Planck e la fiducia nell’invisibile

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Nel suo quarto articolo per la rubrica Interferenze di Avvenire, Gabriella Greison si occupa di Max Planck e dell’importanza di restare fedeli alla verità senza possederla.

“Max Planck non amava le scene. Non gli interessava l’eroismo, né le prime pagine dei giornali. Aveva un portamento discreto, quasi austero, da professore che preferisce passare inosservato. Eppure, da quell’austerità è nata una rivoluzione che ha cambiato per sempre la storia della conoscenza: la nascita della meccanica quantistica. Planck non cercava la fama: cercava la verità. E la verità, per lui, non era un premio o una formula perfetta, ma una condizione morale. Credeva che il mondo avesse una struttura logica, una coerenza interna, una musica che si poteva ascoltare solo nel silenzio. Diceva che la scienza era un modo per avvicinarsi all’ordine, e che quell’ordine — razionale, invisibile, armonico — era il segno di Dio. Non un Dio che interviene nei destini umani come un regista, ma un Dio che regge la scena con leggi invisibili, precise, meravigliosamente coerenti. Un Dio che non ha bisogno di apparire per essere creduto.
La sua scoperta, quella che gli cambiò la vita, arrivò quasi per disperazione. Alla fine dell’Ottocento la fisica era in crisi: c’era un problema, la “radiazione del corpo nero”, che nessuno riusciva a spiegare. Le formule classiche si scontravano contro un muro. Planck cercava solo un modo per far tornare i conti, non per rivoluzionare la fisica. Nel 1900 tentò una via che gli parve un espediente temporaneo: ipotizzò che l’energia non fluisse in modo continuo, ma a pacchetti, a “quanti”. Un piccolo gesto matematico, quasi un trucco per far funzionare la formula. E invece, con quell’atto di umiltà e di genio, aprì un varco. Il mondo non era continuo, ma granulare. La realtà non era un tessuto uniforme, ma un mosaico invisibile di frammenti energetici, pulsanti come note di una sinfonia che si accende e si spegne. La fisica classica si incrinava, e nasceva la fisica quantistica.
Planck stesso faticò a credere alla sua scoperta. Diceva che era come se avesse aperto una porta su un territorio che non voleva ancora esplorare. E infatti per anni cercò di tornare indietro, di chiudere quella porta, di rimettere ordine nel caos che aveva generato. Ma l’universo, ormai, aveva parlato. E da lì in avanti niente sarebbe stato più continuo, né prevedibile, né definitivo. Eppure Planck rimase Planck: calmo, riservato, quasi diffidente verso il clamore dei suoi colleghi più giovani. Non aveva lo slancio visionario di Einstein, né il gusto per i paradossi di Bohr. Era l’uomo del rigore, del metodo, della costanza. Pensava che la scienza fosse un avvicinamento lento, progressivo, un cammino fatto di piccoli passi. E dentro quel cammino trovava spazio per la fede. “La fede è un’eredità preziosa dell’umanità”, scrisse. “La scienza e la religione non sono in contrasto, ma si completano e si condizionano reciprocamente.” Non parlava di una fede dogmatica, ma di un atto di fiducia. Perché ogni scienziato, nel momento in cui scrive un’equazione, compie un gesto di fede: crede che l’universo abbia un senso. Crede che le leggi della natura non siano arbitrarie, ma coerenti. Crede che la mente umana sia parte di quell’ordine, non estranea ad esso. In questo senso, per Planck, la fede non era un’alternativa alla ragione, ma la sua radice. Era la fiducia che il mondo non sia assurdo, che ogni frammento di realtà porti traccia di una logica comune. Ma dietro quella calma del professore, la vita di Max Planck fu segnata dal dolore. Vide morire due figlie, una moglie, e infine il suo ultimo figlio, Erwin, giustiziato dai nazisti per aver partecipato al complotto contro Hitler. Aveva più di ottant’anni. Aveva visto crollare tutto: il suo Paese, la sua generazione, la sua fede negli uomini. Eppure non smise mai di credere, né nella scienza, né in Dio. Non alzò mai i pugni al cielo per chiedere spiegazioni. Non trasformò il dolore in rancore. Continuò a scrivere, a insegnare, a cercare. Perché la sua spiritualità era questa: resistere al buio, tenere accesa la luce dell’intelletto. C’è una sua frase che mi ossessiona: “Per credere nella scienza, bisogna credere nella razionalità del mondo”. È un manifesto, una preghiera laica. Perché ogni volta che sperimentiamo, noi stiamo già compiendo un atto di fede. Non quella dei dogmi, ma quella che ci dice che il mondo ha un senso. Che non è un gioco casuale. Che non siamo gettati nel caos, ma immersi in una logica che ci precede.
E qui, se permettete, apro una parentesi. Perché questa parte mi riguarda da vicino. Io, che racconto la fisica sui palchi, perché lo faccio? Perché non mi basta più dire le cose “fredde”, solo con i numeri. Io sono in ricerca. Mi muovo tra le equazioni e i racconti, tra gli archivi e la scena, ma quello che inseguo è un senso. Un senso che non si può scrivere con la gessata di una lavagna, ma si può intuire in un respiro, in una parola, in un gesto. La fisica, per me, non è mai stata solo tecnica: è una lente per guardare dentro, non solo fuori. È il mio modo di stare nella domanda. E la spiritualità — quella libera, senza dogmi, fatta di domande più che di risposte — è il territorio naturale in cui queste domande respirano. Io non so se troverò mai una risposta definitiva. Ma so che questo cammino, questo continuo oscillare tra particelle e mistero, è il mio modo di cercare. E ogni volta che racconto Planck, racconto anche questo: che il mistero non è un fallimento, ma un fine. Planck lo sapeva. Sapeva che non si può possedere la verità, si può solo restarle fedeli. Che la fede non è un pacchetto chiuso di certezze, ma il coraggio di continuare a cercare anche quando tutto sembra crollare. Forse la sua vera eredità non sono solo i quanti, i Nobel, le formule che portano il suo nome. Forse è questa: la certezza che scienza e fede non sono nemiche, ma sorelle. Due vie che non si annullano, ma si guardano negli occhi. Due strade che si separano e poi si ritrovano, come due onde che interferiscono e creano una figura nuova. Max Planck non parlava di miracoli. Parlava di costanza. Parlava di fedeltà. Credeva che Dio fosse la radice della logica dell’universo, il fondamento silenzioso di ogni legge naturale. E nella sua voce sobria, senza enfasi, c’era già una spiritualità profonda: credere che l’invisibile sia reale. Che la luce più forte non è quella che si vede con gli occhi, ma quella che illumina la mente e consola il cuore. La sua fede nella luce invisibile è un invito a non smettere di cercare, anche quando tutto intorno è oscurità. A credere che la conoscenza, se fatta con umiltà, è una forma di preghiera. Che ogni esperimento riuscito è una genuflessione alla bellezza del mondo. E che ogni scoperta, anche la più piccola, è un modo per dire grazie.
Domanda per noi, oggi: se persino Planck, il più sobrio dei fisici, ci ricorda che ogni conoscenza nasce da un atto di fede, siamo disposti ad ammettere che anche noi viviamo di fiducia nell’invisibile? E che forse la vera grandezza non sta nel possedere risposte, ma nel restare fedeli alla ricerca — anche quando fa male, anche quando sembra inutile, anche quando tutto intorno crolla? Perché la scienza, come la vita, non promette certezze. Promette solo che, finché continueremo a cercare, la luce invisibile non si spegnerà mai.”

La perseveranza nella possibilità

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Una decina di giorni fa avevo pubblicato il primo articolo di Gabriella Greison per la rubrica Interferenze di Avvenire. Qualche giorno fa è uscito il secondo dedicato a Marie Curie.

“Marie Curie non aveva tempo per i dogmi. Non amava i riti, non cercava consolazioni nei libri sacri. Eppure la sua vita è una delle testimonianze più radicali di cosa significhi credere in qualcosa che non si vede. Non pregava, ma vegliava per notti intere sopra un forno improvvisato. Non cercava miracoli, ma li provocava senza saperlo. Quando scoprì la radioattività, non sapeva ancora cosa fosse. Non c’erano parole, né modelli teorici, né manuali per spiegarla. Sapeva solo che da quelle pietre di pechblenda che le arrivavano sporche di fango e carbone, in sacchi da tonnellate, si sprigionava un’energia misteriosa.  Una luce invisibile che attraversava la materia, che lasciava tracce su lastre fotografiche dimenticate in un cassetto, che si rivelava con una luminescenza tenue nei suoi laboratori scuri. Non si vedeva a occhio nudo, ma era lì, reale, tangibile. Una presenza che sembrava più spirituale che materiale.
Marie Curie non lavorava con strumenti sofisticati: aveva provette spaiate, pentole crepate, mani  segnate dalla fatica. Il laboratorio era poco più di una baracca: d’inverno il freddo entrava dalle finestre rotte, d’estate il caldo scioglieva il piombo. Eppure, in quelle condizioni, scoprì che l’universo custodiva una scintilla segreta. Una scintilla che illuminava senza fiamma, che scaldava senza fuoco, che parlava senza voce. Una dedizione totale a quello che faceva.
Forse la sua spiritualità era questa: restare fedele a una ricerca che non prometteva nulla, se non il brivido del mistero. Non cercava un Dio personale, ma neanche si accontentava di un mondo già catalogato. La sua fede era nel lavoro, nella sua dedizione, nella possibilità che dietro l’apparenza ci fosse altro. E mentre gli uomini intorno a lei facevano carriera nelle accademie, Marie continuava a rimestare tonnellate di materiale grezzo. “Ho dovuto trascinare carri, spezzare pietre, accendere forni, come un contadino”, raccontava. Eppure, mentre sudava e tossiva in quella baracca, si accorgeva che stava accendendo una luce nuova sul mondo.
C’è una frase di Marie che mi colpisce sempre: «Nella vita non c’è nulla da temere, solo da capire». È un manifesto che potremmo appendere ovunque. Significa che la paura nasce dal buio, e che la conoscenza è una forma di luce. Eppure, proprio lei che aveva acceso quella luce, pagò il prezzo più alto: il suo corpo assorbì lentamente la radiazione che non sapeva ancora come domare. Le sue ossa si incrinavano, le sue mani tremavano, i suoi taccuini restano ancora oggi radioattivi, custoditi in piombo nelle biblioteche di Parigi.
In questo c’è una grande lezione di spiritualità: si può credere al punto da consumarsi, si può amare il mistero fino a farlo entrare nelle ossa. Non perché si sia fanatici, ma perché si riconosce che la vita ha senso solo se ci si dona a qualcosa che ci supera. Marie Curie non parlava di Dio, ma ci ha consegnato un’idea che gli somiglia: la convinzione che nell’invisibile ci sia la verità. E che la nostra parte più autentica non si trovi in quello che possediamo, ma in quello che siamo disposti a cercare. Forse la sua eredità non sono solo l’uranio o il polonio, né i due premi Nobel, né le onorificenze che le hanno consegnato troppo tardi. Forse la sua vera eredità è averci insegnato che la luce non è solo quella che vedono gli occhi. Ce n’è un’altra, più sottile, che ci chiede di avere coraggio, pazienza, dedizione.
Perché la sua grandezza non sta solo nell’aver aperto una strada nuova alla scienza, ma nell’averci  ricordato che il mistero non si doma: lo si accompagna. Si vive accanto a lui, lo si accetta, lo si interroga. Si lascia che diventi parte di noi. Eppure, per capire Marie, bisogna tornare all’inizio. Una ragazza di Varsavia, in un tempo in cui alle donne non era concesso quasi nulla: non le aule ufficiali, non le cattedre, non il diritto a una curiosità senza permesso. Studio clandestino, libri presi di nascosto, una fame di sapere che non si spegne. È lì che nasce la sua “preghiera laica”: imparare, anche quando tutto intorno dice di no.
Poi l’incontro con Pierre: due vite che si uniscono non per completarsi, ma per moltiplicarsi. Non  un altare, ma un banco da lavoro; non promesse solenni, ma una cassa di legno piena di minerali, campioni, strumenti. L’amore, per loro, è un’alleanza con la materia. E quando la materia restituisce il suo segreto, loro lo chiamano con nomi di patria e affetto: polonio, radio. Nella scelta dei nomi c’è la loro geografia interiore: il luogo da cui si parte e il fuoco che si è trovato. E poi la perdita. Un carro, un incidente, il mondo che si spezza. Marie rimane davanti a un’assenza che non ha linguaggio. Non scrive preghiere, non chiede risarcimenti al cielo. Torna in laboratorio, accende il forno, rilegge gli appunti. È una fedeltà senza spettacolo: l’idea che la vita riprenda senso stando vicino alla sorgente di luce che si è accesa insieme. Quella fedeltà è una forma di spiritualità: restare dove arde, anche quando brucia. E arriva la guerra. Non una parentesi, ma una chiamata. Marie prende la luce invisibile e la porta dove serve: sul fronte, negli ospedali, nelle baracche di fortuna. Addestra infermiere, guida camion, spiega come mettere a fuoco un’ombra dentro un corpo per salvare un arto, una vita. Non discute teorie: accende apparecchi. La scienza, in quelle ore, è una carezza che vede ciò che l’occhio non vede. La sua spiritualità è diventata azione: non parole, ma voltaggi e immagini che rimettono insieme ciò che la guerra rompe.
E c’è la fama, che non consola. Premi, medaglie, scandali, sospetti. La diffidenza verso una donna  “troppo donna per la scienza, troppo scienza per il salotto”. Marie non risponde. Lavora. Quando la vita di superficie si agita, lei scende di un livello e tace, come fanno i minatori quando la galleria vibra. È un gesto spirituale: scegliere la profondità quando la superficie fa rumore. Se guardiamo bene, tutto in lei è un esercizio di presenza. Restare, anche quando fa male. Cercare, anche quando non c’è garanzia di trovare. Illuminare, anche quando nessuno ringrazia. È una mistica senza dogmi, una scienziata senza retorica. La sua “preghiera” è una formula semplice: “continua”. Ed è proprio in questo verbo che la scienza e la spiritualità si toccano: nella perseveranza che non pretende risultati immediati, ma tiene aperta la possibilità.
E allora la domanda diventa nostra: cosa ce ne facciamo, oggi, della sua luce invisibile? In che  modo possiamo rimanere accanto a ciò che non capiamo, senza fuggire? Possiamo imparare anche noi a “vedere dentro” — nelle cose, nelle storie, nelle persone — con un apparecchio che non ha manopole ma ha un nome antico: attenzione. Forse l’attenzione è la radiografia dell’anima: mette a fuoco l’invisibile e lo rende abitabile. Ecco perché Marie Curie appartiene a questa rubrica: perché ci ricorda che la scienza, quando tocca l’invisibile, diventa preghiera. Non detta formule, ma ci invita a restare in ascolto. Non costruisce dogmi, ma apre spazi. Non ci promette risposte definitive, ma ci regala la capacità di non smettere di domandare.

PS: Scrivo questa rubrica anche per questo: perché sento il bisogno di rileggere figure come Marie Curie non solo come scienziate, ma come donne e uomini che hanno interrogato il mistero. Anch’io sono — come tutti, forse — alla ricerca di un nuovo significato da dare alle cose del mondo. Non basta spiegare, non basta calcolare. Voglio trovare parole che tengano insieme ragione e stupore, numeri e silenzi. In questo cammino, anche Marie Curie diventa per me una compagna di viaggio, come Einstein e altri fisici che hanno scavato nel profondo per riemergere con nuove illuminazioni. Non tanto perché abbiano trovato risposte definitive, ma perché hanno avuto il coraggio di convivere con l’invisibile. Domanda per voi: qual è la vostra luce invisibile, quella a cui vi affidate nei momenti bui?”

Visibile e invisibile dell’arte

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Ho avuta la fortuna di avere due ottime colleghe di Storia dell’arte, Paola e Anna. Con una di loro ho collaborato durante l’anno (abbiamo insegnato insieme in tre corsi), con l’altra avevamo solo due classi comuni e la sto conoscendo meglio su facebook, scoprendo un mondo sorprendente. A loro ho pensato leggendo queste parole di Pierangelo Sequeri su un libro che ho appena terminato: “E’ diventato persino doloroso percepire la diffusione epidemica dell’asfissiante vuotezza di quel luogo comune nel quale si riassume la qualità dell’arte: «ci ha regalato emozioni». E’ un modo per non dire niente dell’arte, e delle sue immense corposità spirituali, ammiccando all’idea che, nell’indistinto dell’emozione, si è anche detto tutto quello che c’era da vedere, da sentire e da pensare. E’ il segno più eloquente della morte dell’arte. L’artista si svena per incorporare racconti di pensiero e visione di mondi, e l’utente finale non ha più parole e mente per riceverli. Ha provato emozioni. Ecco tutto. L’enorme lavoro spirituale e mentale dell’arte sincera e più sensibile all’impensato e al non percepito della vita quotidiana, affoga nell’indistinto di un generico senso di benessere e di eccitazione. In questa afasia della mente e dell’anima sensibile è proprio il visibile a morire, nella sua abissale eccedenza di riflessi dell’invisibile. Ed è proprio così che l’invisibile è perso. Narcosi e anestesia dei sensi spirituali, ecco cos’è l’arte come strumento del mero godimento senza mediazione di parole e racconti.” (Pierangelo Sequeri, Non ti farai idolo né immagine)

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Sono belle le cose

Sono belle le cose, belli i contorni degli occhi

e i contorni del rosso

gli accenti sulle a, lacrime di pagliacci

le ciglia delle dive, le bolle di sapone,

il cerchio del mondo è bello

l’ossigeno delle stelle e la poesia dei ritorni,

di emigranti e isole,

cercando l’invisibile: l’appartenenza

E’ bello il fuoco

e il sonno

e il buio petulante gola dei fantasmi

e il brodo primordiale padre nostro

che cola in questi nomi.

(Sono belle le cose, Gianmaria Testa)