Un dono spezzato

La scorsa settimana, nell’occasione del triduo pasquale, Avvenire ha pubblicato tre riflessioni di Alessandro D’Avenia. Pensavo di raccoglierle in un testo unico e metterle a disposizione, ma temo che in questa maniera le leggano in pochi. Allora, visto che oggi è giovedì, a una settimana di distanza, le pubblico con gli stessi tempi del quotidiano: in fin dei conti, i cristiani rivivono il triduo ogni domenica. La vita, il viaggio, l’amicizia, l’amore, la risposta alla domanda “chi è l’uomo?” sono al centro di questa riflessione; l’Odissea, Vasilij Grossman, Dante e, ovviamente, la Bibbia ne sono le fonti.

GIOVEDI’ SANTO
Giovedì Santo: l’uomo è quello che spezza il pane
Odisseo8«L’eroe multiforme, raccontami, Musa, che tanto vagò: / di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri, / molti dolori patì sul mare nell’animo suo, / per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni. / Ma i compagni neanche così li salvò, pur volendo: / con la loro empietà si perdettero». Nell’originale greco la prima parola dell’Odissea è «uomo», la seconda «raccontami».
Il poeta chiede alla Musa di dire, all’alba della cultura occidentale, “chi è l’uomo?”. Ci vorranno ben 24 libri per “raccontare” la risposta, anche se ci viene offerta un’eccellente sintesi nei pochi versi proemiali. Il poeta tratteggia tre caratteristiche: conoscere città e pensieri/costumi di uomini, patire dolori, al fine di acquistare la vita a sé e ai compagni. La poesia omerica dice l’essenziale: l’uomo è viaggiatore, curioso conoscitore del mondo, chiamato a “patire”, per tornare a casa. Casa è: “aver salva la vita” (psyché), ma non solo la propria, ma anche quella dei compagni (etàiroi): coloro con cui si condivide un obiettivo. Lo traduciamo con “compagno”, la cui radice (cum più panis) indica “qualcuno con cui si divide il pane”. L’identità dell’eroe non è ripiegata su se stessa, ma proiettata verso l’altro, salvare sé e i compagni sono un tutt’uno.
Dire Ulisse è dire i suoi compagni, i suoi amici, la sua terra. Itaca. Amico non è qualcuno da “aggiungere” su un social, ma con cui condividere il pane (non l’apparenza) nel tentativo di salvarsi e salvare. L’uomo è dato all’altro uomo per la salvezza. È un dato originario quanto la creazione, e quindi fonte insostituibile di originalità: gli amici ci costringono ad essere reali, custodendo e coltivando la nostra identità, unicità, vocazione. Gli amici ci tirano fuori dalle apparenze e ci ricordano che i nostri talenti non sono per auto-realizzare, ma per etero-realizzare. Lo dice in modo perfetto Vasilij Grossman in Vita e Destino: «L’amicizia è uno specchio in cui l’uomo si riflette. A volte, chiacchierando con un amico impari a conoscerti e comunichi con te stesso… Capita che l’amico sia una figura silente, che per suo tramite si riesca a parlare con se stessi, a ritrovare la gioia dentro di sé, in pensieri che divengono chiari grazie alla cassa di risonanza del cuore altrui. L’amico è colui che ti perdona debolezze, difetti e vizi, che conosce e conferma la tua forza, il tuo talento, i tuoi meriti. E l’amico è colui che, pur volendoti bene, non ti nasconde le tue debolezze, i tuoi difetti, i tuoi vizi. L’amicizia si fonda dunque sulla somiglianza, ma si manifesta nella diversità, nelle contraddizioni, nelle differenze. Nell’amicizia l’uomo cerca egoisticamente ciò che gli manca. E nell’amicizia tende a donare munificamente ciò che possiede».
Noi cristiani a volte riduciamo la Rivelazione a un programma morale, quando invece è il movimento (Amor che move dice Dante) che Dio ha impresso nel Ecce Homocreato, nel quale abbiamo il privilegio di essere inseriti e che possiamo assecondare o rifiutare. Solo chi si lascia catturare da questo movimento amoroso può portare la realtà a pieno compimento, la sua e quella degli altri: l’unico “pregiudizio” che un cristiano può avere sulla realtà è l’amore. Se ci si sottrae a questo movimento si diventa meno reali e si priva di realtà la realtà. L’amicizia, cioè l’affidamento dell’uomo all’altro uomo, è il versante umano di questo movimento. Chi è l’uomo? Risponde Pilato mostrando il flagellato: «Ecco l’uomo». Non è più il bell’eroe odissiaco, eppure anche Cristo ha conosciuto le città degli uomini e i loro pensieri, ha patito nel viaggio dell’incarnazione. A quale fine? Anche lui per salvare la vita dei suoi compagni, ma con una novità: rinunciando alla sua. Per questo non può trattarsi di un mito. Dice: «Non siete voi che mi togliete la vita, sono io che la dono». Lo scherniscono: «È stato capace di salvare gli altri, e non può salvare se stesso». Ulisse aveva salvato sé e i suoi compagni erano morti per la loro empietà. Cristo fa il contrario: rinuncia a salvare se stesso e salva noi: per la nostra empietà si fa empio lui. Infatti proprio nell’ultima cena ci definisce amici: «Vi ho chiamati amici perché vi ho detto le cose del Padre mio».
Il racconto di Cristo è la sua identità, il Figlio mostra il Padre: un racconto costato la vita. A uno dei suoi, che in quella cena dice «Mostraci il Padre e ci basta», risponde: «Chi vede me, vede il Padre». Ci chiama amici e, a tavola spezzando il pane, ci rende compagni del suo poema: l’obiettivo è salvare. E questo non solo nel suo breve passaggio sulla terra, ma oggi e sempre, diventato lui stesso “pane” per la compagnia (i due di Emmaus e tutti lo riconosceranno così). Chi non mangia quel pane non ha vita, non ha passione per il mondo, non ha l’amore come pregiudizio, non rende – attraverso l’amicizia – la realtà reale, ma la lascia precipitare nell’inconsistenza della morte.”

emmausConcludo con un mio piccolo contributo citando Cesare Pavese:
Piace di tanto in tanto avere un otre in cui versarvi e poi bervi se stessi: dato che dagli altri chiediamo ciò che abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra “riavere” noi dagli altri… Tu sei solo e lo sai. Tu sei nato per vivere sotto le ali di un altro, sorretto e giustificato da un altro… non basti da solo, e lo sai”.

Se ne può parlare?

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Di articoli sulle recentissime elezioni in Israele se ne trovano tantissimi in rete e sui quotidiani. Riporto qui quello dell’israeliana Sivan Kotler, preso da Internazionale: offre numerosi spunti di riflessione.

“La notte nella quale Benjamin Netanyahu vinse per la prima volta le elezioni, nel maggio del 1996, fece freddo nonostante il vento caldo del deserto. Fu così che giustificammo il brivido che ci passò sulla schiena. Eravamo all’inizio del nostro servizio militare, ancora incredule per aver votato per la prima volta nella nostra vita. Eravamo ragazze con la divisa e il fucile che sapevano abbastanza del nostro passato, poco del nostro presente e quasi nulla del futuro.

Furono le prime elezioni dopo l’assassinio dell’ex primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. Che noi, la “generazione delle candele”, avevamo seguito con trepidazione davanti alle tv, assieme a un paese intero. Furono elezioni di testa a testa tra Benjamin Netanyahu, all’epoca un giovane politico ma molto criticato, e l’attuale presidente israeliano Shimon Peres, allora candidato laburista.

Sono passati diciassette anni. Quell’anno il Time, sulla sua copertina, si chiese: “Sarà in grado di portare la pace?”. Pochi mesi fa, prima delle ultime elezioni, il Time l’ha definito “Bibi The King”. Non ha più risposto alla domanda del ’96. Questa potrebbe anche essere l’ultima copertina dedicata a lui. “È incredibile”, tuona David Grossman, intervistato dalla televisione israeliana la sera prima delle elezioni. “Sono circa cent’anni che scegliamo la strada delle guerre senza mai arrenderci. L’unica volta che abbiamo provato la strada della pace, dopo il primo fallimento abbiamo perso subito la speranza”.

Grossman è tra le poche persone che parlano di pace. Una soluzione, sostiene lo scrittore, “che ci serve, non perché fa bene agli arabi ma perché fa bene a noi”. Grossman, assieme ad altri scrittori e intellettuali israeliani, è un forte sostenitore del partito Meretz. Un piccolo partito di sinistra (appena 6 seggi nelle ultime elezioni), che crede fermamente nella soluzione di due nazioni per due popoli.

A differenza dei tanti giornalisti, scrittori ed intellettuali passati in politica, Grossman sostiene che “ognuno deve fare le cose che sa fare”. All’intervistatrice che gli chiedeva perché, ha risposto: “Se vado a dirigere il governo, chi si metterà al posto mio a scrivere le mie storie?”.

Dal maggio del 1996 è cominciata un’altra storia. Da quando, divise in fila per tre, ci hanno annunciato i risultati delle elezioni. Yitzhak Rabin, un leader visionario, era stato da poco assassinato, portando via con sé la nostra speranza di pace. Ricordo che ancor prima di comunicarci i risultati dei primi exit poll, ci dissero di non esprimere nessun tipo di emozione, e di mantenere il massimo silenzio. “Non siete in un campo estivo”, gridavano gli ufficiali, “siete soldatesse all’esercito dello stato israeliano”.

Quando ci fu chiaro che il vincitore in quella tornata elettorale era Netanyahu, a qualcuna di noi sfuggì una smorfia di delusione. Altre si misero a piangere. Era un pianto che racchiudeva in sé sconcerto e paura per una possibile punizione dei superiori, con 21 giorni di fermo in caserma. Ma evidentemente non piangevano solo per questa ragione.

Con la conferma di Netanyahu come primo ministro, si potrà rinchiudere il ventennio personificato dall’effetto “Bibi”. Bibi che va, ma più che altro, Bibi che torna. Lo slogan elettorale di Netanyahu all’epoca era “facciamo una pace sicura”, che in ebraico ha un secondo significato: “facciamo la pace, sicuro”.

Oggi nel mezzo di sorprese elettorali, di resoconti e di sconfitte, lo slogan attuale di Netanyahu “un leader forte per un governo forte” è mestamente anacronistico, visti i risultati e il crollo del partito di maggioranza relativa del ticket Netanyahu-Liberman.

E della pace non parla più nessuno.”