, magari utili per un confronto di idee. E’ del 2005 ed è preso dal sito Dimensionesperanza.

“”D’ora in poi predicherò solo Cristo, e Cristo crocifisso”, esclama Paolo (cfr. 1Cor 2,2). La fede in Cristo non è un ‘bagaglio di valori’, ma è l’assunzione di un unico valore che deve dominare la mia intera esistenza, esserne il senso ultimo su cui io scelgo di misurare me stesso in ogni mia scelta concreta (o, se si vuole, storica). Questo unico valore è fare della propria esistenza un dono offerto a tutti i fratelli in umanità, buoni o cattivi, bianchi o neri, amici o persecutori. “Questo corpo che è per voi, questo sangue versato per voi e per tutti”: Gesù nella cena dichiara il senso del suo andare deliberatamente incontro alla croce, e con questo gesto supremo di dono accompagnare la storia, la vicenda intera della famiglia umana.

Spesso però noi cristiani ci dimentichiamo che ogni essere umano è chiamato dal proprio interno a una ‘vita morale’ cioè all’assunzione di un significato unico e ultimo del proprio esistere e alla coerenza con esso in ogni situazione concreta. Tale assunzione può nascere da un’esperienza interiore indicibile, cioè non dimostrabile ad altri come l’unica vera; può anche avere una motivazione filosofica e nascere da una argomentazione, ma il mettersi ad argomentare o a interrogarsi sul senso della propria esistenza è già vita morale. Anche l’ateo, il laicista, il ‘laico’, l’anticlericale, l’aderente a qualunque fede religiosa non cristiana, ha in sé la chiamata a una vita morale: il che equivale al bisogno di dare un senso al proprio esistere. Ma noi cristiani crediamo che anche il non-cristiano, come ogni essere umano, trovi in se stesso una chiamata divina, e precisamente la chiamata di un dio, del Dio che ci è apparso in Nostro Signore. A Lui tutti dobbiamo rispondere, che lo conosciamo o no, e da Lui tutti abbiamo bisogno di perdono. Tutto ciò è espresso chiaramente in Paolo, Rm 2. Giovanni XXIII riprende il tema indirizzando a tutti gli uomini di buona volontà la grande enciclica Pacem in terris: se ne rilegga l’intestazione, il proemio, e tutta la V parte. E la Gaudium et spes esplicita il contenuto di questa esperienza morale che accomuna tutti gli uomini intorno al grande tema della pace. Si veda il n. 77, ma specialmente il n. 92. In esso la Chiesa si dichiara aperta al dialogo e alla cooperazione (che ne è lo scopo e la cercata conseguenza) con uomini di qualsiasi fede, con gli agnostici e gli atei, e paradossalmente anche con i propri persecutori: a tutti coloro che “praeclara animi humani bona colunt, eorum vero Auctorem nondum agnoscunt”. E conclude dicendo che Dio Padre, principio e fine di tutti, ci chiama tutti a essere fratelli nella ricerca della pace: siamo tutti chiamati ad una stessa vocazione (hac eadem vocatione vocati: si noti che eadem in latino indica con precisione una stessa identica vocazione, unica per ogni essere umano). …

In questo quadro le espressioni del tipo ‘laico’ o ‘laicista’ non hanno necessariamente il significato di contrapposizione al cristianesimo: esse possono indicare l’assunzione degli alti valori vissuti e insegnati da Gesù Cristo, anche senza conoscerne o riconoscerne l’Autore. Nello stesso modo può avere un senso l’espressione ‘cristianizzazione senza Dio’: ma l’espressione è paradossale in quanto indica l’assunzione di valori assoluti evitando di riconoscere un assoluto a cui agganciarli. Io credo che in molti casi sarebbe più appropriato il binomio ‘clericale-anticlericale’: in esso si cela non tanto il problema di Dio o di Gesù Cristo, quanto il problema di accettazione della chiesa nel suo modo – passato e presente – di presentare il Vangelo di Gesù Cristo attraverso le sue strutture, regole, pronunciamenti, devozioni, predicazione. Il rifiuto della chiesa per i motivi ora detti può portare, e di fatto ha portato, al rifiuto in blocco del suo annuncio su Dio e/o su Gesù Cristo (si rilegga il n. 19 di GS). Lo stesso Giovanni Paolo II ha chiesto perdono per gli errori del passato.

A partire almeno dal II millennio, il potere decisionale nella chiesa – in tutti i campi – si è sempre più accentrato nelle mani del clero (si pensi che nell’area ortodossa anche il clero contava e conta poco: quelli che contano veramente sono i monaci e i monasteri). E almeno dal XVI sec. ogni potere decisionale si è sempre più accentrato, passando dal clero e anche dai vescovi alla Santa Sede. Un papato monarchico non solo temporale ma anche spirituale (dottrinale, giuridico, liturgico etc.) da un lato era forse necessario per combattere eresie o errori pericolosi, dall’altro ha generato una reazione sia dottrinale che spirituale. Clericalismo e anticlericalismo, azione e reazione: difficile dire chi ha sparato per primo. Non posso discuterne qui, e nessuno ha una risposta certa. Ma non dobbiamo mai dimenticare che senza una comunità dei credenti in Cristo organizzata, pur con tutti i suoi limiti storici e i suoi errori, il Vangelo non ci sarebbe giunto. Ricordiamo il celebre detto, attribuito al grande regista Buñuel: “Io sono ateo, grazie a Dio”; e ricordiamo anche che il film più fedele al Vangelo – e forse fino ad oggi l’unico fedele – è dovuto a P.P.Pasolini. Ma qui si deve aprire un altro discorso. Mi si domanda “che ne è del pellegrino che viaggia con solo l’essenziale nella sua bisaccia?”. Rispondo che non può esistere tale pellegrino: non esiste e non può esistere un essere umano senza condizionamenti culturali e storici da un lato, e senza una sua fatica di ricerca dall’altro lato. La stessa chiesa apostolica per trasmetterci il Vangelo ci ha trasmesso quattro vangeli, ciascuno scritto con preoccupazioni, filosofie, sensibilità diverse. La trasmissione del Vangelo è poi avvenuta tutta all’interno della cultura e della filosofia occidentale, con arricchimenti spirituali grandiosi (si pensi a Dante) e con una forza propulsiva enorme in tutti i campi della riflessione umana, dalla scienza o all’arte in tutte le loro forme. Ma dopo il XV sec. è iniziato il contatto massiccio e costante con altre culture, e con esso la presa di coscienza che anch’esse offrivano nuove possibilità di comprensione e di vita evangelica; ma solo nel XX sec. tali possibilità sono state accolte e recepite ufficialmente con l’autorità di un Concilio Ecumenico (si rilegga il n. 44 di GS). E pertanto l’accentramento dell’autorità presso un’unica istanza tipicamente, e ancora, occidentale e tale da lasciare poco spazio a culture, tradizioni, filosofie, sensibilità storiche locali risulta ormai – teoricamente e praticamente – insostenibile per la credibilità della chiesa e anche del Vangelo. Se il cosiddetto ‘senso comune’ indica ciò che è socialmente ammesso e approvato nell’area occidentale, il suo controllo sulla vita religiosa è mortale per l’annuncio del Vangelo. … La giustizia di Dio è sempre la giustizia resa al povero, e cioè al più socialmente debole, all’emarginato, allo straniero e anche a chi viene socialmente giudicato un ‘peccatore’. Questa giustizia appare in tutta la vita e la parola del Signore: è la bontà misericordiosa del Padre che ci appare nel Figlio. E la GS dice, al n. 77, che la “vera et nobilissima pacis ratio” è rendere più umana la vita di ogni essere umano ovunque sulla faccia della terra. Così sia, almeno io spero per la mia chiesa.”

Quanto la giustizia esige

A volte ho bisogno di ricaricare le pile, di rimotivare il mio lavoro, le mie ricerche, il mio percorso. A volte ho bisogno di fare il punto della situazione, di mettere le cose a una certa distanza per osservarle meglio nel loro complesso. Però mi capita anche di smarrirmi nel fare questo e di faticare a trovare il bandolo della matassa; e allora, aprendo un libro succede di leggere le parole giuste, quelle che ti mettono la pace nel cuore. “Non bisogna mai cercare di fare al prossimo altro bene che trattarlo con giustizia. Per provare una gratitudine pura (il caso dell’amicizia a parte) ho bisogno di pensare che mi si tratta bene non per pietà o per simpatia o per capriccio o a titolo di favore o di privilegio, e neppure per un effetto naturale del temperamento; ma per desiderio di fare quanto la giustizia esige” (Simone Weil).

giustizia, motivazioni, etica, bene, male, agire, buonismo, realismo

Quel tocco ai piedi

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Oggi, per i cattolici, è il giorno dell’ultima cena, nel corso della quale Gesù fa uno di quei gesti che sbaragliano le carte sul tavolo. Mi piace chiamarlo il gesto del tocco: è il chinarsi a lavare i piedi degli apostoli, a prendere in mano le propaggini del corpo umano, quelle che stanno a contatto con la terra, quelle più lontane dal cielo. E allora suggerisco la riflessione di Francesca Lozito, una giornalista che sto cominciando a conoscere su fb e che ha scritto queste parole molto significative su Vinonuovo:

“Ci vedete da lì. Non potete toccarci, perché siamo separati da uno schermo. Ma a chilometri di distanza ci vedete da lì.

Siamo lo scarto, siamo quelli venuti male. I disgraziati della terra. Quelli che magari ci staranno meno di voi. Sulla terra.

Siamo disabili per i politicaly correct. Storpi, ciechi, malati di cancro. Distrofici, senza gambe o senza braccia.

Ci vedete da lì, e sarebbe un vedere e basta. Un dolore esibito dice qualcuno, per non toccarlo con mano.

Invece quest’uomo vestito di bianco ci tocca.

Non ci benedice in modo freddo e formale. No. Sentiamo la sua carezza tenera, da papà.

A volte ci sembra quasi che sia lui ad avere bisogno di noi.

E non è un bisogno di comodo, no. Non ci usa, non ci cerca per far vedere quanto e bravo. Non ne ha bisogno.

Il tocco dell’uomo vestito di bianco è una storia lontana.

È l’amore che sta lì, proprio dove tutto ti farebbe dire il contrario. L’amore che vince dove sei autorizzato a dire «perché a me, perché io».

È Giobbe.

È noi.

Ci portano in questa piazza da ogni parte del mondo. E «quella bianca tenerezza» non ci farà guarire nel corpo, ma renderà più lieve il nostro passaggio sulla terra degli uomini. E meno pesante il giogo dei nostri cari.

Ma nelle vostre vite non possiamo rimanere solo un passaggio sullo schermo.

L’uomo vestito di bianco, voi non lo capite ancora, ma vi sta facendo un invito. Vi sta dando una opportunità. Sta a voi coglierla.

Aprite il vostro cuore, allargate le porte di ingresso delle vostre parrocchie. Smettetela di perdere tempo in vuoti formalismi, in una fredda cultura del fare. Cambiate il linguaggio. Abbandonatevi a gesti di tenerezza.

Lasciate entrare anche noi. Toccateci. Senza timore.

Perché non vi spaventi il pianto che sgorga dai vostri occhi tutte le volte che vedete quest’uomo farci una carezza: è solo l’umano bisogno, che per troppo tempo avete nascosto anche a voi stessi, di abbandonare le tante parole, troppo spesso inutili, che abbiamo detto sul dolore. È il bisogno di sentire prima di dire.

Il bisogno di vivere.”

Vi collego una vecchissima canzone, con la speranza che nessuno debba sentire la voglia di andare via di là per non aver trovato la carezza e la presenza di cui aveva bisogno:

“Quando tornava mio padre sentivo le voci, dimenticavo i miei giochi e correvo lì

mi nascondevo nell’ombra del grande giardino e lo sfidavo a cercarmi: io sono qui

Poi mi mettevano a letto finita la cena lei mi spegneva la luce ed andava via

io rimanevo da solo ed avevo paura ma non chiedevo a nessuno: rimani un po’.

Non so più il sapore che ha quella speranza che sentivo nascere in me

Non so più se mi manca di più quella carezza della sera

o quella voglia di avventura voglia di andare via di là

Quelle giornate d’autunno sembravano eterne quando chiedevo a mia madre dov’eri tu

io non capivo cos’era quell’ombra negli occhi e cominciavo a pensare: mi manchi tu

Non so più il sapore che ha quella speranza che sentivo nascere in me

Non so più se mi manca di più quella carezza della sera”

o quella voglia di avventura voglia di andare via”

(Quella carezza della sera, New Trolls)

Belando di economia

Articolo di Roberta Scorranese nella sezione “Cultura” del Corriere di oggi. Lo consiglio, soprattutto agli studenti del Les e a quelli che hanno apprezzato il tema della globalizzazione. L’articolo lo trovate qui in pdf.

“Ogni famiglia felice si fraintende a proprio modo. E così succede che, mentre una mamma e un papà della buona borghesia credono il giovane e intelligente Filippo intento nei suoi alti studi di economia a Stanford, questi irrompa in un convegno a Oxford accompagnato da un gregge belante di pecore. Pecore vere. È spiazzante l’inizio di “Non so niente di te”, il romanzo che segna il passaggio di Paola Mastrocola da Guanda a Einaudi. Spiazzante non solo nella combinazione narrativa, ma anche nella «metafisica del racconto». Si parte dallo stupore di Guido e Nisina Cantirami, lui avvocato benestante, lei arredatrice per diletto, che scoprono un’ombra sulla vita apparentemente regolare del loro figlio maggiore. Da email, sms, conversazioni via Skype, lui offre un ritratto rassicurante da studente di economia come tanti. Ma, da un’improvvisa falla, una realtà ben diversa irrompe con veemenza crescente, tratteggiando una vita differente. Emerge una scelta netta, da rivoluzionario moderno che mette in discussione la «vecchia» economia. Inizia qui il faticoso viaggio della famiglia alla ricerca del «vero» Filippo, in un crescendo di tensione alla Dürrenmatt, nell’indagine più difficile che esista: conoscere i propri figli.

Nei suoi romanzi precedenti, ma soprattutto nei saggi (come nel Saggio sulla libertà di non studiare, edito da Guanda), Paola Mastrocola ha costruito, negli anni, una visione alternativa al conformismo sociale: un’istruzione malata e un sistema culturale in declino (è la sua riflessione) forse hanno alle spalle un modello di sviluppo da rivedere. E in questo racconto la sensazione è che la scrittrice torinese abbia saputo condensare le riflessioni su economia, società, desertificazione culturale in una storia complessa, tesa e scritta con la consueta eleganza. Proprio come un progressista dostoevskiano, Filippo Cantirami non sceglie la piazza, ma la resistenza morale. La strada individualista alla Ayn Rand e non la risonanza mediatica di Occupy Wall Street. Convinto che l’attuale crisi economico-finanziaria sia innanzitutto un’apocalisse morale. Paola Mastrocola così appaia i destini dei personaggi (indimenticabile quello di zia Giuliana, una «ragazza di mezza età», fallita solo per chi ha lo sguardo ottuso) ad un manifesto economico in controluce. Che va oltre la decrescita felice: invita ad un consolidamento dei volumi attuali, a una valorizzazione di «quel che si ha», contrapposta a un desiderio che si autoriproduce. C’è l’eco di Nikolaj Berdjaev, con la sua lotta al «medioevo dei valori» e la sua difesa della creatività; più che di Serge Latouche, paladino della decrescita, si sente l’influenza colta di Fritjof Capra, il fisico austriaco che, ne “Il punto di svolta” (Feltrinelli) auspica una visione globale delle cose, non settoriale. Ecco lo «scontro» tra il perbenismo convenzionale dei coniugi Cantirami, il «puro» Filippo e la giovinezza agée di Giuliana. E la famiglia resta sullo sfondo, attonita.

 

suffolk Rams.jpgUn estratto del libro:

Alle dieci e trenta di quel mattino di novembre, la sala più capiente del Balliol College era già gremita da centinaia di persone che, compostamente sedute, aspettavano l’inizio della conferenza. Giovani studenti di varie nazionalità e professori di mezza e tarda età, dai capelli più o meno grigi, sciarpe scozzesi strette al collo e morbide giacche di shetland. Un vocio disciplinato animava la sala.

Il primo relatore, un giovane economista italiano già assurto a fama internazionale per i suoi studi sulla teoria dello sviluppo, arrivò puntuale, alle undici meno cinque. Era un ragazzo dalla capigliatura riccia scombinata e dall’aria timida e confusa. Una giacchetta corta, sgualcita. Salì sul palco, salutò il decano del college che lo avrebbe di lì a poco presentato; si sedette al tavolo e dispose fogli e computer davanti a sé. Si chiamava Jeremy Piccoli e l’università di Oxford lo aveva invitato a parlare della sua sorprendente scoperta, un particolare algoritmo, noto ormai al mondo accademico come algoritmo di Jerfil. Un procedimento di calcolo che forse, se opportunamente applicato, avrebbe potuto secondo alcuni cattedratici ottimisti favorire la ripresa della crescita degli Stati occidentali, fortemente provati dalla recente crisi dei mercati. Il secondo relatore invece era in ritardo e nessuno lo conosceva. Il suo nome era stato aggiunto all’ultimo, perché Jeremy Piccoli aveva chiesto agli organizzatori della conferenza, come condizione imprescindibile, che fosse invitato anche lui a parlare, spiegando che si trattava di un suo brillante compagno di studi nonché amico, al quale doveva in massima parte l’invenzione dell’algoritmo.

Alle undici in punto Jeremy Piccoli si avvicinò al microfono. Annunciò che solo dopo l’arrivo del collega avrebbe cominciato (…). Dopo qualche videata di PowerPoint, entrarono le pecore. Si sentì dapprima un insolito trapestio provenire dall’esterno. Poi sulla porta, dietro al pubblico, apparve un giovane alto e bruno, i capelli corti. Indossava un completo di fustagno grigio e, buttata per traverso, una sciarpa a righe con gli stemmi, stile college. Procedeva lento, le mani in tasca. E gli venivano dietro quelle pecore. Cioè, a vederlo comparire per primo sulla porta, nessuno avrebbe fatto una piega: ecco l’altro giovane relatore, ma guarda che aria distinta, che bel vestito. Peccato che si portava dietro decine e decine di pecore. Bianche e lanose, ammassate le une alle altre: un gregge. Un gregge di pecore cinerine, per l’esattezza: una massa compatta di lana biancosporco da cui uscivano il muso nero e le zampe nere. Pecore di quella particolare razza, molto comune in area britannica, denominata Suffolk.

Centinaia di pecore Suffolk invasero dunque la sala conferenze del Balliol. Procedendo sempre ordinate, moderatamente belanti, cominciarono a occupare ogni spazio. Alcune già s’intrufolavano tra le poltrone, affollavano il proscenio; altre indietro, ancora sulle scale. Tutte comunque discrete, composte. Jeremy Piccoli sbiancò e smise di parlare. Alle sue spalle, sul megaschermo, lampeggiava inerte l’ultima frase del suo discorso introduttivo. Arrivato sotto il palco, il giovane in abito grigio salì i pochi scalini, strinse la mano ai professori esterrefatti, abbracciò come nulla fosse l’amico e collega Jeremy e si sedette sulla poltrona lasciata libera, davanti alla quale, sul lungo tavolo, troneggiava la targhetta col suo nome: FILIPPO CANTIRAMI.