Davanti a “quelle” immagini

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

In quinta, ad un certo punto dell’anno, trattando il tema del male, porto in classe un libro fotografico sui gulag. Racconto che, quando l’ho acquistato, una quindicina di anni fa, forse anche più, ero reduce da una lunga ricerca, tanta era stata la difficoltà a trovare una raccolta fotografica su Glavnoye Upravleniye lagerey (Direzione Principale dei Campi). Un altro aspetto su cui ci soffermiamo è la quasi totale assenza di immagini crude, violente: l’effetto “cazzotto nello stomaco” da libro sui lager non si ha. A quel punto approfondiamo le ragioni e inizia la discussione.
Mi capita anche di riflettere con le classi sull’impatto che ha su di noi l’esposizione a immagini forti? In questi anni ho suggerito a chi segue sui social giornalisti, fotoreporter, inviati in paesi di guerra, di creare un doppio profilo: uno personale e uno su cui andare quando ci si vuole informare, in modo da evitare di passare in pochi istanti dalle immagini di una serata con gli amici alle foto di un massacro in Ucraina o a Gaza.
Stamattina mi sono imbattuto in un interessante articolo della psicologa Rosella De Leonibus su Rocca.

“Durante la persecuzione degli ebrei da parte del nazismo, le immagini più crude dell’orrore sono arrivate agli occhi del mondo solo al momento della liberazione dei campi di concentramento. Oggi, nel contesto delle guerre attuali, come nel genocidio di Gaza, la narrazione visiva è profondamente cambiata: sono le stesse vittime a diffondere video e notizie in tempo reale, portando la realtà della sofferenza direttamente nelle case di miliardi di persone.
Eppure, malgrado la mole infinita di immagini e testimonianze, persiste uno zoccolo duro di indifferenza. Apparentemente sembra inspiegabile questa reazione, però trova spiegazioni profonde nel campo della psicologia. La mente, esposta in modo continuo e intensivo a immagini traumatiche, finisce per mettersi in una sorta di “modalità protettiva”, riducendo la sensibilità emotiva attraverso un processo noto come compassion fatigue. È un meccanismo di autodifesa, che protegge il nostro equilibrio psicologico, ma anestetizza l’empatia e spegne l’urgenza morale insieme alla spinta a reagire.
La compassion fatigue (Joinson, 1992; Figley, 1995), o fatica da compassione, è una condizione psicologica tipica di chi, come operatori sanitari, psicoterapeuti, assistenti sociali o altri professionisti dell’aiuto, si espone in modo continuativo e prolungato alla sofferenza altrui. Questo stato si manifesta come un esaurimento fisico, emotivo e mentale causato dalla tensione empatica legata all’assistenza a persone in grave difficoltà o in condizioni traumatiche, si riduce la capacità di provare compassione e arrivano sintomi emotivi come ansia, depressione, rabbia, senso di colpa e apatia. Ma tutto ciò non accade solo a chi direttamente opera in ambiti di tragedia: anche chi assiste ripetutamente o è esposto a immagini e racconti traumatici ne è colpito. A livello cognitivo ci sarà confusione, perdita di concentrazione e senso di vuoto, mentre a livello fisico ci sarà affaticamento, dolori, tachicardia o problemi gastrointestinali. A livello sociale vedremo tendenza a ritirarsi, intolleranza o indifferenza.
Così, mentre il mondo assiste in tempo reale a scene di devastazione, diventa muto davanti a una sofferenza troppo grande per essere elaborata e si distacca emotivamente davanti a ciò che dovrebbe invece scuotere le coscienze. I bambini di Gaza, uccisi brutalmente in quantità indescrivibili, amputati, affamati, assetati, orfani di tutto, sono il confine ultimo della nostra umanità. La sfida è urgente: come realizzare modalità nuove e consapevoli per riconnetterci con l’umanità reale che soffre dietro ogni immagine, per superare l’indifferenza e trasformare le testimonianze di dolore in impegno e solidarietà reali?

IL SILENZIO DELLE NOSTRE MENTI DAVANTI ALLA VIOLENZA
Ogni giorno i nostri occhi si posano su immagini che raccontano l’orrore: guerre, aggressioni, crudeltà senza fine. All’inizio lo sguardo sostiene un peso insopportabile, un nodo alla gola che ci spinge a reagire, a indignarci. Ma col tempo quella stessa esposizione ripetuta diventa un rumore di fondo, un’eco lontana che la mente impara a ignorare. È così che nasce la desensibilizzazione: un lento spegnersi delle emozioni, un’assuefazione che riduce il dolore, ma anche la nostra umanità. Il cervello sottrae emozione per sopravvivere.
In condizioni di stress entra in gioco l’amigdala, la parte più antica e istintiva del nostro cervello, che regola la paura e la risposta allo stress. Quando siamo di fronte a immagini violente, l’amigdala si attiva, generando una scarica emotiva intensa. Ma se questa attivazione diventa continua, il cervello sviluppa una sorta di difesa: la risposta emotiva si attenua, come per proteggersi da un sovraccarico di dolore inutile e paralizzante (Wikipedia, 2024). L’iperstimolazione può compromettere le aree prefrontali, responsabili del controllo razionale e della regolazione dell’empatia, mentre si perde la capacità di sentire il dolore dell’altro e la compassione svanisce (Chinello, 2025).
Le conseguenze umane e sociali di una mente assuefatta sono devastanti. Se da un lato questo meccanismo ci protegge, dall’altro ci allontana dal sentire autentico e dalla solidarietà. La violenza, nell’esperienza diretta o mediatica, perde la sua carica di urgenza emotiva, e il nostro sguardo diventa più freddo e distaccato. L’abitudine al dolore altrui può trasformarsi in indifferenza, abbassando quella soglia che ci fa agire per la giustizia e la cura.

ZIMBARDO: LA VIOLENZA DELLA SITUAZIONE
Uno degli studi più emblematici per comprendere come la mente possa adattarsi a scenari di violenza e sopraffazione è l’esperimento della prigione di Stanford, condotto da Philip Zimbardo nel 1971. Qui emerge con chiarezza quanto il contesto sociale e i ruoli imposti possano guidare comportamenti crudeli, persino in individui ordinari e psicologicamente sani.
I partecipanti, divisi in “guardie” e “prigionieri”, subirono una rapida trasformazione: le guardie, investite di potere, iniziarono a esercitare forme di violenza psicologica e fisica, mentre i prigionieri caddero in uno stato di passività e sottomissione. Entra in campo un processo di deindividuazione: l’identità personale si dissolve all’interno del gruppo, il senso di responsabilità individuale diminuisce e si abbassano le difese morali (Zimbardo, 2007). In questo contesto, la deumanizzazione delle vittime e la loro colpevolizzazione giustificano l’abuso, attenuando il senso di colpa di chi esercita il potere. Dall’altra parte, il senso di impotenza vissuto dalle vittime genera difese psicologiche come la dissociazione e l’assuefazione, la desensibilizzazione necessaria a sopportare il dolore (Campanale, 2023).

Immagine creata con ChatGPT®

LA MENTE SI PROTEGGE DAL DOLORE
Il senso di impotenza nasce quando ci troviamo di fronte a situazioni che ci appaiono incontrollabili, dove ogni tentativo di cambiare o influenzare gli eventi sembra inutile e vano. Se abbiamo accumulato esperienze di insuccesso o di sopraffazione, avremo interiorizzato un’idea profonda di incapacità personale, l’“impotenza appresa” (Seligman, 1975). Arriva un pesante senso di rassegnazione, una sorta di rinuncia passiva che protegge la mente dall’angoscia di sentirsi totalmente esposti e vulnerabili. Sul piano comportamentale, ci sarà evitamento, inibizione dell’azione e abbassamento della motivazione.
Per sopravvivere al dolore, la psiche mette in atto una serie di meccanismi di difesa che, in modo automatico e inconscio, contengono l’angoscia e preservano l’equilibrio interno: la negazione, cioè il rifiuto di riconoscere la realtà dolorosa, consente di distanziarsi temporaneamente da ciò che sembra insopportabile; la rimozione, con l’occultamento di ricordi o emozioni traumatiche nella parte inconscia della mente; la proiezione, per cui si attribuiscono ad altri sentimenti o impulsi propri difficili da accettare (Agostini, 2019).
In origine sono forme di adattamento sane, ci aiutano a sopravvivere in condizioni estreme, ma diventano disfunzionali quando si radicano profondamente, perché impediscono che il trauma venga elaborato e quindi bloccano la riconnessione emotiva con sé e con gli altri.
Il dolore nascosto deve trovare espressione per poter farci riscoprire la nostra umanità ferita, e trasformarsi in strumento di resilienza e crescita. È essenziale una consapevolezza collettiva rispetto a questi meccanismi, per non ridurre la violenza a un fatto ordinario e lontano.

PER NON VOLTARCI DALL’ALTRA PARTE
È urgente promuovere a livello sociale e di comunità una maggiore sensibilità verso le tragedie del mondo e superare la desensibilizzazione, è necessario mettere in campo strategie integrate che coinvolgano educazione, cultura, media. Educazione fin dalla prima infanzia: introdurre programmi scolastici che insegnino empatia, rispetto, consapevolezza del dolore altrui e cultura della non violenza, in modo da preparare le nuove generazioni a gestire con responsabilità il confronto con la violenza e l’ingiustizia. Coinvolgimento responsabile dei media e sensibilizzazione pubblica: i media devono adottare un approccio etico nella rappresentazione delle violenze, evitando spettacolarizzazioni e sensazionalismi, e integrare i contenuti con dati scientifici e analisi sociologiche, perché la narrazione sia anche strumento di conoscenza e prevenzione. I media stessi possono modellare comportamenti positivi con campagne di storytelling, mostrare esempi di solidarietà, interventi efficaci e trasformazioni positive per stimolare empatia e azioni concrete, fare focus sulle persone e non solo sui fatti, raccontare storie umane, coinvolgenti e autentiche di vittime, sopravvissuti e attivisti, mettendo in luce le emozioni, i vissuti e i cambiamenti personali, anziché limitarsi a dettagli cruenti o fredde statistiche.
Insieme al racconto della tragedia, è necessaria una chiamata all’azione chiara e concreta: ogni storia o testo o video dovrebbe invitare a iniziative che coinvolgano il pubblico nel creare contenuti positivi e condividere messaggi di solidarietà, supportare la costruzione di una comunità attiva e consapevole, e invitare a compiere un gesto concreto – firmare una petizione, partecipare a un evento, sostenere un’associazione – trasformando l’empatia in impegno attivo. Non più volti spenti e braccia conserte, ma cuori sensibili e menti lucide, esseri umani pronti a impegnarsi per fermare l’orrore.”

Riferimenti bibliografici
Agostini M. (2019), Meccanismi di difesa: cosa sono e come li utilizziamo, https://www.guidapsicologi.it/articoli/meccanismi-di-difesa-cosa-sono-e-come-li-utilizziamo (consultato il 15 settembre 2025)
Campanale G. (2023), L’Effetto Lucifero e la labilità della dicotomia Bene-Male, https://www.stateofmind.it/2023/01/effetto-lucifero-esperimento/ (consultato il 15 settembre 2025)
Chinello V. (2025), I rischi psicologici della continua esposizione delle scene di violenza sui social, https://vivianachinellopsicologa.com/2025/09/06/i-rischi-psicologici-della-continua-esposizione-delle-scene-di-violenza-sui-social/ (consultato il 15 settembre 2025)
Figley C.R. (Ed.) (1995), Compassion fatigue: Coping with secondary traumatic stress disorder in those who treat the traumatized, Brunner/Mazel.
Joinson C. (1992), Coping with compassion fatigue, Nursing, 22, 4, pp. 116-120.
Seligman M.E.P. (1975), Helplessness: On Depression, Development, and Death, W. H. Freeman, San Francisco.
Wikipedia (2024), Desensibilizzazione (psicologia), https://it.wikipedia.org/wiki/Desensibilizzazione_(psicologia) (consultato il 15 settembre 2025)
Zimbardo P. (2007), L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Gemma n° 2639

“Come gemma quest’anno ho deciso di portare qualcosa di diverso; tramonto e alba hanno sempre rappresentato qualcosa di importante e piacevole per me, ragione per la quale cerco sempre di immortalarle. Il cielo in tutte le sue forme e sfumature assume significati diversi ed è in grado di influire, spesso in modo positivo, sul mio stato d’animo. Con questi scatti, infatti, cerco sempre di racchiudere lo stato di calma, gioia o semplice stupore che ognuno di questi istanti mi ha portato per poterlo ricordare per sempre ripercorrendo questi momenti: ognuna delle numerose fotografie è unica e con un suo particolare significato. Nonostante queste siano solo semplici fotografie quindi rappresentano nella loro unicità un qualcosa di diverso e personale” (P. classe quinta).

Gemma n° 2584

“La gemma di quest’anno è la Polaroid che mi ha regalato il mio ragazzo al mio compleanno, quest’estate. È stata una sorpresa bellissima che non mi aspettavo, anche se ho sempre desiderato avere una macchina fotografica istantanea. Infatti ci sono molto affezionata perché penso sia stupendo poter immortalare dei ricordi che dureranno nel tempo e che riguarderò con felicità e un po’ di nostalgia” (A. classe quinta).

Gemma n° 2446

“Come gemma quest’anno ho deciso di portare questa foto di me ed una mia amica d’infanzia. In generale mi piace tantissimo riguardare le vecchie foto e i video per rivivere tutti i ricordi passati. Penso che questa foto sia una delle migliori che abbiamo insieme ed è per questo che ci sono molto affezionata. Ogni volta che penso alla mia infanzia mi viene in mente lei, dato che passavamo quasi tutti i giorni insieme a giocare e la consideravo quasi come una sorella. Nonostante oggi non ci vediamo più come una volta perché andiamo in scuole diverse, il nostro rapporto non è mai cambiato. Ogni volta che ci vediamo è come se tornassimo indietro nel tempo. Sono molto felice del fatto che siamo ancora amiche dopo così tanti anni e spero che lo saremo anche in futuro” (S. classe quarta).

Gemma n° 2405

“Anche quest’anno, come tutti gli altri, ero indecisa su che gemma portare, quindi ho scelto le due più significative.
La prima è un video che ho realizzato circa un mese fa e che riassume alcuni dei momenti più belli del mio 2023. Ho cercato di inserire tutte le persone che hanno migliorato le mie giornate anche se purtroppo ho perso molte foto e molte ne sono rimaste escluse.
Come seconda gemma ho deciso di portare questa foto che non vuole rappresentare le medaglie in sé ma lo sport che c’è dietro di esse. Pratico ginnastica ritmica da quando avevo sette anni, quindi da ormai 10 anni. È sempre stato il mio posto sicuro, la mia seconda casa, un luogo in cui ho sempre avuto l’opportunità di esprimermi e di sentirmi libera. Tanto sudore e tanta fatica, ma alla fine anche tante soddisfazioni. Questo è quello che questo sport mi ha trasmesso, dei valori importantissimi che fanno bagaglio per la vita di tutti i giorni. Con tanto impegno e determinazione si può arrivare ad un traguardo, ma solo con le persone giuste al proprio fianco la fatica non peserà. A pensare che questo è l’ultimo che pratico ginnastica mi piange il cuore. Purtroppo gestire studio, sport e ulteriori corsi è diventato veramente impossibile e quindi mi trovo costretta a rinunciare a qualcosa. Le cose che mi mancheranno di più saranno sicuramente le chiacchierate durante l’allenamento, l’ansia nel momento prima di entrare in pedana, la settimana dei campionati nazionali, ma soprattutto la gioia e la fierezza che si prova dopo aver concluso un esercizio. Ricorderò questi anni come i più belli della mia vita, non dimenticherò mai i bellissimi momenti che ho vissuto e sarò sempre grata per le emozioni che questo sport mi ha regalato”.
(S. classe quarta).

Gemma n° 2152

“Se ci sono due cose che mi fanno stare bene sono scorrere tra le foto dei miei album e scattarne altrettante con la fotocamera analogica per poi attaccarle nel mio adorato album fotografico. Ritornare indietro nel tempo mi aiuta a riassaporare vecchi istanti e riscoprire eventi andati dimenticati.
Ciò fa riaffiorare anche il ricordo di momenti dolorosi e mi aiuta dunque a realizzare i progressi che sono riuscita a fare. È infatti solo grazie alle persone che mi stanno accanto e mi rallegrano la giornata che sto imparando ad essere più serena, a ridere nei momenti di difficoltà e a non avere paura del futuro, ma attenderlo con trepidazione” (E. classe quarta)

Gemma n° 2096

“Ho portato questa foto del 2 ottobre 2020. Alla domanda tipica che cos’è l’amore rispondo che esistono vari tipi di amore: l’amore che proviamo per i nostri cari, l’amore per il nostro animale domestico, l’amore per qualcosa che ci piace fare, l’amore per noi stessi, l’amore per gli amici. Io credo che il detto che quando si trova un vero amico si trova un tesoro sia assolutamente vero, perché trovare amici che ti sostengano veramente, che siano veri amici, è difficile. Penso che questo amore sia unico, travolgente in modo positivo. In questa foto ci sono queste persone: siamo rimaste unite, anche nei momenti di difficoltà, abbiamo fatto molte esperienze nuove insieme e tuttora le facciamo. Penso proprio che questo gruppo lo porterò sempre con me” (A. classe quarta).

Gemma n° 2063

“La gemma che scelgo di portare è un luogo a me molto caro, cioè Lignano.
Può essere un posto scontato, perché è frequentato da molte persone, ma per me è come una seconda casa. 
Ogni volta che vado lì mi sento libera, spensierata e protetta. Vado a  Lignano fin da quando sono piccola e non ha mai smesso di piacermi. Una delle cose per cui adoro questo luogo è quella di poter incontrare tutti i miei amici e passare con loro l’estate. Spesso la sera mangiamo in spiaggia guardando il tramonto e poi ci fermiamo lì per osservare le stelle. Io faccio sempre molte foto, perché mi piace immortalare i momenti e poi una volta stampate appenderle in camera. 
Ogni volta che le guardo mi sento molto fortunata,  perché mi rendo conto delle persone meravigliose che ho accanto.
Il fatto di avere un bel gruppo di amici durante l’estate è molto importante per me, perché grazie alle persone che ti circondano puoi sentirti apprezzato. 
L’amicizia dal mio punto di vista è molto importante, perché è come un braccio destro o una spalla su cui piangere. Non dimenticherò mai le belle persone conosciute qui, che hanno reso le mie estati fantastiche” (G. classe prima).

Gemma n° 2043

“La gemma che ho scelto oggi è una foto scattata al cimitero dei poeti maledetti di Père Lachaise, a Parigi. La tomba in questione è quella di Jim Morrison, artista che costituisce forse la mia più grande fonte d’ispirazione, sia a livello spirituale che sensistico. Significativa è per me anche la storia celata dietro questa foto, nata da un viaggio di quattro giorni a Parigi con la mia migliore amica. Siamo partite presto per visitare il cimitero, dopo svariate trattative per convincerla ad accompagnarmi. Volevo mi scattasse delle foto, non sapendo tuttavia che dal 2004 sono state posizionate delle transenne per impedire l’avvicinamento alla tomba. Abbiamo deciso di prendere la metro, ma puntualmente ci siamo imbattute in un gruppo di controllori all’entrata della stazione che ci hanno chiesto non con particolare gentilezza di controllare i nostri biglietti. Nonostante fosse perfettamente in regola e vidimato per di più, il biglietto della mia amica ha riscontrato dei problemi con la macchinetta dell’ispettore, il quale non ha esitato un istante a regalarle una multa di 35 euro, la seconda nell’arco di due giorni, per essere precisi. Nonostante i malumori e le tensioni riscontrate durante il pomeriggio, ricordiamo entrambe con il sorriso quest’esperienza, certe di non poterla dimenticare negli anni a venire e sperando di viverne di migliori” (E. classe quinta).

Gemma n° 1980

“Tre settimane fa sono stata a Barcellona: il primo viaggio dopo due anni di pandemia. Prima di questo periodo ero abituata a viaggiare veramente tanto con mia mamma. Ho fatto anche dei viaggi da sola, a studiare inglese in Inghilterra, però la mamma mi ha sempre cresciuta con questa passione; due anni senza salire su un aereo sono stati devastanti. Per Barcellona siamo partite alle 7.00 e abbiamo visto l’alba sul mare; ora, già di mio, quando prendo un aereo piango, beh, lì, l’emozione dell’alba sul mare dall’aereo ha fatto sì che facessi un’ora di viaggio piangendo di felicità. Ho portato quest’esperienza perché mi ha segnato tanto dopo tutto questo tempo. La seconda foto è di Barcellona: sono stata veramente bene dopo tanto tempo. Viaggiare è sempre stato uno staccarsi dalla vita di tutti i giorni. Insomma, ero al settimo cielo”.

Ne ho viste di albe, in attesa di Mariasole le ho fotografate ogni giorno per mesi. Concordo con E. (classe quinta): quelle sul mare hanno un sapore speciale, è come se fossero doppie grazie al riflesso del sole sull’acqua. Uno degli aspetti affascinanti di quel momento è che quella luce, quel calore, quei colori arrivano dalla notte, dal buio. E ciò ce li fa gustare in modo particolare. Un’alba a mezzogiorno non avrebbe lo stesso sapore.

Gemma n° 1955

“La mia gemma è una fotocamera parecchio vecchia, penso anni ‘2000, che i miei hanno comprato non ricordo neanche dove e che ha fatto tanti loro viaggetti. E’ una Nikon che funziona con i rullini che vanno sviluppati. Mi ha sempre attirato. Da piccola mi divertivo a metterci sempre le mani sopra e far finta di usarla. Le foto che sono state stampate negli anni mi hanno sempre dato un senso di malinconia. Pensare ora di comprare dei rullini e magari tra dieci anni andare a rivedere le foto scattate adesso, mi affascina: non sono le classiche foto fatte col telefono o che si cancellano dalla galleria o si mandano su whatsapp. Avere la foto cartacea infilata tra le pagine di un libro è tutta un’altra cosa”.

Ho vissuto in prima persona il passaggio dalla pellicola al digitale e sinceramente non tornerei indietro. Altro paio di maniche è però la stampa delle foto, il fatto di averle in mano, singolarmente o raccolte in un fotolibro cartaceo. Su questo concordo con E. (classe quarta), è tutta un’altra cosa, è un modo diverso di vivere i ricordi.

Gemma n° 1902

“Ho portato una macchina fotografica istantanea: l’ho acquistata subito dopo gli esami, all’inizio della scorsa estate. Pensavo di non riuscire a riempirla, sono 27 scatti, perché mi aspettavo un’estate un po’ così, invece li ho fatti tutti perché ci sono stati molti momenti belli con gli amici. Mi è piaciuto anche portare a sviluppare le foto per poi rivivere questi momenti.”

Questa la gemma di A. (classe prima). La fotografia è essenzialmente questione di luce e di tempo. Penso che ciò non riguardi soltanto il momento dello scatto, ma anche il momento in cui ti metti a rivedere il risultato ottenuto, soprattutto se lo stampi: sotto quale luce lo guardi e a che tempo ti riporta, se ti lascia una traccia luminosa o buia e in quale tempo ti proietta.

Saperi e sapori

mostra

SABATO 25 GIUGNO INAUGURAZIONE

DOMENICA 26 GIUGNO Festa tutto il giorno per le vie del Borgo: mostra aperta fino a tarda sera!

E poi dal 1° al 10 LUGLIO: venerdì 18.00-21.00; sabato e domenica 10.00-13.00 e 15.00-19.00 (sì sì, 19.00)

Un percorso in cui ho raccolto tre grandi passioni: la fotografia, il cibo, i libri.
Diciotto fotografie, diciotto libri.

Vi attendo a Clauiano!!!

Gemme n° 491

Ecco la gemma di A. (classe terza): “Questa canzone l’ho ascoltata da piccola; la prima volta mi ha destato tante emozioni. Personalmente ho sempre dato molto valore a oggetti e vecchie foto. Amo molto gli album con foto stampate, oppure girare vecchie foto e leggere il commento che c’è dietro. Per questo motivo mi piace immortalare i momenti di adesso: immagino quando, tra qualche anno, rivedrò le foto, mi commuoverò e mi emozionerò pensando ai momenti felici o alle persone speciali con cui li ho passati. Questa canzone sa prendermi e raccontare le emozioni che provo”.
C’è una frase di S. Littleword: “La fotografia è un istante catturato dai Poeti del Tempo. E’ scrivere gli attimi per regalarli al futuro”.

Gemme n° 373

k

Non so dire le bugie, e allora la verità è che mi ero scordata della gemma. L’idea iniziale era di portare la polaroid che mi è stata regalata dalla classe; non avendola porto allora la prima foto fatta con una mia amica. Mi viene da ridere a vederla per l’idea stupida di fare una foto al buio.” Questa la gemma di K. (classe quinta).
Per me la fotografia deve suggerire, non insistere o spiegare” diceva Brassaï.

L’attimo eterno

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Ma quando ho scritto questa cosa? Ma l’ho scritta io?”. Mi è capitato spesso di chiedermelo e uno dei meriti del blog è la possibilità di dare una risposta certa a quelle domande. Molto più raramente mi è successo con la fotografia. E’ vero, sono due processi differenti. Il primo, quello della scrittura, è fatto essenzialmente di una sola fase, al massimo due: riflessione e scrittura, anche se mi capita di riflettere scrivendo e di modificare il mio pensiero mano a mano che procedo con la battitura delle parole sulla tastiera (ammetto che avevo scritto “con la stesura delle parole sul foglio”…).Il secondo, quello della fotografia, è più articolato: a volte colgo l’attimo, altre penso ed elaboro lo scatto, quindi faccio clic, osservo il risultato, eventualmente intervengo. E mi capita di guardare il frutto del secondo processo molto più frequentemente di quanto non rilegga l’esito del primo. E stasera, leggendo delle parole del libro “L’eleganza del riccio”, penso di aver compreso perché: “La contemplazione dell’eternità nel movimento stesso della vita”. Questo mi succede quando guardo o scatto una foto, quando la rielaboro, quando la osservo, che sia mia o di un altro. E’ come una sospensione nel tempo di qualcosa che a quel tempo appartiene, o meglio, è appartenuto; eppure continua a far vivere in me, nel tempo attuale, delle emozioni, dei pensieri, delle reazioni. L’impressione che ho ogni volta è effettivamente quella di collocare un frammento finito della vita che sta passando in un arco eterno. Non so: esiste il concetto di attimo eterno?