Tra Paolo di Tarso e Palantir

Fonte immagine

Da un po’ di tempo sto cercando di leggere articoli e pubblicazioni sul modo di vivere la fede e di intendere la religione negli Stati Uniti d’America. A incidere su questa scelta vi sono vari fattori: l’elezione di un papa proveniente da quello stato, il fatto che spesso ciò che avviene oltreoceano arriva dalle nostre parti, la presenza sempre più frequente di linguaggio e simboli religiosi nella politica, il fenomeno della polarizzazione delle posizioni. Oggi pubblica un articolo piuttosto lungo, preso da Pandora Rivista. Esso indaga il ruolo del Cristianesimo come forza teologico-politica capace di frenare il caos nelle società occidentali contemporanee, riprendendo il concetto paolino di Katechon. Analizza l’influenza di figure come Donald Trump, J.D. Vance e soprattutto Peter Thiel, ideologo della Silicon Valley e teorico di un cristianesimo politico che unisce capitalismo, sovranismo e visione escatologica. Nei suoi scritti, Thiel propone una reinterpretazione del “senso comune” e del potere come freno all’entropia sociale (definibile in pochissime parole come tendenza di una società al disordine, alla disgregazione e alla perdita di coesione interna), ponendo il Cristianesimo come ultimo baluardo contro la dissoluzione dell’Occidente e le minacce percepite, in particolare l’Islam e il globalismo liberale. Disclaimer: come al solito, a meno che non lo dichiari, sul blog non riporto soltanto idee alle quali aderisco, ma sono interessato a ospitare punti di vista differenti, utili ad approfondire varie tematiche. Specificato questo, ecco il testo scritto da Benedetta Lazzeri ed Elia Scapini.

“Diciamocelo, non annoia mai il dibattito sui fondamenti primi delle società occidentali, con l’irrisolta questione se le moderne democrazie liberali possano veramente legittimarsi o se, in fin dei conti, poggino su presupposti che non sono in grado di darsi. Un tema stimolante, questo, soprattutto perché chiama in causa la questione della religiosità, in generale, e della religione cristiana in particolare, nel suo rapporto con le società contemporanee, sollevando la domanda se, in fondo, l’aver relegato le religioni allo spazio del privato sia stato veramente un buon affare o se non si sia scelto di liquidare, assieme al Cristianesimo, anche una realtà in grado di opporsi all’entropia intrinseca alle dinamiche umane e di potere, qualcosa che sappia resistere al caos e alla disgregazione. Nel gergo teologico politico, questa forza resistente ha un nome specifico: Katechon. Un termine complesso, che ci arriva dal Nuovo Testamento – 2 Tessalonicesi 2,6-7 – e che, dalla prima Modernità alla prima metà del Novecento, ha abitato le pagine più raffinate della trattatistica politica che, ora come allora, era mossa da una domanda fondamentale: su quali basi si costruiscano le nostre istituzioni e se ci sia, nelle loro fondamenta, una forza che faccia da deterrente, da freno. Una questione che diviene sempre più urgente man mano che le religioni, le ideologie e i simboli perdono la loro forza spirituale e morale sulla comunità.
Ma più del dubbio se abbiamo fatto e stiamo facendo bene, se le nostre scelte di democrazia e liberalismo ci beneficeranno sul lungo periodo o se invece non siamo parte di un macro trend che nel suo complesso è in declino, più di ogni rimpianto e rimorso, siamo incuriositi dalle proposte, dalle nuove teorie e letture, da tutte quelle voci che propongono convintamente di indicare strade nuove, che lo siano realmente o apparentemente.
A colorare il dibattito con un senso di fallimento e sconfitta ci hanno pensato, fra gli altri, Donald Trump e J. D. Vance e che la loro proposta intersechi i motivi del Cristianesimo non fa certo dubbio: abbiamo sentito parlare di elezione divina e abbiamo visto ministri di governo riuniti in preghiera. Non solo, J. D. Vance, convertito al Cristianesimo dalla lettura di Agostino, ha addirittura proposto l’applicazione geopolitica del principio dell’ordo amoris di Tommaso d’Aquino, mostrandone l’interno accordo con lo slogan America First: ci sono cose che vengono prima e cose che vengono dopo, e le cose che vengono prima esigono una dedizione maggiore, con buona pace di tutto il resto. In questo senso, per quanto possano sembrare bizzarri, i riferimenti e le citazioni teologiche che arrivano dalla Casa Bianca andrebbero prese molto sul serio, e non per un’improbabile consapevolezza nascosta dietro di esse, quanto perché queste parole sono la prova della cogenza di una teoria che Carl Schmitt sostenne quasi un secolo fa: tutte le società contemporanee e occidentali si basano su concetti teologici secolarizzati.
Che il Cristianesimo abbia un ruolo fondamentale nel dibattito politico mondiale non è cosa nuova; se si riavvolge il nastro della storia, anche solo di due o tre anni, si vedranno apparire, in fila, momenti fondamentali della contemporaneità più recente in cui il Cristianesimo e i suoi principali simboli si sono fatti carico di messaggi e gesti dalla portata politica non trascurabile, come, per esempio, l’incontro tra il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e Donald Trump fuori dalla Basilica di San Pietro, in Vaticano. Il problema, tuttavia, andrebbe posto in modo più preciso e scientifico, domandandosi innanzitutto, che ruolo abbia il Cristianesimo nell’orientamento delle politiche degli Stati sovrani, su tutti, in quella degli Stati Uniti di Donald Trump. Una domanda che apre la strada ad altre questioni cruciali, ad esempio, quella su quanto siano ancora pregnanti i simboli religiosi (seppur secolarizzati) all’interno delle società occidentali; su quale rapporto intercorra tra il Cristianesimo professato dai trumpiani e il dio-denaro – l’unica vera guida delle politiche della Casa Bianca e della Silicon Valley – e, ancora, se il il Cristianesimo possa essere la forza in grado di tenere a freno il caos che sta sconvolgendo gli ordini mondiali.

C’è un’altra figura fondamentale, seppur infinitamente meno nota dei Trump e dei Vance, che potrebbe aiutarci a rispondere a queste domande; un uomo che tira le fila del dibattito geopolitico mondiale e che ha influenzato (e continua a influenzare) profondamente l’establishment nordamericano. Classe 1967, patrimonio personale di 8 miliardi di dollari, Peter Thiel nasce a Francoforte da famiglia tedesca poi naturalizzata statunitense. Appassionato sin da piccolo di fantascienza, studia filosofia nella prestigiosa sede di Stanford, dove segue i corsi di René Girard e acquisisce una specializzazione in legge. Prima di approdare in California e di diventare uno dei capostipiti della Silicon Valley, Thiel lavora come avvocato e trader. Nel 1999 fonda PayPal che, un anno più tardi, si fonde con X.com di Elon Musk prima di essere venduta a eBay (nel 2002) per 1,5 miliardi di dollari. È solo nel 2003 che l’ambizioso capostipite della PayPal Mafia fonda Palantir Technologies – il nome della società, che deriva dalle “pietre veggenti” della saga fantasy Il Signore degli Anelli di Tolkien, ci dice qualcosa sull’eccentrica personalità di Thiel –, compagnia di software specializzata nell’analisi e nella gestione dei dati complessi, utilizzata, tra le altre, da agenzie governative quali CIA e FBI. Dichiaratamente gay, balbuziente, colto e infinitamente meno scenografico dell’allievo Musk, è stato proprio Thiel a sdoganare, nel 2016, l’appoggio della Silicon Valley e delle Big Tech a Donald Trump; una vicinanza che, soprattutto nelle ultime elezioni, si è dimostrata essenziale alla leadership del Tycoon. Minimalista, austero e con una cultura più alta della media dei suoi sodali e colleghi, Peter Thiel è un ideologo efficace, forse non di altissimo livello, talvolta tranchant nel tagliare lo spazio politico mondiale in categorie riduttive (seppur schmittiane) come il bipolarismo amico-nemico, ma sicuramente capace di orientare il sentimento politico e geopolitico della Silicon Valley e dello Studio Ovale.
Ma ideologo di cosa? Qual è il pensiero, lo schema, che si nasconde dietro la retorica ultrareazionaria e nazionalista di Trump e Vance? Quale ragionamento può giustificare la totale sottomissione dello spazio politico al potere economico che sembra tenere in piedi l’asse che lega la Casa Bianca e la Silicon Valley e, soprattutto, come entra il Cristianesimo in questa equazione? Sono questioni complicate, come complicato è lo scenario che le genera; tuttavia, nella confusione generale del momento, Peter Thiel sembra poter fornire delle prime risposte. A differenza di coloro cui si accompagna, Thiel ha più volte tentato di dare ragione delle proprie idee e i suoi primi scritti politicamente orientati risalgono agli anni dell’università a Stanford. Un particolare, questo, non da poco, considerando che la forma scritta ci fornisce non solo una via d’accesso diretta e interna all’ideologia del magnate, ma ci dà anche la possibilità di interpretare e commentare da fuori un pensiero che, dal 2017 a oggi, sembra essersi rafforzato nel suo peso politico specifico.
Già nel lontano 2003 il breve saggio (circa 25 pagine) Il momento straussiano raccoglieva gran parte di quella che, negli anni a venire, sarebbe diventata la sua visione politica. Nel libro, le riflessioni del magnate della Silicon Valley vengono liricamente introdotte da un estratto in versi di Locksley Hall di Alfred Tennyson; parole, quelle del poeta inglese, che con il senno di poi risuonano più potenti e rivelatrici che mai. Il passo racconta una visione del futuro dai tratti escatologici: in questa preveggenza profetica, l’uomo può spingere il proprio sguardo fino al limite del possibile e lì vede la meraviglia del progresso. Un avanzamento tecnico del mondo che, continua Tennyson, porta con sé guerra e distruzione, almeno fino all’istituzione – che va di pari passo con il crollo di ogni potere politico specifico – di un Parlamento dell’umanità, di una Federazione del mondo, guidata solo da una saggezza condivisa che tiene a bada persino i popoli più irrequieti e i regni più instabili. In altre parole, Thiel non santifica il progresso sfrenato e senza limiti, bensì sembra inserirlo in una sorta di movimento triadico hegeliano, durante il quale, a due fasi diametralmente opposte e inconciliabili, se ne aggiunge una di ricomprensione delle due nella conciliazione del common sense. Questo senso comune tanto idealizzato è, pare ovvio, il Katechon paolino, è una forza frenante che ha una direzione e un fine, è, insomma, un concetto teologico secolarizzato.
Rispetto alla visione poetica di Tennyson, non è difficile individuare la fase in cui si trovano a vivere gli Stati contemporanei. Il mondo è in fiamme, la globalizzazione del commercio senza barriere è in crisi e, con essa, la pace e l’unità che si diceva fossero seguite alla separazione della Guerra Fredda. Ciò che manca – questo sembra dirci Thiel – è appunto il common sense cui Tennyson fa riferimento nei suoi versi, lo stesso che appare ciclicamente nelle dichiarazioni che provengono dalla Casa Bianca. E poco importa se il modo in cui il poeta inglese intende l’espressione poco (o niente) ha a che fare con il “buon senso” trumpianamente inteso; è proprio questa l’accezione cui pensa la giovanissima speaker della Casa Bianca Karoline Leavitt quando per comunicare le risoluzioni operate dal governo le descrive come ovvie e scontate proprio perché conformi con il senso comune della maggioranza degli elettori.
Se per Tennyson, infatti, il senso comune è sinonimo di un “sentire collettivo”, della ragionevole concordia condivisa da un gruppo di persone che ha il sapore di un’élite razionale mossa dalla fiducia nell’ordine globale della giustizia, con Trump – e forse anche con Thiel – ci troviamo di fronte a un senso comune che non richiede nessuno sforzo di ragione ma che dà per buona l’opinione immediata e urgente dei più, senza trascurare (anzi) le comuni (appunto!) frustrazioni e delusioni. La ripresa che Peter Thiel fa di questa espressione ci mette davanti a uno dei punti essenziali del dibattito contemporaneo: il senso comune ci porta tutti a evitare aghi e vaccini, il senso comune darà ragione a chi suggerisce esservi un legame vincolante fra somaticità biologico-genitale e rappresentazione genderizzata dell’orientamento sessuale, il senso comune non vede ragione nello sforzo economico e bellico in guerre oltreoceano e, cosa più importante, il common sense diviene incomprensibilmente verità assoluta. È stato questo, in fondo, il principale richiamo di Vance all’Europa, quando, armato di gesso e bacchetta, ha ricordato ai nostri politici come fare il loro mestiere: obbedire al senso comune, a quello che la pancia del popolo chiede a gran voce, anche qualora il buon senso sembri spingere in una direzione diversa.
In altre parole, esiste una teologia anche in politica, un discorso attorno a quelli che devono essere i principi primi e ultimi delle società, ed esistono agenti politici in grado di orientare la scena del mondo senza lasciarsi influenzare da quelle che, alla luce di questi ragionamenti, non sono che visioni parziali, frammentarie del reale. Sono stati proprio i Thiel e i Musk a orientare la scelta della Vicepresidenza su J. D. Vance – decisione che ha scontentato l’ala più moderata dei magnati vicini a Trump – ed è stato Thiel a fornire una parte dei presupposti teorici della campagna trumpiana contro le istanze inclusive e la cultura woke. Risale addirittura a trent’anni fa un libro poco noto del proprietario di Palantir – meno famoso del già citato The Straussian Moment e molto meno noto del vendutissimo Da zero a uno – dal titolo più che eloquente: The Diversity Myth. Scritto quando Thiel si trovava ancora tra i banchi della Stanford University, il libro attacca duramente le prime voci woke, accusandole di avallare un atteggiamento “semplicemente anti-occidentale” senza alcun proposito se non quello di distruggere l’Occidente e tutte le sue forme.
In effetti, l’idea che la società occidentale esista anche in virtù delle sue espressioni sociali, culturali e politiche non è di per sé errata, né può essere sovrapposta alle istanze nazionaliste e suprematiste che formano il sostrato ideologico che ha dato forma, tra le altre cose, al governo Trump. L’ultranazionalismo intransigente che muove la California delle tech affonda le sue radici in idee molto più raffinate e colte; per comprenderle – e per tentare di capire il valore religioso a queste associato – può essere utile tornare alle pagine iniziali de Il momento straussiano. Un’idea sulla piega che prendono le pagine del saggio l’ha già data l’introduzione, con l’immagine di un’umanità impelagata in un regno di mezzo fatto di guerra e distruzione.
L’intero testo è permeato da un senso di minaccia da parte di un oscuro nemico che presto si capisce essere – neanche a farlo apposta – l’Islam; un Islam genericamente inteso, senza nessuna distinzione territoriale o politica, ma che porta con sé l’oscura minaccia della distruzione religiosa e culturale del mondo occidentale e democratico. Ogni politica di integrazione e adattamento al nuovo ordine dell’Occidente, dopo l’11 settembre, è andata sgretolandosi. Le democrazie liberali hanno visto aumentare le ondate di violenza e odio, il tutto mentre i partiti di sinistra e i movimenti inclusivi strizzavano l’occhio a pensieri e religioni alternative. A ciò si è aggiunta la depauperazione degli Stati occidentali, con enormi flussi di denaro che, invece di favorire (come da programma) le economie dei Paesi in via di sviluppo, andavano a stanziarsi nei ricchi conti svizzeri di ignoti dittatori del terzo mondo. È probabilmente questa puntuale decostruzione delle basi su cui poggia il mondo contemporaneo a portare Thiel a riflettere – ancora prima che sulla distruzione dell’identità religiosa e nazionale – su quale sia la natura più profonda dell’essere umano. Così, in modo apparentemente gratuito, lo scritto schmittiano di Thiel si trasforma in quella che solo a un occhio inesperto potrebbe sembrare una speculazione filosofica e che è, in realtà, il tentativo di basare l’agire politico dei decision maker cristiani occidentali su premesse razionali. Che cosa ha a che fare il turbocapitalismo condito di un richiamo alla trascendenza delle forme politiche con l’esistenza umana in genere?
Secondo Peter Thiel, molto. La natura umana ha alla base una violenza cieca e incontrollabile – la stessa che era al centro dei testi del maestro putativo di Thiel, Girard –, una brutalità che può essere mitigata solamente dalla ragione. L’Islam è il portatore contemporaneo di questa bruta violenza senza intelletto, di un odio irrisolvibile e impermeabile a quella cultura del dialogo e della coscienza introdotta, in Occidente, dall’Illuminismo.
Mettere la violenza alla base della natura umana, al di là dei risvolti islamofobi che la teoria acquisisce in queste pagine, non apporta alcuna novità al dibattito politico contemporaneo, come non è nuova la disillusione verso l’ottimistica visione illuminista secondo cui tutti gli agenti politici, assieme, sarebbero in grado di sedersi a un tavolo e stipulare un patto sociale sulla base del quale avviare una convivenza pacifica e duratura. Quello che stupisce – non per originalità, quanto per l’eccessiva semplificazione – è l’individuazione del nemico non tanto nel rivale (economicamente o politicamente inteso), quanto nel diverso; insomma, il nemico come l’islamico di bianco bendato di monicelliana memoria: “l’antico periglio che vien dallo mare”!
È una strana commistione tra il Leviatano e il binomio schmittiano amico-nemico il mostro a due teste che sembra orientare le idee di Thiel, secondo il quale la scelta della sovranità dovrebbe ricadere solamente su colui che si dimostri in grado di individuare il nemico e sia deciso a combatterlo fino ad annientarlo, nel rispetto e nella salvaguardia del mondo occidentale e delle sue forme. Quella cui siamo davanti nelle pagine de Il momento straussiano è la rischiosa sintesi tra un neoliberismo estremo e un autoritarismo dai caratteri escatologici, quasi che la decisione del più forte sia resa tale da una volontà Altra che arriverà a dimostrarne la futura necessità. Thiel ha quello che a Musk manca e quello che al Tycoon (che lo sappia o no) serve: una visione teologica del reale. Dove “teologico” indica una precisa visione occidentale e cristianocentrica secondo la quale un intelletto più alto e potente debba indirizzare la realtà verso le sue forme proprie, tenendo a freno le istanze particolari. Forse è proprio quella del freno, del Katechon, l’idea che sta alla base di Palantir, l’azienda fondata dal miliardario che ufficialmente si occupa di raccolta e protezione di dati ma della quale, nello specifico, non si sa quasi nulla. Rimandando, ancora una volta, all’idea di un ente di controllo superiore e ineffabile.
Un’inchiesta di Wired, che ha anche coinvolto ex dipendenti come fonti, ha spiegato che la piattaforma non venderebbe solo software ma anche «l’idea di soluzioni senza attriti a problemi complessi», non solo, dopo aver collaborato con l’ICE (Immigration and Customs Enforcement), con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e con le forze armate israeliane, questa primavera Palantir ha firmato un accordo con la NATO che gli permetterà – attraverso un sistema di intelligenza artificiale acquistato dall’Alleanza – di avere accesso a tutti i dati raccolti e annotati dei Paesi membri. Alla base sia di Palantir che delle riflessioni del saggio, c’è uno schema preciso che prevede, evidentemente – e lo stesso Thiel non lo ha nascosto – un’idea di fortificazione dell’Occidente e, con esso, delle sue forme politiche e religiose. D’altra parte, e questo Thiel lo dice chiaramente ne Il momento straussiano, la prerogativa principale dello statista occidentale e cristiano è proprio quella di sapere introdurre nella comunità un potere che frena. C’è un problema, tuttavia, che lo stesso magnate riconosce: l’apertura incontrollata dei mercati e degli scambi (anche culturali) porta necessariamente allo scontro, l’umanità non si fonda su alcun principio positivo di unione o concordanza e l’incontro ha sempre in sé il germe della contrapposizione. Il Cristianesimo – quello della Casa Bianca, che si leva al grido di Dio, Patria e Famiglia – è l’unico freno possibile alla deflagrazione, l’unico baluardo del vecchio mondo in dissolvenza in grado di fare la guida in tempi di distruzione e caos. Thiel sembra aver risposto a ciascuna delle domande che ci eravamo posti in partenza, tranne una: che ne facciamo, quindi, del neoliberismo sfrenato che lo ha creato?”

Che fai tu, luna, in ciel!

Riccardo Maccioni ha pubblicato su Avvenire un articolo sul ruolo della luna nel calendario di alcune religioni.

“Più che cantarla allo stesso modo di poeti o romanzieri, la fede la utilizza spesso come misura del tempo. Nelle religioni monoteiste la luna ha una grande rilevanza. Innanzitutto, in collegamento con il procedere quotidiano dell’esistenza umana. Un dato evidente soprattutto in queste ore in cui i musulmani festeggiano la fine del Ramadan, il nono mese del calendario islamico, tempo dedicato alla preghiera, alla meditazione e al digiuno dall’alba al tramonto. Il suo inizio cambia ogni anno poiché corrisponde al giorno successivo all’avvistamento della nuova luna crescente, una piccola falce peraltro non facile da individuare tanto che spesso ci si rifugia in complicati calcoli astronomici.
Tutto sommato più semplice stabilire il giorno della Pasqua cristiana, che è una solennità mobile, nel senso che cade sempre di domenica ma in giorni differenti perché, come stabilito dal Concilio di Nicea nel 325, va celebrata la domenica successiva alla prima luna piena di primavera. Qui a complicare la situazione arrivano i calendari, così nel 2024 chi segue quello gregoriano, cioè cattolici ed evangelici, hanno festeggiato il 31 marzo mentre le Chiese ortodosse, in ossequio al calendario giuliano, dovranno attendere il 5 maggio. Andrà meglio nel 2025 quando, per altri giochi di calendario, tutti i cristiani festeggeranno insieme il 20 aprile. E chissà che non sia l’occasione per avviare un dialogo che permetta all’eccezione di diventare regola.
Ma naturalmente anche la Pasqua ebraica, Pesach, è legata alla luna. Come noto ricorda la liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto e l’esodo verso la terra promessa. Quanto alla data, si celebra il quattordicesimo giorno del mese di nissàn, in corrispondenza della luna piena. A partire da un calendario i cui mesi durano quanto un ciclo lunare.
Tuttavia questo magico satellite naturale della terra, interroga le religioni anche a prescindere dai calendari. Nella Sacra Scrittura compare 54 volte. È creatura di Dio nei Salmi 8 e 74 mentre nel 104 insieme al sole segna le ore e le stagioni: «Hai fatto la luna per segnare i tempi e il sole che sa l’ora del tramonto» (Sal 104, 19). Nella Bibbia se ne parla la prima volta In Genesi al capitolo 37 a proposito del sogno raccontato da Giuseppe, figlio di Giacobbe. «Egli fece ancora un altro sogno e lo narrò ai fratelli e disse: “Ho fatto ancora un sogno, sentite: il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti a me”. Lo narrò dunque al padre e ai fratelli. Ma il padre lo rimproverò e gli disse: “Che sogno è questo che hai fatto! Dovremo forse venire io, tua madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?”. I suoi fratelli erano invidiosi di lui, ma suo padre serbava dentro di sé queste parole». Celeberrima inoltre la visione raccontata nell’Apocalisse: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto» (Ap 12,1-2). Quasi inutile dire che nella tradizione cattolica questa donna è Maria stessa. «Ella appare “vestita di sole”, cioè vestita di Dio – spiegò Benedetto XVI l’8 dicembre 2011, solennità dell’Immacolata Concezione -: la Vergine Maria infatti è tutta circondata dalla luce di Dio e vive in Dio. Questo simbolo della veste luminosa chiaramente esprime una condizione che riguarda tutto l’essere di Maria: Lei è la “piena di grazia”, ricolma dell’amore di Dio». La Vergine tiene sotto i suoi piedi la luna – proseguì papa Ratzinger – che è «simbolo della morte e della mortalità. Maria, infatti, è pienamente associata alla vittoria di Gesù Cristo, suo Figlio, sul peccato e sulla morte; è libera da qualsiasi ombra di morte e totalmente ricolma di vita». E alla fine, a dispetto del sogno ininterrotto della letteratura romantica, sempre secondo l’ultimo libro della Bibbia la luna scomparirà. Succederà nella Gerusalemme celeste perché «la città non ha bisogno di sole, né di luna che la illuminino, perché la gloria di Dio la illumina, e l’Agnello è la sua lampada» (Ap 21, 23).”

Maometto o Muhammad?

Un interessante articolo de Il Post sulla possibilità e opportunità di utilizzare il nome Muhammad al posto di Maometto.

Muhammad, Messaggero di Dio. Iscrizione presente sulla porta della Moschea del Profeta a Medina (fonte)

“In italiano il fondatore dell’Islam viene chiamato normalmente “Maometto” e non, con una traslitterazione dall’arabo, “Muhammad”. Per molte persone musulmane, però, questa scelta dipende da una visione denigratoria e offensiva del profeta dell’Islam: e sembrano suggerirlo anche le ricostruzioni filologiche di come, nel corso dei secoli, si sia arrivati alla versione italiana “Maometto”. Da un lato dunque c’è una lunga tradizione italiana che utilizza la forma “Maometto”, compresa da tutti e divenuta anche la voce di riferimento nei dizionari, senza che questa abbia più un valore negativo per le persone che la usano. Dall’altro c’è una forma più fedele alla lingua araba, che alcuni musulmani rivendicano rifiutando una traslitterazione che ritengono riflettere, storicamente, pregiudizi negativi nei confronti della loro religione.

Della questione si è parlato negli anni anche in Spagna e in Francia, paesi con numerose e attive comunità musulmane, dove all’italiano “Maometto” corrispondono rispettivamente “Mahoma” e “Mahomet”. Sul quotidiano Le Monde Fatima Bent, dell’associazione femminista e antirazzista Lallab, aveva denunciato un «paternalismo e una mancanza di rispetto» verso la figura sacra dell’Islam e aveva spiegato che “Mahomet” «è una forma di offesa: perché voler decidere per noi il nome del nostro profeta?».

Muhammad è considerato il fondatore della religione islamica e, per i credenti musulmani, la persona che ha concluso il ciclo della rivelazione iniziata da Adamo: è il messaggero di Allah e colui che ha rivelato il Corano, ma l’ortodossia islamica insiste sul carattere esclusivamente umano della sua persona. Secondo le fonti principali sulla sua vita, Muhammad nacque a La Mecca intorno al 570, rimase orfano quando era bambino, crebbe in condizioni modeste fino al matrimonio con una ricca vedova. A quarant’anni (intorno al 610 circa) iniziò a predicare un nuovo messaggio monoteistico che gli era stata rivelato, basato sull’esistenza di un unico Dio creatore onnipotente, sulla conduzione di una vita casta, sull’osservanza di alcuni precetti, sull’aiuto verso il prossimo soprattutto se indigente, sul giudizio universale e sulla retribuzione in bene e in male delle azioni umane.

Grazie alla sua predicazione Muhammad riuscì a formare a La Mecca una piccola comunità di fedeli che via via crebbe e si espanse. Il profeta, che dai musulmani è considerato un esempio da seguire, morì nel 632 a Medina dopo una breve malattia lasciando la sua comunità senza capo designato, ma con una cerchia dei suoi più validi seguaci che si impegnarono a continuarne l’opera.

L’esperto francese di Islam Olivier Hanne ha spiegato che il cronista persiano del X secolo al-Tabari dice che «i nomi con cui il profeta aveva l’abitudine di riferirsi a se stesso erano “Muhammad”, “Ahmad” e “Al-Aqib”». “Muhammad” designa l’uomo “degno di lode”; “Ahmad” ha un significato molto vicino al precedente e si ritrova nel Corano, sura 61, versetto 6. “Al-Aqib” vuole invece dire “l’ultimo” con riferimento, appunto, all’ultimo dei profeti. Di questi tre nomi propri, solo il primo, cioè Muhammad, è sopravvissuto nel tempo per designare il fondatore dell’Islam. Presente nelle moschee, nelle preghiere, negli ornamenti domestici e trasmesso tra credenti, il nome “Muhammad” è il più sacro per le persone musulmane.

Marco Lauri, docente a contratto di Letteratura araba, Filologia araba e Islamistica presso l’Università di Macerata e altre università, spiega che in arabo «esiste una forma standard con una pronuncia canonica che è “Muhammad”», ma aggiunge anche che «non abbiamo dei documenti che ci dicano con assoluta certezza che questa forma fosse usata nella sua pronuncia standard dal profeta e dalla sua cerchia alla Mecca al suo tempo». Anche nei paesi di lingua araba e nel mondo islamico, dunque, e fin dai tempi antichi, esiste una certa variabilità del nome del profeta che viene sistematicamente e ordinariamente adattato: «Nelle lingue dell’Africa occidentale “Muhammad” diventa “Mammadu”, ad esempio», ma altrove diventa “Mohammad”, “Mohammed” o “Mahmoud”, traslitterazioni che attestano la molteplicità dei dialetti parlati nel mondo musulmano e le variazioni delle pronunce.

Claudio Lo Jacono, autorevole storico, islamista e arabista italiano, sostiene che sia normale che in altre lingue ci siano forme adattate del nome del profeta dell’Islam, proprio poiché tale variabilità si ritrova nelle stesse lingue dei popoli musulmani. Per lo stesso motivo, anche le forme distorte delle lingue neolatine avrebbero una loro validità.

Secondo Miloud Gharrafi, professore di lingua araba all’Università di Lione, la distorsione in contesti cristiani del nome del profeta risale al Medioevo e più precisamente alle prime traduzioni latine del Corano, dove “Muhammad” è stato trascritto “Mahumet”. Questa forma è attestata ad esempio nella prima traduzione del Corano in latino, commissionata dall’abate di Cluny Pietro il Venerabile all’inizio del 1100 e intitolata “Lex Mahumet pseudoprophete”, cioè “Legge di Maometto il falso profeta”. Il testo rimase, per diversi secoli, una delle principali fonti di informazione sull’Islam disponibile in Occidente.

Lauri spiega che il nome di “Muhammad” si ritrova in greco e in latino già in una varietà di forme: Mahmed, Moammed, Moammet, Machometus, Macometus, Makometus: «Una variabilità di rese che ovviamente tengono conto delle pronunce regionali e di come chi ha scritto ha percepito quella sequenza fonetica». Questa variabilità di forme latine ha poi influito sulle attestazioni in lingua volgare del nome del profeta che «iniziano nel XIII secolo e che si ritrovano in modo più abbondante in epoca rinascimentale».

Lauri dice anche che la versione “Malcometto” è presente anche in una delle versioni del Milione, il resoconto dei viaggi in Asia di Marco Polo fatti tra il 1271 e il 1295 e che Rustichello da Pisa trascrisse sotto dettatura di Marco Polo stesso mentre i due si trovavano nelle carceri di San Giorgio a Genova. “Malcometto” è un nome considerato spregiativo perché facilmente interpretabile come “mal commetto”, cioè «commetto il male». La forma “Malcometto” o varianti simili si trovano in molti altri testi «e in molti di questi testi», dice Lauri, «l’accezione dispregiativa è assolutamente evidente».

Per Lauri, dunque, anche se nell’adattamento di un nome di per sé non c’è nulla di strano o scorretto, la tesi che l’evoluzione del nome in “Maometto” risenta di una potenziale connotazione dispregiativa sembra fondata: «Intanto perché l’adattamento-storpiatura in italiano produce un’assonanza con il suffisso diminutivo, e quindi indirettamente dispregiativo».

E poi perché anche se Maometto è stato utilizzato per secoli, e non sempre con accezione dispregiativa, «quel nome nasce da una tradizione, quella cristiana medievale, che generalmente vede l’Islam come un inganno, un’eresia, una religione falsa o addirittura come una forma di idolatria, che dunque considera negativamente il profeta, come già scriveva Dante che aveva collocato “Maometto” nell’inferno in quanto “seminatore di scandalo e scisma”». In altri testi medievali il profeta dell’Islam viene presentato come un impostore e come un ingannatore e, conclude Lauri, «c’è infine la derivazione dal nome di “Maometto” di quello di una figura effettivamente demoniaca: Bafometto della tradizione medievale e rinascimentale».

Il nome “Maometto” ha insomma un’evoluzione fonetica che in parte riflette queste accezioni, «anche quando viene usato da autori che invece non avevano questa intenzione esplicita». Per Lauri, dunque, «nel momento in cui oggi, in un contesto storico diverso, si propone di usare una forma più vicina a quella araba standard, questa stessa richiesta sembra essere ragionevole».”

L’Afghanistan tra Isis e talebani

Prendo dal Post un articolo molto interessante di Elena Zacchetti sullo scontro che si sta sviluppando in Afghanistan tra talebani e Isis e sui possibili (nefasti) esiti.

“Negli ultimi due mesi e mezzo, da quando Kabul è stata conquistata dai talebani, in Afghanistan si è intensificata una rivalità pericolosa e a tratti poco comprensibile, vista da qui: quella tra i talebani e l’ISIS, due gruppi sunniti estremisti, considerati terroristici da molti paesi occidentali, che condividono l’obiettivo di costruire un qualche tipo di stato islamico basato su un’interpretazione molto rigida della sharia (la legge islamica). È una rivalità che arriva da lontano e che si sta mostrando in tutta la sua violenza tramite attentati – come quello di martedì a un ospedale di Kabul –, esibizione di cadaveri per le strade e uccisioni “extra-giudiziali”, cioè omicidi compiuti o autorizzati da un’autorità statale senza essere preceduti da un procedimento giudiziario.

I rapporti tra i due gruppi sono entrati in «una nuova fase», ha scritto il sito specializzato War on the Rocks, iniziata dopo il ritiro dei soldati statunitensi dall’Afghanistan e che «sarà quasi certamente sanguinosa e violenta».

Si parla di «nuova fase» perché questa inimicizia in Afghanistan non è una cosa nuova. Iniziò a svilupparsi nel 2015, cioè fin dalla nascita dell’ISIS-K (o Provincia del Khorasan dello Stato Islamico), che in maniera un po’ approssimativa si può definire la divisione afghana dello Stato Islamico.

Già allora (ma anche oggi) i talebani erano alleati con al Qaida, grande organizzazione sunnita che si contendeva con l’ISIS la supremazia del mondo jihadista globale, e già allora ISIS e talebani avevano differenze ideologiche significative. Mentre l’ISIS-K, così come il nucleo principale dell’organizzazione (poi sconfitto in Iraq e in Siria), auspicava la creazione di un Califfato islamico esteso oltre i confini di un unico stato, i talebani avevano obiettivi più locali: volevano riconquistare il potere in Afghanistan e imporre un’interpretazione radicale della sharia dentro i confini nazionali. L’ISIS accusava inoltre i talebani di essere «apostati» per adottare posizioni troppo morbide nell’applicare le norme dell’Islam; i talebani sostenevano che l’ISIS fosse un gruppo estremista eretico.

Con il ritiro dei soldati americani, e con il rapido sgretolamento delle forze di sicurezza afghane, lo scorso agosto i talebani sono riusciti a riconquistare l’Afghanistan e allo stesso tempo si sono aperti nuovi spazi d’azione per l’ISIS-K, che ha approfittato fin da subito della nuova instabilità, oltre che delle evasioni di massa dalle carceri afghane che si sono verificate durante la presa di Kabul. In quei giorni confusi di metà agosto erano stati infatti liberati migliaia di detenuti, tra cui molte persone accusate di terrorismo e di essere affiliate all’ISIS.

L’inizio di una «nuova fase» si era già visto già lo scorso 26 agosto, quando l’ISIS-K aveva ucciso quasi 200 civili afghani radunati fuori dall’aeroporto di Kabul nel tentativo di salire a bordo di uno degli aerei impegnati nelle operazioni di evacuazione di stranieri e afghani da Kabul.

Nelle settimane successive l’ISIS-K ha compiuto numerosi attacchi sia nelle zone del paese dove la sua presenza è considerata più solida, come la città di Jalalabad (nell’est), sia in aree che fino a quel momento erano state abbastanza fuori dal suo raggio d’azione, come le città di Kandahar e Kunduz.

Fonte immagine

Le maggiori violenze si stanno verificando proprio nella provincia di Nangarhar (in rosso nella mappa), dove si trova Jalalabad e dove da settimane sembra essere in corso una specie di guerra segreta ed estremamente cruenta.

Secunder Kermani, inviato di BBC a Jalalabad, ha raccontato quello che sta succedendo in città e le estese violenze di cui sono testimoni gli abitanti locali. Kermani ha scritto che quasi ogni giorno corpi di persone uccise vengono trovati ai lati delle strade, «alcuni colpiti da spari o impiccati, alcuni decapitati. Molti hanno biglietti scritti a mano nelle tasche che li accusano di essere membri della divisione afghana dello Stato Islamico». Nessuno sta rivendicando gli omicidi e molti ritengono che si tratti di uccisioni extra-giudiziali compiute dai talebani contro persone sospettate di far parte dell’ISIS-K: «I due gruppi hanno iniziato una guerra sporca e sanguinosa. Jalalabad è il fronte di questa guerra», ha scritto Kermani.

Il sospetto deriva anche dal fatto che a capo dei servizi di intelligence della provincia di Nangarhar c’è un uomo conosciuto con il nome di Dr Bashir, che già in passato aveva combattuto e sconfitto l’ISIS e che si era fatto una reputazione di grande ferocia e violenza. Dr Bashir ha negato di essere coinvolto nelle molte uccisioni delle ultime settimane e ha sostenuto che i talebani non abbiano motivo di preoccuparsi per la presenza dell’ISIS in Afghanistan.

Nonostante le affermazione di Dr Bashir, sembra che l’ISIS stia riuscendo a ottenere qualche successo e a mettere in difficoltà il nuovo governo talebano, per esempio attaccando la minoranza degli Hazara, di orientamento sciita, a lungo perseguitata in Afghanistan ma con cui ora i talebani stanno cercando di costruire rapporti pacifici. Avinash Paliwal, vicedirettore del SOAS South Asia Institute dell’Università di Londra ed esperto di Afghanistan, ha detto al Financial Times che questi attacchi compiuti dall’ISIS-K «esacerberanno una faglia settaria che non è nell’interesse dei talebani che si infiammi davvero», e ha aggiunto che «la violenza aumenterà e sarà un “tutti contro tutti”».

Con i suoi attentati, l’ISIS sta provocando anche un’erosione di fiducia della popolazione afghana nei confronti dei talebani e della loro capacità di riportare la pace e la sicurezza nel paese. Per anni, infatti, i talebani avevano sostenuto di essere l’unico gruppo in grado di stabilizzare l’Afghanistan. Le cose però si stanno dimostrando più complicate di quanto avessero previsto i leader del gruppo, anche perché i comandanti talebani locali stanno avendo parecchie difficoltà a contrastare le tattiche terroristiche e di guerriglia adottate dall’ISIS.

È difficile prevedere come si svilupperà la rivalità tra i due gruppi, e con che livello di violenza.Il timore, ha scritto War on the Rocks, è che la divisione afghana dell’ISIS provi a diventare ancora più attiva ed efficace reclutando combattenti talebani delusi dal nuovo regime, che in un certo senso sta cercando di ottenere legittimità a livello internazionale collaborando con diversi paesi e diventando allo stesso tempo più attaccabile dalle frange più radicali ed estremiste. Con il ritiro degli americani e delle forze della NATO, inoltre, l’ISIS-K è ora in grado di concentrare tutte le sue forze direttamente contro i talebani, compiendo attacchi ancora più frequenti e violenti rispetto al passato”.

Spinte radicali in Pakistan

Alla fine ho deciso di abbonarmi a Il Post, un progetto editoriale che seguo da un po’. L’ho fatto sia per continuare ad ascoltare due podcast, Morning e Tienimi bordone, sia perché apprezzo l’accuratezza con cui vengono scritti gli articoli. Inoltre, dopo un po’, hai la sensazione di far parte di un gruppo, di stare effettivamente contribuendo alla realizzazione di un bel lavoro. Infine non nascondo che abbia inciso anche il costo abbordabile per le mie tasche. Mi capiterà, quindi, di pubblicare un po’ più frequentemente dei loro pezzi rispetto a quelli di altre fonti, anche perché non hanno alcuna forma di paywall.
Oggi pubblico un articolo sulla situazione che si sta delineando in Pakistan, in particolare sulle pressioni che un gruppo radicale sta esercitando sul governo di Islamabad. L’articolo lo potete trovare qui.

“Dalla fine di ottobre in alcune regioni del Pakistan, a sud della capitale Islamabad, migliaia di persone appartenenti a gruppi islamici fondamentalisti hanno bloccato un’importante autostrada e ricattato il governo, chiedendo diverse concessioni e protestando contro alcuni atti che considerano blasfemi. Il più importante di questi gruppi si chiama Tehreek-e-Labbaik Pakistan (TLP) ed è diventato una forza importante e pericolosa nelle dinamiche sociali del paese.
Il 1° novembre, dopo giorni di scontri in cui sono morti quattro poliziotti e durante i quali sono state bloccate alcune tra le più importanti vie commerciali del paese, il governo ha infine ceduto ai manifestanti, raggiungendo un accordo i cui termini sono segreti ma che, a detta dei giornali locali, garantisce molte concessioni ai fondamentalisti. Il TLP è da tempo una presenza influente nella vita politica e sociale del Pakistan e, come avvenuto più volte negli anni scorsi, ha mostrato di essere in grado di ricattare il governo nazionale con manifestazioni e azioni violente per ottenere i suoi obiettivi.

Ad aprile il governo pakistano, per cercare di fermare il TLP, aveva perfino designato il gruppo come organizzazione terroristica e ne aveva arrestato il leader, Saad Hussain Rizvi (nella foto). Dopo l’arresto c’erano state rivolte di piazza, con un numero imprecisato di morti e centinaia di feriti. Il governo allora era riuscito a placare le manifestazioni facendo delle concessioni, ma gli estremisti del TLP sono tornati a protestare lo scorso 21 ottobre. A migliaia, spesso armati, hanno cominciato una marcia da Islamabad, la capitale, alla grande città di Lahore, con l’obiettivo di occupare la Grand Trunk Road, un’autostrada che collega le due città e che è una delle principali vie di trasporto di tutto il paese.
Le richieste dei manifestanti erano numerose e confuse, ma le principali erano tre: il rilascio di Saad Hussain Rizvi, il ritiro delle accuse di terrorismo avanzate dai tribunali pachistani contro centinaia di affiliati al gruppo, e l’espulsione dell’ambasciatore francese. Quest’ultima richiesta era una ritorsione per il fatto che un anno fa il presidente francese Emmanuel Macron aveva difeso la pubblicazione di vignette satiriche che raffiguravano il profeta Maometto: è una vecchia battaglia del TLP, che aveva portato a scontri tra i manifestanti e la polizia pachistana già nei mesi scorsi.
Secondo alcuni giornali pachistani citati dal New York Times, i termini dell’accordo che ha risolto la crisi degli ultimi giorni prevedono il rilascio di vari membri del gruppo in prigione, la promessa che non ci saranno più accuse contro rappresentanti del TLP e la rinuncia alla designazione di gruppo terroristico. Il TLP avrebbe rinunciato invece a chiedere al Pakistan di tagliare i rapporti diplomatici con la Francia.
Il TLP, che oltre a essere un movimento sociale estremista e un gruppo di pressione è anche un partito politico (con poco successo elettorale, finora), fu fondato nel 2015 con lo scopo di difendere la rigida e controversa legge sulla blasfemia del paese, che prevede pene durissime, compresa la pena di morte, per chiunque offenda una qualunque religione. In Pakistan, dove il 96 per cento della popolazione si professa musulmano, quasi sempre la religione offesa è l’islam.
Il gruppo divenne un movimento di massa durante i vari sviluppi della vicenda di Asia Bibi, una donna cristiana accusata ingiustamente di blasfemia, la cui vicenda divenne un caso internazionale. Tra le altre cose, il TLP organizzò grandi rivolte di piazza in difesa di Mumtaz Qadri, una guardia del corpo che nel 2011 aveva ucciso il governatore della provincia del Punjab dopo che questi aveva difeso Asia Bibi e chiesto una riforma della legge sulla blasfemia. Nel 2017, il TLP organizzò altre rivolte dopo che il governo aveva proposto di modificare lievemente il testo del giuramento dei parlamentari che faceva riferimento al profeta Maometto: negli scontri morirono sei persone, e centinaia furono ferite.
Nel corso degli anni, il governo del Pakistan non è stato in grado di gestire organizzazioni come il TLP: ha consentito che diventasse «uno dei gruppi di pressione più importanti» del paese e di fatto ne è diventato «ostaggio», come ha scritto l’Economist. Il governo tuttavia non è soltanto una vittima. Nel corso degli anni, la politica e l’esercito pachistani hanno alimentato sentimenti fondamentalisti nella popolazione, servendosi di gruppi come il TLP per polarizzare l’opinione pubblica e ottenere vantaggi elettorali. Come ha scritto sempre l’Economist, i legami tra l’élite pachistana e il TLP sono noti: per esempio, durante le proteste del 2017, un alto ufficiale dell’esercito fu filmato mentre consegnava somme di denaro ai leader del gruppo”.

Autorità religiosa nell’Islam

Non è un tema sul quale è facile approfondire le cose in classe, un po’ perché piuttosto specifico, un po’ perché c’è un po’ di confusione anche tra gli studiosi. Ho trovato un articolo di due anni fa, ma aggiornato di recente (ieri!), sulla questione delle voci autorevoli all’interno del mondo islamico. La fonte è il sito Oasis e l’autore è Michele Brignone.

“Si afferma spesso che nell’Islam non esiste un’autorità religiosa. In realtà, le figure che svolgono questo ruolo sono numerose, ma sono scarsamente istituzionalizzate e soprattutto non sono organizzate gerarchicamente. Lo dimostrano anche i molti termini che sono usati per definire gli specialisti di religione (ulema, imam, shaykh…). Questa guida prova a fare un po’ di chiarezza.

Fonte immagine

Imām

Imām letteralmente “guida”, è il capo della comunità islamica. Storicamente è il termine più antico impiegato dai musulmani per designare i primi successori di Muhammad, insieme ad amīr al-mu’minīn (“comandante dei credenti”), titolo di cui si fregia ancor oggi il re del Marocco. In ambito sunnita questo termine è diventato sinonimo di califfo, che ha finito per prevalere nell’uso. Secondo la definizione classica del giurista Abū l-Hasan al-Māwardī (m. 1058) “l’imamato è istituito per supplire alla profezia nella salvaguardia della religione e nella gestione degli affari terreni”. L’imām deve dunque preservare il messaggio religioso rivelato a Muhammad e sovrintendere all’amministrazione della comunità. Tra i compiti che i giuristi sunniti gli assegnano vi sono l’amministrazione della giustizia, la fortificazione dei confini, la conduzione del jihad contro gli oppositori dell’Islam, la raccolta del bottino e la designazione di governatori per le province. In teoria, per assumere legittimamente la funzione di imām occorre essere investiti dalla comunità tramite i suoi rappresentanti, poiché nessuno può vantare un diritto intrinseco all’imamato. Il candidato inoltre non può avere difetti fisici, deve essere giusto, possedere le competenze necessarie all’interpretazione della legge, avere capacità di governo, essere dotato di forza e coraggio per condurre il jihad, nonché appartenere tribù dei Quraysh, dalla quale proveniva anche Muhammad. In realtà molto spesso i giuristi hanno dovuto derogare a uno o più di questi criteri. Per questo i musulmani considerano che dopo l’epoca dei primi quattro califfi, detti “ben guidati”, e con poche altre eccezioni, l’imamato abbia finito per degenerare, trasformandosi in un mero potere monarchico (mulk). Inoltre, a partire dal X secolo il potere effettivo non è stato più esercitato dall’imām, ma da sultani ed emiri (comandanti militari). Anche per questo l’autorità, nel mondo sunnita, finisce per trasferirsi dalla figura del califfo/imām alla comunità nel suo insieme, e in particolare ai detentori del sapere religioso, gli ‘ulamā’. Peraltro, è probabile che i primi imām/califfi avessero prerogative più ampie e religiosamente connotate rispetto alla teorizzazione degli ‘ulamā’, che ragionano sul modello del califfato abbaside (VIII-XIII secolo).
In senso più generale, imām è per i sunniti anche chiunque guidi la preghiera. Il termine è inoltre utilizzato come titolo onorifico per alcuni ‘ulamā’ particolarmente autorevoli, per esempio i fondatori delle quattro scuole giuridiche riconosciute. Diversa la situazione tra gli sciiti, per i quali l’imām non è soltanto la guida temporale della comunità, ma detiene anche un carisma religioso, che ne fa l’interprete vivente e infallibile della rivelazione, assumendo spesso una dimensione metafisica (“Imām di luce”). Secondo gli sciiti inoltre l’imamato non viene conferito per nomina, ma è una prerogativa dei discendenti di Muhammad, a partire dal cugino e genero ‘Alī. A sua volta lo sciismo è suddiviso in diverse correnti, ciascuna con una propria catena di imām. Secondo gli sciiti duodecimani (Iran, Iraq, Libano, Bahrein, Arabia Saudita), che rappresentano la corrente maggioritaria, a Muhammad succedono dodici imām. L’ultimo di essi si sarebbe occultato nell’874 d.C. e tornerà alla fine della storia per ristabilire la giustizia. Secondo gli sciiti ismailiti, il settimo imam, da loro identificato in Ismā‘īl Ibn Ja‘far, inaugura un nuovo ciclo profetico che trascende le religioni storiche. Secondo gli zayditi, oggi diffusi soprattutto in Yemen, l’imām non è infallibile e può essere scelto tra qualsiasi discendente di ‘Alī tramite i suoi due figli Hasan o Husayn.

Califfo

Califfo letteralmente “successore, vicario”, è sinonimo di imām come capo della comunità in ambito sunnita. Nei versetti coranici in cui ricorre il termine (2,20 e 38,26), califfo (in arabo khalīfa) è riferito ad Adamo e a David, in entrambi i casi come vicari di Dio sulla terra. Alcuni tra i primi califfi intesero in questo senso la loro funzione. Tuttavia secondo gli ‘ulamā’ il termine è da intendere esclusivamente nel senso di khalīfat rasūl Allāh, “vicario dell’inviato di Dio” (e non “vicario di Dio”), cioè come guida temporale della comunità, senza particolare carisma religioso. In epoca moderna il califfato ha finito per designare il progetto politico di uno Stato islamico universale, fondato sull’applicazione della sharī‘a.

‘Ālim

‘Ālim (pl. ‘Ulamā’) letteralmente “colui che sa”, dotto. Il termine indica gli studiosi e gli esperti delle scienze religiose: teologia, esegesi coranica, hadīth (detti profetici) e soprattutto diritto (fiqh). È questo sapere, unito alla pietà personale, a conferire agli ‘ulamā’ una particolare autorevolezza come guardiani e interpreti della tradizione religiosa. Un detto di Muhammad ne fa gli “eredi dei profeti”. Non sono però un corpo istituzionalizzato, benché storicamente mostrino una forte identità di gruppo. Nei primi secoli dell’Islam si organizzarono indipendentemente dal potere politico, anche se molti di essi assunsero incarichi ufficiali a corte o nell’amministrazione. Tuttavia il loro prestigio dipendeva anche dalla distanza critica che riuscivano a mantenere rispetto ai governanti. Nell’Impero ottomano furono integrati all’interno dell’amministrazione e dotati di una struttura gerarchica, al vertice della quale si trovava lo Shaykh al-Islam (in turco Şeyhülislam), che aveva il compito di presiedere all’amministrazione religiosa dell’Impero. L’incorporazione degli ‘ulamā’ e la loro organizzazione amministrativa all’interno delle strutture statali permane anche in molti Stati musulmani moderni e contemporanei. Sempre in epoca moderna l’autorità degli ‘ulamā’ è stata messa in discussione dalla presenza di nuovi intellettuali musulmani, sia di orientamento islamista che modernista, che ai dotti hanno spesso rimproverato l’eccessiva vicinanza al potere politico e l’incapacità rinnovare il sapere tradizionale per adattarlo alle esigenze della vita moderna. Tuttavia, per quanto trasformato, il ruolo degli ‘ulamā’ non è venuto meno. Negli ultimi decenni molti di loro hanno dato vita a nuove associazioni e istituzioni, spesso di carattere transnazionale, come l’Unione mondiali degli Ulema musulmani (fondata e presieduta dallo shaykh Yousef al-Qaradawi), o il Consiglio dei saggi musulmani (presieduto dallo shaykh Ahmad al-Tayyeb, grande imam di al-Azhar).

Shaykh

Shaykh letteralmente significa “vecchio”, “anziano” ed è il titolo con cui nel mondo arabo si designano le autorità tribali. Nell’ambito della spiritualità sufi, lo shaykh è il maestro di una via mistica. Chi svolge questo ruolo è talvolta chiamato anche murshid (guida). Storicamente, molti ‘ulamā’ erano anche shaykh sufi, ciò che contribuiva ad accrescere il loro prestigio religioso e sociale. Nell’Islam di lingua persiana, l’equivalente dello shaykh è il pīr. Più in generale shaykh è anche il titolo con cui ci si rivolge a uno ‘ālim, in particolare se esso ricopre un ruolo istituzionale, come lo Shaykh al-Azhar, guida dell’importante centro d’insegnamento del Cairo, o, nell’Impero ottomano lo Şeyhülislam (si veda sopra la voce ‘ālim).

Faqīh

Faqīh è un ‘ālim esperto di fiqh, cioè di diritto. Il faqīh particolarmente versato nella sua scienza può essere mujtahid, cioè praticare l’ijtihād, lo sforzo interpretativo basato sul ragionamento personale con cui, in assenza in una norma esplicita contenuta nel Corano o nella tradizione profetica, il giurista esprime un parere o emette un giudizio. Il giurista che invece si attiene al parere di un altro dotto senza ricorrere al ragionamento personale è un muqallid, cioè uno che pratica il taqlīd, l’imitazione.

Qādī

Qādī è il giudice. In epoca premoderna, il qādī era colui che applicava la legge religiosa e doveva perciò essere un ‘ālim. In quanto funzionario ufficiale, il qādī era in teoria un delegato del califfo, detentore originario di tutti i poteri della comunità musulmana. Al vertice della struttura giurisdizionale dello Stato si trovava il Qādī al-qudāt (“il giudice dei giudici”), che presiedeva all’amministrazione della giustizia. Con la fine del califfato abbaside e la frammentazione politica della comunità musulmana, ogni regno o sultanato si dotò del suo Qādī al-qudāt, istituzione che fu ripresa anche dall’Impero ottomano. In epoca moderna, con il ridimensionamento della giurisdizione religiosa a vantaggio di tribunali civili, anche le funzioni dei qādī religiosi si sono molto ridotte.

Muftī

Muftī è un ‘ālim abilitato e emettere fatwe, cioè pareri giuridici su particolari punti di diritto. I muftī più autorevoli hanno avuto un ruolo importante nella formazione del diritto islamico, perché le raccolte delle loro fatwe sono state utilizzate come manuali di diritto. Secondo la dottrina classica, per poter esercitare la funzione di muftī occorre essere dotati di integrità personale e della scienza necessaria a praticare l’ijtihād, cioè la capacità di raggiungere una soluzione a un particolare problema giuridico esercitando il ragionamento personale. Già a partire dal settimo secolo i muftī sono stati integrati nella struttura dello Stato, che provvedeva a designare i giuristi abilitati a svolgere tale compito. Anche nell’Impero ottomano, la funzione di muftī fu istituzionalizzata e attribuita alle più alte cariche della struttura religiosa. In epoca moderna e contemporanea, molti Stati dispongono di un muftī ufficiale. In questi casi molto spesso il muftī non si limita a fornire pareri giuridici, ma è il più alto dignitario religioso dello Stato. Un fenomeno recente è quello dell’emissione di fatwe da parte di istituzioni indipendenti dagli Stati, come il Consiglio Europeo per la Fatwa, o da parte di siti internet specializzati.

Ministro degli Awqāf

Ministro degli Awqāf si tratta di una figura nata in epoca moderna, quando gli Awqāf, cioè le fondazioni pie, sono stati incamerati dagli Stati, che hanno così assunto l’amministrazione di una vasta rete di moschee e centri di insegnamento precedente autonomi. Il Ministro degli Awqāf funge perciò da Ministro degli Affari Religiosi. Più che di un’autorità vera e propria, è un alto funzionario, che tuttavia presiede al funzionamento di una consistente struttura di enti e personale religioso.

Khatīb

Khatīb nell’Arabia pre-islamica era colui che nella tribù parlava con autorità. Con l’avvento dell’Islam è rimasta una figura che si rivolge autorevolmente ai musulmani. È infatti colui che pronuncia la khutba (sermone), durante la preghiera comunitaria del venerdì e in altre occasioni particolari, per esempio durante il mese di Ramadan.

Dāʿī

Dāʿī letteralmente è “colui che invita” (alla fede), il predicatore. Storicamente è riferito ai maggiori propagandisti di gruppi musulmani dissidenti, in particolare in ambito sciita. Tra gli ismailiti, i Dāʿī erano i rappresentanti dell’imām e formavano una vera e propria gerarchia religiosa. È dalla predicazione di alcuni di loro che sono nati diversi movimenti e sette, come, in Medio Oriente, i drusi e gli alawiti (anticamente noti come nusayrī). In tempi più recenti il termine dā‘ī (o l’equivalente dā‘iyya) è utilizzato in senso più generale, anche in ambito sunnita, per indicare i predicatori che, attraverso televisioni satellitari e nuovi media, stanno dando vita a un nuovo internazionalismo islamico. Alcuni di questi predicatori sono anche ‘ulamā’, ma spesso le due figure non coincidono, segno che il sapere religioso tradizionale non è più l’unica fonte di autorità. Tra i primi e più noti protagonisti di questa nuova forma di comunicazione religiosa c’è lo shaykh Yousef al-Qaradawi. Oggi questi predicatori si sono moltiplicati e sono diventati estremamente popolari.

Mullah

Mullah termine derivato dall’arabo mawlā (“signore, tutore”), nel mondo turco-iraniano è l’equivalente dello ‘ālim, ma può avere un senso anche più generale e indicare qualsiasi figura detentrice di un sapere o di un carisma religioso (per esempio il famoso mistico Rūmī è noto come Mawlā-nā, “nostro mawlā”). Nella gerarchia religiosa sciita indica un dotto di basso rango, privo cioè della qualifica di mujtahid (interprete).

Marjaʿ al-taqlīd

Marjaʿ al-taqlīd (“fonte dell’imitazione”): in ambito sciita duodecimano è un dotto che per, virtù e sapienza rappresenta un modello da emulare. La figura del Marjaʿ al-taqlīd si è affermata in epoca relativamente recente (metà del XIX secolo), ma affonda le sue radici nella disputa sulla pratica dell’ijtihād (lo sforzo interpretativo) e sul ruolo del mujtahid (il giurista abilitato a praticare l’ijtihād). Tale disputa ha origine al momento dell’occultamento del dodicesimo imām, nel IX secolo, quando per i fedeli si pose il problema di come praticare la fede in assenza della guida suprema, che era anche l’interprete vivente della rivelazione. Secondo alcuni i contenuti della sharī‘a sono definiti dalle tradizioni degli imām. Secondo altri invece le norme della sharī‘a possono essere ricavate anche attraverso sforzo interpretativo di alcuni ‘ulamā’ particolarmente qualificati, i quali vanno così a colmare almeno parzialmente il vuoto lasciato dall’imām. Nell’Ottocento l’istituzionalizzazione della Marja‘iyya inaugura l’obbligo, per i comuni fedeli, di seguire gli insegnamenti di un mujtahid, imitandone la condotta. I mujtahid ricevono il titolo di Āyatollāh (letteralmente “segno di Dio”). Per circa un secolo, la dignità del Marjaʿal-taqlīd si concentra in un’unica persona, il più eminente dei mujtahid. Alla morte dell’Ayatollah Burūjirdī nel 1961 la Marja‘iyya si frammenta in diverse personalità, legate ognuna a un particolare centro di insegnamento (Qom, Najaf, Mashhad, Teheran), mentre anche mujtahid minori vengono riconosciuti come marja‘. Inoltre, con l’ascesa di Khomeini e la rivoluzione iraniana, la marja’iyya assume una chiara dimensione politica, tanto che nella Repubblica Islamica d’Iran viene creata la figura della Guida Suprema. Da questo momento i vari marja‘ di distinguono anche per la posizione che assumono rispetto alla svolta khomeinista e alla dottrina della wilāyat al-faqīh, secondo la quale, in assenza dell’imām, il giurista (faqīh) avoca a sé le prerogative politiche della guida, anticipando così il tempo escatologico.”

Radici cristiane, ma le foglie?

Un post piuttosto lungo e che affronta temi stimolanti che portano ad approfondite riflessioni. La fonte originale è Le Figaro, ripreso in Italia da Il Foglio. L’ho scovato grazie a una segnalazione di Oasis Center.

“Intellettuale di primo piano, il filosofo Pierre Manent rivendica le radici cristiane delle nazioni europee. Una riflessione che l’autore aveva esposto in Situation de la France (2015). Da parte sua, nel suo nuovo saggio L’Europe est-elle chrétienne? Olivier Roy esamina la questione dei rapporti tra cristianesimo, cultura e identità. La giornalista del Figaro Eugenie Bastié li ha fatti sedere per una discussione.
Bastié: Siete entrambi concordi nel parlare di “radici cristiane” dell’Europa?
Olivier Roy: Sono assolutamente d’accordo nel dire che l’Europa, e in particolare il progetto di costruzione europeo così come l’hanno pensato i padri fondatori, si riferisce a un’eredità cristiana. L’Europa occidentale è lo spazio del cristianesimo latino, della chiesa cattolica della riforma gregoriana dall’XI secolo fino alla frattura della Riforma. Quel che mi trova freddo quando si parla di “radici” è che non si parli di foglie. Si parla del passato, ma non si sa cosa fare di questo passato, che si traduce nel presente sotto il termine “identità”. Ora, io penso che il progetto cristiano non sia mai stato un progetto identitario. Perché tutt’a un tratto nel 2004 ci si riferisce alle “radici cristiane”, che negli anni 1950 andavano da sé? A causa della presenza dell’islam, dall’interno con l’immigrazione lavorativa degli anni 60 e 70 che si è trasformata in presenza permanente di una popolazione musulmana in Europa, e dall’esterno con la candidatura della Turchia a entrare nell’Unione europea. Quel che si voleva era dire che l’Europa non era musulmana. Il problema è che questa è un’identità negativa. Che cosa s’intende per identità cristiana? A quale sistema di valori ci si riferisce? E parlando di “radici” si schiva questo dibattito.
Pierre Manent: Parlare di “radici cristiane” mi va decisamente a genio, ma questo non ci dice alcunché di preciso né sul passato né sull’avvenire della nostra relazione col cristianesimo. “Radici” non dice niente sul contenuto della proposta cristiana né sulla maniera in cui essa ha contribuito a dare all’Europa la propria forma. Questa proposta giunge a toccare ciascuno a una profondità a cui non arriva la polis, anche se la stessa lascia gli associati liberi di organizzarsi politicamente secondo la ragione naturale. Essa suscita un approfondimento interiore, ma anche un approfondimento della cosa pubblica che ha condizionato la formazione dello Stato-nazione europeo.

Olivier Roy, lei fa risalire la grande rottura fra cultura dominante e cultura cristiana agli anni 60. Perché?
O. R. Fino agli anni 50, i valori della società sono dei valori cristiani secolarizzati. Lo si vede nel diritto con la concezione di famiglia. Anche la legalizzazione del divorzio si fa in nome della colpa e non del mutuo consenso. Negli anni 60 si cambia registro antropologico. L’individuo che desidera diventa fondamento del vincolo sociale. Il Maggio ’68 non è stato un fuoco di paglia: vediamo a poco a poco il diritto che vi si adatta e che rompe col sostrato comune della legge naturale, dalla legge Neuwirth al matrimonio omosessuale. La comunità di fede si ritrova fuori dalla cultura dominante. La prima constatazione fu fatta da Paolo VI con l’Humanae  vitae, che scoppia come un fulmine a ciel sereno anche per i cattolici freschi di concilio Vaticano II. Mentre tutti parlavano di liberazione, di giustizia sociale, tutt’a un tratto il Papa pubblica un’enciclica sulla normatività sessuale. Aveva ben compreso che stava lì il falso contatto antropologico con la cultura secolare, che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avrebbero qualificato come “pagana”.
P. M. E’ vero che il riferimento a una “legge naturale”, anche presa nel senso più lato, è scomparso. E’ qualcosa di inedito. Va pure detto che la chiesa, essendo in guerra contro il “mondo”, è sempre stata in lotta contro la cultura dominante, un tempo militare e aristocratica, oggi individualistica.
O. R. Certamente la chiesa s’era sempre richiamata a un ordine che non era mondano. Ma il cavaliere dei duelli e l’aristocratico fornicatore domandavano l’estrema unzione e andavano a confessarsi. C’erano due ordini, ma un’unica cultura. Oggi la chiesa dice “la cultura dominante non è più cristiana”. A fronte di ciò, si presentano tre opzioni. O essa cerca di intervenire politicamente per cambiare le norme sui “princìpi non negoziabili” che ha definito Benedetto XVI; o essa sceglie ciò che Rod Dreher ha chiamato l’“opzione Benedetto”, vale a dire la ritirata – si vive ad intra, nella comunità di fede, fuori “dal mondo”; o la terza possibilità è la predicazione – considerare l’Europa come una terra di missione.

Voi pensate che il Vaticano II, aprendo la chiesa al mondo, abbia precipitato la sua secolarizzazione?
P. M. Col concilio, la chiesa prende l’iniziativa di un radicale cambiamento d’attitudine. Senza toccare il proprio fondamento dogmatico, essa dichiara la propria “apertura al mondo”. Col Vaticano II l’istituzione madre dell’occidente dà il segnale del movimento che successivamente avrebbe coinvolto tutte le istituzioni del mondo occidentale, comprese quelle profane che ormai vanno a cercare nel “mondo” le regole della loro azione. E’ questo in particolare il caso dello stato-nazione europeo, che sostituisce alla sua legittimità interiore l’autorità dei “movimenti del mondo” ai quali si tratta di aprirsi e conformarsi. La questione urgente per noi oggi è quella di sapere se le associazioni di cui facciamo parte saranno capaci di produrre di nuovo la regola a partire da loro stesse o se sono condannate all’estinzione.
O. R. Non è soltanto una questione di secolarizzazione, ma anche di deculturazione, dovuta alla mondializzazione che porta con sé una relativizzazione delle culture locali. Quel che constato è la scomparsa del ponte e l’incomprensione tra “quelli che credono al cielo” e quelli che non ci credono. Non condividono più la medesima cultura. L’incultura religiosa dei non credenti è abissale e inedita. Nel mio libro cito il caso di quel parroco in Aubagne che ha dovuto interrompere una cerimonia di matrimonio perché gli invitati si distribuivano delle lattine di birra in chiesa.

Fonte immagine

La strumentalizzazione di un cristianesimo identitario da parte dei partiti populisti vi inquieta?
P. M. Francamente, almeno nel nostro paese, i segni di una siffatta “strumentalizzazione” mi sembrano rari e deboli. Esiste in ogni caso un pericolo simmetrico, quello della dissoluzione del proprium del cristianesimo nei “valori cristiani” o nell’“apertura all’altro”. Il principio del cristianesimo è la presa di coscienza di ciascuno della propria ingiustizia – come avrebbe detto Pascal – ingiustizia dalla quale non si può uscire con le proprie forze. La carità non ha molto a che vedere con la compassione, la quale nasce dalla similitudine umana e nulla ha di specificamente cristiano. I comandamenti cristiani danno forma alla vita del cristiano, certamente, ma non si può dedurre da questi comandamenti una linea di condotta politica.  Il cristianesimo in quanto tale non comanda una politica migratoria aperta piuttosto che restrittiva. Questo dipende da una decisione prudenziale da parte della comunità dei cittadini. Mi incorre l’obbligo di prendermi cura di colui che sono in situazione di aiutare, ma non m’incorre quello di “promuovere una generosa politica migratoria”. Non esiste una “teologia politica” cristiana, né identitaria né multiculturalista. La difficoltà del cristianesimo è precisamente che propone ai cristiani una regola di vita straordinariamente esigente, pur lasciando una considerevole latitudine alla valutazione prudenziale del politico.
O. R. Sono d’accordo nel dire che esiste un’irriducibilità metafisica del cristianesimo, dalla quale non si saprebbe dedurre una politica. Parto dalla “minorizzazione” della comunità di fede. Penso che la parola dei cattolici nello spazio pubblico appaia come essenzialmente normativa oppure “da assedio”: o la predica o la cittadella assediata. Capisco molto bene che i credenti domandino l’autonomia dello spazio della credenza. Io penso che questo spazio religioso sia in pericolo, perché siamo nell’estensione del dominio della secolarizzazione, sotto la forma di una laicità normativa. Ma credo che l’identitarismo sia anch’esso una forma di secolarizzazione del religioso. L’alleanza con i populisti è perdente per i cristiani, perché la locomotiva populista è secolare.

Secondo voi bisogna riformare la legge del 1905? [La legge di separazione tra Stato e Chiese, ndr]
P. M. Cambiare la regola dà l’illusione che si stia agendo. Io penso che sia meglio non toccare la legge del 1905, ma bisogna guardarsi dal credere che quella, da sola, permetterà di gestire la situazione. Essa non risponde all’installazione durevole dei costumi islamici in Francia. La legge ha poca presa sui costumi. La chiesa cattolica poneva un problema di potere, ma i cattolici non avevano costumi visibilmente distinti e separati. Ma che fare in quei quartieri in cui lo spazio pubblico appartiene esclusivamente agli uomini? Molti musulmani sono tranquillamente “integrati”, ma il numero di quelli che vivono separati è sufficientemente considerevole perché formino degli isolati definiti religiosamente, dove la vita sociale segue delle regole che cozzano coi nostri princìpi, in particolare con l’uguaglianza fra i sessi. Il minimo che si possa fare è tener conto di queste cose quando si decide una politica migratoria.
O. R. L’islam è oggi, in Francia, in una posizione post-migratoria. Se anche si arrestasse completamente l’immigrazione, l’islam resterebbe una questione importante. Che cos’è che chiamiamo “costumi islamici”? Il burqa non riguarda che qualche migliaio di donne, tra cui una forte proporzione di convertite che se ne appropriano con l’argomento sessantottino “è mio diritto”. Per costumi islamici s’intende sia una cultura – in generale magrebina – sia un salafismo mondializzato che è una forma patologica di deculturazione. In entrambi i casi sono forme di transizione.  La cultura magrebina sta scomparendo e il salafismo è una forma instabile alla cui perennità io non credo, a meno che non si rifugi in “modalità lubavitch”, vale a dire nell’auto-ghettizzazione volontaria. Il fondo del problema è il rapporto tra cultura e religione.

Si può davvero dire che credenti cristiani e musulmani hanno i medesimi valori? La cosa è tutt’altro che evidente…
O. R. I musulmani non sono multiculturalisti. I multiculturalisti (tipo indigeno della  République) sono tutti secolarizzati. Non sono i musulmani che chiedono di togliere i presepi dai municipi. Essi riconoscono l’esistenza di una cultura dominante, non chiedono la soppressione delle feste religiose. Ci si fissa sui quartieri difficili, ma non si vede l’ascesa della classe media musulmana, che sta per riformulare l’islam.
P. M. Forse cristiani e musulmani condividono una certa mancanza di entusiasmo davanti alle attuali evoluzioni della società. Le loro prospettive sulla famiglia, però, sono assai differenti. Il matrimonio cristiano è la prima istituzione nella storia umana che deriva dal consenso uguale dei due partner. Il sacramento stesso consiste nel consenso libero e uguale dell’uomo e della donna. Il punto decisivo per la nostra vita comune: due movimenti potenti oggi smuovono – e sconvolgono, perfino – la società francese. Da una parte l’islam, dall’altra la rivendicazione sempre più virulenta dei diritti soggettivi. Da un lato tende a imporsi una legge senza molta libertà, e dall’altro una libertà senza uno straccio di legge. I cristiani – in linea di principio – si sanno e si vogliono liberati sotto la legge. Sempre più respinti ai margini, essi sono purtuttavia i custodi di quel punto d’equilibrio che permetterebbe alla vita comune di conservare il proprio baricentro.”

Il passo breve tra faith e fight

ingodwetrust_note

Quello che segue è un post piuttosto lungo. Si tratta dell’articolo uscito su La Civiltà Cattolica 4010 a firma Antonio Spadaro (direttore della rivista) e Marcelo Figueroa (pastore presbiteriano e direttore dell’edizione argentina de L’Osservatore Romano). Ho deciso di pubblicarlo perché lo trovo ricchissimo di spunti di riflessione.
In God We Trust: questa è la frase impressa sulle banconote degli Stati Uniti d’America, che è anche l’attuale motto nazionale. Esso apparve per la prima volta su una moneta nel 1864, ma non divenne ufficiale fino al passaggio di una risoluzione congiunta del Congresso nel 1956. Significa: «In Dio noi confidiamo». Ed è un motto importante per una nazione che alla radice della sua fondazione ha pure motivazioni di carattere religioso. Per molti si tratta di una semplice dichiarazione di fede, per altri è la sintesi di una problematica fusione tra religione e Stato, tra fede e politica, tra valori religiosi ed economia.
Religione, manicheismo politico e culto dell’apocalisse
Specialmente in alcuni governi degli Stati Uniti degli ultimi decenni, si è notato il ruolo sempre più incisivo della religione nei processi elettorali e nelle decisioni di governo: un ruolo anche di ordine morale nell’individuazione di ciò che è bene e ciò che è male.
A tratti questa compenetrazione tra politica, morale e religione ha assunto un linguaggio manicheo che suddivide la realtà tra il Bene assoluto e il Male assoluto. Infatti, dopo che Bush a suo tempo ha parlato di un «asse del male» da affrontare e ha fatto richiamo alla responsabilità di «liberare il mondo dal male» in seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, oggi il presidente Trump indirizza la sua lotta contro un’entità collettiva genericamente ampia, quella dei «cattivi» (bad) o anche «molto cattivi» (very bad). A volte i toni usati in alcune campagne dai suoi sostenitori assumono connotazioni che potremmo definire «epiche».
Questi atteggiamenti si basano sui princìpi fondamentalisti cristiano-evangelici dell’inizio del secolo scorso, che si sono man mano radicalizzati. Infatti si è passati da un rifiuto di tutto ciò che è «mondano», com’era considerata la politica, al perseguimento di un’influenza forte e determinata di quella morale religiosa sui processi democratici e sui loro risultati.

LymanStewart
Lyman Stewart

Il termine «fondamentalismo evangelico», che oggi si può assimilare a «destra evangelicale» o «teoconservatorismo», ha le sue origini negli anni 1910-15. A quell’epoca un milionario del Sud della California, Lyman Stewart, pubblicò 12 volumi intitolati I fondamentali (Fundamentals). L’autore cercava di rispondere alla «minaccia» delle idee moderniste dell’epoca, riassumendo il pensiero degli autori di cui apprezzava l’appoggio dottrinale. In tal modo esemplificava la fede evangelicale quanto agli aspetti morali, sociali, collettivi e individuali. Furono suoi estimatori vari esponenti politici e anche due presidenti recenti come Ronald Reagan e George W. Bush.
Il pensiero delle collettività sociali religiose ispirate da autori come Stewart considera gli Stati Uniti una nazione benedetta da Dio, e non esita a basare la crescita economica del Paese sull’adesione letterale alla Bibbia. Nel corso degli anni più recenti esso si è inoltre alimentato con la stigmatizzazione di nemici che vengono per così dire «demonizzati».
Nell’universo che minaccia il loro modo di intendere l’ American way of life si sono avvicendati nel tempo gli spiriti modernisti, i diritti degli schiavi neri, i movimenti hippy, il comunismo, i movimenti femministi e via dicendo, fino a giungere, oggi, ai migranti e ai musulmani. Per sostenere il livello del conflitto, le loro esegesi bibliche si sono sempre più spinte verso letture decontestualizzate dei testi veterotestamentari sulla conquista e sulla difesa della «terra promessa», piuttosto che essere guidate dallo sguardo incisivo e pieno di amore del Gesù dei Vangeli.
Dentro questa narrativa, ciò che spinge al conflitto non è bandito. Non si considera il legame esistente tra capitale e profitti e la vendita di armi. Al contrario: spesso la guerra stessa è assimilata alle eroiche imprese di conquista del «Dio degli eserciti» di Gedeone e di Davide. In questa visione manichea, le armi possono dunque assumere una giustificazione di carattere teologico, e non mancano anche oggi pastori che cercano per questo un fondamento biblico, usando brani della Sacra Scrittura come pretesti fuori contesto.
Un altro aspetto interessante è la relazione che questa collettività religiosa, composta principalmente dauomo-fuori-natura bianchi di estrazione popolare del profondo Sud americano, ha con il «creato». Vi è come una sorta di «anestesia» nei confronti dei disastri ecologici e dei problemi generati dai cambiamenti climatici. Il «dominionismo» che professano – che considera gli ecologisti persone contrarie alla fede cristiana – affonda le proprie radici in una comprensione letteralistica dei racconti della creazione del libro della Genesi, che colloca l’uomo in una situazione di «dominio» sul creato, mentre quest’ultimo resta sottoposto al suo arbitrio in biblica «soggezione».
In questa visione teologica, i disastri naturali, i drammatici cambiamenti climatici e la crisi ecologica globale non soltanto non vengono percepiti come un allarme che dovrebbe indurli a rivedere i loro dogmi ma, al contrario, sono segni che confermano la loro concezione non allegorica delle figure finali del libro dell’Apocalisse e la loro speranza in «cieli nuovi e terra nuova».
Si tratta di una formula profetica: combattere le minacce ai valori cristiani americani e attendere l’imminente giustizia di un Armageddon, una resa dei conti finale tra il Bene e il Male, tra Dio e Satana. In questo senso ogni «processo» (di pace, di dialogo ecc.) frana davanti all’impellenza della fine, della battaglia finale contro il nemico. E la comunità dei credenti, della fede (faith), diventa la comunità dei combattenti, della battaglia (fight). Una simile lettura unidirezionale dei testi biblici può indurre ad anestetizzare le coscienze o a sostenere attivamente le situazioni più atroci e drammatiche che il mondo vive fuori dalle frontiere della propria «terra promessa».

Rousas_Rushdoony
Rushdoony

Il pastore Rousas John Rushdoony (1916-2001) è il padre del cosiddetto «ricostruzionismo cristiano» (o «teologia dominionista»), che grande impatto ha avuto nella visione teopolitica del fondamentalismo cristiano. Essa è la dottrina che alimenta organizzazioni e networks politici come il Council for National Policy e il pensiero dei loro esponenti quali Steve Bannon, attuale chief strategist della Casa Bianca [sollevato dall’incarico il 18 agosto 2017] e sostenitore di una geopolitica apocalittica[1].
«La prima cosa che dobbiamo fare è dare voce alle nostre Chiese», dicono alcuni. Il reale significato di questo genere di espressioni è che ci si attende la possibilità di influire nella sfera politica, parlamentare, giuridica ed educativa, per sottoporre le norme pubbliche alla morale religiosa.
La dottrina di Rushdoony, infatti, sostiene la necessità teocratica di sottomettere lo Stato alla Bibbia, con una logica non diversa da quella che ispira il fondamentalismo islamico. In fondo, la narrativa del terrore che alimenta l’immaginario degli jihadisti e dei neo-crociati si abbevera a fonti non troppo distanti tra loro. Non si deve dimenticare che la teopolitica propagandata dall’Isis si fonda sul medesimo culto di un’apocalisse da affrettare quanto prima possibile. E dunque non è un caso che George W. Bush sia stato riconosciuto come un «grande crociato» proprio da Osama bin Laden.
Teologia della prosperità e retorica della libertà religiosa
Un altro fenomeno rilevante, accanto al manicheismo politico, è il passaggio dall’originale pietismo puritano, basato su L’ etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, alla «teologia della prosperità», propugnata principalmente da pastori milionari e mediatici e da organizzazioni missionarie con un forte influsso religioso, sociale e politico. Essi annunciano un «vangelo della prosperità», per cui Dio desidera che i credenti siano fisicamente in salute, materialmente ricchi e personalmente felici.
È facile notare come alcuni messaggi delle campagne elettorali e le loro semiotiche abbondino di riferimenti al fondamentalismo evangelicale. Accade per esempio di vedere immagini in cui leader politici appaiono trionfanti con una Bibbia in mano.
Una figura rilevante, che ha ispirato presidenti come Richard Nixon, Ronald Reagan e Donald Trump, è il pastore Norman Vincent Peale (1898-1993), il quale ha officiato il primo matrimonio dell’attuale Presidente. Egli è stato un predicatore di successo: ha venduto milioni di copie del suo libro Il potere del pensiero positivo (1952), pieno di frasi quali: «Se credi in qualcosa, la otterrai», «Se ripeti “Dio è con me, chi è contro di me?”, nulla ti fermerà», «Imprimi nella tua mente la tua immagine di successo, e il successo arriverà», e così via. Molti telepredicatori della prosperità mescolano marketing, direzione strategica e predicazione, concentrandosi più sul successo personale che sulla salvezza o sulla vita eterna.
Un terzo elemento, accanto al manicheismo e al vangelo della prosperità, è una particolare forma di proclamazione della difesa della «libertà religiosa». L’erosione della libertà religiosa è chiaramente una grave minaccia all’interno di un dilagante secolarismo. Occorre però evitare che la sua difesa avvenga al ritmo dei fondamentalisti della «religione in libertà», percepita come una diretta sfida virtuale alla laicità dello Stato.
L’ecumenismo fondamentalista
Facendo leva sui valori del fondamentalismo, si sta sviluppando una strana forma di sorprendente ecumenismo tra fondamentalisti evangelicali e cattolici integralisti, accomunati dalla medesima volontà di un’influenza religiosa diretta sulla dimensione politica.
Alcuni che si professano cattolici si esprimono talvolta in forme fino a poco tempo fa sconosciute alla loro tradizione e molto più vicine ai toni evangelicali. In termini di attrazione di massa elettorale, questi elettori vengono definiti value voters. L’universo di convergenza ecumenica, tra settori che paradossalmente sono concorrenti in termini di appartenenza confessionale, è ben definito. Quest’incontro per obiettivi comuni avviene sul terreno di temi come l’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’educazione religiosa nelle scuole e altre questioni considerate genericamente morali o legate ai valori. Sia gli evangelicali sia i cattolici integralisti condannano l’ecumenismo tradizionale, e tuttavia promuovono un ecumenismo del conflitto che li unisce nel sogno nostalgico di uno Stato dai tratti teocratici.
La prospettiva più pericolosa di questo strano ecumenismo è ascrivibile alla sua visione xenofoba e islamofoba, che invoca muri e deportazioni purificatrici. La parola «ecumenismo» si traduce così in un paradosso, in un «ecumenismo dell’odio». L’intolleranza è marchio celestiale di purismo, il riduzionismo è metodologia esegetica, e l’ultra-letteralismo ne è la chiave ermeneutica.
È chiara l’enorme differenza che c’è tra questi concetti e l’ecumenismo incoraggiato da papa Francesco con diversi referenti cristiani e di altre confessioni religiose, che si muove nella linea dell’inclusione, della pace, dell’incontro e dei ponti. Questo fenomeno di ecumenismi opposti, con percezioni contrapposte della fede e visioni del mondo in cui le religioni svolgono ruoli inconciliabili, è forse l’aspetto più sconosciuto e al tempo stesso più drammatico della diffusione del fondamentalismo integralista. È a questo livello che si comprende il significato storico dell’impegno del Pontefice contro i «muri» e contro ogni forma di «guerra di religione».
La tentazione della «guerra spirituale»
L’elemento religioso invece non va mai confuso con quello politico. Confondere potere spirituale e potere temporale significa asservire l’uno all’altro. Un tratto netto della geopolitica di papa Francesco consiste nel non dare sponde teologiche al potere per imporsi o per trovare un nemico interno o esterno da combattere. Occorre fuggire la tentazione trasversale ed «ecumenica» di proiet­tare la divinità sul potere politico che se ne riveste per i propri fini. Francesco svuota dall’interno la macchina narrativa dei millenarismi settari e del «dominionismo», che prepara all’apocalisse e allo «scontro finale»[2]. La sottolineatura della misericordia come attributo fondamentale di Dio esprime questa esigenza radicalmente cristiana.
Francesco intende spezzare il legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa. La spiritualità non può legarsi a governi o patti militari, perché essa è a servizio di tutti gli uomini. Le religioni non possono considerare alcuni come nemici giurati né altri come amici eterni. La religione non deve diventare la garanzia dei ceti dominanti. Eppure è proprio questa dinamica dallo spurio sapore teologico che tenta di imporre la propria legge e la propria logica in campo politico.
churchmilitantColpisce una certa retorica usata per esempio dagli opinionisti di Church Militant, una piattaforma digitale statunitense di successo, apertamente schierata a favore di un ultraconservatorismo politico, che usa i simboli cristiani per imporsi. Questa strumentalizzazione è definita «autentico cristianesimo». Essa, per esprimere le proprie preferenze, ha creato una precisa analogia tra Donald Trump e Costantino, da una parte, e tra Hillary Clinton e Diocleziano, dall’altra. Le elezioni americane, in quest’ottica, sono state intese come una «guerra spirituale»[3].
Questo approccio bellico e «militante» appare decisamente affascinante ed evocativo per un certo pubblico, soprattutto per il fatto che la vittoria di Costantino – data per impossibile contro Massenzio, che aveva alle sue spalle tutto l’establishment romano – era da attribuirsi a un intervento divino: in hoc signo vinces.
Church Militant si chiede dunque se la vittoria di Trump si possa attribuire alla preghiera degli americani. La risposta suggerita è positiva. La consegna indiretta per il presidente Trump, nuovo Costantino, è chiara: deve agire di conseguenza. Un messaggio molto diretto, quindi, che vuole condizionare la presidenza, connotandola dei tratti di una elezione «divina». In hoc signo vinces, appunto.
Oggi più che mai è necessario spogliare il potere dei suoi panni confessionali paludati, delle sue corazze, delle sue armature arrugginite. Lo schema teopolitico fondamentalista vuole instaurare il regno di una divinità qui e ora. E la divinità ovviamente è la proiezione ideale del potere costituito. Questa visione genera l’ideologia di conquista.
Lo schema teopolitico davvero cristiano è invece escatologico, cioè guarda al futuro e intende orientare la storia presente verso il Regno di Dio, regno di giustizia e di pace. Questa visione genera il processo di integrazione che si dispiega con una diplomazia che non incorona nessuno come «uomo della Provvidenza».
Ed è anche per questo che la diplomazia della Santa Sede vuole stabilire rapporti diretti, fluidi con le superpotenze, senza però entrare dentro reti di alleanze e di influenze precostituite. In questo quadro, il Papa non vuole dare né torti né ragioni, perché sa che alla radice dei conflitti c’è sempre una lotta di potere. Quindi non c’è da immaginare uno «schieramento» per ragioni morali o, peggio ancora, spirituali.
Francesco rifiuta radicalmente l’idea dell’attuazione del Regno di Dio sulla terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensione del «partito». Se fosse così inteso, infatti, il «popolo eletto» entrerebbe in un complicato intreccio di dimensioni religiose e politiche che gli farebbe perdere la consapevolezza del suo essere a servizio del mondo e lo contrapporrebbe a chi è lontano, a chi non gli appartiene, cioè al «nemico».
Ecco allora che le radici cristiane dei popoli non sono mai da intendere in maniera etnicista. Le nozioni di «radici» e di «identità» non hanno il medesimo contenuto per il cattolico e per l’identitario neo-pagano. L’etnicismo trionfalista, arrogante e vendicativo è, anzi, il contrario del cristianesimo. Il Papa, il 9 maggio, in un’intervista al quotidiano francese La Croix, ha detto: «L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio». E ancora: «L’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista».
Contro la paura
Su quale sentimento fa leva la tentazione suadente di un’allean­za spuria tra politica e fondamentalismo frareligioso? Sulla paura della frattura dell’ordine costituito e sul timore del caos. Anzi, essa funziona proprio grazie al caos percepito. La strategia politica per il successo diventa quella di innalzare i toni della conflittualità, esagerare il disordine, agitare gli animi del popolo con la proiezione di scenari inquietanti al di là di ogni realismo.
La religione a questo punto diventerebbe garante dell’ordine, e una parte politica ne incarnerebbe le esigenze. L’appello all’apocalisse giustifica il potere voluto da un dio o colluso con un dio. E il fondamentalismo si rivela così non il prodotto dell’esperienza religiosa, ma una concezione povera e strumentale di essa.
Per questo Francesco sta svolgendo una sistematica contro-narrazione rispetto alla narrativa della paura. Occorre, dunque, combattere contro la manipolazione di questa stagione dell’ansia e dell’insicurezza. E pure per questo, coraggiosamente, Francesco non dà alcuna legittimazione teologico-politica ai terroristi, evitando ogni riduzione dell’islam al terrorismo islamista. E non la dà neanche a coloro che postulano e che vogliono una «guerra santa» o che costruiscono barriere di filo spinato. L’unico filo spinato per il cristiano, infatti, è quello della corona di spine che Cristo ha in capo[4].
********
[1]. Bannon crede nella visione apocalittica che William Strauss e Neil Howe hanno teorizzato nel loro libro The Fourth Turning: What Cycles of History Tell Us About America’s Next Rendezvous with Destiny. Cfr anche N. Howe, «Where did Steve Bannon get his worldview? From my book», in The Washington Post, 24 febbraio 2017.
[2]. Cfr A. Aresu, «Pope Francis against the Apocalypse», in Macrogeo, 9 giugno 2017.
[3]. Cfr «Donald “Constantine” Trump? Could Heaven be intervening directly in the election?», in Church Militant.
[4]. Per approfondire queste riflessioni, cfr D. J. Fares, «L’antropologia politica di Papa Francesco», in Civ. Catt. 2014 I 345-360; A. Spadaro, «La diplomazia di Francesco. La misericordia come processo politico», ivi 2016 I 209-226; D. J. Fares, «Papa Francesco e la politica», ivi 2016 I 373-385; J. L. Narvaja, «La crisi di ogni politica cristiana. Erich Przywara e l’“idea di Europa”», ivi 2016 I 437-448; Id., «Il significato della politica internazionale di Francesco», ivi 2017 III 8-15.

Turchia: quale laicità?

ankara_kocatepe_camii_innen

Un articolo molto molto interessante di Chiara Maritato sulla Turchia, sulla laicità e sul ruolo religioso ed etico dell’Islam. La fonte è l’Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa.
In molti articoli che raccontano la Turchia di oggi, compare una narrazione che segue più o meno la seguente trama: nata dalle ceneri di un impero, dove regnava un Sultano/Califfo (kalifat rasul Allah, cioè rappresentante dell’inviato di Dio, e quindi successore di Maometto), la Turchia si è poi laicizzata con la proclamazione della Repubblica fondata il 29 ottobre del 1923 da Mustafa Kemal (che si farà poi chiamare, dal 1934, padre dei turchi, Atatürk).
Oggi, dopo quindici anni di governo conservatore religioso del partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), la Turchia si sta islamizzando. Questa visione, seppure molto diffusa, è incompleta. Come si “islamizza” una nazione la cui popolazione è per oltre il 90% di religione musulmana? La domanda può sembrare retorica, ma non lo è del tutto. Nell’aprile 2016, in un intervento che ha scatenato molte polemiche il Presidente del parlamento turco, Ismail Kahraman, ha affermato senza mezzi termini che la Turchia è uno stato a maggioranza musulmana e dovrebbe avere una costituzione religiosa.
Se è vero che il ruolo e il significato della religione nella sfera pubblica sono andati ridefinendosi, l’Islam non ha mai cessato di essere una componente fondante dell’identità turca. Inoltre, la laicità intesa come separazione tra stato e chiesa ha poco o niente a che fare con la laicità turca, laiklik. Principio costituzionale e valore fondante, ispiratore di politiche restrittive e di non pochi colpi di stato, il laiklik è lontano da una separazione tra stato e religione come due realtà a sé stanti. Al contrario, esso si presenta come principio assertivo in cui lo stato, attraverso il suo apparato burocratico e militare, controlla la religione relegandola alla sfera privata.
Un altro aspetto critico è che a livello istituzionale, a differenza di quanto talvolta si legge, la Repubblica turca non nasce laica. L’articolo 2 della Costituzione del 1924 afferma che “la religione della Repubblica è l’Islam”. Quest’articolo sarà emendato nel 1928, quando viene meno il riferimento alla religione, ma è solo nel 1937 che includerà la laicità tra i principi fondamentali della Repubblica. Questo ritardo non sorprende, se invece di concentrarsi esclusivamente sulle celebri misure per la modernizzazione volute da Atatürk, si considera la nascita della Turchia come stato-nazione alla luce del nazionalismo turco, un’ideologia che può essere sintetizzata in tre principi chiave: turchizzazione, occidentalizzazione e islamizzazione.
Nel 1925 sono proclamate una serie di leggi dette “Rivoluzionarie”, che impongono la chiusura delle confraternite sufi e delle comunità religiose e vietano il fez (copricapo ottomano). Durante i primi venti anni della Turchia Repubblicana, l’élite al governo è stata quindi impegnata nella missione di “rieducare” la popolazione a una morale civica e alle cosiddette sei frecce del kemalismo, elaborate nel 1931 (nazionalismo, populismo, repubblicanesimo, statalismo, rivoluzionarismo, laicismo). Questa “missione civilizzatrice” ha avuto l’obiettivo di modernizzare e occidentalizzare usi e costumi, anche negli aspetti più privati. A tale processo, noto in Turchia con il termine di “ingegneria sociale” (toplumsal mühendisliği) si sono contrapposte una serie di rivolte scoppiate tra il 1925 e 1930. Il regime ha risposto rafforzando il suo controllo autoritario contro una costante minaccia islamista (irtica). Tuttavia, le pratiche religiose “non-ufficiali” sono continuate clandestinamente nel quotidiano.
L’intento di educare la società a una modernità secolare non prevedeva la costituzione di una società senza religione. Quello che è spesso definito come Islam kemalista ufficiale versus l’Islam della tradizione e delle confraternite è da intendersi come il controllo dello stato su una religione da praticarsi in forma privata e il più possibile “razionale”. Un aspetto che spesso sfugge quando si analizza la prima secolarizzazione, è che il laicismo turco è stato un tentativo di re-islamizzare la società verso un Islam “nazionale”, “civile”, “ufficiale”, “puro” (doğru din) lontano dalla tradizione e dalla superstizione.
Uno degli strumenti con cui la Repubblica turca ha avviato questa trasformazione del religioso è indubbiamente il Direttorato per gli Affari Religiosi (Diyanet). A seguito della proclamazione della Repubblica nel 1923, il 3 marzo 1924 gli affari religiosi diventarono competenza di un’unità amministrativa, il Direttorato per gli Affari Religiosi. Il Diyanet è un organo statale il cui presidente è nominato dal Presidente della Repubblica su proposta del Primo ministro. Tra le sue principali competenze vi sono la gestione dei servizi riguardanti la fede, le pratiche islamiche e l’amministrazione dei luoghi di culto. Concretamente, il Diyanet supervisiona le attività che si svolgono nelle circa 90.000 moschee in Turchia, seleziona gli operatori di culto (che sono quindi dipendenti statali) e diffonde la dottrina religiosa, l’Islam sunnita di scuola hanafita.
Se è vero che nell’ultimo ventennio le competenze e risorse di questa istituzione pubblica sono profondamente mutate, la trasformazione del Diyanet fu avviata molto prima della vittoria dell’AKP alle elezioni del 2002. Nel 1965, la legge sull’organizzazione e i doveri del Direttorato elenca tra i compiti dell’organo quello di “illuminare la società sulla morale”. È dunque a partire dagli anni Sessanta che la sfera morale entra tra le competenze dirette dell’istituzione. Per restarci. Durante gli anni Settanta, e soprattutto dopo il colpo di stato del 12 settembre 1980, sarà anche attraverso la rete capillare del Diyanet, diffusa sul territorio nazionale e nelle comunità turche in Europa, che si consolida la cosiddetta “Sintesi turco-islamica”. Quest’ultima ha visto un utilizzo strumentale della religione come collante della società. Il Diyanet assunse dunque una funzione tutelare di contrasto ai movimenti di sinistra e al partito comunista. Infatti, la Costituzione oggi vigente, promulgata nel 1982 e figlia di quel colpo di stato, all’articolo 136 aggiunge tra le competenze del Direttorato quella di “promuovere la solidarietà e l’integrità nazionale”.
A partire dai primi anni 2000, e soprattutto dal 2010, una riorganizzazione interna ha rinforzato la capacità amministrativa del Diyanet. Il suo budget è oggi pari a più di 2 miliardi di dollari e conta circa 120.000 dipendenti. Nell’ultimo decennio, da protettore del laicismo di stato, il Diyanet è diventato una delle istituzioni più politicizzate, nonché uno degli strumenti attraverso cui diffondere nazionalismo turco e morale islamica, due componenti chiave su cui si fondano le politiche dell’AKP.
kocatepemosqueIn questo quadro si inserisce la volontà di formare una “nuova generazione di devoti”, come ha affermato in un celebre discorso del 2012 l’allora premier Erdoğan. Ad emergere è soprattutto il sostegno morale e spirituale che il Diyanet, tramite il suo personale maschile e femminile, fornisce alla popolazione. Questo avviene non solo nelle moschee dislocate in tutta la Turchia, ma anche in strutture pubbliche come ospedali, orfanotrofi, prigioni, località protette per donne vittime di violenza, riformatori. A seguito di accordi con i ministeri competenti, il personale del Diyanet si reca regolarmente in queste strutture pubbliche per svolgere attività di predicazione, lettura di Corano, guida spirituale (irşad) e sostegno morale.
Dal 2005, sono stati inoltre istituiti uffici del Diyanet con l’intento di fornire sostegno morale e guida spirituale a donne e famiglie (Aile Irşad ve Rehberlik Büröları). Si tratta di una sorta di consultori familiari, dislocati sul territorio nazionale, dove predicatori e predicatrici del Diyanet incontrano su appuntamento donne e famiglie, ascoltano i loro problemi, organizzano seminari e attività di formazione. Questi uffici sono forse la struttura che più di tutte incarna la volontà dello stato, attraverso il Diyanet, di appropriarsi di ambiti nuovi come il supporto morale.
L’educazione alla morale islamica e le misure conservatrici recentemente adottate – da ultima la decisione di rimuovere la teoria di Darwin dai libri di biologia riecheggiano, capovolgendolo, il tentativo di secolarizzazione dei costumi imposto dall’alto, da parte di uno “stato-padre” kemalista chiamato ad educare più che a governare. Tuttavia, la questione va oltre la ricerca di pronostici sul se e come l’Erdoğanismo riuscirà in una nuova impresa di “ingegneria sociale” volta ad una re-Islamizzazione. L’attuale riposizionamento dei confini tra stato e religione in Turchia si evince proprio dal ruolo assunto dalla religione nelle istituzioni pubbliche, in quanto insieme di pratiche oltre che di valori. Tuttavia, la piena realizzazione di una missione “moralizzatrice” solleva non poche perplessità. Nonostante l’ingente apparato burocratico e militare, il fallimento della modernizzazione kemalista invita a riflettere criticamente sugli strumenti e sull’efficacia delle politiche oggi in campo, nonché sugli scenari futuri.”

Il diario di Salih

mirza-saleh-shirazi
Mirza Saleh Shirazi

Nile Green è professore di storia presso la University of California, Los Angeles. Il suo ultimo libro è ‘The Love of Strangers: What Six Muslim Students Learned in Jane Austen’s London’ (2016). E’ autore di questo testo, tradotto in italiano da Francesco d’Isa, uscito su Aeon in collaborazione con la Princeton University Press, sotto licenza Creative Commons. L’ho recuperato su L’Indiscreto.
Duecento anni fa, giunge a Londra il primo gruppo di studenti musulmani della storia d’Europa. Inviati dal principe ereditario dell’Iran, gli studenti hanno la missione di esaminare le nuove scienze emerse dalla rivoluzione industriale.
Quando negli ultimi mesi del 1815 i sei giovani musulmani si stabiliscono nei loro alloggi londinesi, sono pieni di entusiasmo per il nuovo tipo di società che vedono intorno a loro. Folle di uomini e donne riuniti ogni sera presso le ‘case-spettacolo’, come chiamano i teatri della città. Londra è animata dalla definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo di qualche mese prima, e le nuove scienze – o ulum-i-ladid – che devono scoprire gli studenti sembrano ovunque, persino nei nuovi battelli a vapore che trasportano i passeggeri lungo il Tamigi.
Quando le settimane si trasformano in mesi, i sei stranieri cominciano a rendersi conto della portata del loro compito. Non hanno qualifiche riconoscibili, né alcun contatto tra i piccoli gruppetti accademici di allora: non conoscono nemmeno l’Inglese. Al tempo, infatti, non esiste ancora un dizionario Persiano-Inglese che li possa aiutare.
Nella speranza di imparare l’inglese e il latino, che prendono erroneamente per la lingua principale della scienza europea, gli aspiranti studenti arruolano un sacerdote di nome John Bisset. Laureato a Oxford, Bisset gli parla dei due più antichi luoghi di studio inglesi. Quando successivamente due degli studenti vengono assunti dall’eclettico matematico Olinthus Gregory, sviluppano ulteriori collegamenti con le università, dal momento che Gregory ha trascorso diversi anni come libraio di successo a Cambridge. Covano un piano per presentare almeno uno degli studenti, Mirza Salih, a un professore che potrebbe essere interessato a introdurre informalmente uno studioso straniero presso uno dei college di Cambridge.
Questo accade molto tempo prima che i cattolici siano autorizzati a studiare presso le università della Gran Bretagna, quindi l’arrivo a Cambridge di un iraniano islamico (che avrebbe poi fondato il primo giornale in Iran) causa scandalo e costernazione.
Il docente scelto per ospitare Salih è un certo Samuel Lee del Queens College. Lee sembra un candidato strano per sostenere il giovane taliban, come vengono chiamati gli studenti in Persia. Devoto evangelico, Lee è dedito alla causa di convertire i musulmani di tutto il mondo al cristianesimo. Insieme ad altri colleghi del Queens, compresa l’influente famiglia di Venn, ha anche degli stretti legami con la Church Missionary Society. Fondata nel 1799, la Società diviene velocemente il centro del movimento missionario di Cambridge.
Eppure è proprio questo che rende il giovane musulmano così attraente per Lee. Il punto non è tanto che la conversione di Salih possa portare un’anima più al cristianesimo. Piuttosto, in veste di persiano istruito, Salih può aiutare il professore nel grande compito di tradurre la Bibbia in persiano, un linguaggio che allora era utilizzato anche in tutta l’India, oltre che in quello che oggi è l’Iran. Lee coglie al volo l’occasione ed è così che Salih viene invitato a Cambridge.
Come rivela il suo diario persiano, a Salih il professore piace moltissimo. Anche se i posteri avrebbero ricordato Lee come un illustre orientalista di Oxbridge che sale al rango di Regius Professor di ebraico, la sua educazione è molto umile. Lee era cresciuto in un piccolo villaggio dello Shropshire, in una famiglia di falegnami, e nella sua adolescenza è stato apprendista falegname egli stesso. In un mio viaggio di ricerca in California, ho visitato Longnor, il villaggio natale di Lee. È ancora oggi un luogo remoto, raggiungibile con strade a una sola corsia nascoste nelle siepi. Presso la chiesa locale, ho trovato con gioia le iniziali del suo bisnonno falegname, Richard Lee, incise nella banchi che aveva fatto per i compaesani.
Duecento anni fa era quasi impossibile per un ragazzo di campagna come Sam Lee diventare un professore di Cambridge, ma egli ha un genio per le lingue che gli vale il patrocinio di un signore locale. Essendo anch’egli un giovane studioso pieno di ambizioni, Salih apprezza il percorso di Lee, e nel suo diario persiano parla della sua vita con ammirazione.
Attraverso il patrocinio di Lee, Salih è in grado di abitare al Queens College e cenare in sala con professori come William Mandell e Joseph Jee. A quel tempo, il presidente del Queens è il filosofo naturale Isaac Milner, celebre come chimico quanto come conversatore. Salih apprezza certamente le cene ai piani alti, ma il suo tempo a Cambridge non è tutto un banchettare. Fa molti viaggi di studio presso le librerie che lo interessano, in particolare la Biblioteca Wren presso il Trinity College, che ospita la statua di Sir Isaac Newton. Nel suo diario, Salih lo chiama ‘un filosofo che era sia gli occhi che la luce d’Inghilterra’.
In cambio dell’accesso al mondo dell’università, Salih aiuta Lee nel suo lavoro sulla Bibbia persiana. Scrive anche una lettera di raccomandazione quando Lee viene candidato al ruolo di Regius Professor. La lettera è ancora conservata negli archivi universitari.
Tra il diario di Salih, le lettere di Lee e i documenti universitari, emerge un ricco quadro dell’improbabile rapporto formato tra questo straniero musulmano e quello che allora era il più cristiano dei collegi di Cambridge.
L’università è solo uno dei tanti luoghi che Salih e i suoi compagni musulmani visitano durante i loro quattro anni in Inghilterra, alla ricerca dei frutti scientifici del secolo dei Lumi. L’incontro tra ‘Islam e l’Occidente’ è spesso raccontato in termini di ostilità e di conflitto, ma il diario di Salih presenta atteggiamenti molto diversi – di cooperazione, compassione e umanità – e, grazie alla testimonianza di un inaspettato rapporto con l’evangelico Lee, di amicizie improbabili. Scritto in Inghilterra contemporaneamente ai romanzi di Jane Austen, il diario di Salih è un testamento dimenticato, e un salutare ricordo dell’incontro tra europei e musulmani agli albori dell’era moderna.”

Attraverso l’utero

islamic-women

Questa mattina, andando a lavorare, stavo ascoltando Virgin Radio. All’interno del Buongiorno di Dr. Feelgood e Massimo Cotto, vi è spazio per Beppe Severgini che, in uno dei suoi interventi, fa riferimento al modo in cui è considerata la donna all’interno del mondo islamico. Mi sono allora ricordato di aver salvato da qualche parte un articolo di qualche settimana fa, pubblicato su L’Huffington Post USA e tradotto in italiano da Milena Sanfilippo. L’articolo è stato scritto da Jim Garrison e Banafsheh Sayyad. Certo alcuni punti sono controversi, ma sicuramente è un articolo stimolante e arricchente. Se non altro una voce che non si sente così spesso.
Il profeta Maometto sarebbe scioccato dal modo in cui gli odierni fondamentalisti islamici trattano le donne sotto il loro controllo. Questa repressione viene perpetrata nel nome della Legge Islamica, conosciuta come Sharia. Ma l’attuale repressione delle donne è plasmata dalla cultura e dalla storia. Trova scarso fondamento nel Corano e, di certo, non è in linea con quello che sappiamo sugli insegnamenti di Maometto o sul modo in cui trattava le donne. Fra tutti i fondatori delle maggiori religioni (Buddismo, Cristianesimo, Confucianesimo, Islam e Ebraismo) Maometto fu senza dubbio il più radicale ed il più incoraggiante nel modo di trattare le donne. Probabilmente, è stato il primo femminista della storia.
Si tratta di un aspetto di fondamentale importanza perché, se c’è una sola cosa che arabi e musulmani possono fare per riformare e rigenerare la loro cultura oppressa dalla crisi, questa sarebbe liberare le donne e garantire loro i pieni diritti di cui le altre godono nei paesi del mondo. La parità è la chiave per una vera Primavera Araba.
Tra i fondatori di grandi religioni, Confucio accennava a malapena alle donne ed in tutti i suoi insegnamenti dava per scontato che fossero subordinate agli uomini, all’interno di un ordine patriarcale. Buddha insegnava che le donne potevano diventare sagge, illuminate. Ma per fare questo dovevano essere messe alla prova tre volte, prima che fosse permesso loro di farsi monache. Questo solo a condizione che la monaca sul gradino più alto della gerarchia monastica fosse comunque inferiore al monaco al livello più basso. Nei racconti del Vangelo, Gesù non fa mai commenti espliciti sullo status delle donne, anche se si avvicinò a donne dalla cattiva reputazione o non ebree. Mosè era convintamente patriarcale. Nella Torah, non c’è praticamente nulla che indichi una specifica preoccupazione per i diritti delle donne.
Maometto fu sostanzialmente diverso. Predicò in modo esplicito la parità assoluta tra donne e uomini come principio fondamentale della vera spiritualità e prese diverse misure concrete per migliorare nel profondo lo status e il ruolo delle donne in Arabia, durante la sua vita. Maometto era vicino alla causa delle donne perché era nato povero e diventò orfano molto presto. Era anche analfabeta e illetterato. Sapeva, come pochi altri sanno, cosa significassero la povertà e l’esclusione sociale.
Confucio faceva parte della piccola nobiltà accademica dell’antica Cina. Alla nascita, Buddha era un ricco principe del Nepal. Gesù nacque da un falegname di discendenza reale e all’interno di una stretta comunità ebraica in Palestina. Mosè nacque da una famiglia ebrea e fu cresciuto nel palazzo del Faraone in Egitto. Maometto non ebbe nessuno di questi vantaggi. Per questo, mentre gli altri leader religiosi sembravano mantenere il silenzio sull’oppressione femminile, Maometto innalzò lo stato delle donne facendone una questione di credo religioso e politica di stato. Prendete in considerazione quanto segue:
Nell’Arabia del settimo secolo, l’infanticidio femminile era una pratica comune, Maometto lo abolì. Un detto contenuto nell’Hadith (la raccolta di aneddoti su Maometto) sembra testimoniarlo: Maometto disse infatti che la nascita di una bimba era una “benedizione”. All’epoca, le donne arabe erano considerate una proprietà e non godevano di alcun diritto civile. Maometto garantì loro il diritto di possedere delle proprietà, oltre ad importanti diritti coniugali e patrimoniali.
Prima di Maometto, la dote pagata da un uomo per la sua sposa veniva offerta al padre di lei come parte del contratto tra le due figure maschili. Le donne non avevano voce in capitolo. Maometto dichiarò che le donne dovevano acconsentire al matrimonio e che la dote doveva andare alla sposa, non a suo padre. Inoltre, la sposa poteva tenersi la dote anche dopo il matrimonio. La moglie non era tenuta a utilizzare la dote per spese familiari. Era una responsabilità dell’uomo. Alle donne fu anche concesso il diritto di divorziare dai propri mariti, qualcosa di inaudito per l’epoca. In un divorzio, la donna era autorizzata a prendere la dote con sé.
Alle donne furono estesi anche diritti patrimoniali. Veniva concesso loro soltanto la metà di quanto spettava ai loro fratelli perché gli uomini avevano più responsabilità economiche per le spese di famiglia. Ma con Maometto le donne divennero eredi delle proprietà e dei beni familiari per la prima volta in Arabia. All’epoca, una misura del genere era ritenuta rivoluzionaria.
Lo stesso Maometto veniva spesso visto svolgere “lavori femminili” in casa ed era molto attento alla sua famiglia. Il suo primo matrimonio con Khadija fu monogamo per i 15 anni in cui furono sposati, una cosa rara in Arabia allora. A detta di tutti, erano profondamente innamorati e Khadija fu la prima convertita all’Islam. Incoraggiò Maometto dal suo primissimo incontro con l’angelo Gabriele e dalla rivelazione delle prime sure che avrebbero composto il Corano.
Dopo la morte di Khadija, Maometto sposò 12 donne. Una di queste era Aisha, figlia del suo più intimo amico e alleato, Abu Baker. Le altre erano quasi tutte vedove, donne divorziate o prigioniere. Egli predicava regolarmente che era responsabilità degli uomini proteggere le donne che avevano conosciuto la sfortuna. Questa fu una delle ragioni per cui la poligamia veniva incoraggiata. Furono prese misure anche per l’infanticidio femminile: le donne nel settimo secolo erano molto più numerose degli uomini perché questi venivano uccisi nei conflitti intertribali ogni giorno. Tra le mogli di Maometto, diverse erano povere e indigenti. Lui le prese con sé, insieme ai loro figli, in casa sua.
Nel suo Sermone dell’Addio, pronunciato poco prima di morire nel 632, Maometto disse agli uomini “Voi avete determinati diritti sulle donne, ma anch’esse hanno diritti su di voi”. Le donne, disse, sono “vostre compagne e vostre ausiliarie”. In uno dei detti dell’Hadith, Maometto dice “Gli uomini migliori sono quelli che le loro mogli considerano i migliori”.
Dopo la sua morte, la moglie Aisha assunse un ruolo di leadership nella composizione dell’Hadith mentre un’altra moglie giocò un ruolo primario nella raccolta delle sure che costituiscono il Corano. Ognuna delle 114 sure che formano il Corano, ad eccezione della numero 9, inizia con le parole Bismillah al Rahman al Rahim. Tradotte più frequentemente come “Nel nome di Dio, il compassionevole, il misericordioso”. Il significato più profondo di questa espressione è “Nel nome di Dio, Colui che dà origine a compassione e misericordia dall’utero”. L’invocazione all’aspetto femminile di Allah è la chiave per una rinascita Islamica.
Infine, nel Corano non si accenna alle donne che indossano il velo, l’Hijab. All’epoca era senza dubbio una tradizione in Arabia e le mogli di Maometto lo indossavano per rimarcare il loro speciale status di “Madri dei Fedeli”, ma l’unica cosa che il Corano dice esplicitamente è che le donne dovrebbero vestire “con semplicità”. Maometto disse lo stesso agli uomini. Per lui, la semplicità nel vestire era espressione della semplicità del cuore. Lo stesso Maometto, anche quando era il leader supremo, non indossava mai nulla di più di semplici abiti di lana bianca.
Le riforme di Maometto furono così radicali che lo status delle donne in Arabia e nell’antico Islam era il più elevato di qualsiasi altra società del mondo, all’epoca. Le donne nell’Arabia del settimo secolo godevano di diritti non concessi alla maggior parte delle donne occidentali fino ad epoche recenti, più di mille anni dopo. Il fatto che oggi le donne si ritrovino in una posizione tanto svalutata, in molte delle province arabe/musulmane, è una tragedia e deve essere sanata se la cultura e la civiltà islamiche vogliono prosperare di nuovo come successe durante il Califfato Abbaside (dall’ottavo al tredicesimo secolo), quando la civiltà islamica era un faro luminoso per il mondo. Liberare le donne avrebbe profondi effetti da un punto di vista politico, economico, culturale, artistico e religioso. Porterebbe la Primavera Araba ad un livello completamente nuovo, cosa estremamente necessaria in quei paesi in cui la prima Primavera Araba si è rivelata una morte in utero.
È tempo che l’Islam liberi le donne completamente e che lo faccia sull’esempio di Maometto e sull’autorità del Corano, per cui compassione e misericordia sono le caratteristiche principali di Allah.”

Imam moderati, non rassegnati

Un’inchiesta di Viviana Mazza pubblicata oggi sul Corriere della Sera. Questa è l’introduzione: “Per lo Stato islamico sono apostati, «bersagli obbligatori». Sono gli imam dei Paesi occidentali che condannano la violenza: questa inchiesta è il risultato di una lunga serie di colloqui che il Corriere ha avuto con loro. «Il nostro attivismo — dicono — è una risposta a quanti chiedono: perché i musulmani non fanno nulla per contrastare l’Isis? La verità è che lo stiamo facendo». Senza finzioni: negano che l’Isis sia l’essenza dell’Islam, ma non dicono che «non ha nulla a che fare con l’Islam». Una riforma è dunque necessaria, «e non solo come reazione all’Isis».”
Ecco l’inchiesta (questa la fonte):
L’imam Suhaib Webb ha 43 anni, suo nonno era un predicatore cristiano dell’Oklahoma, ma lui da ragazzo s’è convertito all’Islam. Nella sua moschea, a Washington D.C., alcune donne portano l’hijab e altre no. Non piace all’estrema destra Usa ma ancor meno all’Isis che considera un complotto il suo uso della cultura pop e il suo accento del sud. Nell’ultimo numero della rivista Dabiq, i seguaci del Califfo lo hanno condannato a morte, insieme ad altri dieci imam occidentali, definiti «apostati», «bersagli obbligatori» e da eliminare con qualunque arma per «farne degli esempi». Ecco cosa tre di loro raccontano al Corriere.

webb
Suhaid Webb

Contattiamo l’imam Webb su Snapchat, dove pubblica continuamente video contro l’estremismo, alcuni girati nelle gelaterie e ironicamente intitolati «Isis e ice cream». «Il nostro attivismo — dice — è una risposta a quanti chiedono: perché i musulmani non fanno nulla per contrastare l’Isis? La verità è che lo stiamo facendo, è da un po’ che lo facciamo».
Le loro vite, in seguito alle minacce, sono cambiate, anche su suggerimento dell’Fbi. Webb sostiene di prendere qualche precauzione in più quando viaggia e di stare attento prima di incontrare sconosciuti; allo stesso tempo esulta: «È chiaro che stiamo avendo un impatto nel contrastare il messaggio dell’Isis. Se così non fosse, non ci presterebbero attenzione. Le api attaccano chi disturba il loro alveare».
Altri imam, tra quelli minacciati di morte, sono più preoccupati. «Non vivo nella paura, ma so che ci sono simpatizzanti dell’Isis in America, si capisce dai loro tweet, e ci sono molte persone con problemi mentali, fanatici e lupi solitari. Ho cinque figli e non voglio diventare un martire», ci dice Hamza Yusuf,

Hamza Yusuf
Hamza Yusuf

56 anni, di Berkeley, California, definito dalla stampa inglese e americana lo studioso di Islam più importante del mondo occidentale. In un sermone intitolato «La crisi dell’Isis», diventato virale su Youtube, ha implorato Dio di non punire gli altri musulmani «per ciò che fanno questi idioti tra di noi».
Invece lo sheikh Yasir Qadhi, che opera in Tennessee ed è noto per un famoso programma sulla tv satellitare Mbc, si sente più minacciato dall’estrema destra che dall’Isis. «Non credo di correre seri rischi finché resto in America perché l’Isis non ha un grande seguito tra i musulmani qui, e di questi tempi non andrei nei luoghi caldi come Iraq e Siria. Considero comunque più pericolosi i fan di Trump e i Tea Party. Tra l’altro loro mi hanno minacciato ancor prima dei terroristi».
Molti studiosi di Islam che intendono contrastare l’Isis — non solo quelli minacciati di morte — respingono l’affermazione tout court che l’Isis non abbia «nulla a che fare con l’Islam», tanto quanto respingono l’idea che la mentalità dell’Isis sia «l’essenza dell’Islam». Per l’Imam Webb la verità sta da qualche parte nel mezzo. «I testi religiosi, come altri testi, politici o sociali, offrono una licenza interpretativa alle persone. C’è un supporto fattuale per l’Isis all’interno di questo paradigma, ma la loro interpretazione è stata e continua ad essere considerata errata sulla base del sapere normativo dell’Islam. Ci saranno sempre dei lunatici che usano i testi religiosi per legittimare la propria ideologia, e ci saranno sempre coloro che li confutano».
A farlo sono anche ex estremisti, come Maajid Nawaz, che ha un passato di reclutatore del gruppo radicale islamico Hizb ut-Tahrir ma oggi è un consulente per l’Islam del premier britannico David Cameron: «L’affermazione che tutto questo non abbia nulla a che fare con l’Islam non è onesta — ha scritto sul New York Times —. È una affermazione inutile quanto lo è dire che l’Isis è l’essenza dell’Islam. Dobbiamo avere una conversazione onesta e riconoscere che c’è un legame con le Scritture. Ci sono anche le questioni geopolitiche, certo, ma esiste un rapporto con le Scritture».
«Quello che sta accadendo è in parte una reazione protestante all’incapacità dell’Islam tradizionale di rispondere alla crisi del mondo moderno — sostiene Hamza Yusuf, che paragona la crisi attuale nell’Islam a quella della rivolta di Lutero contro il cattolicesimo —. Tutte le istituzioni, nello stesso Occidente, sono in difficoltà, pensiamo a Trump, ma la crisi è particolarmente grave nel mondo musulmano. Ricordiamoci quanto fu violenta la riforma protestante. Secondo me, dovremmo pensare a una sorta di Concilio di Trento, dove gli studiosi musulmani possano discutere le affermazioni che gli estremisti fanno sull’Islam. Si tratta di affermazioni che non hanno a mio parere alcuna legittimità religiosa e che sono inaccettabili sulla base della tradizione legale dell’Islam che proibisce la violenza indiscriminata, l’uccisione dei prigionieri o di civili innocenti considerati infedeli».

Yasir Qadhi
Yasir Qadhi

Quanto si debba porre l’accento sulle Scritture e quanto sulle questioni geopolitiche è però oggetto di dibattito. Yasir Qadhi era un predicatore salafita fino al 2009. Poi uno dei suoi allievi, Umar Farouk Abdulmutallab, l’attentatore delle «mutande bomba» che quel Natale tentò di farsi esplodere su un volo Klm da Londra, lo ha portato a rivedere le sue priorità. «Era stato un mio allievo ad una conferenza. A quel tempo io evitavo la politica, ma quello che è successo mi ha fatto capire che non potevo più stare zitto. Forse proprio perché stavo zitto i giovani gravitano verso gli estremisti». Oggi Qadhi si è anche allontanato dal salafismo per abbracciare una visione dell’Islam più «indipendente». Sostiene che «c’è bisogno di voci moderate», ma allo stesso tempo avverte che alla radice dell’estremismo non ci sono le Scritture, ma piuttosto il senso di un’ingiustizia verso i musulmani, che porta i gruppi estremisti a legittimarsi come freedom fighters. «Certo, l’Islam ha una teoria della “guerra giusta”, come ce l’ha ogni civiltà che predica di difendere gli innocenti, ma la questione se l’Isis sia musulmano o no non è la domanda fondamentale. La domanda è: quali sono le cause dell’Isis? La risposta non è nelle Scritture, ma nelle ragioni sociali e politiche in Iraq e in Siria, di cui è responsabile l’Occidente».
L’imam Webb sostiene di aver provato a parlare di teologia con giovani e meno giovani che considera potenziali prede dell’estremismo. Ma si è reso conto di una cosa: «La maggior parte delle persone che aiuto e che sono influenzate dall’Isis o da altri gruppi hanno problemi esistenziali: povertà, abusi, crisi familiari, questioni emotive, mentali. Molto raramente sono in grado di discutere di teologia, non sono consapevoli dei testi che vietano di uccidere né delle interpretazioni degli studiosi che contestano l’Isis. Infatti spesso sono inconsapevoli perfino delle stesse idee dell’Isis! Per battere l’Isis non servono più teologi, ma servono assistenti sociali, psicologici e sanitari, servono educatori».
L’Isis è una ragione in più per pensare a una riforma dell’Islam? Alcuni ne sono convinti. Il giornalista e commentatore Mustafa Aykol ci dice al telefono da Ankara che «i leader jihadisti immergono se stessi nel pensiero e negli insegnamenti islamici, anche se usano la loro conoscenza per fini perversi e brutali». Certo si tratta di interpretazioni estremiste, basate su scuole di pensiero radicali, ma a suo parere l’esperienza dell’Isis dovrebbe portare i musulmani a riflettere sugli aspetti problematici insiti nella sharia, la legge islamica, dalle questioni della parità di genere alla morte per apostasia. «Se non lo facciamo noi direttamente, l’Isis lo farà comunque a modo suo. In un numero della rivista Dabiq, per esempio, contestavano il concetto di Irja, ovvero l’idea di poter procrastinare il giudizio su chi sia o meno un vero musulmano all’aldilà, accusando altri gruppi ribelli in Siria poiché non costringono le donne a portare il velo e non uccidono gli apostati».
Se l’idea di riforma è condivisa da alcuni, il dibattito è aperto sulla direzione in cui debba andare. Per Hamza Yusuf è irrealistico pensare a una secolarizzazione del mondo musulmano, mentre invece ad esempio lo studioso Abdullahi An-n’aim è convinto che la stragrande maggioranza dei musulmani oggi non tenda assolutamente verso la sharia, ma al contrario verso uno Stato laico. Influenzato dal movimento riformista islamico del sudanese Mahmoud Mohammed Taha (che fu giustiziato per le sue idee), An-Na’im crede in una compatibilità dell’Islam con il secolarismo e i diritti umani. Il problema — ci dice al telefono dagli Stati Uniti, dove insegna all’Emory College — è che i musulmani non riescono ad argomentare e giustificare questa aspirazione da un punto di vista teologico e questo è oggi il compito degli studiosi.
«Quella della sharia resta una nozione romantica, come se al solo evocare la gloriosa sharia, tutti improvvisamente potessimo diventare forti, come se la corruzione potesse essere eliminata. È una fantasia seducente che tende a piacere alla gente. Ed è in parte il risultato di un giustificato risentimento per il comportamento degli Stati Uniti nella regione. Ma la sharia è frutto di interpretazione, è un processo umano. Quando la sharia veniva applicata, prima del periodo coloniale, ciò avveniva in un modo consensuale, in una realtà dove non c’era uno stato centralizzato. Oggi i cosiddetti tradizionalisti dello Stato Islamico, lungi dal tornare ai vecchi tempi, usano la nozione europea di Stato per obbligare la gente a seguire la sharia, la cui applicazione non era mai stata intesa per un contesto simile. E poi c’è la questione su quale parte del Corano usiamo: quello della Mecca che è più inclusivo nel suo linguaggio, con i suoi valori egualitari tra uomini e donne, musulmani e non musulmani; oppure quello di Medina la cui applicazione era legata ad un tempo di schiavitù e sottomissione delle donne?».
Per Qadhi una riforma dell’Islam è necessaria, ma non come reazione all’Isis: «Come musulmani dobbiamo riunirci e decidere quello che possiamo cambiare e quello che non possiamo. Ma se questa riforma è una reazione all’Isis, non funzionerà. L’Isis è un fenomeno temporaneo, la riforma deve essere indipendente, altrimenti è destinata a fallire perché macchiata da finalità politiche». An-Na’im è d’accordo: «L’Isis non può durare, ma dopo l’Isis ci sarà un altro Isis. Perciò dobbiamo lavorare sulla teologia e la legge islamica».

 

Gemme n° 480

20160503_101701

La mia gemma è il libro «Mille splendidi soli»: mi ha fatto molto riflettere sulla situazione delle donne protagoniste, sottomesse agli uomini del regime talebano. Nonostante io sia una persona che si lamenta di continuo, penso a loro e alla loro situazione e penso che le mie siano stupidaggini. L’altro aspetto che voglio sottolineare è che in una storia di dolore, violenza e sofferenza possono nascere amicizie e amori: anche dalle cose tragiche possono nascere cose belle.” Con queste parole A. (classe quarta) ha presentato la sua gemma.
Ecco uno dei passi in cui si descrive la situazione delle donne: “Donne, attenzione: Dovete stare dentro casa a qualsiasi ora del giorno. Non è decoroso per una donna vagare oziosamente per le strade. Se uscite, dovete essere accompagnate da un mahram, un parente di sesso maschile. La donna che verrà sorpresa da sola per la strada sarà bastonata e rispedita a casa. Non dovete mostrare il volto in nessuna circostanza. Quando uscite, dovete indossare il burqa. Altrimenti verrete duramente percosse. Sono proibiti i cosmetici. Sono proibiti i gioielli. Non dovete indossare abiti attraenti. Non dovete parlare se non per rispondere. Non dovete guardare negli occhi gli uomini. Non dovete ridere in pubblico. In caso contrario verrete bastonate.” Una delle conseguenze? “L’amore era un errore pericoloso e la sua complice, la speranza, un’illusione insidiosa.” La negazione dell’essere umano.

Dietro il velo

women-57113_960_720

Un articolo molto interessante di Marco Palillo, pubblicato poche ore fa su L’Huffington Post. Argomenti? Francia, laicità, Europa, femminismo, velo islamico, donne, islam…
La ministra socialista francese della Famiglia, Laurence Rossignol ha recentemente rilasciato una dichiarazione fortemente provocatoria sul velo indossato dalle donne islamiche “Ci sono donne che lo scelgono come c’erano negri americani favorevoli allo schiavismo”. Il parallelo fra velo e schiavismo dei neri è molto interessante e rivela inconsciamente alcuni nodi irrisolti del dibattito europeo su multiculturalismo e identità religiose.
La questione del velo in Francia ha infatti più a che fare con la storia nazionale della Repubblica francese – incluso il periodo colonialista e la tragedia dell’Algeria – che con i recenti attacchi terroristici di Parigi. Già nel 2004 il tema fu affrontato in un tumultuoso dibattito sulla controversa legge che proibiva il velo nelle scuole. Anche allora il movimento femminista francese si divise in maniera significativa: da un lato, alcune donne identificarono quella battaglia con gli ideali di laïcité repubblicana, dall’altro alcuni gruppi femministi, condannarono fortemente la legge bollandola come islamofoba e sessista. Fra questi, la più celebre è senza dubbio Christine Delphy, leader storica del femminismo materialista, cofondatrice con Simone de Beauvoir della rivista “Nouvelles Questions Feministes”. Delphy in un articolo pubblicato dal Guardian definì il divieto del velo come parte di una più ampia strategia anti-Islam iniziata in Francia 40 anni prima e accusò le femministe favorevoli al divieto di farsi strumentalizzare, come già accaduto per esempio durante la guerra in Afghanistan, da chi utilizza i diritti delle donne per sostenere altre battaglie. Secondo Delphy “se le donne musulmane sono un’oppressa minoranza, andrebbero abbracciate, capite, non attaccate o private di un diritto fondamentale, come quello all’istruzione”.
La Delphy ha ragione quando smaschera l’ipocrisia di una battaglia ideologica che si sta facendo sul corpo delle donne (sia islamiche che non islamiche) ma che nasconde altri fini. Innanzitutto, l’esigenza di riempire un vuoto politico prodotto dall’incapacità delle classi dirigenti occidentali di affrontare le complessità prodotte dalla globalizzazione e dalle migrazioni internazionali. In questo quadro di grande ipocrisia, incapacità e malafede, le donne islamiche sono rimaste schiacciate fra due sistemi patriarcali che vogliono utilizzarle ognuno a proprio piacimento: da un lato, il mondo islamico fondamentalista, che le tratta come esseri inferiori, a volte come merci; dall’altro l’occidente che vuole utilizzarle per fare una battaglia contro i maschi islamici, cacciandoli via dalla fortezza Europa.
Insomma, dai fatti di Colonia in poi, è evidente che nello scontro fra islam-occidente, le donne, le loro libertà, i loro corpi, non contano proprio nulla. Se contassero qualcosa, le donne islamiche non verrebbero costantemente rappresentate come delle povere vittime, senza capacità di discernimento o scelta, e dunque sempre assolte, assistite o compatite.
Pensiamo al caso più paradossale delle giovani islamiche che si sono unite al Califfato. Queste ragazze vengono raccontate dalla stampa come delle povere indifese circuite da Imam, ovviamente maschi, finite nelle mani di crudeli mariti in Siria che le segregano. Eppure la cronaca ci insegna che non è così, nella maggior parte dei casi si tratta di donne educate, occidentali, che decidono di unirsi all’ISIS, come i loro commilitoni maschi, prendendo aerei e viaggiando di nascosto raggiungendo spesso da sole il confine siriano dalla Turchia. Musulmane sono anche le soldatesse curde che ai terroristi dell’ISIS sparano con i kalashnikov o le attivista yazide, che stanno cercando di liberare le loro sorelle divenute schiave sessuali dopo la presa del Sinjar.
Insomma la ministra Rossignol, nella sua dichiarazione impacciata rivela due grande verità:
il femminismo europeo (specie quello della sinistra tradizionale) non ha fatto pace con l’autonomia e la soggettività delle donne islamiche, anzi tende a negarle ogni volta che può;
il pensiero femminile europeo non è stato influenzato adeguatamente dal femminismo intersezionale di matrice americana che mette in rilievo come non esista un’unica voce femminile valida per tutte le donne, ma che le differenze prodotte dall’intersezione del genere con i molteplici aspetti che compongono l’identità (classe sociale, etnia, la religione, l’orientamento sessuale) presuppongano più femminismi e il riconoscimento delle differenze non solo tra maschile e femminile, ma anche tra diversi gruppi di donne.
Ecco perché il paragone con gli schiavi afroamericani della Rossignol è assai rivelatorio. Le donne musulmane vengono dipinte comunque come esseri inferiori, costantemente vittime, sia dai loro difensori che dai loro nemici. Soggetti senza voce, a cui le donne occidentali, rivendicando il proprio privilegio, devono sostituirsi (per il loro bene, s’intende) anche quando si tratta di scelte come l’abbigliamento personale e la fede religiosa. In pratica, vogliamo liberare le donne musulmane, sostituendo i maschi islamici (padri, mariti) che parlano e decidono per loro, con altre donne (questa volta occidentali) che però continuano a parlare e a decidere a loro posto. Facendo così si rischia di vanificare l’operazione – questa sì veramente libertaria e rivoluzionaria – di cambiamento sociale portata avanti dalla stragrande maggioranza di giovani islamiche europee, che si sentono pienamente parte della cultura occidentale, aderendo in toto negli stili di vita, costumi, e valori, ma che non vogliono rinunciare alla propria identità etnica-religiosa, di cui il velo è un chiaro simbolo storico-culturale.
Lo racconta bene Amara Majeed, studentessa in neuroscienze alla prestigiosa Brown University, in una lettera aperta alla ministra Rossignol pubblicata da Bustle. Quando a quattordici anni decise di indossare lo hijab, la domanda più frequente fu “sono stati i tuoi genitori a importelo?”. La Majeed raccontando la sua scelta personale, frutto di una libera scelta senza costrizioni, afferma che “il velo le copre la testa non il cervello”. E forse questa rivendicazione di auto-determinazione femminile che spaventa più di ogni altra cosa? Per questo motivo, Amara ha lanciato un esperimento sociale, The Hijab Project, in cui invita le donne di tutte le fedi e razze, a indossare il copricapo islamico per un giorno, raccontando poi l’esperienza sul suo blog. Il progetto che ha riscosso grande attenzione dai media occidentali, dalla BBC a Good Morning America, mira a promuovere l’empowerment delle donne islamiche, facendo capire alle donne occidentali cosa si provi a vivere con il velo. Per Majeed indossare il hijab è una scelta femminista, di ribellione rispetto a un mondo che mercifica e sessualizza costantemente le donne, dalle copertine dei giornali alle molestie sessuali. In questo, sorprendentemente, Amara Majeed riecheggia la ministra francese Rossignol che in un’intervista al Corriere, paragona il velo agli abusi di chirurgia estetica. Chi scrive ovviamente non è d’accordo con nessuna delle due, essendo assolutamente favorevole tanto al velo quanto alle labbra a canotto se frutto di consapevole scelta; allo stesso tempo ritengo però che questo dibattito interculturale tra donne sia una grande ricchezza, perché il tema del velo riapre questioni irrisolte che danno ancora fastidio: il riconoscimento delle soggettività femminili, la libertà di scelta delle donne e l’autodeterminazione sul proprio corpo.
Sia Rossignol che Majeed infatti si interrogano su un sistema simbolico – il velo e la chirurgia estetica – creato dal potere maschile, dalle sue regole e dei suoi canoni estetici, anche se in due culture differenti. Ecco, che allora se da un lato il dibattito sul velo va fatto con le donne musulmane e non al posto loro, non bisogna dimenticare che questo dibattito non è neutro perché avviene comunque all’interno dello scontro fra due sistemi patriarcali, quello occidentale e quello islamico. Essere femministe o femministi, oggi, significa non fare sconti a nessuno dei due, ma soprattutto non farsi strumentalizzare da nessuno dei due.
Le femministe occidentali non devono farsi portavoce delle donne islamiche, soprattutto quando le uniche che frequentano sono le proprie colf. Ecco che la pletora di articoli in stile “io ti salverò”, intrisi di paternalismo e buonismo, non è più accettabile. In questo senso, sono più oneste le commentatrici di destra, alla Fallaci, che vedendo nell’Islam un nemico, vedono le donne islamiche alla stregua dei maschi un avversario da battere. Inoltre, le femministe occidentali, che come me non credono nello scontro fra civiltà, ma semmai fra patriarcati, non possono essere così ingenue da non problematizzare il proprio privilegio che le rende così distanti – quasi aliene – rispetto alle donne musulmane, nonostante la biologia e l’anatomia.
Dall’altra parte, le femministe islamiche non possono però chiederci di non vedere le crudeltà e la violenza inflitte nelle comunità islamiche nei confronti delle donne, delle minoranze religiose, o degli omosessuali. La laicità è un valore irrinunciabile per l’Europa, conquistato con grande fatica e molti sacrifici: non siamo perciò disposti a nessuna forma di indulgenza motivata su basi culturali o religiose verso quelle pratiche che limitino le libertà o il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti la legge. Inoltre, le nostre amiche e sorelle islamiche devono avere il coraggio – molte già lo fanno a dire il vero – di aprire una discussione franca su questo con i loro uomini, sfidandone il potere se serve. Noi dobbiamo sostenerle, ma non possiamo e non dobbiamo sostituirci a loro.
Su questi basi si può aprire una vera discussione paritaria fra donne (e uomini) di diverse culture, religioni, classi sociali, che superi lo scontro di civiltà, gli stereotipi, le caricature, per regalarci un vero incontro fra civiltà, non basato sulla stucchevole retorica buonista che non porta da nessuna parte, ma su un mutuo riconoscimento della differenze all’interno di una più ampia politica delle identità.”

Tra geopolitica ed apocalittica

Quello che pubblico ora è un articolo molto interessante, in cui il prof. Martino Diez ragiona tra teologia, escatologia e geopolitica per spiegare il motivo per cui Isis abbia chiamato la propria rivista di propaganda Dâbiq.

dabiqNella sterminata letteratura di hadîth (le centinaia di migliaia di detti attribuiti al Profeta dell’Islam), alcuni godono da sempre di una fortuna particolare in ragione del contenuto, di una formula particolarmente felice o della loro ampia diffusione, vista come garanzia della loro autenticità. È il caso ad esempio della collezione di 40 hadîth raccolta da an-Nawawî, tradizionista siriano del XIII secolo, e tuttora diffusissima nel mondo islamico.
Altre volte invece alcuni hadîth altrimenti dimenticati tornano “di moda” perché sono fatti propri da un movimento militante. È il caso oggi della tradizione che situa la battaglia finale tra le forze del bene e del male nella città siriana di Dâbiq, non lontana da Aleppo. Da quando infatti Isis se n’è appropriato facendone il titolo della sua rivista, questo hadîth è uscito dall’anonimato dei polverosi volumi di tradizioni per vivere una nuova vita sotto le luci del palcoscenico globale.
Il genere in cui questo hadîth s’inserisce è quello apocalittico, relativo alle profezie intorno agli avvenimenti che precederanno il Giorno del Giudizio. Come illustra David Cook, autore di diversi studi sul tema, la produzione islamica più antica si contraddistingue, rispetto a quella ebraica o cristiana, per il fatto di non presentare “i Segni dell’Ora” secondo una sequenza narrativa continua, ma allo stato di frammenti, tradizioni isolate che saranno poi gli ulema più tardi a cercare di ricucire in una storia unica.
E tra questi frammenti, quasi fermi immagine di un film ancora da girare, s’inserisce anche lo hadîth relativo a Dâbiq. Preceduto dalla consueta catena dei trasmettitori (da Zuhayr ibn Harb; da Mu‘allâ ibn Mansûr; da Sulaymân ibn Bilâl; da Suhayl; da suo padre; da Abû Hurayra), esso recita:
L’inviato di Dio disse: «L’Ora [del Giudizio] non si leverà finché i Romani non si accamperanno nel basso corso dell’Oronte (al-A‘mâq) o a Dâbiq. Allora muoverà contro di loro un esercito da Medina, composto dai migliori abitanti della terra. Quando le due schiere saranno sul punto di scontrarsi, i Romani diranno: “Lasciateci mano libera con quelli che hanno preso dei prigionieri tra noi: andremo a combattere loro soltanto”. Ma i musulmani risponderanno: “No, per Dio. Non vi lasceremo mano libera con i nostri fratelli”. E il combattimento divamperà.
Un terzo [dei musulmani] si volgerà in fuga sconfitto: Dio non ne accetterà mai il pentimento. Un terzo resterà ucciso: saranno presso Dio i martiri migliori. E un terzo conseguirà la vittoria e non avranno più da temere dissensi: questi conquisteranno Costantinopoli. E mentre si troveranno a dividere il bottino, e avranno appeso le loro spade agli ulivi, ecco Satana griderà tra loro falsamente: “L’Anticristo ha preso il vostro posto nelle vostre famiglie!”. Usciranno allora da Costantinopoli. Quando arriveranno in Siria, Satana uscirà contro di loro. Mentre si prepareranno a combatterlo e stringeranno i ranghi, ecco verrà il tempo della preghiera. Allora Gesù figlio di Maria scenderà [dal cielo] a dirigere la preghiera. Quando il nemico di Dio lo vedrà, si scioglierà come il sale nell’acqua. E se lo lasciasse andare, si scioglierebbe fino a scomparire. Ma Dio lo ucciderà per mano sua e mostrerà loro il suo sangue sulla punta della lancia di Gesù».
(Sahîh di Muslim, Kitâb al-fitan wa-ashrât al-Sâ‘a, Bâb fî fath al-Qustantîniyya wa-khurûj al-Dajjâl wa nuzûl ‘Îsâ b. Maryam, hadîth numero 7312, pag. 1073, ed. Dâr Sâdir, Bayrût s.d).
Qualche veloce spiegazione, necessariamente parziale, per illustrare il contenuto del testo.
Innanzitutto la tradizione è conservata nella raccolta di Muslim (m. 875), considerata dai sunniti come la più autorevole insieme a quella di al-Bukhârî (m. 854). Tale raccolta è divisa in diversi libri, uno dei quali s’intitola Il Libro delle tribolazioni e dei segni dell’Ora. In esso si trova un capitolo (bâb 9) dedicato alla «conquista di Costantinopoli, all’uscita dell’Anticristo e alla discesa di Gesù figlio di Maria». Tale capitolo contiene in realtà unicamente questo hadîth.
La formula con cui si apre la tradizione («l’Ora non si leverà finché…») è ricorrente nel materiale apocalittico più antico. Ad esempio nello stesso libro della raccolta di Muslim la si ritrova nel capitolo 14 dove sta scritto: «L’Ora non si leverà finché non uscirà dalla terra dello Hijaz [= la regione di Mecca e Medina] un fuoco che illuminerà i colli dei cammelli a Bosra [in Siria]». Poco prima, al capitolo 12 si leggeva del resto che «l’Ora non si leverà finché» non saranno compiute le conquiste, indicate in quest’ordine: la Penisola Arabica, l’impero persiano, l’impero bizantino. A esse seguirà – come racconta anche il nostro hadîth – l’uscita dell’Anticristo, figura mostruosa che s’impadronisce della terra per qualche tempo prima di essere sconfitta da Cristo, il Messia figlio di Maria che per l’Islam è asceso in cielo al momento della crocifissione.
A differenza di altri testi apocalittici, non è difficile ricostruire il contesto dello hadîth di Dabiq e la sua zona di origine: esso infatti è evidentemente nato durante le guerre arabo-bizantine. Nello slancio iniziale delle prime campagne militari i musulmani si impadronirono di tutto il vicino Oriente, ma fallirono la conquista di Costantinopoli. La città rimase da allora e per diversi secoli un obiettivo simbolico, mentre il confine si stabilizzava alle pendici dell’altopiano anatolico. Parlare di confine è in realtà inesatto quando lo si immagini come una frontiera moderna, precisamente demarcata. Si trattava piuttosto di una terra di nessuno di diversi chilometri di larghezza, conclusa da una prima linea di piazzeforti e marche di confine (thughûr in arabo) a cui seguiva una seconda linea di città-fortezze (‘awâsim). Ogni anno, con la bella stagione, i due eserciti conducevano campagne offensive nel territorio nemico, per fare prigionieri e bottino. Si comprende dunque come per gli abitanti della Siria (e per quelli dell’Anatolia bizantina dall’altra parte del confine) lo stato di guerra quasi endemico abbia stimolato la formazione di materiale apocalittico che situa in questo contesto di secolare ostilità i tremendi eventi legati all’avvento dell’Ora.
L’ambientazione siriana fornisce dunque un elemento utile alla datazione dello hadîth, che deve essere posteriore alla prima ondata di conquiste (un primo assedio di Costantinopoli ebbe luogo dal 674 al 678 e un secondo nel 717-718) e probabilmente si situa tra la tarda età omayyade e la prima età abbaside, non molto tempo prima della compilazione della raccolta di Muslim. Il confine bizantino-arabo rimase poi sostanzialmente immutato fino alle campagne di Niceforo Foca nel X secolo, che culminarono nella momentanea riconquista della Cilicia e di Antiochia da parte dei bizantini. Nel 1071 tuttavia la decisiva vittoria turca a Manzikert segnava il tracollo dell’impero romano d’Oriente e apriva la strada alla conquista dell’Anatolia e infine di Costantinopoli nel 1453. La Siria del Nord, dopo un ultimo decisivo scontro tra ottomani e mamelucchi, usciva così di scena.
Come si può intuire anche da questa sommaria presentazione, lo hadîth di Dâbiq non gode dunque di particolare preminenza nel materiale apocalittico islamico. Altre tradizioni situano infatti gli eventi decisivi del giorno del giudizio in altre regioni o città, ad esempio a Damasco o a Gerusalemme.
È stato probabilmente il fatto di essersi impadroniti di buona parte della Siria settentrionale ad aver spinto Isis a dare particolare rilievo a questa tradizione. Il recupero del testo avviene attraverso la sua attualizzazione: i romani di cui si parla, cioè i bizantini, sono infatti riletti come gli occidentali in genere. E dato che la conquista della nuova Roma (Costantinopoli) si è già compiuta, Isis sposta le sue attenzioni, per ora fortunatamente solo mediatiche, verso l’altra Roma.
Come osserva Hamit Bozarslan in un’intervista in uscita nel prossimo numero di Oasis, lo Stato islamico si muove su un duplice piano: di razionalità strumentale, tesa alla creazione di una compagine statale, e di irrazionalità, protesa alla dimensione simbolica e a volte schiettamente apocalittica. E proprio per questa duplice logica il fenomeno esige, per essere compreso, di essere trattato su diversi livelli, dalle considerazioni geopolitiche fino alle aspirazioni escatologiche, che per una parte almeno della leadership non sono meno reali dei calcoli strategici immediati.”