Social e AI: c’è spazio per un etica pubblica?

Se lo chiede il giornalista Marco Brando sul sito Treccani. Lo spunto gli arriva dal libro “L’etica stanca. Dialoghi sull’etica pubblica” di Rocco D’Ambrosio.

“La maggior parte degli italiani oggi si confronta, su qualsiasi tema, soprattutto online; in particolare attraverso i social network. Succede in Italia come altrove. Assai meno capita di confrontarsi nei vari luoghi fisici destinati prima, in modo prevalente, a questo scopo: dalle conferenze alle cosiddette “chiacchiere da bar”. Tuttavia la mediazione di hardware e software, di algoritmi e intelligenza artificiale generativa (IA) non cambia soltanto il supporto/luogo in cui ci esprimiamo. Modifica pure il modo con cui affrontiamo questioni spesso impegnative e complesse; ciò influenza l’approccio a quei temi anche fuori dal Web. Sono incluse le discussioni dedicate, in modo più o meno approfondito, al sistema di valori e princìpi morali che guidano, o dovrebbero guidare, il comportamento individuale e sociale; alcune accese diatribe virtuali tracimano grossolanamente persino nell’etica, intesa come riflessione sui fondamenti, i princìpi e le implicazioni dei sistemi morali.
Purtroppo sui social anche in campo etico-morale prevale quasi sempre un lessico all’insegna della superficialità e dell’emotività. Ciò è spesso frutto di atteggiamenti mentali e distorsioni cognitive (bias). I bias sono incentivati dagli algoritmi che, per scelta produttiva e commerciale delle big-tech, governano le piazze virtuali. La circostanza favorisce la polarizzazione, fenomeno studiato dalla psicologia sociale anche prima dell’avvento del Web: i membri di un gruppo sono spinti a far proprio il punto di vista più estremo rispetto alla media di quelli adottati nell’àmbito del gruppo stesso. Di certo, il “metabolismo” dei social spinge verso un’accentuazione del fenomeno. Come scrive Maura Coniglione su RizzoliEducation.it: «nei dibattiti online, […] prevale il principio: “O la pensi come me, o sei contro di me, e con te non posso dialogare”. È il motivo per cui, sotto contenuti che trattano temi divisivi, i commenti mostrano opinioni così polarizzate e inconciliabili da impedire una immedesimazione con altri punti di vista, come se l’altro venisse disumanizzato».
Lo psicologo sociale Matthieu Vétois precisa che, «a livello di relazioni tra gruppi, la polarizzazione emerge quando le convinzioni e i comportamenti collettivi si radicalizzano opponendo un gruppo all’altro. Sul piano individuale si traduce in una radicalizzazione delle posizioni […], così come nel rifiuto e nella delegittimazione di idee divergenti da quelle del proprio gruppo di appartenenza».
Con l’aiuto del sociologo William Davies, possiamo sostenere che «dove […] l’emotività assume un ruolo fondamentale, si manifesta l’improvvisa assenza di un punto di vista autorevole sulla realtà. Nell’era digitale, quel vuoto di informazioni attendibili viene colmato da voci, fantasie e congetture, alcune delle quali immediatamente distorte ed esagerate per adattarle al discorso che si vuole veicolare».

Quando questi atteggiamenti riguardano temi etici o politici (spesso i due piani si intersecano), i contraccolpi non si avvertono solo nella sfera della nostra “quotidianità digitale”; incidono pure sui punti di vista e sulle scelte fatte fuori dal Web, sul rapporto con le istituzioni e sull’atteggiamento in occasione di scadenze elettorali o referendarie, quindi sulla propaganda politica. Ciò induce a riflettere a proposito del concetto, anche lessicale, di “etica pubblica”, una volta che questa viene mediata e talvolta adulterata dai social e da Internet; induce poi a valutare l’impatto del fenomeno sulla cultura di massa. Perché il linguaggio espresso online ha un duplice effetto: da un lato – pur non evitando stress, rabbia o delusione – ci risparmia il contatto diretto, che è stato per millenni un elemento cruciale nell’interazione tra le persone; dall’altro lato, la possibilità di scavalcare questa interazione contribuisce a far aumentare la supponenza, l’aggressività, la sentenziosità, l’emotività, il linguaggio d’odio (hate speech).

Come ha riassunto il disegnatore satirico Francesco Tullio Altan in una vignetta, nel contesto dei social network anche il razzista fascistoide si sente al sicuro; mentre è seduto comodamente davanti al computer, afferma: «Un semplice clic e si può fare un po’ di razzismo comodamente da casa». Tantissimi casi di cronaca, anche recentissimi, legati a “giudizi” agghiaccianti espressi online (si pensi a certi sadici commenti antropocentrici sui femminicidi o agli insulti rivolti contro la 94enne senatrice a vita Liliana Segre, superstite e instancabile testimone della Shoah) ci consentono di verificare quanto la digitalizzazione della riflessione immorale o amorale trasformi le persone più insospettabili in odiatori seriali; questi si esprimono più o meno di getto nell’illusione di poterla fare franca. Insomma, l’ambiente digitale favorisce l’aggressività, la polarizzazione e la propaganda. La discussione su temi complessi – inclusi quelli etici – viene ridotta a slogan; le incubatrici di questo atteggiamento sono soprattutto le cosiddette “echo chamber” digitali: quelle “bolle” dove «idee o credenze più o meno veritiere vengono amplificate da una ripetitiva trasmissione e ritrasmissione all’interno di un àmbito omogeneo e chiuso».
È opportuno, dunque, dedicarsi ai riflessi del dibattito social sull’etica pubblica. Questo contesto è esaminato da Rocco D’Ambrosio, presbitero della diocesi di Bari, a Roma professore ordinario di Filosofia politica nella Facoltà di filosofia della Pontificia Università Gregoriana e docente di Etica della pubblica amministrazione. D’Ambrosio se ne occupa, mentre affronta la questione anche su altri fronti, nel recentissimo libro L’etica stanca. Dialoghi sull’etica pubblica (Roma, Studium Edizioni, 2025), dove riporta i contenuti di una riflessione in cui ha coinvolto molti interlocutori provenienti da vari àmbiti (accademico, giuridico, medico, giornalistico, istituzionale ecc). Pur attingendo molto a pensatori classici (come Platone e Aristotele) e moderni (tra gli altri Max Weber, Hannah Arendt, Emmanuel Mounier, e John Rawls), si concentra principalmente sull’analisi dell’etica pubblica nelle società liberal-democratiche, soprattutto quella italiana.La sintesi in quarta di copertina rende l’idea della posta in gioco: Si entra nella sfera pubblica ogni qualvolta usciamo di casa, a piedi, o in auto o con i mezzi pubblici, per raggiungere il luogo di lavoro o di incontro con amici e conoscenti, sedi di istituzioni politiche, amministrative, culturali, di volontariato, comunità di fede religiosa. Entriamo nella sfera pubblica, in maniera del tutto diversa, anche ogni qualvolta usiamo il nostro smartphone o computer per navigare o essere presenti sui social. Tutte queste azioni pubbliche pongono tante questioni e dubbi etici.
Il titolo stesso – L’etica stanca – gioca su una duplice interpretazione: la discussione sull’etica può risultare faticosa per chi l’affronta; oppure l’etica stessa può essere “stanca” di orientare e insegnare in un mondo che sembra ignorarla. L’autore sceglie di mantenere aperta questa ambiguità, sottolineando comunque la perdurante necessità dell’etica, intesa come “il nostro modo di stare al mondo”.
La riflessione ruota intorno ad alcuni cardini concettuali. Per esempio, per quel che riguarda il confronto tra etica pubblica ed etica privata, D’Ambrosio nega che ci sia una netta separazione. Se la prima è definita come il modo di comportarsi nella sfera pubblica (include politica, economia, lavoro, vita associativa e istituzionale), la seconda, che riguarda le scelte cosiddette “private”, ha inevitabilmente ricadute sulla collettività. E viceversa. Il saggio affronta anche la “privatizzazione del pubblico”: entità non statali, specialmente nel settore tecnologico e mediatico, “privatizzano” lo spazio pubblico e influenzano pesantemente le dinamiche sociali e politiche, spesso a scapito del bene comune.
In questo quadro, particolare attenzione è dedicata all’influenza dei social media e dell’intelligenza artificiale generativa. Di fatto, le piattaforme social privilegiano, rispetto alla razionalità, l’emotivismo – con i giudizi etici che diventano espressione di preferenze personali o sentimenti momentanei, facilmente manipolabili – piuttosto che il risultato di una riflessione condivisa: le informazioni con il maggior potenziale di “eccitazione” prevalgono sugli argomenti ponderati, grazie agli algoritmi concepiti dalla big-tech per massimizzare il traffico e il profitto sulle loro piattaforme. Ciò contribuisce a determinare una “crisi delle relazioni”, legata all’individualismo e alla perdita di un linguaggio capace di esprimere profondità.
Secondo D’Ambrosio, alla vera “relazione” umana si contrappone la mera “connessione” digitale. In quest’ottica, il rapporto tra responsabilità individuale e collettiva emerge come il tema cardine, inteso come capacità di rispondere delle conseguenze delle proprie azioni e come impegno attivo contro l’indifferenza («Me ne frego»). In sintesi, secondo l’analisi presentata in L’etica stanca, l’ecosistema digitale attuale rappresenta una seria minaccia alla percezione e alla pratica di un’etica pubblica basata su razionalità, verità, empatia, bene comune e dialogo autentico.
Scrive l’autore: «Un’etica pubblica, come ogni pensiero etico, è possibile solo se siamo capaci di dare ragione dei nostri giudizi, riconoscendo l’influenza delle emozioni senza però permettere che queste governino del tutto i processi cognitivi o si sostituiscano ad essi».
Anche in Italia la digitalizzazione del dibattito pubblico e l’intelligenza artificiale stanno ridefinendo il panorama dell’etica pubblica, presentando sia notevoli opportunità sia sfide complesse. Fattori culturali, come la normalizzazione del “vantaggio personale”, continuano a influenzare la pratica dell’etica pubblica, intrecciata fortemente con quella privata. Bisognerebbe promuovere l’etica dal basso, rafforzando anche il senso della responsabilità civica. Questo processo, lento e complesso, dovrebbe coinvolgere attivamente tutti, forze politiche e sociali e istituzioni incluse (con la scuola in testa), per creare un ambiente in cui le norme etiche democratiche non siano imposte, ma interiorizzate e percepite come intrinsecamente “buone” e “utili” per la collettività. I segnali che vengono, per esempio, dalla disaffezione verso alcuni pilastri della democrazia italiana – come le elezioni e i referendum – non depongono a favore dell’ottimismo. Tuttavia, come suggerisce la lettura del saggio L’etica stanca, sarebbe profondamente immorale, a livello pubblico e individuale, dare per persa questa partita fondamentale.”

Sferlazza, per una memoria (e un’etica) collettiva

Fonte immagine: Le pietre raccontano

Il 14 e 17 luglio, nella sezione Atlante di Treccani, è apparsa un’intervista in due parti a Ottavio Sferlazza, ex procuratore della Repubblica di Palmi. Il lavoro porta la firma di Francesco Alì e lo riporto integralmente.

A ridosso dell’anniversario della strage di via D’Amelio, in cui il 19 luglio 1992 persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina), Atlante avvia un percorso fatto di incontri con professionalità ed esperienze che, da angolazioni diverse, hanno dedicato gran parte della loro vita alla responsabile ricerca di legalità, giustizia e democrazia. Attraverso le inchieste, le analisi e i ricordi delle personalità che incontreremo vogliamo offrire un contributo alla comprensione del periodo delle stragi e del fenomeno mafioso, così da dare ai cittadini e soprattutto alle nuove generazioni, ragioni e motivazioni per sostenere la necessità e la convenienza di affrancarsi dalle mafie, che ostacolano crescita, sviluppo, libertà e democrazia in tutto il Paese.
Cominciamo questo cammino in compagnia di un magistrato sempre in prima linea, tra Sicilia e Calabria, che porta, con sé (e per gli altri), una grande dote di esperienza professionale e umana accumulata in anni di inchieste, nelle collaborazioni con i giudici che hanno scritto la storia dell’antimafia, nelle storie, anche tragiche, che ha vissuto. È animato da un grande impegno sociale all’insegna della promozione della cultura della democrazia, della Costituzione e della memoria come antidoto per contrastare qualunque forma di illegalità. Si tratta di Ottavio Sferlazza, ex procuratore della Repubblica di Palmi. In precedenza è stato presidente della corte di assise di Caltanissetta e, poi, presidente della sezione GIP-GUP (Giudice per l’Udienza Preliminare) presso lo stesso tribunale; è entrato in magistratura nel 1977. Come sostituto procuratore presso la Procura di Caltanissetta ha diretto le indagini per l’omicidio del giudice Rosario Livatino ed ha sostenuto l’accusa in giudizio contro gli esecutori materiali. Ha presieduto la corte di assise che ha giudicato mandanti ed esecutori materiali della strage di via Pipitone Federico in cui rimase ucciso il consigliere istruttore Rocco Chinnici e dell’omicidio del presidente della corte di assise di Palermo Antonino Saetta e del figlio Stefano. Ha presieduto la corte di assise di Caltanissetta nel dibattimento per la strage di Capaci fino alla astensione, a seguito della sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l’incompatibilità alle funzioni giudicanti per il giudice che si sia occupato della stessa vicenda processuale quale componente del tribunale del riesame. Dagli anni Novanta si dedica ad incontri formativi nelle scuole. In pensione dal 2020, attualmente è presidente del comitato etico di Libera.

31 anni fa le stragi di Capaci e di via D’Amelio: il 23 maggio, gli omicidi di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, degli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e, qualche mese più tardi, il 19 luglio, quelli di Borsellino e degli agenti della scorta. Di cosa si occupava in quel periodo? Avete avuto forme di collaborazione?

Ottavio Sferlazza

Ho incontrato Falcone in occasione di incontri di studio o seminari. L’ho sentito intorno al 1982 quando svolgevo le funzioni di giudice istruttore penale presso il tribunale di Trapani per chiedergli notizie su un indiziato mafioso (ancora poco noto) di cui mi stavo occupando, attingendo al suo immenso patrimonio conoscitivo. Ricevetti utili indicazioni sulla personalità, sul suo circuito relazionale e sui legami operativi con personaggi di spicco di Cosa Nostra.
Ho conosciuto Borsellino nel 1978; frequentavo l’ufficio istruzione di Palermo quale uditore giudiziario e Paolo fu mio affidatario. Ricordo la sua straordinaria umanità, il rigore morale e l’elevato spessore professionale. Mi è stato maestro di vita oltre che di diritto. Il suo ricordo è indissolubilmente legato a quello di un altro grande magistrato, Rocco Chinnici; il primo giorno in cui iniziai il tirocinio Paolo mi accompagnò nella stanza del Consigliere Istruttore per presentarmelo come capo di quell’ufficio. Il destino mi ha riservato l’onore e l’onere di presiedere, 22 anni dopo, la prima Corte di Assise di Caltanissetta che ha giudicato mandanti ed esecutori materiali della strage in cui rimase ucciso Chinnici, leggendo il dispositivo della sentenza e redigendone integralmente la motivazione. L’ultima volta che vidi Paolo Borsellino fu alla camera ardente di fronte ai feretri delle vittime della strage di Capaci. Ci stringemmo in un forte abbraccio.  

Un attentato feroce e vigliacco che ha scosso le istituzioni, l’opinione pubblica, il mondo intero. Eravamo già a pezzi il 23 maggio quando, il 19 luglio, arrivò l’altra tragedia. Tutto questo ha inciso su di lei, sulla sua attività di magistrato e sul suo impegno sociale? Ha mai pensato che fosse tutto inutile?

Ogni anno per me e per i magistrati della mia generazione, queste giornate della memoria, troppe, costituiscono una occasione di forte coinvolgimento emotivo perché la lunghissima scia di sangue che ha accompagnato la nostra carriera ha segnato, inevitabilmente, la nostra vita professionale e personale, avendo contribuito a far maturare sempre più in noi la forte determinazione di onorare, con il quotidiano impegno in difesa della legalità e della democrazia, la memoria di quanti hanno sacrificato la loro vita per difendere questi valori. Ho sempre nutrito una fede incrollabile nel primato della legalità, della giustizia e dell’etica pubblica come presupposti indefettibili di un autentico sistema democratico di diritto. Ai giovani, con i quali ho avuto spesso l’onore di confrontarmi nelle scuole, rivolgo sempre l’augurio e l’invito a vivere da uomini liberi, con la consapevolezza che solo la legalità assicura la democrazia che si conquista e si difende giorno per giorno, anche attraverso una diffusa e costante intransigenza morale nei confronti del potere e il rifiuto dei privilegi. Credo che a Falcone, Borsellino e alle altre vittime del dovere, ci legherà sempre un debito di riconoscenza per avere contribuito con il loro sacrificio alla definitiva acquisizione alla coscienza collettiva della consapevolezza della insufficienza della sola risposta giudiziaria come rimedio risolutivo ed esclusivo del problema del fenomeno mafioso e della necessità, invece, di una crescita culturale della società civile.
La enormità stessa della violenza ha prodotto incrinature profonde nel consenso di cui la mafia ha goduto e gode tuttora. Tanto da smentire le disperate e rassegnate parole proferite in un momento di sconforto perfino da Antonino Caponnetto mentre in via D’Amelio, salendo in macchina e stringendo paternamente con le sue mani quella del giornalista che teneva il microfono diceva: «È finito tutto, è finito tutto». Di quelle parole Caponnetto ebbe quasi a scusarsi qualche tempo dopo ammettendo che «aver ceduto a questo momento di debolezza fu un errore enorme». Per questo sono profondamente convinto che il loro sacrificio non è stato vano e che il patrimonio valoriale che ci hanno lasciato ha contribuito a rafforzare la nostra democrazia e la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.

Si ricordano nel modo giusto Falcone e Borsellino? Teme che possano essere dimenticati? Cosa bisognerebbe fare per conservarne la memoria nel modo corretto?

Il fenomeno nuovo e più rilevante che si è prodotto dopo le stragi è costituito dalla consapevolezza, ormai acquisita alla coscienza collettiva, che non è possibile contrastare efficacemente una sanguinaria e pericolosissima criminalità organizzata, come la mafia e la ’ndrangheta, senza il coinvolgimento e la mobilitazione della società civile. Da molti anni, pertanto, non riesco a sottrarmi a quello che ormai considero un vero e proprio impegno morale, una forma di ‘militanza politica’ in difesa della dimensione etica della legalità: andare nelle scuole per incontrare gli studenti, non per fare una lezione, ma per una testimonianza ed una parola di speranza nella prospettiva di contribuire alla crescita culturale e politica delle giovani generazioni. In questa prospettiva desidero sottolineare l’importanza della ‘memoria’ che non deve essere solo un momento rievocativo o commemorativo, ma un modo per riscattare storicamente e moralmente quel processo di rimozione collettiva del fenomeno mafioso, ma anche di altri fenomeni, come la shoah, che ci rende tutti colpevoli.

Cose di Cosa nostra, il libro intervista di Marcelle Padovani a Falcone, si chiude con quest’ultima frase del magistrato: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere».

Come è noto Giovanni Falcone era un profondo conoscitore del fenomeno mafioso e delle dinamiche, sociali ed istituzionali, che storicamente ne hanno caratterizzano lo sviluppo e le modalità operative. La consapevolezza che spesso la delegittimazione precede l’eliminazione fisica di servitori dello Stato determinati e fedeli alla Costituzione lo indusse a parlare di «menti raffinatissime» all’indomani del fallito attentato dell’Addaura di cui, non dimentichiamolo, fu accusato, o comunque sospettato, addirittura di essere l’ispiratore e l’organizzatore per accrescere la propria immagine di magistrato simbolo.

Proseguiamo il nostro confronto con l’ex procuratore, Ottavio Sferlazza, sui temi della giustizia, partendo da due fatti. Da una parte, Falcone lamentava: «Debbo sempre dare delle prove, fare degli esami…  sotto il fuoco incrociato di amici e nemici, anche all’interno della magistratura». Dall’altra parte, i giudici del processo per il depistaggio sulle indagini della strage che uccise il giudice Borsellino e i cinque agenti della scorta, nelle «motivazioni della sentenza del processo a carico di tre poliziotti», scrivono, come riportato dall’Adnkronos, che: «Non è stata Cosa nostra a fare sparire, dopo la strage di via D’Amelio, l’agenda rossa» del giudice. «A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa Nostra che si aggirano in mezzo alle forze dell’ordine». I giudici così desumono «l’appartenenza istituzionale di chi sottrasse materialmente l’agenda. Solo chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel contesto e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre». Proseguono i giudici: «un intervento così invasivo, tempestivo e purtroppo efficace nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire il movente dell’eccidio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa Nostra di intervenire per ‘alterare’ il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage». L’Adnkronos sottolinea che: «I giudici di Caltanissetta, nelle quasi 1.500 pagine delle motivazioni», hanno parlato anche della «presenza di altri soggetti o gruppi di potere co-interessati all’eliminazione di Borsellino con un ruolo nella ideazione, preparazione ed esecuzione della strage». Quanto alla sparizione dell’agenda rossa, affermano che: «Non sono emersi nuovi elementi. E bacchettano alcuni testimoni che consegnano un quadro per niente chiaro, fatto di insanabili contraddizioni tra le varie versioni rese dai protagonisti della vicenda». Infine, secondo i giudici nisseni, Paolo Borsellino, «si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale».

Allora, che cos’è la giustizia?

Non ho mai parlato pubblicamente della vicenda processuale relativa alla scomparsa della ‘agenda rossa’ per il doveroso riserbo derivante dal fatto che me ne sono occupato come giudice delle indagini preliminari presso il tribunale di Caltanissetta. Posso solo dire che, come è noto, rigettai la richiesta di archiviazione e dopo avere ordinato nuove indagini, formulai la cosiddetta imputazione coatta nei confronti di un ufficiale dei carabinieri. In questa sede non voglio aggiungere nulla a quello che ho scritto nei provvedimenti redatti in quella fase processuale se non che, a mio avviso, il quadro probatorio acquisito giustificava ampiamente la celebrazione del dibattimento a carico dell’imputato in omaggio alla funzione dell’udienza preliminare con particolare riferimento, secondo il costante insegnamento della Corte di Cassazione, alla ipotesi in cui il quadro probatorio sia suscettibile di evoluzione, essendo inibito il proscioglimento in tutti i casi in cui gli elementi di prova acquisiti a carico dell’imputato si prestino a valutazioni alternative, aperte o, comunque, tali da poter essere diversamente valutate in dibattimento anche alla luce delle future acquisizioni probatorie. Il quadro probatorio era certamente foriero di ulteriori sviluppi ed evoluzioni anche alla luce delle contraddizioni emerse non solo tra le dichiarazioni rese dai testi escussi, ma anche all’interno di alcune di esse. Sottolineo, inoltre, la gravità del fatto che si sia messa in dubbio la presenza dell’agenda nella borsa di Borsellino avuto riguardo alle incontrovertibili dichiarazioni dei familiari».   

La lezione di Falcone e Borsellino, il loro esempio, in che modo possono essere utili per i magistrati e in che modo questi ultimi possono esercitare il loro ruolo fuori dai palazzi di giustizia?

La presenza dei magistrati nelle scuole, per contribuire alla diffusione della cultura della legalità, è importante in una prospettiva di crescita della società civile. Non si tratta certo di sostituirsi ai docenti, ma di contribuire ad esercitare la memoria, a respingere tentativi di negazionismo e per favorire un autentico processo di conoscenza di certi fenomeni che deve diventare a sua volta coscienza critica per contrastare, quotidianamente e culturalmente, il fenomeno mafioso.

Sconfiggeremo mai le mafie?

Sul punto rimane una pietra miliare l’opinione di Falcone sulla evoluzione del fenomeno mafioso destinato ad avere una fine. C’è ancora molto da fare sul piano del contrasto culturale, ma sono profondamente convinto della necessità di onorare quello che considero il testamento spirituale di Borsellino: «Se la gioventù le negherà il consenso anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo». Ritengo che la scuola sia l’unico laboratorio culturale che può concretamente incoraggiare la ricostruzione, la conservazione e la promozione di questa memoria collettiva; che possa favorire in ciascuno di noi la scelta irreversibile in favore di valori e principi in nome dei quali tanti servitori dello Stato e cittadini comuni hanno sacrificato la loro vita e, quindi, la consapevolezza di poter contribuire, ciascuno con il proprio quotidiano impegno in difesa della legalità, alla costruzione di una nuova etica collettiva e pubblica.”