I giovani in piazza per difendere l’ambiente

Foto tratta da https://www.mapsimages.com/works/belgium-youth-for-climate/

Nelle classi quinte stiamo parlando di ecologia e di ambiente, di impronta ecologia e di consumi sostenibili. Pubblico un articolo su quanto sta succedendo, soprattutto tra i giovani, in diversi paesi del mondo. La fonte è l’attento collettivo di Valigia Blu.

Ieri (27 gennaio, ndr) a Bruxelles si è svolta un’altra manifestazione di protesta “Rise for Climate” a cui hanno partecipato almeno 70.000 persone che, sfidando freddo e pioggia, hanno chiesto al governo di aumentare gli sforzi per combattere il cambiamento climatico, con un uso maggiore delle energie rinnovabili e intraprendendo più azioni per migliorare la qualità dell’aria.

È la quinta volta in due mesi che, nella capitale belga, viene organizzata un’iniziativa contro il cambiamento climatico. Il mese scorso una marcia analoga aveva visto la partecipazione di più di 65.000 persone, mentre giovedì scorso circa 35.000 studenti hanno saltato le lezioni per protestare per l’ambiente. Nonostante l’impatto sulla politica belga sia limitato, perché il paese è attualmente guidato da un governo di transizione, le manifestazioni mantengono alta l’attenzione sulla questione che sta particolarmente a cuore ai più giovani e non soltanto in Belgio.

La generazione che scende in piazza per difendere l’ambiente

Sono giovani, giovanissimi, sempre più numerosi e determinati. Sono i ragazzi che scendono in piazza per manifestare contro le conseguenze del cambiamento climatico e l’assenza di politiche ambientali adeguate. Per molti di loro la protesta è diventata un appuntamento settimanale fisso. Ogni giovedì o venerdì studenti di vari paesi saltano la scuola per protestare a difesa del clima. Il messaggio che questa generazione di adolescenti vuole mandare agli adulti è sempre più chiaro: non state facendo abbastanza per salvare l’ambiente, state giocando con il nostro futuro.
Col passare delle settimane aumentano cortei, raduni, sit-in organizzati in un numero di città sempre maggiore e che vedono un incremento costante nella partecipazione. Belgio, Germania e Svizzera sono i paesi in cui l’adesione è più alta ma piccole o grandi mobilitazioni si sono tenute e ancora si tengono in Austria, Australia, Canada, Finlandia, Irlanda, Nuova Zelanda, Scozia, Svezia e anche in Italia con piccoli gruppi di manifestanti. Immagini e video degli eventi sono condivisi sui profili Twitter e Instagram di Greta Thunberg, la studentessa sedicenne svedese che ha ispirato il movimento internazionale dando vita per prima alla protesta settimanale per l’ambiente, tutti i venerdì, all’esterno del parlamento a Stoccolma e che lo scorso venerdì ha protestato a Davos dove ha partecipato al World Economic Forum.

I 35.000 in marcia a Bruxelles

Giovedì scorso 24 gennaio, per la terza settimana consecutiva, migliaia di studenti belgi hanno scioperato saltando le lezioni per manifestare a Bruxelles in quella che si è rivelata – per partecipazione di giovani – una protesta senza precedenti contro il riscaldamento globale e l’inquinamento.
La promessa che hanno fatto i ragazzi è proseguire l’iniziativa ogni settimana fino a quando il governo non metterà in campo azioni concrete. Come le precedenti manifestazioni anche questa è stata organizzata dal gruppo “Youth for Climate” fondato da due studenti della scuola secondaria di Anversa. «Per noi non esiste niente di più importante», ha detto uno dei manifestanti all’emittente radiofonica Bruzz. «È l’unico argomento di cui parliamo».

A suon di tamburi e agitando cartelli che recitavano “Stai dalla parte della soluzione, non dell’inquinamento” e “Anche i dinosauri credevano di avere più tempo a disposizione” i ragazzi si sono infine radunati all’esterno della sede del Parlamento europeo. «Se saltiamo la scuola ogni giovedì gli adulti, nel nostro paese e in tutto il mondo, capiranno che siamo di fronte a un problema», ha dichiarato a RTÉ Joppe Mathys, studente delle scuole superiori. Mentre alcuni alunni hanno il permesso dei rispettivi istituti di partecipare alle marce, altri rischiano di subire provvedimenti qualora continuino ad assentarsi in maniera fissa. Alcune scuole, sebbene consentano l’assenza qualche giovedì, non sono d’accordo con la proposta di saltare le lezioni tutti i giovedì fino alle elezioni parlamentari di maggio. La prima marcia “Youth for Climate”, organizzata il 10 gennaio scorso, aveva visto la partecipazione di 3.000 studenti. La seconda, il 17 gennaio, aveva riunito 12.000 persone. Secondo i dati forniti dalla polizia le persone che hanno partecipato a quest’ultima manifestazione erano circa 35.000. Una marcia organizzata dagli studenti degli istituti superiori aderenti al gruppo Students for Climate è prevista il 14 febbraio.

Il movimento verde dei giovani in Germania

Secondo il ricercatore Klaus Hurrelmann della Hertie School of Governance di Berlino attualmente gli adolescenti tedeschi sono interessati alla politica più di quanto non lo siano mai stati. Il tema della protezione dell’ambiente li coinvolge particolarmente. Gli interessi delle nuove generazioni si estendono a tutte le aree che riguardano l’ambiente, spiega Hurrelmann a Deutsche Welle. Sia che si tratti di inquinamento negli oceani a causa della plastica o della morte degli insetti per l’aumento dell’agricoltura industriale o del riscaldamento globale, “queste persone percepiscono intuitivamente che si tratta di elementi fondamentali che non vogliono vedere in pericolo”. Per Hurrelmann è in atto un cambiamento di atteggiamento per cui i minori di 20 anni sono più interessati alla politica di quelli che ne hanno più di 20. La ONG Friends of the Earth Germany (BUND) ha registrato ultimamente la più alta crescita associativa tra le persone di età inferiore a 27 anni. Circa 12.000 giovani sono membri attivi del World Wildlife Fund (WWF) a livello nazionale e molti altri sono attivi in rete. Per questo motivo ogni venerdì gli studenti tedeschi saltano le lezioni scolastiche e aderiscono alle manifestazioni per l’ambiente di “Fridays For Future”, il movimento di Greta Thunberg.
Venerdì scorso ci sono state marce e sit-in a Berlino, Biberach an der Riß, Brema, Colonia, Dortmund, Erlangen, Gießen, Halle, Husum, Karlsruhe, Kassel, Kiel, Lipsia, Luneburgo, Monaco, Munster, Osnabrück, Schwäbisch Hall, Sindelfingen, Stoccarda, Tubinga, Wesel, Wuppertal, Würzburg. La maggior parte dei giovani che partecipano a queste proteste cerca quotidianamente di migliorare l’ambiente trovando il sostegno delle loro famiglie. Alcuni genitori provano a consumare meno carne o lasciano l’auto a casa quando possono andare in bicicletta o utilizzare il trasporto pubblico. «La nostra generazione ha fallito e ora i nostri figli devono pagare il prezzo», ha detto a Deutsche Welle Andrew Murphy che ha recentemente partecipato a una manifestazione sul clima a Bonn con tre dei suoi quattro figli.

Da quando è diventata socia del WWF a 12 anni Jana, che oggi ne ha 16, si è interessata ai problemi ambientali. «Se penso al futuro non posso dire di essere spensierata», ha raccontato a Deutsche Welle. «La siccità estrema, le ondate di caldo in tutto il mondo, sono soltanto il preludio di ciò che sta per accadere e che mi spaventa». Ragazzi come Jana sono determinati a esercitare pressione sul governo affinché si metta fine in maniera definitiva all’uso del carbone. «Avremmo dovuto agire molto prima. Con il passare del tempo diventa molto più difficile, non ne rimane molto».
Intanto sabato scorso la Commissione tedesca per il carbone ha finalmente reso noto un rapporto di 336 pagine che raccomanda al paese di cessare la dipendenza da carbone e lignite entro il 2038. La Germania, infatti, è l’unico paese dell’Europa nord-occidentale a utilizzare ancora il più inquinante tra i combustibili fossili che fornisce quasi il 40% dell’energia, contro il 5% del Regno Unito che prevede di eliminarlo completamente entro il 2025. Per diventare effettiva la proposta dovrà essere approvata dal governo. Dopo lunghi colloqui e confronti la Commissione tedesca composta da 28 membri del mondo dell’industria, della politica e delle ONG – che ha lavorato dalla scorsa estate per elaborare un calendario per il progressivo abbandono del carbone – ha fissato come scadenza il 2038. Il termine potrà essere eventualmente anticipato al 2035 a seguito di una revisione che si terrà nel 2032.
“La Germania ha finalmente deciso di accelerare e di unirsi alla maggior parte degli Stati europei, stabilendo una data di uscita dal carbone, assicurando supporto ai lavoratori, e merita un plauso per questo. Ma aver previsto di raggiungere questo obiettivo nel 2038 non è sufficiente per consentire alla stessa Germania o ad altri Stati di mettersi al riparo dai pericolosi impatti del cambiamento climatico, né di rispettare gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Ogni settimana aumentano le prove del fatto che il cambiamento climatico sta accelerando, portando con sé incendi boschivi, tempeste violente e altri fenomeni meteorologici estremi. Questo dovrebbe spingere i paesi – e la Germania dovrebbe essere da esempio aumentando le loro ambizioni – a fare di più e a farlo in fretta” è stato il commento di Jennifer Morgan, direttrice esecutiva di Greenpeace International che vorrebbe che l’uscita dal carbone avvenisse entro il 2030.

La buona notizia, secondo gli ambientalisti tedeschi, è che il rapporto della Commissione sancirebbe la salvaguardia definitiva di ciò che resta della secolare foresta di Hambach che rischiava di essere distrutta dal colosso tedesco dell’energia RWE per l’ampliamento di una miniera di carbone e per la quale, lo scorso settembre, ci sono stati scontri tra manifestanti e la polizia nel tentativo di tutelarla.

Gli studenti di 15 città svizzere dicono no al cambiamento climatico

Lo scorso 18 gennaio è stata l’ultima volta che i giovani svizzeri hanno manifestato contro il cambiamento climatico. Più di 10.000 studenti hanno organizzato marce e sit-in in almeno 15 città tra cui Aarau, Baden, Basilea, Losanna, Lucerna, Soletta, Zugo e Zurigo. Solo a Losanna sono scesi in piazza oltre 8.000 studenti.
Il prossimo appuntamento per marciare tutti insieme nelle rispettive città è previsto il 2 febbraio.

Il Regno Unito si prepara per il primo sciopero degli studenti del 15 febbraio

Gli studenti del Regno Unito si stanno preparando per lo sciopero di venerdì 15 febbraio. Ad oggi sono previsti eventi a Brighton, Bristol, Cambridge, Cardiff, Exeter, Fort William, Glasgow, Leeds, Londra, Manchester, Oxford, Preston, Southampton ma l’elenco delle città dove si terranno iniziative è in costante aggiornamento.
Sulla pagina Facebook di Youth Strike 4 Climate, il movimento che sta organizzando la manifestazione, si legge: “Stanno accadendo cose incredibili! Continuiamo il 2019 così come lo abbiamo iniziato: pieno di determinazione nel fare tutto il possibile per far sentire le nostre voci e salvare il pianeta dall’estinzione di massa prima che sia troppo tardi”.

Possibili conseguenze

Sultanahmet square

Dimitri Bettoni ha scritto questo articolo il giorno dopo l’attentato di Istanbul. Ha evidenziato quattro conseguenze. Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso.
Camminare per le strade di Istanbul, lungo il lastricato di Sultanahmet, il giorno dopo. Vedere la città che cerca di ricominciare, pur ancora stordita, confusa, impaurita. Istanbul è mescolanza di odori, voci e colori, qui caos significa casa. Il vuoto ed il silenzio, invece, inquietano.
Mancano le code davanti a Santa Sofia e alla Basilica Cisterna, il frenetico andirivieni dei camerieri nei locali, manca persino l’assalto dei proprietari dei ristoranti, lo ammetto, solitamente quasi molesto, che provano a trascinarti ai loro tavoli. L’invito, se arriva, è apatico, sono molto di più gli occhi puntati verso le strade semivuote, le mani incrociate dietro la schiena, gli sguardi al cielo plumbeo che rotola sul Bosforo che ribolle.
Non fraintendiamoci, questa città è enorme, interi quartieri perseverano nelle proprie abitudini. Sultanahmet, però, è un punto sensibile: per gli strati e strati di Storia sotto la patina da agenzia pubblicitaria, e perché questi viali sono calpestati, ogni anno, da dodici milioni di turisti.
Undici di loro hanno perso la vita nell’attentato suicida, un numero minuscolo rispetto alla massa di persone che calca quotidianamente queste strade, eppure enorme se ci si sofferma a riflettere sulle molte conseguenze di quanto accaduto.
La prima è che undici esseri umani non torneranno a casa. La nazionalità tedesca di dieci di essi, l’undicesimo era peruviano, ha spinto molti a cercare un retroscena. Senza però una dichiarazione d’intenti esplicita, difficile stabilire con certezza l’intenzionalità di colpire cittadini di quella Germania che ha così stretti legami con la Turchia.
Più giusto soffermarsi sulle conseguenze: la Germania, i tedeschi, si sentono colpiti comunque, sia che siano stati scelti deliberatamente come bersaglio, sia che la statistica sia solamente una coincidenza figlia del fato. Tedeschi che, tra l’altro, sono il gruppo più consistente di quei dodici milioni di visitatori a cui accennavo prima.
In seconda posizione, i russi. E qui arriviamo alla seconda conseguenza di questo attentato: il danno economico e, soprattutto, d’immagine. Difficile pensare che questo 2016 sarà un anno roseo, per il settore turistico turco. “Sapevamo che sarebbe successo, era solo questione di quando”, raccontano i ristoratori di Sultanahmet, con il sospiro di chi ha visto concretizzarsi le proprie paure. “Ora è bassa stagione, si lavora comunque poco, ma quando arriverà la primavera, che succederà?”. Il fascino di Istanbul avrà la meglio sulla paura e sulla follia del gesto omicida? Quanto tempo servirà alla ferita per rimarginarsi?
La Turchia non è solo un paese che convive accanto ad un conflitto, quello siriano-iracheno. È un paese che la guerra ce l’ha in casa, con un sudest curdo messo a ferro e fuoco ormai da mesi. Le fotografie che arrivano da alcuni distretti di Diyarbakir o Cizre somigliano fin troppo a quelle di Aleppo o Homs.
La terza domanda che aleggia sul dopo attentato è quindi, quale sarà la risposta di Ankara? Se si presta orecchio alla narrativa del governo e dei media che lo sostengono, a questa violenza si aggiungerà altra violenza, non c’è spazio per distinguo e sottigliezze. Nel calderone con l’etichetta “terrorista” sono stati gettati ogni sigla o gruppo ritenuti responsabili di voler smembrare la Turchia, come già è stato fatto con Siria e Iraq: militanti dell’ISIS, gulenisti, curdi del PKK turco o del PYD siriano, insieme alla longa manus russa evocata invece da alcuni editorialisti favorevoli al governo: tutte minacce all’integrità della nazione turca.
Il 14 gennaio si è avuta la prima reazione ufficiale post-attentato dell’esercito: raid aerei sull’area di Qandil in Iraq, dove il PKK ha numerose basi logistiche e di addestramento. Sia nelle settimane precedenti l’attentato, sia nelle ore successive, sono stati eseguiti diversi arresti di presunti appartenenti allo Stato Islamico, cinque dei quali accusati di essere legati a Nabil Fadli, l’attentatore.
Di Fadli si sa che aveva nazionalità saudita. L’uomo aveva attraversato la Siria per raggiungere la Turchia, dove aveva ottenuto supporto logistico da complici ancora non identificati. Soprattutto, aveva richiesto asilo politico alla Turchia in qualità di rifugiato.
La quarta conseguenza del suo gesto riguarda perciò proprio la situazione di quegli oltre due milioni di rifugiati che la Turchia, impartendo una severa lezione di dignità e umanità all’Europa, ospita oggi sul proprio territorio. Riuscirà la coraggiosa politica di accoglienza a sopravvivere alla bomba di Sultanahmet?”

Citykirche e parrocchie liquide

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Pubblico un interessante articolo (i link li ho inseriti io) di Giacomo Gambassi pubblicato su Avvenire. Argomento? Un nuovo modo di declinare le parrocchie in Germani e in nord Europa.
In Germania la parrocchia ha già cambiato volto. Conserva, sì, il nome del santo o del beato che da sempre la identifica. Ma non è più «per tutti» indistintamente. Chi ha interessi artistici può rivolgersi alla Kulturkirche, la “chiesa della cultura” di Amburgo. L’adolescente ha una bussola nella Jugendkirche di Berlino, la “chiesa dei giovani”. Il migrante in difficoltà o il disoccupato entra nella Diakoniekirche, la “chiesa del servizio” alle porte di Francoforte che offre consulenze e itinerari di sostegno. Si tratta di esperienze parrocchiali, o meglio de-parrocchiali, che sono espressione sia del mondo cattolico, sia di quello evangelico e che nascono nei quartieri delle grandi città dove dominano gli uffici oppure i condomini in cui chi li abita arriva a sera e riparte al mattino.
Le chiamano Citykirche e sono chiese che hanno come riferimento una zona dinamica (la City, appunto) in cui si mescolano impiegati, passanti o residenti dormi-e-fuggi. E vogliono essere la risposta nordeuropea alla crisi della parrocchia concepita secondo il modello tridentino (almeno guardando alla Chiesa cattolica).
Parrocchie «liquide», le definisce Arnaud Join-Lambert, docente francese di teologia pastorale e liturgia all’Università Cattolica di Lovanio in Belgio, che le indica come nuove forme di comunità capaci di adattarsi alla “liquidità” della società europea, ricorrendo alla celebre categoria del sociologo Zygmunt Bauman. Se i rapporti sociali sono liquidi, anche le parrocchie possono diventare liquide, prospetta il teologo in un saggio pubblicato dalla Rivista del clero italiano, il mensile di aggiornamento pastorale dell’Università Cattolica. «La loro caratteristica – spiega il docente – è di andare verso le periferie esistenziali». Perché le attuali parrocchie cominciano a «somigliare a club» che soddisfano «i bisogni spirituali di alcuni» ma «ignorano o trascurano la sete spirituale della maggioranza». Il campanile resta, ma si trasforma. Come mostrano i prototipi parrocchiali tedeschi che propongono una «specializzazione dell’offerta spirituale». «Non sono luoghi in cui una comunità di fedeli più o meno stabile vive il “tutto per tutti”, né luoghi per il raduno domenicale – nota il teologo –. Tuttavia sono contrassegnati dal bello (esposizioni, concerti, creazioni artistiche e culturali), dal bene (aiuto ai migranti, alle persone precarizzate) e dal vero (formazioni, conferenze, scambi)».
Una rivoluzione che, aggiunge lo studioso, richiede mezzi: aperture non stop, persone esperte nell’accompagnamento, volontari. Per «inventare le parrocchie di domani» Join-Lambert si affida anche a due vocaboli economici: incubatori e start-up. Se gli incubatori sono «concentrazioni di persone qualificate impegnate in progetti innovativi», la loro declinazione ecclesiale dà vita a percorsi che «favoriscono il dialogo churchintorno a tematiche comuni». È il caso in Francia di Saint Joseph a Grenoble che ha scommesso sulla pastorale dei giovani o di Marthe-et-Marie nel nuovo quartiere Humanicité a Lomme (Lille) che si dedica all’accoglienza. Le start-up, aziende con scarsi mezzi ma sorrette da organici motivati, si traducono in spazi cristiani che hanno al centro l’ospitalità presentata secondo l’icona del Vangelo della Visitazione. Ecco allora la Church on the corner, riallestimento “sacro” di un antico bistrot nel sobborgo londinese di Islington. L’intento di questi esperimenti è di «provocare e curare l’incontro» soprattutto di coloro «che sono lontani» dalla Chiesa, sottolinea il teologo.
Il docente prende a prestito le parole di papa Francesco che nell’Evangelii gaudium ricorda come «il rinnovamento delle parrocchie non abbia ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente». E sentenzia: «È l’ora della polivalenza». Ma tiene precisare: «La parrocchia non può sparire». Oggi, chiarisce Join-Lambert, la vita cristiana è «basata sull’attività spirituale e non su strutture, su un decentramento dell’ufficio domenicale, su una parte crescente composta da quanti iniziano o ricominciano in rapporto ai fedeli di sempre, e sul passaggio limitato nel tempo in seno a una chiesa precisa». Allora la parrocchia è chiamata a una conversione pastorale, magari ispirandosi all’immagine della «barca che preserva una parte di solidità in un mondo fluido ma non ha più punti di ancoraggio sociale o culturale».
Essenziali diventano il concetto di «rete fra parrocchie » che il teologo richiama più volte quando ipotizza chiese ad hoc e quello della «comunione tra le comunità nelle sue diverse dimensioni». Princìpi che fanno venire in mente le unità pastorali care ai vescovi italiani (mai citate nell’articolo). Per il docente, la parrocchia informale ha bisogno di «figure familiari di autorità»: il parroco, sì, ma affiancato dai religiosi che possono dedicarsi alla direzione spirituale o addirittura da un teologo. E soprattutto va «incoraggiato» il laicato. Serve «elasticità» – conclude Join-Lambert – per «poter continuare ad annunciare il Vangelo con modalità di socializzazione ed espressioni culturali del nostro tempo». Ma davvero la parrocchia liquida è la soluzione? E poi può essere esportata in Italia?”

Gemme n° 4

La gemma presentata da I. (classe quarta) ha avuto lo scopo di dichiarare il suo amore per la musica rock-hard rock e per la Germania. “Ho visto che mentre andava la canzone qualcuno annuiva: si può ascoltare bella musica anche in tedesco”.

Anche il mio gruppo preferito è tedesco, tuttavia canta in inglese: gli Helloween. E allora per restare solo sulla musica (di tedesco non so nulla…) allego questa…

Q

qLa memoria. Sacca piena di cianfrusaglie che rotolano fuori per caso e finiscono col meravigliarti, come se non fossi stato tu a raccoglierle, a trasformarle in oggetti preziosi”.
Capita di andare in libreria e di comprare un libro perché è in offerta e perché sono tanti mesi che lo vedi sui bancali e ha quel titolo enigmatico che non lascia trasparire nulla dell’argomento: “Q”. E’ stato una piacevolissima sorpresa per due motivi. Il contenuto: un giro per l’Europa della riforma, dal 1517 al 1555 tra Germania, Paesi Bassi e Italia, tra protestanti, cattolici, anabattisti ed ebrei, tra quei personaggi che fino ad ora ho solo studiato e che qui popolano le vicende di questo romanzo storico. Lo stile: molto vario e diversificato con capitoli breve e tecniche di scrittura sorprendenti. Pensando al fatto che il nome dell’autore nasconde un collettivo artistico, si aggiunge del pepe al condimento. Lo consiglio ai miei studenti: tenete conto che vi troverete davanti a un linguaggio colorito, figlio però di un periodo storico, quello di ambientazione, altrettanto colorito.

Fuori dai cardini

Sto riorganizzando le lezioni su terrorismi e fondamentalismi religiosi per le quinte, sui rischi delle Ideologie con la I maiuscola, disponibili, in nome di se stesse, a calpestare la dignità di interi popoli o gruppi sociali, etnici, politici, religiosi. Una delle domande che emergono frequentemente è “Ma come può succedere che si arrivi a quel punto? Cosa fa sì che molte persone ci credano e sacrifichino le proprie vite e quelle altrui, magari anche della propria famiglia?”. Le risposte sono molte, ma poco fa mi sono imbattuto in questa citazione contenuta nel bel libro di Miachael Burleigh “In nome di Dio. Religione, politica e totalitarismo. Da Hitler ad Al Qaeda”.
cardini“In due periodi cruciali per la Germania, quello della superinflazione tra il 1919 e il 1923 e quello della Depressione dal 1929 al 1933, nel Paese pullulavano i profeti itineranti che si aggiravano scalzi, con barbe e capelli lunghi, spillando alla gente somme considerevoli per assistere a riunioni in cui profetizzavano la fine del mondo e annunciavano l’avvento di un rinnovamento morale e di un nuovo tipo d’uomo che avrebbe dovuto creare un nuovo modello di società prima che fosse troppo tardi. Secondo un giornalista di un quotidiano di Colonia che aveva assistito ad una di queste riunioni a Berlino: «Oggi il pubblico riempie le sale per assistere alle conferenze di questi affabulatori dato che, a causa della sua monumentale confusione mentale, è alla ricerca di qualsiasi genere di sostegno per consolarsi. Alla fine della guerra, dopo che l’inutilità di qualsiasi sforzo diventò evidente, si impose un senso di illimitata delusione. Come se non bastasse, negli ultimi mesi il cervello della gente è stato completamente sconvolto da insormontabili difficoltà economiche, dalla lotta senza speranza contro l’inflazione… Tutti, soprattutto i soggetti più deboli, dato che non hanno altro a cui aggrapparsi, si sono radunati intorni a questi redentori contemporanei con i loro capelli lunghi e con le loro strambe fantasie. La profezia è un brutto sintomo dell’odierna condizione spirituale della Germania. Non va sottovalutata: potrebbe generalizzarsi con le crisi che ci aspettano. Il tempo è fuori dai cardini!, come diceva Amleto”

L’Europa di Morin

Un’intervista molto agile presa da un blog del Corriere della Sera che si occupa di Francia. Ma si parla anche di Europa, di Mediterraneo, di Germania, di Mali. L’intervistato è Edgar Morin.

“A vent’anni Edgar Nahoum entrò nella Resistenza contro i nazisti e il regime di Vichy allora trionfanti, con il nome di battaglia di «Morin». Oggi che di anni ne ha 91, Edgar Morin esorta di nuovo alla lotta e ad avere il coraggio di perseguire l’improbabile: cioè, ai giorni nostri, battersi per una Europa unita. Con Mauro Ceruti, Morin ha scritto «La nostra Europa» (Raffaello Cortina Editore), un libro che ha l’ambizione di rispondere alle domande: «Cosa possiamo sperare? Cosa dobbiamo fare?». Nel suo studio di direttore di ricerca emerito del Cnrs a Parigi, il grande sociologo e filosofo della sinistra francese offre uno sguardo autorevole — e paradossalmente ottimista — sull’Europa di oggi.

Nel 1942 lei voleva sconfiggere Hitler. Oggi vuole una federazione europea. Stesso grado g1220978204_g1207957988_g1207594221_morin2.jpgdi improbabilità?

«Abbastanza. Ma tutta la storia umana ci indica che l’evoluzione accade quando gli eventi non seguono la traiettoria probabile. Il caso più clamoroso è quello della Grecia».

Cioè?

«L’impero persiano provò per due volte a schiacciare le piccole città greche, Atene in testa. Nella Prima guerra persiana gli ateniesi sconfissero l’esercito invasore a Maratona. E nella Seconda ci fu la sorpresa di Salamina, dove la flotta greca distrusse quella persiana. Chi l’avrebbe mai detto?».

L’improbabile ha prevalso anche nella Seconda guerra mondiale?

«Senza dubbio. Quando ho fatto la scelta di combattere nella Resistenza (nel 1942 Morin entrò come luogotenente nelle forze della Francia libera, ndr), i nazisti dominavano l’Europa ed erano sul punto di sconfiggere l’Urss. Niente indicava che potessero essere battuti. Fu una scommessa, per fortuna ci andò bene. Già l’Europa metanazionale del 1945 è figlia dell’improbabile».

Per questo lei e Ceruti avete scelto proprio questo momento per scrivere un libro europeista?

«Sono i giorni della crisi profonda ma, come diceva Hölderlin, “là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”. Bisogna credere in un nuovo, improbabile sussulto, perché le ragioni non mancano».

Non c’è leader europeo, a parte David Cameron, che a parole non sostenga la prospettiva di un’unione politica.

«I fatti non seguono perché nessuno ha il coraggio di accettare una cessione di sovranità a beneficio di tutti. Tutto è più difficile perché ci sono molte forze centrifughe. Guardate l’intervento in Mali, dove la Francia di fatto è sola a difendere interessi di tutta l’Europa».

Ma è proprio la Francia a essere accusata di frenare sull’integrazione politica. Berlino parla spesso di federazione, e Parigi non risponde.

«Angela Merkel evoca l’unione ma non vuole una politica di rilancio dell’economia. È la Francia a preoccuparsi di una politica economica comune, che non serva solo gli interessi di Berlino. L’impressione mia e di molti qui in Francia è che la Germania proponga un’unione ma a condizione di controllarla, perché nel frattempo la cancelliera Merkel impone ovunque il suo rigore».

L’avvento di Hollande all’Eliseo ha suscitato non poche speranze nell’Europa del Sud. Oggi quello slancio sembra essersi fermato, la Francia appare impegnata soprattutto ad affrontare i suoi notevoli problemi interni.

«Il rapporto della Francia con l’Europa del Sud è interessante e controverso. Negli anni Ottanta i premier socialisti di Portogallo, Spagna e Italia chiedevano al presidente Mitterrand di volgersi verso il Mediterraneo, di guardare di più a Sud. Lui a mio avviso non capì l’importanza di quella offerta di alleanza, era ossessionato dall’asse franco-tedesco, dal suo rapporto privilegiato con Helmut Kohl. Quello fu il primo errore».

E poi?

«Nicolas Sarkozy appena diventato presidente propose un’Unione del Mediterraneo. Un’idea priva di contenuto, davvero troppo campata per aria».

Perché per rinascere l’Europa deve guardare a Sud?

«Perché nel Mediterraneo stanno i problemi e le opportunità. A cominciare dal conflitto israelo-palestinese, sorta di cancro che estende le sue metastasi ovunque, che fortifica in Europa tutto quel che è antislamico e antiarabo e rafforza nei Paesi arabi i sentimenti contrari all’Occidente e alla civiltà giudaico-cristiana. Siamo davanti a un processo infernale, e senza svalutare ciò che è europeo, bisogna rigenerare quel che è mediterraneo».

Il Mediterraneo oggi è il luogo delle minacce, della guerra in Siria, delle Primavere arabe che sembrano tradire le speranze.

«Appunto, è qui che si gioca il futuro. Non parlo di misure concrete, ma il nostro ruolo è di rafforzare una sensibilità. Possiamo almeno provare a riportare in vita quel sentimento affettivo di una identità comune legata a un mare che mi piace definire “materno”».

Non è una visione sentimentale ma poco realistica?

«Al contrario. Anni fa ho scritto un testo che si intitolava appunto Togliere e ridare mito al Mediterraneo. Il nostro mare non è solo armonia, Apollo e Partenone; è un luogo di conflitti. Ma è comunque qui che sono nati i monoteismi e il pensiero laico. È il luogo di una costruzione storica inaudita».

Guardando a Sud, François Hollande ha mandato l’esercito francese in Mali. Lei è d’accordo con questo intervento?

«Sì, lo approvo. Anche se arriva troppo tardi e troppo presto. Tardi, perché si è lasciato che gli islamisti si impadronissero del Nord. Presto, perché gli alleati europei hanno seguito la Francia in modo solo simbolico, e anche perché adesso i tuareg e gli islamisti sono esposti alla vendetta dei maliani. È un’avventura storica e, come sempre in questi casi, i rischi sono molto alti, le conseguenze negative secondarie possono essere più importanti dei successi nel raggiungere gli obiettivi principali. Guardiamo la Libia: la decisione di intervenire era comprensibile, viste le minacce su Bengasi e considerato il regime di Gheddafi; ma adesso ci troviamo con un’enorme quantità di armi che sono finite ai jihadisti di tutta la regione, Mali compreso. Siamo nel vortice delle scommesse storiche, molto pericolose, è vero. Ma io penso che, a un certo punto, dei rischi vadano presi».

Prima delle elezioni presidenziali francesi lei ha firmato, con Michel Rocard e altri, il manifesto «Roosevelt 2012» per spronare la sinistra alle riforme, e ha sostenuto la candidatura di François Hollande. Che cosa pensa delle sue difficoltà attuali, tra tasse, fughe dei capitali all’estero e caso Depardieu?

«La Francia nemica dei ricchi, degli imprenditori e del mercato è un’immagine caricaturale, alimentata dall’opposizione sconfitta. Al contrario, molti a sinistra criticano Hollande perché non conduce una politica abbastanza di sinistra. Io non ero d’accordo con la tassa del 75%, perché la ritenevo inutile e controproducente: i ricchi possono benissimo evitarla espatriando. Soprattutto, Hollande non ha ancora fatto quel che ci aspettiamo da lui, una politica rooseveltiana basata sul rilancio delle energie rinnovabili e sull’ecologia intesa in senso largo. Invece l’energia e l’ecologia potrebbero essere il cuore della nuova integrazione europea».

È deluso da Hollande?

«No, lo critico ma ha un grande merito: Hollande ha combattuto e fermato il dogma politico del rigore che stava massacrando i greci e gli spagnoli. L’Europa può ripartire da qui».”

22.000 colpi di pistola

Nella notte tra venerdì e sabato della scorsa settimana (erano le 4.15 quando ho guardato la sveglia) ho finito di leggere “L’inverno del mondo” di Ken Follett, il secondo libro della trilogia The Century (l’ultimo volume dovrebbe uscire tra due anni). Si parla, in breve, della II guerra mondiale e dintorni e l’autore sta ben attento a creare una ricostruzione storica che non condanni i disastri del nazismo senza stigmatizzare la realtà russa (e ciò che fecero i soldati russi alla popolazione tedesca, di Berlino in particolare). Tutto questo mi è venuto in mente leggendo, oggi, la posta del Corriere, in cui Sergio Romano risponde a un lettore. Ne parleremo, dopo le vacanze di Natale, nelle quinte.

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Lettore: “Perché sull’eccidio di Katyn, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, calò il silenzio? Anche gli Stati Uniti hanno coperto ciò che Stalin e Beria avevano fatto nel 1940. Perché preferirono tacere? Perché si è voluto coprire una azione di cui tutti sapevano e mettendo in evidenza solamente i crimini contro gli ebrei? Perfino Gorbaciov sapeva. Eltsin fu forse l’unico che ha tentato di far luce.”

Sergio Romano: “Caro Binelli, dopo la fine della guerra, gli Alleati vollero che la vittoria fosse coronata da un processo che avrebbe condannato le guerre di Hitler e rivelato al mondo la spietata politica con cui il regime nazista, tra l’altro, aveva sterminato circa sei milioni di ebrei. Occorreva che alla punizione politica e militare si accompagnasse una punizione giudiziaria. Se gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia avessero ufficialmente sollevato il problema dell’eccidio degli ufficiali polacchi seppelliti nelle fosse di Katyn, scoperte dalle forze armate tedesche nella fase iniziale del conflitto, il processo di Norimberga non avrebbe avuto luogo. Mosca aveva attribuito il massacro alla Germania hitleriana e non avrebbe mai permesso che la liturgia processuale di Norimberga mettesse l’Unione Sovietica, sia pure incidentalmente, sul banco degli accusati. Aggiungo che accanto a questa motivazione etica e giuridica vi fu anche, forse soprattutto a Washington, un calcolo politico. Alla conferenza di Yalta del febbraio 1945, due mesi prima della sua morte, Franklin D. Roosevelt aveva discusso con Stalin la creazione di una nuova Società delle nazioni — l’Organizzazione delle nazioni unite — e aveva raggiunto l’accordo sulla composizione di un organo direttivo, il Consiglio di sicurezza, in cui le maggiori potenze avrebbero avuto il diritto di veto. Nel futuro sognato dal presidente americano vi era quindi, alla fine della guerra, il sogno di una gestione concordata degli affari mondiali. Una pubblica discussione sulla responsabilità del massacro di Katyn avrebbe reso questa prospettiva impossibile. Se la Guerra Fredda fosse scoppiata subito dopo la fine del conflitto, anziché tra la fine del 1947 e gli inizi del 1948, la rottura dell’alleanza avrebbe certamente influito sull’impostazione del processo di Norimberga. L’uomo che maggiormente si prodigò perché l’Urss riconoscesse le sue colpe fu Aleksandr Jakovlev (1923-2005), un comunista eretico e coraggioso che aveva preso posizioni eterodosse ancor prima di Gorbaciov ed era stato allontanato da Mosca con un incarico diplomatico. Durante la perestrojka ebbe compiti che gli permisero di allargare considerevolmente i confini della glasnost; e dopo la morte dell’Urss, Eltsin lo chiamò a presiedere una commissione per la riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche. Quegli incarichi gli permisero di riaprire il «caso Katyn» e di rendere noti molti documenti segreti, fra cui il verbale della riunione del presidium del Comitato centrale del Partito comunista dell’Urss durante la quale fu autorizzata l’esecuzione degli ufficiali polacchi. Di quel verbale esistono fotocopie che circolavano a Mosca nel 1992. Riuscii a procurarmene una.”

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