Avevo salvato questo articolo, comparso su Io donna con la firma di Valentina Ravizza, un mesetto fa. L’argomento è quello della presenza dei bambini sui social network; certo, non è approfondito, ma evidenzia alcuni aspetti importanti. Vi aggiungo anche un altro pensiero: mi diletto di fotografia da quando
ho 18 anni. Proprio a quel compleanno ho ricevuto in regalo la mia Yashica fx3. Uno dei tipi di scatti meno amati da me e comunque meno frequenti era l’autoscatto. Oggi si chiama selfie ed è certo una delle modalità di foto più diffuse in rete. Perché? Perché questo bisogno di fotografarsi, di filmarsi, di vedersi? E poi di condividerlo con sconosciuti? Perché quest’esigenza da parte di bambini di 8-10 anni? Perché tutte quelle foto con bocca arricciata a mandare un bacio? Perché le pose di fianco?
“La maturità su Facebook, ossia l’età minima per registrarsi sul social network, si raggiunge un anno prima di quella per guidare il motorino. E presto potrebbe pure scendere. Ma siamo sicuri che uno schermo comporti meno rischi di due ruote? Se si guarda l’aspetto psicologico la risposta è no. Soprattutto se ai bambini non viene fatto alcuna lezione di “scuola guida” per aiutarli ad orientarsi online.
Perché fissare l’asticella proprio 13 anni? «Alcune strutture cerebrali si sviluppano soltanto a partire da questa età» spiega Eddy Chiapasco, psicologo e presidente del Centro studi psicologia e nuove tecnologie. Si tratta di quelle aree del cervello che ci permettono di gestire situazioni complesse: «Per esempio di renderci conto che immagini e commenti lanciati nella Rete possono ferire qualcuno e che di fronte a noi, per quanto separata da un monitor, potrebbe esserci una persona che soffre a causa delle nostre azioni».
Ma nella realtà, come svela il rapporto Social Age di Knowthenet found, più della metà dei bambini sotto i
dieci anni ha utilizzato social o app di messaggistica e altre stime parlano di qualcosa come cinque milioni e mezzo di bambini su Facebook. Portarli online già a sette anni, come sta cercando di fare PopJam, il nuovo social network in versione kids lanciato da Mind Candy in Gran Bretagna e Australia, potrebbe essere come lasciarli soli in una giungla insidiosa, specie se non hanno armi per difendersi. «Per i ragazzi di oggi scattare una foto e condividerla online è un automatismo. Non ci sono filtri, nemmeno tecnici, come poteva essere una volta il portare il rullino a sviluppare dal fotografo» spiega Chiapasco. A cui chiediamo quindi che strumenti servirebbero ai ragazzi: «Anzitutto la pagina Facebook va creata con i genitori, che spieghino come funziona e come gestirla». Non vale la scusa “io di tecnologia non ci capisco niente”: «I dubbi si affrontano insieme, in modo che il ragazzo, anche successivamente, sappia di poter chiedere aiuto a mamma e papà in caso di brutte esperienze».
Ma oltre ai rischi legati al texting e al cyber bullismo, più comunemente i social influiscono sulle relazioni quotidiane. «Da una parte c’è chi li vede positivamente come una chance di socializzare: un ragazzo timido nella vita reale magari non avrebbe mai il coraggio di mettersi a parlare con una compagna di classe carina, mentre in chat riesce a superare l’imbarazzo. Ma d’altra parte conosco casi di compagni di classe che su Whatsapp si raccontano fatti molto intimi mentre a scuola a malapena si rivolgono la parola. Anche qui sta a genitori e insegnanti il dovere di creare gruppi di gioco e di lavoro per promuovere la socialità reale».
In questo percorso di avvicinamento controllato alla Rete anche l’uso dei social nel contesto scolastico può essere utile: sì alla pagina Facebook di classe, no all’amicizia diretta e alle chat tra studenti e docenti. No alla distrazione continua del cellulare acceso in aula (e qui la colpa è spesso dei genitori ansiosi che chiedono ai figli di essere sempre raggiungibili), ma attenzione a non demonizzare le nuove tecnologie: «I ragazzi di oggi sono multitasking, e devono esserlo, perché la società glielo impone. C’è il rischio che siano più superficiali, forse, ma la capacità di lavorare su più cose in parallelo, se valorizzata, può anche essere positiva».
Ma all’età giusta: uno studio presentato durante l’ultimo congresso delle Pediatric Academic Societies and Asian Society for Pediatric Research ha mostrato come i bambini che giocavano con app non educative già dagli 11 mesi avevano un ritardo nello sviluppo del linguaggio. Anche perché i più piccoli sono pure i più esposti al rischio dipendenza, specie se tablet e smartphone vengono usati come babysitter. Difficile prevedere a livello scientifico se i social influiranno davvero sugli adulti di domani. Di certo stanno cambiando i bambini di oggi.”
Sono qui
Una delle cose che ricordo molto bene della mia adolescenza è la fatica che doveva fare un maschietto di 14-16 anni per farsi notare dalle ragazze. Mi ricordo che era un problema comune, fatti salvi i comunque bellocci a cui bastava la presenza. Tutti gli altri navigavamo in un mare di speranze, paure e maldestri tentativi di colpire nel segno, di lasciare un’immagine impressa che non fosse quella della pena o del biasimo. Simpatia, umorismo, capacità sportive, destrezze sul motorino, sensibilità, capacità d’ascolto, imprese titanico-fisiche, sfrontatezza scolastica, acconciature, intelligenza, moda… erano tutti strumenti utilizzabili a seconda della persona che volevi impressionare. “L’importante è essere te stesso” ti veniva detto. “L’importante è mostrare di essere meglio di quanto sono” ti dicevi. Dovevi ancora crescere, dovevi ancora capire chi eri veramente. Oggi gli strumenti sono cambiati ed è decisamente cambiata la visibilità: ci si conta a forza di “like” o di “mi piace” o di “♥” o di “☺”. Ma il tentativo è sempre quello, fuggire l’indifferenza, soprattutto della persona di cui ci siamo infatuati. In fin dei conti queste parole del 1922 sono sempre attuali: “Tutto era stato vagliato, se posso dir così, in quelle fantasticherie; nei momenti bui, mi figuravo che mi avresti respinta, che mi avresti disprezzata perché troppo insignificante, troppo brutta, troppo invadente. Tutte le forme del tuo disappunto, della tua freddezza, della tua indifferenza, tutte le avevo percorse nelle mie fervorose visioni – ma questa sola, mai, in nessun moto oscuro dell’animo né nell’assoluta consapevolezza della mia inferiorità, mi era accaduto di prenderla in considerazione, di figurarmi l’eventualità più atroce: che tu non ti fossi mai accorto della mia esistenza” (Stefan Zweig, Lettera di una sconosciuta).
Kurt, Marilyn, Lenny, Giona
Per me uno dei vantaggi più grandi della rete è la possibilità di ascoltare tutta la musica che voglio. Quando avevo 15 anni non era facile sperimentare nuovi ascolti: potevo solo contare sul giro di amici o piazzarmi con la radio o mtv accese e sperare che passasse qualcosa di interessante. Di certo non potevo permettermi di comprare un vinile o un cd per il gusto di provare: andavo sul sicuro, sulla musica preferita. Oggi sicuramente manca un po’ di affezione agli ascolti, sicuramente si ascolta un disco meno volte, ma si può facilmente sperimentare ed è una delle cose che preferisco fare mentre lavoro a casa. In questi giorni sto ascoltando Brunori Sas con il suo Vol. 3 – Il cammino di Santiago in taxi. Questa sera ho ascoltato più volte il brano “Kurt Cobain”: con un titolo del genere non poteva non attirarmi… (tra l’altro quest’anno sono 20 anni che il cantante dei Nirvana non c’è più). Nel ritornello vengono citati Kurt Cobain e Marilyn Monroe, due persone la cui morte è avvolta nel mistero (più o meno montato) e su cui vi è l’ombra del suicidio. Il tema centrale qui è l’insensatezza del successo, la fatica dell’essere sotto i riflettori e di non poter mai spegnerli o abbassarne l’intensità, la falsa sensazione di essere amati da tutti mentre in realtà si è soli: “Ma chiedilo a Kurt Cobain come ci si sente a stare sopra a un piedistallo e a non cadere, chiedilo a Marilyn quanto l’apparenza inganna e quanto ci si può sentire soli e non provare più niente e non avere più niente da dire”. Parole dure che mi portano alla mente “Circus” di Lenny Kravitz, in cui lui si ribella al circo mediatico e al turbine del successo: “che tipo di circo è questo? ma che genere di clown siamo? quando c’è l’ultimo spettacolo? cosa posso fare per liberarmi?”.
Nelle strofe di Brunori ci sono le similitudini: vivere è come volare, come nuotare, come sognare. Ma il senso della canzone non è così semplice e immediato, almeno per me. Nella prima strofa c’è qualcuno che è in difficoltà, che si sente un recipiente senza contenuto, che non si sente protagonista della propria vita, che si sente proprio in fondo alla “classifica” umana; un giorno può succedere che desideri capire se questo sia vero oppure no (“un giorno qualunque ti viene la voglia di andare a vedere, di andare a scoprire se è vero che non sei soltanto una scatola vuota o l’ultima ruota del carro più grande che c’è”). La terribile possibilità del togliersi la vita si legge sia nei riferimenti del ritornello, sia nelle parole “non si può ignorare la voce che dice che oltre le stelle c’è un posto migliore” o “d’altronde non si può tacere la voce che dice che in fondo a quel mare c’è un mondo migliore”. Ma è proprio in fondo alla seconda strofa che si può trovare altro, quello che voglio leggere come un’alternativa: “proprio quel giorno ti viene la voglia di andare a vedere, di andare a scoprire se è vero che il senso profondo di tutte le cose lo puoi ritrovare soltanto guardandoti in fondo”. Conoscersi, sapersi leggere, dare voce alle proprie emozioni, ascoltare i propri pensieri, con sincerità e schiettezza, con serietà e benevolenza, andando dai voli più alti alle profondità più oscure. Lo stesso Brunori afferma: “Il pezzo richiama la necessità di andare “dietro le quinte”, di osservare l’altalena fra profondità e superficie. Addormentarsi felici o soffrire per restare svegli?”.
In sottofondo riecheggiano le parole di Marilyn Monroe: “Una volta celebri, sapete, potete leggere cose sul vostro conto, le idee di qualcun altro su di voi; ma ciò che conta — per sopravvivere, per affrontare giorno per giorno ciò che vi capita — è quel che pensate di voi stessi.”
Infine mi stacco dalla canzone con un personaggio biblico che mi è venuto in mente durante l’ascolto: Giona (di nuovo! Ne avevo scritto poco tempo fa qui). Dal ventre del pesce che l’ha inghiottito si rivolge a Dio e prega così: “Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto, l’alga si è avvinta al mio capo. Sono sceso alle radici dei monti, la terra ha chiuso le sue spranghe dietro a me per sempre. Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita, Signore mio Dio. Quando in me sentivo venir meno la vita, ho ricordato il Signore. La mia preghiera è giunta fino a te, fino alla tua santa dimora. Quelli che onorano vane nullità abbandonano il loro amore.” (2, 6-9).
1 e 2
E’ tempo di iscrizioni a scuola. Su molti moduli mamma e papà non troveranno più madre e padre ma genitore 1 e genitore 2. Ecco cosa ne scrive su Popoli Giacomo Poretti, sì, quello del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. Il titolo del pezzo è “Onora il genitore 1 e il genitore 2”.
“A un certo punto l’essere umano ha cominciato a parlare e a dare nomi alle cose e agli oggetti, così che tutti intendessero la stessa cosa e non succedessero guai. Infatti poteva capitare che un marito desiderasse un risotto per cena, ma lo chiedeva con un grugnito inarticolato, così che la moglie capiva minestrina in brodo: quando portava in tavola la brodaglia il marito spaccava tutto con la clava. Oppure magari c’era un dinosauro dietro a un cavernicolo e il suo amico con frasi sconnesse cercava di farlo scappare, al che quell’altro gli ripeteva: «Ma perché non ti applichi nella grammatica?». Alla fine veniva inghiottito da un Triceratopo.
Così, dopo tutti questi equivoci spiacevoli, gli umani hanno deciso di chiamare le cose con i loro nomi. Per esempio, fin dal principio, «zanzara» era quell’animale fastidioso che tutti cercavano di sfracellare contro le pareti della caverna senza riuscirci. «Flatulenza» era il fuggi fuggi che accadeva nella caverna quando qualcuno mangiava il Tirannosauro rex cucinato in fricassea con purea di castagne. O, ancora, con la parola «papà» si definiva il genitore maschio e «mamma» la genitrice femmina, e questo da molto molto prima che Charlton Heston, il mitico Mosè nel film I dieci comandamenti, scendesse dal Sinai con le Tavole della Legge.
Oggi, in un Paese vicino al nostro, giusto per svecchiare la lingua e i concetti, il papà e la mamma si è deciso di
rinominarli «genitore 1» e «genitore 2». Resta da definire se il maschio indosserà la maglietta numero 1, o se invece verrà attribuita alla femmina; ancora più complessa è la vicenda di quando i genitori saranno entrambi maschi o entrambi femmine: forse si deciderà ai rigori o, più democraticamente, 6 mesi a testa, come per la presidenza Ue.
Abolite, perché sorpassate, la festa della mamma e del papà, al loro posto verranno istituite la «festa del genitore 1», che verrà celebrata il 2 novembre al posto dei morti che fa un po’ tristezza, e la «festa del genitore 2» il 25 aprile, al posto dell’inutile «festa della liberazione». I primi anni potrà capitare che i bambini sbaglieranno e regaleranno una cravatta al genitore femmina e un paio di orecchini al genitore maschio, ma dopo qualche decennio di assestamento i bambini, per non sbagliare, regaleranno in entrambe le occasioni una trousse di trucchi.
E i nonni, se non verranno aboliti, come li chiameremo? «Colei che vizia 1» e «Colui che porta sempre i regali 2»? Io, che non ho studiato le lingue, continuerò a parlare la lingua delle caverne e a onorare gli unici mamma e papà che conosco.”
Non senza il suo nome
Immaginiamo una bambina o una ragazzina sensibile (“un cuore più generoso di tutti gli altri che mi ha sempre fatto vergognare del mio”) che, all’interno della propria classe, se ne resta piuttosto appartata in quanto viene spesso presa di mira dalle prese in giro dei compagni (“Eva vola via, sogna il mondo lontano, in questo crudele gioco di bambini non c’è un amico che chiami il suo nome, Eva prende il largo sogna il mondo lontano”). Eppure, nonostante l’isolamento, Eva non perde la propria identità (“lei cammina da sola, ma non senza il suo nome”). Se ci fosse anche solo una parola gentile sopporterebbe di restare ancora un po’ in quella situazione a cullare il sogno di un mondo migliore, di un paradiso, di un Eden (come la prima donna che aveva il suo stesso nome)… invece ci sono i compagni ad uccidere quel sogno e quel cuore buono. Fino a quando qualcuno, anche uno solo, non fa un passo e apre ad Eva un campo di girasoli…
6:30 di un mattino d’inverno
La neve scende, nell’alba silenziosa
Una rosa di qualche altro nome
Eva lascia la sua casa di Swanbrook
Un cuore più generoso di tutti gli altri
che mi ha sempre fatto vergognare del mio
Lei cammina da sola, ma non senza il suo nome
Eva vola via
Sogna il mondo lontano
In questo crudele gioco di bambini
Non c’è un amico che chiami il suo nome
Eva prende il largo
Sogna il mondo lontano
Il buono in lei sarà il mio campo di girasoli
Derisa dall’uomo fino al più profondo disonore
Una ragazzina con una vita davanti
Per il ricordo di una parola gentile
Rimarrebbe in mezzo ai bruti
Tempo per un altro audace sogno ancora
Prima della sua fuga, splendore dell’Eden
Che uccidiamo insieme al suo cuore amorevole
Eva vola via
Sogna il mondo lontano
In questo crudele gioco di bambini
Non c’è un amico che chiami il suo nome
Eva prende il largo
Sogna il mondo lontano
Il buono in lei sarà il mio campo di girasoli
(Eva, Nightwish)
Due specie di terra
Scrive Erri De Luca in Tre cavalli: “Ci sono due specie di terra… Una ha l’acqua di sotto, si fa un buco e affiora. È terra facile. L’altra dipende dal cielo, ha solo quella fonte. È magra, ladra, capace di rubare acqua al vento e alla notte, e appena ne ha un poco la spende tutta subito in colori trattenuti nel midollo dei sassi e mette forza di zuccheri nei frutti e butta profumo da sfacciata. È terra di cielo asciutto” . Vi ho letto molto del mio lavoro, delle mie relazioni. A pensarci bene, vi ho letto molto del mio carattere…
Occhio!
Ne avevo scritto il 24 aprile. Ora, ho appena sentito la notizia: una ragazzina inglese di 14 anni si è impiccata dopo i mesi di insulti subiti su ask.fm. E non è la prima: in autunno una quindicenne e una tredicenne irlandesi, in primavera un quindicenne. Non riporto quanto avevo già scritto in aprile. Mi sento solo di dire, ancora una volta, ai miei studenti, soprattutto quelli più giovani: OCCHIO!
In cerca dell’essenziale
A volte segni e suggerimenti che auspichiamo prima di effettuare una scelta arrivano quando le cose sono già state decise.
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Ho già scritto di aver letto il libro “La pazienza del nulla” di Arturo Paoli. Una delle frasi che mi sono trascritto è breve e fulminante: “Ci vuole maggior coraggio a riposare su un prato in fiore che a stare in arcioni su un cavallo focoso”. Ovviamente è una di quelle frasi che possono essere facilmente confutate e ribaltate: si attagliano alle persone in base al periodo che esse stanno vivendo. Indosso a questa mia estate ci casca a pennello.
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Ho iniziato il libro “Una certa idea di mondo” di Alessandro Baricco, in cui, a pag.
27, a commento del libro di Pierre Hadot “Esercizi spirituali e filosofia antica”, si legge: “Hadot cita una fulminante espressione di Plotino che spiega molto: quel che occorre fare è scolpire la propria statua. […] Bisogna ricordarsi che la scultura era, per i greci, l’arte della sottrazione, l’abilità manuale con cui ottenere una figura a partire da un blocco di pietra, procedendo per successive sottrazioni. È esattamente quello che insegnavano quei celeberrimi guru: lavorare su se stessi, scalpellando via tutto ciò che di falso o inutile ci sta attaccato, e liberare, alla fine, quel che noi siamo, nella saldezza imperturbabile della magnificenza dell’esistere.” (il libro di Baricco è una raccolta di quanto da lui scritto settimanalmente su La Repubblica, quindi questo è il link all’intero pezzo). Spogliare se stessi, liberarsi del superfluo, scendere (o salire?) all’essenziale. E’ un altro argomento forte di questa estate -
Infine, stamattina ho concluso il corso biblico a cui partecipo ogni anno con uno dei maggiori biblisti italiani (e non solo), Rinaldo Fabris. Non mi soffermo sui contenuti del corso, ma su un breve passo che abbiamo sfiorato stamattina e che penso sia conosciuto ai più: “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.” (1Cor 13,1-3).
Ho scritto all’inizio che le cose sono state già decise. E’ confortante quando segni e suggerimenti danno conferma, a posteriori, di quelle scelte. Permane il subdolo dubbio che i segni contrari non li abbiamo semplicemente voluti vedere. Scherzi della mente che così ci tutela e ci protegge. E ci fa pure sorridere.
La maschera della bretone
Ancora una donna per il quinto personaggio annoverato da Jovanotti in Buon sangue. Si
tratta di un’attrice teatrale bretone che recitava al tempo in cui era concesso farlo soltanto agli uomini; per salire sul palco pertanto, doveva adottare un doppio travestimento: quello da uomo per poter recitare e poi quello del personaggio che doveva incarnare. Solo così, maschera su maschera, riusciva a sperimentare la libertà. Un cambio di identità che ti fa respirare la libertà, ma che ti fa anche “camminare di fianco a te stesso”, come se non potessi mai essere veramente te stesso. La maschera, il travestimento, il truccarsi per nascondersi permettono di potersi sperimentare in parti sconosciute, di azzardare parole o comportamenti a noi lontani, e non per forza negativi. A volte diventano strumento per conoscere parti nascoste di noi che chiedono soltanto di essere scoperte, apprezzate, amate, riconosciute come proprie. A volte camminare di fianco a se stessi può servire, basta, a mio avviso, che non diventi condizione esistenziale.
Nel mio albero genealogico quasi alla radice
c’è una donna di Bretagna che faceva l’attrice,
ma siccome solo i maschi lo potevano fare,
recitava di essere un uomo per recitare
cardinale, puttana, mendicante, musa,
la platea di fronte a lei non era mai delusa.
Da quella donna ho imparato che l’identità
ha una maschera e la maschera dà libertà.
Puoi cambiare faccia, parte, umore e sesso,
nel frattempo camminare di fianco a te stesso.
Il cuoco di Ulisse
Ho una t-shirt blu, ormai consunta, con una scritta tratta dal libro “Il mondo di Sofia” di Jostein Gaarder: Chi sei tu? Il libro è uno dei miei preferiti. Sono andato a ripescare la risposta della protagonista, Sofia Amundsen.
“Non lo sapeva di preciso. Era Sofia Amundsen, naturalmente, ma chi era? Non era ancora riuscita a scoprirlo del tutto. E se si fosse chiamata con un altro nome? Anne Knutsen, per esempio. In quel caso sarebbe stata un’altra persona? Di colpo le venne in mente che, quando era nata, suo padre voleva chiamarla Synneve. Sofia cercò di immaginarsi mentre stringeva la mano a qualcuno e si presentava come Synneve Amundsen… No, non era possibile. Quella ragazza era una persona completamente diversa. Si alzò di scatto e andò in bagno con la strana lettera in mano. Si mise davanti allo specchio e cominciò a fissarsi negli occhi. «Io sono Sofia Amundsen», disse. La ragazza nello specchio rispose con una piccola smorfia. Faceva tutto quello che faceva Sofia. Sofia cercò di precedere l’immagine con un movimento fulmineo, ma l’altra fu altrettanto veloce. «Chi sei tu?» chiese. Non ricevette alcuna risposta, ma per una frazione di secondo si domandò sconcertata se era stata lei o l’immagine ad aver posto la domanda. Sofia premette l’indice sul naso riflesso nello specchio e disse: «Tu sei me». Dal momento che neanche questa volta aveva avuto risposta, capovolse la frase: «Io sono te». Sofia Amundsen non era mai stata soddisfatta del suo aspetto. Spesso le facevano complimenti per i suoi occhi a mandorla, ma senza dubbio le dicevano così soltanto perché il naso era troppo piccolo e la bocca troppo grande. Le orecchie poi erano esageratamente vicine agli occhi. La cosa peggiore erano i capelli lisci che non le stavano mai a posto. A volte suo padre le accarezzava la testa e la chiamava «la bambina dai capelli di lino», riferendosi al titolo di un preludio di Claude Debussy. Facile a dirsi per uno che non era condannato per tutta la vita ad avere capelli neri che penzolano diritti come spaghetti. Perfino la lacca e il gel non servivano a niente. A volte pensava di essere fisicamente così strana che si chiedeva se non fosse nata deforme. La mamma aveva parlato di un parto difficile. Ma era solo la nascita a determinare l’aspetto di una persona? Non era strano che lei non sapesse neanche chi fosse? Non era assurdo che non potesse neppure decidere il proprio aspetto? Quello, invece, era arrivato bello e pronto. Forse poteva scegliersi gli amici, ma non aveva scelto se stessa. Non aveva neanche scelto di essere un essere umano. Che cos’era un essere umano? Sofia fissò nuovamente la ragazza dello specchio. «Forse è meglio che vada di sopra a fare i compiti di scienze», mormorò. No, meglio andare in giardino, decise. «Micio, micio, micio, micio!» Sofîa spinse il gatto sulla scala e chiuse la porta. Nel momento in cui si trovò sul sentierino ghiaioso con la misteriosa lettera in mano, avvertì una strana sensazione. Si sentiva come una bambola diventata viva per incanto.”
Questo brano mi è tornato alla mente poco fa, quando ho ripreso in mano una canzone di Jovanotti che da tempo volevo affrontare con calma. E ho deciso di farlo veramente con calma: spezzetterò il testo musicale in piccole parti, soffermandomi brevemente su ciascuna di esse. La canzone è Buon Sangue, tratta dall’omonimo album del 2005. Il concetto di fondo è piuttosto semplice: siamo uomini poco originali nel senso che abbiamo preso un po’ da tutti i nostri parenti vicini o lontani nel tempo, comunque venuti prima di noi. Eppure abbiamo una nostra specificità: “niente accade due volte” canta alla fine della canzone Jovanotti. Sta di fatto che tutto il pezzo sembra una continua risposta alla domanda posta a Sofia Amundsen. Parto con la prima strofa.
Il primo parente è un cuoco imbarcato sulla stessa nave di Ulisse, il prototipo di tutti i viaggiatori: mentre tutti i marinai si mettono la cera nelle orecchie per non sentire il canto delle sirene, il cuoco si addormenta e pensa di aver sognato il canto delle sirene, e di averlo pure dimenticato. Canta Jovanotti: “Restò dentro di lui quel richiamo del vuoto che hanno tutti gli uomini che hanno vissuto un tuffo inconsapevole nell’assoluto”. Dal cuoco ha imparato alcune cose: che i sogni e la vita spesso si confondono tra loro e non sempre è facile distinguere realtà e sogno, anzi spesso si alimentano a vicenda; che il viaggio è sempre un ritorno, magari a se stessi, alla propria identità, non sempre identica a se stessa e in continua evoluzione; che di quella nave ci si ricorda di Ulisse, ma che Ulisse aveva avuto bisogno anche di lui, di un cuoco…
“Un mio parente era il cuoco sulla nave di Ulisse
al grande eroe e ai suoi uomini faceva pranzi e cene
anche a lui fu dato l’ordine che non ascoltasse
passando da quell’isola il canto delle sirene.
Ma lui si addormentò e non si mise la cera
e quando si svegliò credette di avere sognato,
ma invece l’esperienza era stata vera:
quel canto misterioso lui l’aveva ascoltato
e misteriosamente anche dimenticato.
Restò dentro di lui quel richiamo del vuoto
che hanno tutti gli uomini che hanno vissuto
un tuffo inconsapevole nell’assoluto.
Da lui ho imparato a vivere la realtà come un sogno
e i sogni come fossero una cosa reale,
a vivere ogni viaggio come fosse un ritorno
e che anche i grandi eroi han bisogno di mangiare.”
Domani continuo…
Un dove o un chi?
Prendo spunto da un dialogo del film Matrix (e mi accorgo che sono già passati 14 anni dalla sua uscita, gosh!). Chi non l’avesse visto sappia che Thomas Anderson è un programmatore informatico e, come hacker, utilizza lo pseudonimo di Neo. Viene contattato dal misterioso Morpheus. Ecco uno dei primi dialoghi:
“Morpheus: Immagino che in questo momento ti sentirai un po’ come Alice che ruzzola nella tana del Bianconiglio.
Neo: L’esempio calza.
Morpheus: Lo leggo nei tuoi occhi: hai lo sguardo di un uomo che accetta quello che vede solo perché aspetta di risvegliarsi. E curiosamente non sei lontano dalla verità. Tu credi nel destino, Neo?
Neo: No.
Morpheus: Perché no?
Neo: Perché non mi piace l’idea di non poter gestire la mia vita.
Morpheus: Capisco perfettamente ciò che intendi. Adesso ti dico perché sei qui. Sei qui perché intuisci qualcosa che non riesci a spiegarti. Senti solo che c’è. E’ tutta la vita che hai la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra nel mondo. Non sai bene di che si tratta, ma l’avverti. E’ un chiodo fisso nel cervello, da diventarci matto. E’ questa sensazione che ti ha portato da me. Tu sai di cosa sto parlando…
Neo: Di Matrix.
Morpheus: Ti interessa sapere di che si tratta, che cos’è? Matrix è ovunque, è intorno a noi, anche adesso nella stanza in cui siamo. E’ quello che vedi quando ti affacci alla finestra o quando accendi il televisore. L’avverti quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. E’ il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi, per nasconderti la verità.
Neo: Quale verità?
Morpheus: Che tu sei uno schiavo. Come tutti gli altri sei nato in catene, sei nato in una
prigione che non ha sbarre, che non ha mura, che non ha odore, una prigione per la tua mente. Nessuno di noi è in grado purtroppo di descrivere Matrix agli altri. Dovrai scoprire con i tuoi occhi che cos’è. E’ la tua ultima occasione: se rinunci, non ne avrai altre. Pillola azzurra: fine della storia. Domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa: resti nel paese delle meraviglie e vedrai quanto è profonda la tana del Bianconiglio. Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo. Niente di più.”
Ho citato il film non per parlare di misteriose realtà nascoste sotto quello che stiamo vivendo (o pensiamo di vivere, per restare nell’atmosfera del film), o per introdurre il tema del complottismo, ma semplicemente per utilizzarlo come metafora del cammino dell’uomo alla ricerca di se stesso: a volte risultiamo imperscrutabili anche a noi stessi, facciamo fatica a capire chi siamo, a comprendere quali sono le cose significative per noi. Sento spesso le persone parlare di desiderio di fuggire, di scappare da una realtà che non sentono più loro, di difficoltà di sentirsi appartenenti a un luogo che non sentono più proprio. Ecco allora che mi chiedo: quello che non si trova è un posto dove stare o un chi essere in qualsiasi luogo ci si trovi?
Nudi nella rete?
Sono convinto che internet sia un’opportunità molto importante per incrementare le conoscenze in vari ambiti e la circolazione di idee e opinioni. Sono altresì convinto che sia una risorsa da maneggiare con cura e che possa nascondere insidie non sempre chiaramente identificabili. Mi riferisco, in particolare, all’utilizzo che può essere fatto dei social network, o comunque di tutti quei siti che offrono la possibilità di esposizione personale. Sento la necessità, per la mia professione, di interessarmi dei mezzi che i ragazzi di oggi utilizzano per relazionarsi o semplicemente per svagarsi e devo confessare che non è sempre facile stare al passo con i tempi. Basti pensare che le differenze tra le varie età sono notevoli: alcuni degli studenti che ho in quinta non conoscono gli spazi web utilizzati da quelli delle medie o del primo biennio delle superiori… Figuriamoci io… Quello che mi preoccupa è che troppo spesso vedo i ragazzi esporsi in maniera personale sulla rete: sono loro, con le loro foto, i loro luoghi, le loro famiglie, i loro animali, i loro gusti, le loro passioni, i loro amori, le loro rabbie, i loro sfoghi. E spesso compaiono nomi e cognomi di amici, amori, nemici, rivali, parenti, conoscenti, insegnanti, allenatori… E in tutto ciò si espongono con il loro essere e le loro emozioni, piangono o ridono per quello che si scrive su di loro. Di frequente quanto appena descritto è pubblico, visibile a tutti. Ho amici scafati a proposito della rete, che utilizzano pseudonimi per gestire blog o profili e che si divertono a provocare discussioni o confronti, scrivendo spesso anche ciò che non condividono a livello ideale, solo per osservare le reazioni; e se ricevono insulti sanno regolarsi, sanno mettere una distanza di sicurezza tra la propria realtà e quella virtuale. La paura che ho, invece, nei confronti dei ragazzi è che questa distanza non ci sia e più avanti vanno le cose più il virtuale diventerà parte della realtà. Basta vedere quello che è successo ieri negli States: su twitter è apparso questo messaggio
La reazione immediata di Wall Street è stata questa
Si è risolto tutto in pochi attimi, quando si è scoperto che The Associated Press era vittima di hackeraggio. Un ragazzo che viene offeso in rete perché goffo o eccessivamente sensibile, una ragazza accusata di essere una poco di buono o di avere chili di troppo avranno lo stesso crollo di Wall Street. Avranno la stessa capacità di risollevarsi?
Equilibri sottili
In diverse classi parliamo del rapporto tra Europa e religioni. Aggiungiamo un altro tassello per la discussione: è un articolo di Riccardo Noury di Amnesty, preso da Le persone e la dignità.
“Lunedì scorso la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che la compagnia aerea
British Airways ha avuto un comportamento discriminatorio a causa della fede religiosa di una sua impiegata, stabilendo un risarcimento di 32.000 euro. La vicenda è quella di Nadia Eweida, una cristiana copta, che si era rivolta all’organo di giustizia europeo contestando l’obbligo, imposto dalla British Airways, di togliersi un crocifisso dal collo. Nel 2006 la donna, addetta al check-in, si era rifiutata di rispettare il codice di abbigliamento della compagnia aerea che prevedeva l’assenza di ornamenti intorno al collo ed era stata licenziata. Un anno dopo il codice era stato modificato e Nadia Eweida era stata reintegrata. Ma, nel frattempo, il suo ricorso era partito.
Richiamando l’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali, la Corte europea ha ribadito che indossare simboli religiosi è una parte importante del diritto alla libertà di religione e alla libertà di espressione. Amnesty International, in una nota, ha auspicato che questa sentenza possa contribuire a contrastare la discriminazione nell’impiego nei confronti di fedeli di ogni religione. Sono molti, infatti, i casi simili a quello di Nadia Eweida in molti paesi europei. Divieti o limitazioni relativi a simboli religiosi o culturali, così come a capi d’abbigliamento, soprattutto nei confronti di fedeli musulmani, sono stati imposti da datori di lavoro privati con la scusa che non erano necessari ai fini dello svolgimento dell’opera professionale richiesta. Non è che ognuno possa fare completamente come gli pare, sia chiaro. Vi sono casi in cui i datori di lavoro possono applicare regolamenti restrittivi per un obiettivo legittimo, nella misura in cui tali restrizioni siano necessarie e proporzionali all’obiettivo.
Nella stessa sentenza, la Corte europea dei diritti umani ha respinto il ricorso di altre persone di fede cristiana. In particolare, quelli di Lilian Ladele e di Gary McFarlane, i quali per motivi religiosi avevano, rispettivamente, rifiutato di registrare matrimoni civili omosessuali e di fornire consulenza a coppie omosessuali. Un terzo ricorso respinto riguardava un’infermiera che era stata obbligata a togliersi un crocifisso dal collo in quanto avrebbe potuto ferire i suoi pazienti. La Corte, in questi casi, ha rilevato che i ricorrenti avevano rifiutato di svolgere attività che erano essenziali nel contesto della loro professione. In sintesi, ci dice la sentenza, il diritto alla libertà di religione o di credo dev’essere protetto dalla discriminazione ma può essere limitato allo scopo di proteggere i diritti di altre persone. Un equilibrio sottile, ma indispensabile da mantenere e rispettare.”
Evitando disastrose macedonie
Oggi prima ora, citando “Vivere, amare, capirsi” di Leo Buscaglia a proposito dell’dentità:
“Lo so perché sono sempre disperata. E’ perché voglio essere amata da tutti, ed è umanamente impossibile. Potrei essere la pesca più deliziosa, più squisita, più meravigliosa del mondo e potrei offrirmi a tutti. Ma ci sono quelli che sono allergici alle pesche. E allora vorrebbero che io fossi una banana. E così spesso,noi diventiamo una banana per quelli che vogliono le pesche. Che macedonia disastrosa! E’ giusto dire: Mi spiace,ma non posso essere una banana. Se potessi mi piacerebbe essere una banana per voi,ma sono una pesca. Se sapete aspettare troverete qualcuno a cui piacciono le pesche. E allora potete vivere la vostra vita come una pesca, non dovete viverla come una banana! Quanta energia si spreca per essere una banana, quando si è una pesca!”.
Assetato di parole buone
Una poesia di Dietrich Bonhoeffer tra domande su se stessi e abbandono in Dio. La scrisse nel carcere militare di Tegel, a Berlino.
Chi sono, io? Mi dicon spesso
che esco dalla mia cella
calmo e lieto e saldo
come il padrone del suo castello.
Chi sono, io? Mi dicon spesso
che parlo alle mie guardie
libero e amichevole e chiaro
come fossi io a comandare.
Chi sono, io? Mi dicon anche
che sopporto i giorni della sventura
impavido e sorridente e fiero
come chi è avvezzo alla vittoria.
Io, in realtà, son ciò che gli altri dicono di me?
O sono solo ciò che so io di me stesso?
Inquieto, nostalgico, malato come un uccello in gabbia
bramoso d’un respiro vivo come mi strozzassero alla gola
affamato di colori, di fiori, di voci d’uccelli
assetato di parole buone, di presenza umana
tremante di collera davanti all’arbitrio e alla più meschina umiliazione
roso per l’attesa di grandi cose
impotente e preoccupato per l’amico ad infinita distanza
stanco e vuoto per pregare, per pensare, per creare
esausto e pronto a prendere congedo da tutto?
Chi sono, io? Questo o quello?
Oggi uno, domani un altro?
Sono tutt’e due insieme? davanti agli uomini un simulatore
e davanti a me stesso uno spregevole, querulo rottame?
O ciò che in me c’è ancora rassomiglia all’esercito sconfitto
che si ritira in disordine prima della vittoria del già vinto?
Chi sono, io? – domandare solitario che m’irride.
Chiunque io sia, tu mi conosci, tuo sono io, o Dio!
Dietrich Bonhoeffer, Chi sono, io?
Sei e sai
Continuare a essere se stessi
Ho trovato su Internazionale questo articoletto di Claudio Rossi Marcelli molto interessante. Fanno riflettere anche gli interventi a commento riportati in coda all’articolo originale.
“Sfido chiunque a negare di sentirsi a disagio di fronte a un handicappato”, scrive Massimiliano Verga, papà di un bambino molto malato, in Zigulì. Pensavo che non soffermare lo sguardo fosse la cosa più rispettosa da fare. Ma, secondo lui, chi si volta di scatto non è così diverso da chi fissa suo figlio: le due reazioni esprimono lo stesso malessere. Quello che si deve evitare è ridurre l’identità di un individuo alla sua disabilità.
Non esistono i down o gli autistici, ma solo persone affette da questi disturbi. Cercate di fare amicizia con il bambino, la sua personalità conta più della sua condizione. Ricordo l’intervista a una donna tedesca in sedia a rotelle che aveva scelto di vivere in Italia: “Ma come, signora, un paese pieno di barriere architettoniche, senza infrastrutture per i disabili”. Lei però si trovava bene. “Nell’efficientissima Germania non mi degnano di uno sguardo. Qui sono ricoperta di attenzioni, tutti vogliono sapere cosa mi è successo. Mi sento amata e coccolata”. La condizione di disabilità cambia a seconda di chi la vive.
“È difficilissimo restare noi stessi di fronte a un disabile”, scrive Verga. “L’unico modo per ridurre il disagio è fare in modo che il disabile possa continuare lui a essere se stesso. Ed è forse una regola che andrebbe adottata con chiunque”.






