Gemma n° 2808

“Cara R.,
volevo prendermi un momento per dirti quanto sei importante per me. Il simbolo dell’infinito, sulla collana che abbiamo in comune, mi ha fatto pensare a quanto sono infinitamente grata e felice di avere conosciuto una persona come te. Ogni volta che guardo quella collana penso a quanto il nostro rapporto sia senza limiti proprio come l’infinito. Ci sono stati momenti in cui mi sentivo persa, insicura e piena di dubbi, ma tu sei sempre stata lì, per fortuna! La nostra amicizia mi ha aiutato a credere di più in me stessa, a vedermi con occhi diversi, più gentili, e a capire che essere felici è un diritto che hanno tutti. Con te mi sento accettata, accolta e libera di essere me stessa! Grazie per esserci sempre e per ascoltarmi anche quando le parole non vengono, per i consigli sinceri, le risate improvvise e anche i silenzi che valgono più di 1000 parole. Ti voglio davvero un mondo di bene e sono felice di poter condividere ogni giorno i momenti belli e anche quelli più difficili! Sarò per sempre grata di averti conosciuta in quel lontano giorno del 2020!” (G. classe seconda).

Gemma n° 2807

“La gemma che porto oggi riguarda la mia passione per la cucina e per il mondo culinario.
Sin da piccola sono rimasta affascinata dalle preparazione e dai passaggi delle ricette: adoravo cucinare, decorare ma soprattutto mangiare le mie creazioni.
Bakeoff fu per me il programma che mi fece appassionare alla pasticceria e farmene innamorare, dandomi la curiosità di scoprire sempre più tecniche  e dolci.
Per me questo programma è particolarmente speciale, perché non vedevo spesso i miei genitori quando ero più piccina e Bakeoff era l’unico momento della settimana in cui avevo l’occasione di passare del tempo esclusivamente con loro, creando una piccola bolla che momentaneamente ci isolava da tutti i problemi e pensieri che avevamo normalmente.
Quando cucino, poi, ho modo di avere un momento di spensieratezza con me stessa: avere le cuffie addosso e le mani in pasta credo sia la sensazione più meravigliosa che io possa provare, portandomi ancora più gioia quando cucino qualcosa per i miei cari amici.
Spero di non rinunciare mai a cucinare e, anzi, di trasformarlo magari in qualcosa di più di un semplice hobby”.
(V. classe seconda).

La tentazione del dominio

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Il precetto di non invocare il nome di Dio senza un motivo serio viene sistematicamente infranto, specialmente quando la divinità è strumentalizzata negli scontri politici. Questa pratica, benché antica, si rivela di una pertinenza drammatica nel presente. Il saggio più recente del filosofo Silvano Petrosino, professore presso l’Università Cattolica di Milano, intitolato Potere e religione. Sulla libertà di Dio, analizza in profondità le complesse interconnessioni tra queste due sfere cruciali.
L’analisi di Petrosino spazia su concetti fondamentali quali il simbolo, la dimensione dell’abitare, l’importanza della cura e l’atto dell’amministrare. Il suo lavoro culmina nell’identificazione delle cause che generano le deviazioni e le patologie del potere, ponendo in luce la totale autonomia del Dio delle Scritture, una figura che non cerca di dominare alcuno e, parallelamente, si sottrae alla manipolazione e all’intrappolamento in riti o schemi umani privi di sostanza. Gianni Santamaria l’ha intervistato per Avvenire.

“Petrosino si muove attraverso autori da lui frequentati da una vita: filosofi, come Levinas, Girard, Blanchot, Cassirer, Rosenszweig e Kierkegaard, indagatori della psiche, da Freud a Lacan e Kristeva, fino a storici e sociologi della religione, da Eliade a Durkheim, biblisti come Beauchamp e Maggioni, grandi poeti come Goethe e Rimbaud. Fino a una citazione fondamentale per l’ossatura del saggio, presa da un autore, Roland Barthes, spesso considerato solo per i Frammenti di un discorso amoroso o per la semiotica della moda, ma che «invece su questi argomenti ha un pensiero molto preciso».

Lei utilizza concetto dell’abitare come cura dell’altro, che però subisce la “fatale attrazione” del diventare possesso: dell’altro, della terra, di Dio. Quali gli antidoti a questa tentazione?
«Bisogna prima capire la ragione profonda della questione. Sono stato molto colpito da un’affermazione di Roland Barthes sulla libertà. Questa va intesa – dice – non solo come la forza di sottrarsi al potere, come libertà “da”, ma anche, e soprattutto, come volontà di non sottomettere nessuno. È sorprendente, perché dice che la libertà è non esercitare un potere. Da questo punto di vista – è la tesi centrale del libro – solo Dio è libero, perché, stando alle Scritture, è il solo che non vuole sottomettere nessuno. Il potere in sé non è male. Il problema è perché noi lo esercitiamo per sottomettere qualcuno. Secondo me perché cerchiamo continuamente una conferma alla nostra identità. A lezione faccio sempre l’esempio del bambino che dice ai genitori “guardate che mi tuffo”. Attende un riconoscimento. È un “ditemi che esisto”».

E quello che fanno tanti uomini di potere?
«Il potere non va criminalizzato. Anche per fare il bene è necessario il potere. Il problema è che esso si trasforma facilmente in qualcosa di malvagio quando non viene usato per realizzare qualcosa, ma per confermare qualcuno».

È una dinamica che si può applicare anche agli scenari nel mondo di oggi?
«È esattamente questo. Il sociologo Enzo Pace dice che la religione viene sfruttata nei momenti di crisi di identità. È interessante in questo senso quello che avviene negli Stati Uniti. Non lo si dice spesso, ma sono in una crisi profondissima, non per l’economia, bensì per il disastro della scuola. In una situazione così, per dare un’identità, Donald Trump usa la religione e il suo universo simbolico. Lo si è visto ai funerali di Kirk: la croce della vedova macchiata di sangue, il tema del martirio, la croce fatta transitare nello stadio. È il sintomo di una debolezza profonda a livello sociale».

Non è l’unico al mondo a usare la religione.
«Certo, ma non mi stupisce quando ciò avviene nel mondo islamico, che non ha conosciuto l’umanesimo e la Rivoluzione francese. Mi sorprende che avvenga nell’Occidente cristianizzato. Ogni volta che c’è una crisi politica si gioca il potente jolly della religione. In questo si capisce il grande valore del comandamento “non nominare il nome di Dio invano”. È come se Dio dicesse lasciami fuori dalle tue cose. Non uccidere in mio nome. Non tirarmi in ballo. Ma è esattamente quello che si continua a fare in modo terribile».

In Occidente c’è il duplice movimento del volersi autonomizzare dal potere e dalla religione e allo stesso tempo del sentire il fascino del “Palazzo”, come lei lo chiama. Perché?
«L’uomo è questo. Perciò distinguo la religiosità dalla religione. Se la prima non trova forme istituzionalizzate, organiche, non viene certo annullata, ma si manifesta in quello che Roger Bastide chiamava il “sacro selvaggio”. Eliminare dall’umano la dimensione religiosa e quella artistica, che per me vanno sempre insieme, è illusorio. Il problema è che il modo di abitare la religiosità, può sempre deviare, come abbiamo detto, verso il dominio. La religione è un pharmakon, che può aiutare gli uomini a vivere, ma anche avvelenarli. È uno sbandamento strutturale, è il grano e la zizzania.»

Spesso si evocano i “falsi profeti”.
«Per questo mi colpisce ciò che avviene negli Stati Uniti, perché l’Occidente in qualche modo aveva superato certi infantilismi: i predicatori, chi fa i miracoli in diretta… Anche chiamare Kirk “martire” è problematico. Gesù in molte parabole evoca una figura legata al tema dell’abitare: l’amministratore infedele. Non si può abitare senza amministrare e non si può amministrare senza legiferare. Ma spesso l’amministratore si concepisce come padrone. E questa è la fine. Il Levitico dice: ricordati che sei in affitto».

A queste derive lei oppone il realismo biblico. Cosa ci insegna?
«Bisogna riconoscere con serietà che l’uomo continua a sbandare, che il dominio non è un accidente e non dipende dal fatto che gli uomini sono cattivi, anche se poi alcuni certamente lo sono. E dunque la religione deve continuamente sorvegliarsi per non trasformarsi in una struttura di dominio. Pericolo che è sempre dietro l’angolo. Realismo è riconoscere che, pensando di fare il bene dell’altro, in realtà te lo stai mangiando, lo stai distruggendo. Questo realismo riguarda i singoli, ma a maggior ragione chi ha posizioni apicali: i maestri, gli intellettuali, la gerarchia. Spesso si sentono cose incredibili, visioni finte, opinioni false, non dalla vecchietta o dal passante, ma dal politico, dal filosofo… l’uomo non è così».”

Cara ansia ti scrivo

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Su Rocca ho trovato un curioso articolo di Rosella De Leonibus: si tratta di una lettera alla propria ansia e si apre con una citazione. “L’ansietà è un sottile rivolo di paura che si insinua nella mente. Se incoraggiata, scava un canale nel quale tutti gli altri pensieri vengono attirati” (Robert Albert Bloch). Ma ecco il testo.

“Ansia: travaglio d’animo, tormento, tribolazione (dal latino: anxietas, anxietudo).
La psicologia ti definisce come un senso di incertezza relativo al futuro, con sentimenti spiacevoli di timore, in genere vaghi e non proiettati su oggetti o eventi riconoscibili. Nel senso comune, ti si descrive come viva preoccupazione, attesa inquietante e angosciosa.
Bene, ora che so come ti definiscono, ho intenzione di scriverti una lettera. Non perché io ti voglia bene, per favore no, direi invece che, se devo dire la verità, ti odio, con tutto il mio cuore, sì, quel cuore che tu mandi in affanno quando meno me lo aspetto. Ti voglio scrivere perché voglio che tu mi stia a sentire, sì, proprio tu che mi blocchi la parola in gola quando ti pare, senza alcun riguardo per le pessime figure che mi fai fare…
E quindi, a noi due. Mi leggerai fino in fondo, lo pretendo, perché io ti sto a sentire anche in piena notte, quando mi svegli all’improvviso con un bagno di sudore, il fiato mozzo, gli occhi sbarrati nel buio.

C’E’ POSTA PER TE
Cara la mia ansia,
cara nel senso che mi costi davvero cara. Ecco, cominciamo con questo. Le occasioni mancate a causa tua, che ti infili in mezzo tra me e la persona che vorrei sedurre, ti metti tra i piedi quando sono in un posto nuovo e mi impedisci di godermi l’avventura per le paranoie che mi sventoli davanti al naso. Per non parlare degli esami e dei colloqui di lavoro in cui mi hai sabotato, svuotandomi il cervello davanti a domande banali per cui mi mordevo la lingua solo pochi minuti dopo, una volta fuori dalla stanza dell’incontro. Perché tu, vile e traditrice come sei, appena fuori da quella stanza sei balzata giù dal mio cervello e la lucidità di colpo è tornata. Quindi, cara mi costi e mi sei costata, il giorno in cui ti addebito tutti i fallimenti, le mancate azioni, le figuracce, ti mando in rovina.
“L’ansia in bancarotta… Costretta a risarcire i danni!”, quanto vorrei questi titoli su tutti i social…
Già, perché, tanto per non abbonarti alcun addebito, mi torturi anche lì, che dovrebbe essere il mio spazio di decompressione. Perché mi sento male se non vedo il “mi piace”, e vado in apprensione per i discorsi di odio che mi becco ogni volta che esprimo pubblicamente una posizione. E poi quella tremenda sensazione di essere tagliati fuori dai circuiti comunicativi, Fomo, la chiamano, fear of missing out, e io soltanto so com’è collegata al mio grande assente, il sentimento di autostima, e alla paura ancestrale di dover subire un’esclusione…
Quindi, odiata ansia, farò di tutto per cancellarti dalla mia vita. Se fossi un partner, ti avrei già mandato al tuo paese, ma tu saresti ritornata mille volte, più possessiva e invadente che mai a grattare alla mia porta, a infilarti nelle fessure delle imposte, a sgusciare furtiva dentro l’uscio quando esco, così nel frattempo ti saresti impossessata della casa e non avrei avuto pace neppure al mio ritorno.
Che vuoi da me? Tu sei muta, ma io lo posso dedurre facilmente dai risultati che ottieni. Mi tieni alla larga dalle novità, mi precludi ogni prospettiva che non sia già praticata, ogni slancio un po’ più ampio, e finisci per oscurare l’orizzonte delle mie speranze occupandolo con le tue nuvole nere e i tuoi annunci di tempesta.

E IL PERFEZIONSIMO? COLPA TUA.
“È detto che la nostra ansietà non svuota il domani dei suoi dispiaceri, ma soltanto svuota l’oggi della sua forza” (Charles Haddon Spurgeon).
Ti ho sfidato, qualche volta, ho voluto buttare il cuore oltre l’ostacolo, ho fatto l’esatto contrario di quel ritiro dal campo che tu mi gridavi nelle orecchie, e il risultato è stato solo che l’energia non mi è bastata per arrivare in fondo. Per cui hai vinto anche allora, lasciandomi solo la corda più lunga e giocando con me come fa il gatto col topo, sapendo bene fin dall’inizio che saresti stata tu ad assestare la zampata finale.
Ecco, vedi, ho una rabbia enorme nei tuoi confronti, e ora che l’ho messa per iscritto mi accorgo che dietro c’è tanta tristezza. Perché, per quanto io continui a guardarti come una nemica, come un parassita, un’ospite indesiderabile, sei dentro di me, sorgi dal mio interno, da una parte antica del mio cervello, quella più direttamente connessa alle funzioni vitali del mio corpo. Che dolore riconoscere che vivi dentro di me… che dolore riconoscere che sei nata per proteggermi da pericoli futuri, e anche se non ci sono guai in vista, comunque mi ordini di stare in guardia, non si sa mai…
Tu lo sai bene, anche se io non lo posso ricordare, quanto fosse difficile per me nell’infanzia aver fiducia nel mondo… il mondo allora per me erano i genitori, il loro modo di amarmi, fatto di insicurezze e ambivalenze, il loro modo di scoraggiare le mie prime esplorazioni, e quella reazione aggressiva che avevano nei miei confronti quando mi capitava qualcosa di spiacevole, come se, invece di consolarmi e rassicurarmi, si arrabbiassero per via dello spavento che avevo procurato loro…
Ho imparato là a non osare più di tanto, è là che ti sei manifestata dentro di me, perché non dovevo sbagliare, non dovevo incappare mai in alcun problema, altrimenti non ci sarebbe stato nessuno a venire a prendermi. La tua funzione era di proteggermi, visto che nessun altro lo avrebbe fatto, evitando ogni rischio, e così ho imparato a camminare sulle uova, testa china e spalle chiuse, passo incerto e voce spenta. Meglio meno, meglio non chiedere, vietato sbagliare.
E poi è scattata la trappola: forse se faccio le cose al meglio, forse se imparo a dare il massimo qualcuno mi amerà di più, mi amerà meglio, mi offrirà finalmente un riparo? Se offro solo il profilo migliore, piacerò di più? Se mi occupo degli altri e dimentico me, sarò una creatura finalmente indispensabile e quindi visibile?
La risposta è negativa, purtroppo, con l’aggravante che con questa ricerca dell’eccellenza ho accumulato tensioni intollerabili, sforzi inumani, che mi hanno lasciato la mandibola sempre bloccata, le spalle doloranti, l’intestino in fiamme, il bacino rigido, i piedi contratti… Mi hanno plasmato a poco a poco come una figura pietrificata, efficiente ed efficace agli occhi del mondo, ma sola, irraggiungibile dietro la mia corazza.

E SE CI ALLEASSIMO?
La sento incrinarsi, da un po’, la corazza, e tu, ansia, che ti eri trasformata in tensione e spasmi, torni a manifestarti nel tuo regno preferito, quello delle emozioni.
Credevo di averti domato con l’autodisciplina, con il senso del dovere, ma eccoti, non ammetti briglie, vuoi dirmi qualcosa finalmente?
Vuoi dirmi che tu sei l’energia vitale che non ho potuto ancora vivere? Che sei la mia difficoltà a stare nel presente perché il presente che mi si offriva non era vivace, attraente, sereno?
Vuoi raccontarmi oggi che tu sei la mia energia?
Che hai sofferto accanto a me e con me per tutte le volte in cui non ho potuto lasciarmi andare, per tutte le volte in cui l’ambiente è stato poco accogliente, per ogni errore che non è stato aiutato a diventare apprendimento, per ogni modello mancato, per ogni sostegno non ricevuto?
Vuoi dirmi che hai dovuto farmi tu da scudo, poiché non potevo contare su una forza interiore che non aveva avuto le condizioni per consolidarsi?
Vuoi dirmi che ognuno di quei sintomi che tanto mi spaventavano, ognuno dei cento malesseri psicosomatici di cui ho ricevuto la visita devastante, ognuno di loro era un grido di libertà soffocato?
E mi vieni a raccontare che questa energia può ancora essere ravvivata e può trovare una forma adattiva per manifestarsi?
Vuol dire che quel grido muto dei sintomi può diventare man mano slancio vitale, curiosità nuova, e può avere presa sul mondo invece che avvilupparsi alla mia gola?
Vuoi farmi vedere quanto hai condensato, in forma di malessere, i “no” che non potevo dire, i “sì” che mi erano stati strappati per compiacenza, vuoi stare qui a narrarmi di come hai mantenuto accesa la mia vitalità nonostante tu ne abbia limitato a tua volta, con la tua presenza, le possibilità di espressione?
Vuoi che facciamo un patto?
Che io non cerchi più di annullarti, che io riconosca che mi hai salvato e protetto quando ero troppo fragile, che io accolga il tuo messaggio di alleanza?
Perché sei una forma elementare di energia per sopravvivere, ma se ti tengo accanto e ti do respiro puoi evolvere e diventare la mia migliore body guard. E io saprò che mi metterai in allerta solo quando servirà, e che non mi giudicherai per una svista, un tentativo fallito. Saprò che è mio compito assicurarti pause di benessere, di natura, di gioco, di leggerezza. E che l’amore in tutte le sue forme è il tuo migliore nutrimento trasformativo.
E allora, dai, vecchia mia, ho fatto bene a scriverti questa lettera, ti ho visto da vicino e tu lo stesso, abitiamo lo stesso corpo, abbiamo tutt’e due bisogno di esperienze creative, e vive, e libere.
Ti puoi sciogliere, ora, puoi allargarti, diluirti, oppure sprizzare con forza come le bollicine frizzanti che escono dalla bottiglia appena stappata, ci possiamo concedere quel brivido di eccitazione, quello scintillio di vita che ci radica nel presente e ci spinge verso il futuro con occhi desideranti.
Alleate.
Ciao cara, senza paura. Ciao cara, con un pizzico di brio. Ciao cara, con leggerezza.

“La tua ansietà è direttamente proporzionale alla tua dimenticanza della natura, perché tu porti in te stesso paure e desideri illimitati” (Epicuro)”

Un clericalismo che fa male

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Qualche giorno fa ho pubblicato un articolo sul celibato dei sacerdoti. Una persona a me molto cara, mi ha suggerito un altro pezzo che descrive atteggiamenti che ha subito in prima persona e che le hanno fatto molto male. Il minimo che posso fare è pubblicarlo sul blog. Si tratta di un articolo di Guillermo Jesús Kowalski, pubblicato in “Religión Digital” e dedicato a Betina, sua “moglie e compagna nel cammino di santità dell’ordine sacro”. La traduzione è a cura di Lorenzo Tommaselli.

“Per Gesù la santità è la beatitudine delle vittime, in contrasto con coloro che, come il fariseo nel tempio o l’Epulone della parabola, hanno già la loro ricompensa. Egli è venuto per rendere felici coloro che il mondo e la religione considerano perdenti e falliti. E sceglie di essere uno di loro. Filtra con sarcasmo discipline religiose, concentrandosi invece sull’Amore e la Misericordia per i poveri e gli emarginati.
In questo 1 novembre, giorno di Ognissanti, voglio ricordare un gruppo di scartati dalle strutture ecclesiastiche: i preti sposati, testimoni silenziosi di una santità incarnata che rimane ancora misconosciuta. In loro risplende la grazia santificante della duplice sacramentalità, dove l’amore coniugale ed il servizio pastorale si intrecciano come segni del Regno. Pur emarginati dal clericalismo che ha loro voltato le spalle, sono componenti indispensabili di una Chiesa più umana, riconciliata con la verità dell’amore e la sequela di Cristo nella realtà.
Essi, come tanti altri, rivelano che solo le vittime della Chiesa possono pronunciare una parola nuova per credere di nuovo in essa come strumento del Regno di Dio.
All’interno della Chiesa cattolica persiste una tensione tra una struttura ecclesiale intrappolata nel clericalismo celibe e la realtà viva dei preti sposati come un’altra forma di santità. Questo conflitto è disciplinare, teologico e antropologico: il celibato obbligatorio, promulgato per legge tardivamente, nel XII secolo, e regolamentato dal Concilio di Trento, non è un dogma, ma una costruzione istituzionale che ha confuso la fedeltà evangelica con l’obbedienza al potere. Nelle parole di Gesù: “Non era così in principio” (Mt 19,8).
Nel cristianesimo primitivo le cose erano diverse: Pietro e la maggior parte degli apostoli erano uomini sposati; Paolo richiedeva che i vescovi fossero “mariti di una sola moglie” (1 Tm 3,2). Ma la progressiva identificazione tra perfezione e celibato ha consolidato una casta sacra superiore. Una deriva legata ad antiche mutilazioni religiose (mutilazione genitale femminile o maschile, come nel caso di Origene e altri) che confondevano la santità con la negazione del corpo.
Questa distinzione ha alimentato il clericalismo: l’esaltazione del clero come un gruppo separato e superiore perché non si sposa, i cui membri godono di privilegi e di un potere indiscutibile.
Come ha notato Hans Küng, “la Chiesa ha confuso la santità con il controllo”, mentre Umberto Eco ironizza: “preferisce la castità al senso comune”. In contrasto con questa spiritualità timorosa del desiderio, Bruno Forte propone una visione trinitaria: “l’amore coniugale e l’amore pastorale trovano la loro radice comune nella Trinità, dove la comunione è dono reciproco”.
Il prete sposato non è un errore disciplinare da “nascondere”, ma un segno profetico del Regno: una testimonianza del fatto che l’amore umano ed il ministero pastorale sono espressioni inseparabili della stessa grazia divina.

La voce dei teologi: mettere in discussione il fondamento
Numerosi teologi cattolici giungono oggi alla conclusione (insieme ai numerosi studi sulla pedofilia di diversi paesi) che il celibato obbligatorio, un’imposizione innaturale, è fonte di problemi pastorali, psicologici e spirituali, di doppie vite e abusi, come testimoniano i mezzi di comunicazione, che oggi senza pudore violano i muri dell’omertà clericale.
Hans Küng ne evidenzia la sua disconnessione normativa dal Vangelo. Nella sua opera Perché sono cristiano? afferma: “Il celibato clericale non è un comandamento di Gesù, ma una legge della Chiesa. E le leggi della Chiesa possono essere modificate dalla Chiesa”. Questa legge non garantisce una maggiore disponibilità per Dio, genera un moralismo ossessivo sulla sessualità e allontana persone capaci dal ministero ordinato.
Da parte sua, il teologo australiano Paul Collins, autore di Papal Power, collega direttamente il celibato al clericalismo e all’abuso di potere: “il celibato obbligatorio è il cemento che mantiene unita la struttura clericale. Crea una mentalità del «noi contro loro», separando i preti dal popolo che dovrebbero servire. Questa separazione è il terreno fertile perfetto per il clericalismo, per l’arroganza e, nei casi più tragici, per l’abuso”. La credibilità della Chiesa è erosa da questo divario strutturale. A partire da una prospettiva più pastorale ed ecumenica, il teologo tedesco David Berger, che ha lasciato il ministero per sposarsi, ha conosciuto la “doppia vita” di molti chierici. Berger denuncia “l’ipocrisia di un sistema che, mentre predica la castità, spinge molti ad una vita clandestina, generando una profonda sofferenza personale e una crisi di integrità”. Migliaia di preti hanno dovuto scegliere traumaticamente tra la vocazione all’amore coniugale e quella al ministero, come se si escludessero a vicenda. Migliaia di vittime scartate dall’istituzione.

La condanna e la discriminazione: il prezzo elevato della scelta
Chi “ha il coraggio di uscire” e di vivere la propria unione coniugale, si scontra con un meccanismo di discriminazione giuridica e di accanimento sociale. Non può più amministrare pubblicamente i sacramenti, privando la comunità di qualcosa di essenziale. Ma la sanzione va oltre l’aspetto legale: è una lezione che non ha scadenza.
Questi uomini, che spesso conservano una fede profonda e un amore per la Chiesa, vengono stigmatizzati, trasformati in fantasmi all’interno della comunità che un tempo hanno guidato. Vengono calunniati come falliti, malati, con “strane idee” e viene loro negata la possibilità di servire o di trovare uno spazio ministeriale significativo all’interno della struttura ecclesiale. I loro matrimoni sono disprezzati e visti come la causa del loro “degrado”.
Molti fedeli, indottrinati da una visione sacralizzata del clero celibe, non sanno come relazionarsi con un prete sposato. Reagiscono con diffidenza, con pettegolezzi alle sue spalle e con un sospetto generale sulla sua ortodossia o sul suo “fallimento”. Sono visti, nella migliore delle ipotesi, con compassione e, nella peggiore, come “traditori che hanno infranto un giuramento sacro”.
La teologa femminista spagnola Isabel Corpas, autrice di La rivoluzione silenziosa delle donne nella Chiesa, esprime questa ingiustizia: “Condannando un prete che si sposa, la Chiesa non solo punisce un uomo, ma sta svalutando simbolicamente il matrimonio e, soprattutto, la donna con la quale si sposa. Lei diventa la «tentazione», la «colpevole» della «perdita» di un prete. È una visione profondamente misogina che rafforza l’idea che la donna sia un pericolo per la santità dell’uomo consacrato”. Questa dinamica – sostiene Corpas – perpetua una visione clericale e patriarcale che deve essere smantellata.
Solo pochi giorni fa abbiamo letto le esperienze del vescovo Reinhold Nann e di don Ignacio Puente Olivera, nelle quali si riflette quella di migliaia di preti sposati. Il primo se n’è andato, stanco di tante “bugie nella vita presbiterale” che lo hanno portato a una profonda depressione e a concludere che “il celibato obbligatorio non dovrebbe continuare ad essere un peso imposto a tutti, ma una scelta libera e carismatica. Il matrimonio non diminuisce la santità o l’efficacia pastorale di un prete”. La sua rinuncia al potere e la sua scelta di vivere con la sua partner non sono state una caduta, ma una liberazione spirituale («Religión Digital», 20 ottobre 2025).
Il secondo ha presentato una teologia piena di speranza parlando della “doppia sacramentalità”, la coesistenza armoniosa dell’Ordine e del Matrimonio: “Siamo pienamente preti, pienamente mariti e pienamente padri”. Ha denunciato l’«ignoranza istituzionale» escludente e ha sostenuto che la sua identità presbiterale non dovrebbe dipendere da un decreto, ma dalla fedeltà alla chiamata di Gesù. (RD, 09.10.2025)
Entrambi sentono di non avere il loro posto nella Chiesa; non sono veri laici, poiché la loro formazione teologica e l’esperienza ministeriale li hanno preparati a servire in altro modo. Né sono chierici di pieno diritto, poiché il loro matrimonio li ha emarginati dal sistema. Tuttavia, mossi dalla sequela di Cristo e dal loro amore per la Chiesa, desiderano continuare a servire a partire dalla loro nuova posizione e avere il loro posto nel poliedro ecclesiale. Il loro reinserimento non sarà frutto della “tolleranza”, ma piuttosto della conversione della Chiesa.
La voce del popolo di Dio si è espressa in modo schiacciante nei sinodi a favore dell’ammissione del prete sposato. Ma non si è voluto far ascoltare questa voce. Allora, di quale sinodalità stiamo parlando?

La sfida: verso una Chiesa sinodale e non clericale
Il movimento a favore di un celibato facoltativo e del riconoscimento della santità dei preti sposati è anticlericale, non anti-Chiesa. Non cerca di distruggere il ministero, ma di reintegrarlo nella comunità dei battezzati, di «ordinarlo» verso la comunione, non verso la segregazione. Punta verso una Chiesa sinodale, per camminare insieme con pari dignità.
La Chiesa cattolica è formata da 24 Chiese, una occidentale e 23 orientali. La Chiesa ortodossa cattolica ha preti sposati, così come i riti orientali fedeli a Roma, come il maronita, il greco-cattolico melchita, il greco-cattolico ucraino e l’armeno. Le loro parrocchie sono testimonianza vivente che il celibato non è un requisito “ontologico” per il ministero ordinato. La santità non risiede nello stato civile, ma nella fedeltà all’amore di Dio, sia nel dono celibe sia nell’amore coniugale.
Il prete sposato è chiamato alla santità in questo stato. Pertanto, lungi dall’essere un problema, è un ponte tra due realtà – il clero e il laicato – che la visione clericale ha artificialmente separato. Negare questo non è solo mancanza di pragmatismo pastorale; è una resistenza strutturale all’opera dello Spirito, con conseguenze disastrose sotto gli occhi di tutti.
La santità del prete sposato, negata dagli architetti del clericalismo, è una profezia fondamentale del Regno. La duplice sacramentalità dell’Ordine e del Matrimonio è segno che la santità non risiede nella mutilazione, ma nell’integrazione dell’amore. “Il futuro della Chiesa passerà per il recupero dell’elemento comunitario rispetto a quello clericale e su questa strada il riconoscimento del ministero sposato sarà un segno profetico che lo Spirito soffia dove vuole, e non solo nei seminari di oggi” (Leonardo Boff).”

Il silenzio sul celibato

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Ieri sera, sul tardi, diciamo pure ieri notte, mi sono imbattuto in un articolo di Sergio Di Benedetto pubblicato su VinoNuovo. L’argomento, come scrive il professore, è uno di quelli di cui effettivamente da tempo non sentivo parlare: il celibato dei sacerdoti.

“Ci sono temi che hanno un loro ‘momento di gloria’, e poi scompaiono, o quasi, dal dibattito. È così in ogni settore, e quello ecclesiale non è da meno. Tra questi argomenti messi nell’ombra credo si possa annoverare il celibato sacerdotale, che sembra sparito dai radar del dialogo pubblico nell’orbe cattolico, salvo poi tornare in scena (saltuariamente) di fronte a qualche caso di cronaca, che però si consuma in fretta e in fretta cade nel buio (l’ultimo, quello del vescovo Reinhold Nann).
Così, forse incalzato e scalzato dalla discussione sul diaconato femminile, o su altri nuclei di riflessione teologica, una pacata, profonda, seria discussione circa la possibilità di un superamento del celibato è tramontata. Complice, penso, un fatto che è stato una pietra tombale su tale argomento, e riguarda quando accaduto al Sinodo per l’Amazzonia (2019), il cui documento finale, al paragrafo 111, chiedeva un ripensamento della disciplina del celibato, ordinando uomini sposati (sostanzialmente i cosiddetti viri probati) «al fine di sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione dei Sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica». Esso, pur avendo avuto 128 voti favorevoli e 41 contrati (ovvero il 76%, ben più del 2/3 necessari), non era stato accolto nell’esortazione apostolica finale di Papa Francesco, Querida Amazonìa, per non spaccare o polarizzare (al solito, facendo prevalere i diritti della minoranza su quelli di un’ampia maggioranza). Così, però, si è non solo chiuso ogni tentativo di portare con più frequenza i sacramenti ai popoli dell’Amazzonia, ma anche ogni ulteriore riflessione: a che scopo discutere se, nonostante una consistente porzione di episcopato avesse espresso voto favorevole, poi nulla è cambiato?
La questione non è solo quella dei viri probati, ma in generale del celibato nella chiesa latina, la quale continua la prassi di scegliere presbiteri solo “tra coloro che sono chiamati al celibato”: ma questa, in buona sostanza, è una formula (retorica), per giustificare il fatto che la chiesa continua a ordinare uomini non sposati, mettendo la testa sotto la sabbia quanto a doppie a triple vite, sacerdoti con la compagna o il compagno, e così via. Perché una buona dose di ipocrisia pare non mancare mai quando si tratta di guardare alla realtà dei fatti, che è poi questa: ci sono presbiteri che vivono il celibato con equilibrio, altri che lo vivono in modo non equilibrato, finanche patologico, altri ancora che non lo vivono. Pochi giorni fa ho ascoltato, per l’ennesima volta, un ex sacerdote, ora dispensato e sposato, che ebbe un consiglio dal suo vescovo: per ora mantieni la tua relazione con questa donna, basta che non lasci il ministero….
Rimane l’antica questione, la vecchia scusa: il presbitero sposato non avrebbe tempo, energia, dedizione totali per la sua comunità. Ma siamo onesti: quanti, davvero, interpretano il proprio ministero in modo così eroico? Quanti parroci, quanti vicari sono oberati di incarichi, a rischio burnout, frantumati in mille discutibili attività, da avere quella disponibilità totale che, in realtà, li spezza umanamente, li induce talvolta al ritiro sociale, alla fuga, a vite parallele? Il tema è sempre lo stesso: che valore dare all’umanità del prete, celibato compreso?
Infine, che fare con quella risorsa preziosa che possono essere i presbiteri sposati, quando la loro ‘uscita’ è stata ben pensata, equilibrata, quando hanno costruito relazioni buone, generative, in cui ha trovato posto anche Dio?
In questo tema, oggi, mi pare, i veri nemici non sono né la tradizione né la prassi: è l’ipocrisia, che si tira dietro la paura di guardare le cose come sono, le vite degli uomini e delle donne come sono. E questo è, in ultima analisi, davvero contro il vangelo di Gesù.”

A conclusione di questo post mi piace riportare le parole di un sacerdote che mi manca molto, don Pierluigi Di Piazza che in vari libri ha affrontato l’argomento. In un’intervista di Giovanna De Caro dice:
“La dimensione affettiva è per ogni persona fondamentale, costitutiva; senza amore non c’è vita; l’amore buono, positivo, non quello inquinato o deturpato fino alla violenza sottile o esplicita. Essere prete non dovrebbe comportare il celibato obbligatorio; ho sempre pensato a una Chiesa libera, umana, ricca di relazione nella quale ci siano preti celibi, quando il celibato è scelto con libertà, consapevolezza, maturità; preti sposati; donne prete, non per una parità clericale sconveniente, bensì per l’apporto indispensabile della femminilità, della diversità di genere nella esperienza della fede, nella Chiesa. Sarebbero anche da reintrodurre nel ministero i preti costretti a lasciarlo perché si sono sposati. Attorno ai 33-35 anni ho vissuto una forte nostalgia della paternità. Non mi pare adeguato, né rispettoso per le tante esperienze umane se io parlo di coprire mancanze affettive. La compensazione dell’amore che non c’è per lo più si risolve in un artificio non veritiero.”

Uccidere un uomo è uccidere un uomo

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Sébastien Castellion, o Chatellion o anche Châteillon, più noto in italiano come Sebastiano Castellione (nato 1515 – morto 1563) è stato un teologo francese, tra i primi e più importanti sostenitori della tolleranza religiosa. Visse in un’Europa in cui le guerre di religione, le esecuzioni per eresia e le persecuzioni erano normalità (tra il 1500 e il 1700 si registrarono migliaia di condanne a morte per motivi religiosi, eresia, stregoneria, ecc.). Ne voglio scrivere perché ho letto un articolo molto completo e approfondito sul sito australiano Aeon, a firma Sam Dresser. Reputo che bene si abbini al precedente post che ho pubblicato: entrambi gli articoli sono stati citati dal giornalista Simone Pieranni nella puntata 102 del podcast Fuori da qui, dal titolo “La grazia e la spada”. Sintetizzo l’articolo apparso su Aeon.

Origini modeste, formazione umanista, Castellione nacque in una famiglia contadina, si istruì nelle lingue antiche (greco, latino, ebreo) e nell’umanesimo. Lavorò poi come professore di greco a Basilea.
Conobbe Calvino col quale ebbe rapporti cordiali per un certo periodo; Castellione fu anche parte dell’istituzione scolastica di Ginevra. Il punto di frattura fondamentale fu la condanna al rogo di Michael Servetus nel 1553 — medico e teologo che respingeva la dottrina della Trinità. Calvino difese la sentenza, sostenendo che la coazione (anche capitale) contro gli eretici fosse giustificata per proteggere la fede “pura”. Castellione contestava che essere definito “eretico” fosse qualcosa di oggettivo: “scopro che riteniamo eretici coloro con cui non siamo d’accordo.” Quindi l’“eresia” diventava un’etichetta imposta dal potente piuttosto che una categoria teologica incontestabile. Castellione sosteneva che non si poteva giustificare moralmente l’uccisione di un essere umano per difendere una dottrina. “Uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo. Quando i ginevrini hanno ucciso Serveto non hanno difeso una dottrina, hanno ucciso un uomo. Non spetta al magistrato difendere una dottrina. Che ha in comune la spada con la dottrina? Se Serveto avesse voluto uccidere Calvino, il magistrato avrebbe fatto bene a difendere Calvino. Ma poiché Serveto aveva combattuto con scritti e con ragioni, con ragioni e con scritti bisognava refutarlo. Non si dimostra la propria fede bruciando un uomo, ma facendosi bruciare per essa” (Contra libellum Calvini).
In “De Haereticis” e “Contra libellum Calvini”, Castellione criticò apertamente la pratica della persecuzione religiosa, indipendentemente da quanto “eretiche” o pericolose si ritenessero certe idee. Castellione insisteva che le dispute teologiche (predestinazione, natura dell’Eucaristia, interpretazione della Bibbia) avessero causato divisioni enormi, ma che non fossero il cuore del cristianesimo. Per lui ciò che contava erano i precetti morali visibili: amare il prossimo, essere misericordiosi, pazienti, gentili. Castellione non riteneva che tutta la Bibbia fosse da prendere letteralmente come “ispirata” in ogni sua parola. Alcune parti erano scritte da autori umani, con errori, contraddizioni, limiti umani. Pertanto proponeva di cominciare dalle ragione e dall’analisi razionale delle questioni controverse, e solo in seguito appoggiare le proprie opinioni con le Scritture, non il contrario. Nel suo scritto “De arte dubitandi et confidendi, ignorandi et sciendi” affermava che era bene sentire il dubbio, riconoscere che c’erano verità che restavano oscure o contraddittorie nella Bibbia, e che l’interpretazione non poteva limitarsi alla lettera ma doveva cercare il senso più ampio, l’“intonazione” generale del testo sacro.
Durante la vita, Castellione fu respinto e perseguitato; molte sue opere circolavano solo in manoscritto. Dopo la sua morte, alcuni testi furono pubblicati solo molto più tardi (alcuni addirittura nel XIX o XX secolo). Pur non essendo stato riconosciuto universalmente nella sua epoca come un “gigante” della tolleranza, le sue idee hanno anticipato temi che diventeranno centrali nell’Illuminismo: libertà religiosa, ragione, critica al dogma, riconoscimento della pluralità religiosa.
Castellione credeva che, senza tolleranza religiosa, gli Stati europei — divisi da fazioni dogmatiche — fossero destinati a guerre e autodistruzione. Uccidere nel nome della verità religiosa era un tradimento del cristianesimo. E la fede andava vissuta, dimostrata nelle azioni di amore e misericordia, non imposta con la forza. Inoltre non tutte le verità teologiche erano da considerare accessibili o definitive; molte rimanevano e sarebbero rimaste incerte. Ma il disaccordo non era motivo per cancellare l’altro, perseguitarlo o eliminarlo.
Di certo il suo non è diventato un nome popolare come Locke, Voltaire o altri filosofi della tolleranza: molte sue opere non furono pubblicate immediatamente o furono messe da parte per motivi politici o religiosi. Tuttavia, alcuni intellettuali successivi (tra cui Montaigne, Locke, Voltaire) apprezzarono le sue idee o conservarono le sue opere. Le sue riflessioni si ritrovano nei principi che più tardi diventeranno fondanti nelle democrazie liberali.

Rosario Livatino

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Lo scorso anno scolastico, grazie alla proposta di due colleghe, ho accompagnato due classi a vedere una mostra sul giudice Rosario Livatino ospitata nei locali dell’Università di Udine. Il 21 settembre è corso il 35° anniversario dalla sua uccisione e sul sito Vivi, dedicato dall’associazione Libera alle vittime innocenti di mafia, ho trovato una pagina che ben racconta la sua storia.

“STD. Tre lettere puntate. Un acronimo misterioso che a lungo ha impegnato gli inquirenti che indagavano sulla tragica uccisione del giudice Rosario Livatino. Tre lettere che comparivano, con assiduità, in fondo alle pagine degli scritti e delle agende private del magistrato. Quando il rebus è stato risolto, è stato chiaro che in quelle tre lettere c’era tanto della personalità, del pensiero, della vita di questo giovane giudice ammazzato dalla Stidda a 38 anni e poi diventato il primo magistrato beato nella storia della Chiesa. STD, Sub Tutela Dei, nelle mani di Dio. Un’invocazione a Dio perché guidasse i suoi passi, le sue scelte, le sue decisioni. In definitiva, la sua stessa vita.
Una vita, quella di Livatino, iniziata il 3 di ottobre del 1952 a Canicattì, in provincia di Agrigento. Papà Vincenzo era un impiegato dell’esattoria comunale e Rosario era stato il frutto del suo amore per Rosalia Corbo. Una famiglia tranquilla, in cui Rosario crebbe ben educato, rispettoso, attento allo studio e ai suoi doveri.
Si diplomò al Liceo classico Ugo Foscolo di Canicattì, affiancando allo studio l’impegno nell’Azione Cattolica, per poi iscriversi, nel 1971, alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo.
Il binomio fede e diritto comincia, sin dagli anni dell’adolescenza e della prima gioventù, a caratterizzare la sua esistenza. Un binomio sul quale la sua riflessione continuerà a lungo, costituendo di certo uno dei tratti più significativi della sua elaborazione di uomo, di cristiano, di intellettuale e di professionista.
Conseguì la laurea cum laude nel 1975, non ancora ventitreenne, per poi ricoprire, vincitore di un concorso pubblico, il ruolo di vicedirettore in prova presso l’Ufficio del Registro, negli anni tra il 1977 e il 1979.

Le indagini sulla mafia agrigentina
Intanto però Rosario inseguiva un altro sogno, quello cioè di dedicarsi al diritto e alla giustizia. Spinto da questa sorta di vocazione laica, partecipò al concorso per l’ingresso in magistratura, uscendone tra i primi in graduatoria, sebbene giovanissimo. Così, nel 1978, divenuto magistrato, fu assegnato al Tribunale di Caltanissetta e poi, un anno dopo, a quello di Agrigento, come sostituto. Ad Agrigento rimase ininterrottamente in servizio come sostituto procuratore fino al 1989, prima di essere nominato giudice a latere.
Furono anni di lavoro intensissimo. Nonostante la sua giovane età, Rosario seppe misurarsi, con grande capacità e spiccata lucidità, con indagini assai difficili e delicate, che scavarono in profondità nelle pieghe delle relazioni ambigue e perverse tra mafia, imprenditoria e politica.
Come quando si occupò di alzare il velo sui finanziamenti regionali sulle cooperative giovanili di Porto Empedocle; o quando indagò su un enorme giro di fatture false o gonfiate per opere mai realizzate; o ancora quando si dedicò a una serie di indagini su alcuni eclatanti episodi di corruzione, dando il via a quella che sarebbe passata poi alla storia come la Tangentopoli siciliana e applicando, tra i primi in Italia, la misura della confisca dei beni ai mafiosi.
Il colpo più significativo fu probabilmente il lavoro investigativo che portò al maxiprocesso contro le cosche di Stidda di Agrigento, Canicattì, Campobello di Licata, Porto Empedocle, Siculiana e Ribera.
Per celebrare il processo, iniziato nel 1987, fu necessario utilizzare un’ex palestra adibita ad aula bunker. Alla fine, furono 40 le condanne ottenute. Un colpo durissimo alla mafia agrigentina, quella Stidda nata per contrapporsi a Cosa nostra e allo strapotere dei Corleonesi, che pretendevano di estendere il loro dominio anche nelle zone centro-meridionali della Sicilia.

La fede e il diritto
A un ruolo pubblico che, in funzione delle sue capacità professionali e dei suoi successi investigativi, lo rendeva via via più “esposto”, Rosario continuò per tutta la sua esistenza a preferire una condotta riservatissima, fatta di una vita familiare discreta, di una profonda fede cristiana, di valori etici che trasferiva con coerenza e fedeltà nel lavoro. È un’elaborazione intellettuale molto profonda quella che ha affidato ai suoi scritti e ad alcuni suoi interventi pubblici che ci aiutano a delineare con nettezza il suo pensiero e la sua visione del magistrato.
“L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività” (Rosario Livatino – intervento sul tema “Il ruolo del giudice nella società che cambia” – Canicattì, 7 aprile 1984).
Parole che lasciano trasparire con chiarezza il senso di profondo rigore morale di questo giovane magistrato, la sua visione etica della professione. Un’etica del dovere non disgiunta dalla consapevolezza del peso di quella responsabilità che porta chi è chiamato a giudicare e deve farlo con rispetto anche per chi è ritenuto colpevole. Valori, pensieri, riflessioni senz’altro frutto anche della sua profonda fede, del suo continuo interrogarsi, da laico, su quel binomio tra fede e diritto sul quale ci ha lasciato parole altrettanto chiare:
“Il compito (…) del magistrato è quello di decidere; (…): una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. (…) Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia” (Rosario Livatino – intervento sul tema “Fede e diritto” – Canicattì, 30 aprile 1986).

Il 21 settembre 1990

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Tra Canicattì e Agrigento ci sono poco meno di 40 chilometri. Ci si sposta lungo la Strada Statale 640 che collega Caltanissetta alla costa meridionale della Sicilia. Mezz’ora di strada che Rosario percorreva regolarmente per raggiungere il Tribunale. Lo fece anche la mattina del 21 settembre 1990. Senza scorta, a bordo della sua vecchia Ford Fiesta amaranto.
All’altezza a del viadotto Gasena – oggi intitolato a lui – la sua auto fu affiancata e speronata da un’altra vettura, da cui furono esplosi alcuni colpi di pistola. Rosario, benché già ferito ad una spalla, tentò una disperata fuga nei campi accanto alla strada. Ma fu inutile. Inseguito dai killer, fu ucciso senza pietà. Aveva appena 38 anni.
Sul luogo dell’omicidio giunsero poco dopo i colleghi del Tribunale di Agrigento. Da Palermo arrivarono il Procuratore Pietro Giammanco e l’aggiunto Giovanni Falcone. Da Marsala, il Procuratore Paolo Borsellino.
La morte di Rosario fece rumore. E provocò polemiche, anche molto aspre. I colleghi agrigentini Roberto Saieva e Fabio Salomone, pochi giorni dopo l’omicidio, denunciarono le condizioni difficili in cui i magistrati erano costretti a lavorare. I Procuratori di tutta la Sicilia minacciarono le dimissioni in blocco se lo Stato non avesse agito con immediatezza contro quel delitto efferato. Qualcuno parlò delle responsabilità dei superiori di Livatino, della loro inerzia. E poi quelle parole ambigue pronunciate il 10 maggio del 1991 dal Presidente della Repubblica Cossiga sul tabù dei “giudici ragazzini”: “non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza”. Parole rinnegate solo dodici anni più tardi, quando l’ormai ex Presidente chiarì che non si riferiva a Rosario Livatino, definendolo anzi un eroe e un santo.

La vicenda giudiziaria
La verità sulla morte del giudice Livatino è passata attraverso tre processi. Il primo, nell’immediatezza dei fatti, fu reso possibile dalle dichiarazioni di un agente di commercio di origini milanesi che passava sul viadotto Gesena per caso e che assistette all’omicidio. Pietro Nava decise coraggiosamente di testimoniare e le sue parole consentirono, già il 7 ottobre del 1990, l’arresto di due ragazzi di 23 anni, Paolo Amico e Domenico Pace. Furono presi nei pressi di Colonia, in Germania, dove ufficialmente facevano i pizzaioli. In realtà erano organici alla Stidda di Palma di Montechiaro. Nel novembre del ’91 furono condannati entrambi all’ergastolo come esecutori materiali del delitto.
La collaborazione di Gioacchino Schembri, anch’egli esponente della Stidda di Palma, consentì poi l’apertura di un nuovo processo, il Livatino bis, che portò all’arresto, nel 1993, degli altri membri del gruppo di fuoco: Gateano Puzzangaro (23 anni) Giovanni Avarello (28 anni) e Giuseppe Croce Benvenuto. I primi due furono condannati all’ergastolo. Benvenuto invece decise di collaborare, aprendo la strada al Livatino ter.
Il processo, iniziato nel 1997, si è basato sulle dichiarazioni di Benvenuto e di un altro “pentito”, Giovanni Calafato, che hanno indicato i mandanti dell’omicidio nei capi della Stidda di Canicattì e Palma: Antonio Gallea, Salvatore Calafato, Salvatore Parla e Giuseppe Montanti. Al termine del processo di primo grado, nel 1998, Gallea è stato condannato all’ergastolo. 24 anni per Calafato. Assoluzione per Parla e Montanti. Entrambi sono stati poi condannati all’ergastolo nel settembre del 1990 dalla Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta, che ha esteso all’ergastolo anche la condanna di Calafato. Sentenze poi confermate, tra il 2001 e il 2002, anche in Cassazione.

Memoria viva
Il 9 maggio del 1993, Giovanni Paolo II, nel suo memorabile discorso dalla Valle dei Templi di Agrigento, definì Rosario Livatino un “martire della giustizia e indirettamente della fede”. In quello stesso anno, il vescovo di Agrigento Carmelo Ferraro diede mandato di avviare il lavoro di raccolta delle testimonianze per la causa di beatificazione. Il 19 luglio 2011 è arrivata la firma del decreto per l’avvio del processo diocesano di beatificazione, che si è aperto ufficialmente il 21 settembre successivo. 45 persone hanno testimoniato sulla vita e la santità del giudice Livatino. Tra loro anche Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer. Il 6 settembre 2018, l’annuncio della chiusura del processo diocesano e l’invio in Vaticano, alla Congregazione per le cause dei santi, delle 4000 pagine di notizie e testimonianze raccolte.
È stato poi Papa Francesco, il 21 dicembre del 2020, ad autorizzare la Congregazione alla promulgazione del decreto riguardante il martirio, aprendo la strada alla beatificazione, avvenuta il 9 maggio 2021 nella Cattedrale di Agrigento. La memoria di Rosario Livatino si celebra il 29 ottobre, nel giorno in cui, trentaseienne, ricevette il sacramento della confermazione.
In un processo di memoria laica che rende viva la sua testimonianza di coraggio e impegno, a Rosario sono intitolati i Presidi di Libera a Sanremo, nel Basso Polesine, a Pomezia e a Mogoro, in provincia di Oristano. Portano il suo nome anche due case di accoglienza ad Andria e la Cooperativa Libera Terra di Naro, in provincia di Agrigento. A Rosarno, gli studenti dell’Istituto superiore Raffaele Piria producono un olio intitolato a lui.
Nel 1992, Nando dalla Chiesa ha pubblicato il suo “Il giudice ragazzino”, riprendendo polemicamente l’ambigua definizione del Presidente Cossiga. Nella sinossi si legge: “Alla vicenda del magistrato si intreccia la ricostruzione dei casi più clamorosi e delle polemiche più dirompenti che hanno contrapposto, nell’arco del decennio, mafia, società civile e istituzioni, troppo spesso nel segno di un attacco diretto all’attività di quei “giudici ragazzini” mandati a rappresentare lo Stato in prima linea” (Nando dalla Chiesa – Il giudice ragazzino. Storia di Rosario Livatino assassinato dalla mafia sotto il regime della corruzione, Einaudi 1992).Con lo stesso titolo, “Il giudice ragazzino”, la storia di Rosario è stata raccontata, nel 1994, anche nel film di Alessandro Robilant con Giulio Scarpati. Nel 2006, a sostegno della causa di beatificazione, è stato prodotto il documentario “La luce verticale”. Dieci anni più tardi, nel 2016, è uscito invece il documentario indipendente “Il giudice di Canicattì – Rosario Livatino, il coraggio e la tenacia” curato da Davide Lorenzano e con la voce narrante dello stesso Scarpati, che ha rivelato nuovi episodi di vita e immagini inedite di Rosario (visibile qui).
Tra tutto quanto ha scritto e ci ha lasciato in eredità, di lui, uomo di fede e di giustizia, resta in particolare una frase. Poche parole, che graffiano la coscienza e pesano come macigni: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili” (Rosario Livatino).”

Dopo 40 anni la voce di Giancarlo Siani dà ancora frutti

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Il 23 settembre di 40 anni fa la camorra metteva fine alla vita del giornalista Giancarlo Siani. La vicenda viene raccontata da un film molto ben riuscito: Fortapàsc. Guardarlo gratuitamente su Raiplay potrebbe essere un bel modo per onorarne la memoria. Dal sito LiberaInformazione recupero un articolo con le parole di Paolo Siani, fratello di Giancarlo.

“Era il 1985, avevo da poco terminato il mio turno in ospedale, faceva caldo, era stato un pomeriggio faticoso, ma alle 21,43 del 23 settembre del 1985 all’improvviso la mia vita cambia radicalmente.
Non sento più la fatica, nè il caldo, la mia vita si ferma bruscamente, accanto alla Mehari di mio fratello, Giancarlo, colpito a morte dalla mafia.
Da quel preciso momento inizia la mia nuova vita, difficile, dura, faticosa.
Ho imparato a convivere con il dolore, perché nulla guarisce una tale ferita, una ferita che non cicatrizza mai, resta sempre un pò sanguinante, e basta poco per farla riprendere a sanguinare copiosamente, una foto, un album di famiglia, un libro, una canzone che mi riportano indietro nei miei primi 30 anni, felici, con mio fratello e la mia famiglia.
Niente è stato più come prima.
Mai avrei immaginato quella sera che dopo 40 anni Giancarlo e i suoi articoli sarebbero stati ricordati in tante città, e in tanti modi, con docufilm, spettacoli teatrali, canzoni, libri, dibattiti.
Siamo riusciti attraverso una memoria attiva, fatta di ricordo e di impegno a costruire un ponte tra passato e futuro. Ascoltare le voci dei bambini di una scuola elementare di Oliveto Citra cantare un rap ispirato al libro di Lorenzo Marone, “un ragazzo normale”, e sentirli urlare con forza “Perché, perché, perché, era solo un ragazzo normale”, mi commuove ma nello stesso tempo mi fa comprendere che la storia di Giancarlo è viva e semina del bene.
È vero che da un’indagine di alcuni anni fa condotta nelle scuole della Campania i ragazzi mostravano di conoscere i nomi di tutti i personaggi delle fiction sulla camorra, e non quelli delle vittime.
Competere con le fiction di maggior successo di questi anni è un’impresa difficile.
Ma il lavoro dei familiari delle vittime innocenti, fatto di tanti  interventi nelle scuole, nelle piccole comunità darà i suoi frutti.
E infatti dopo 40 anni Giancarlo sarà ricordato nei prossimi giorni a Napoli, a Roma, a San Giorgio a Cremano, a Torre Annunziata, a Quarto, a Pomigliano d’Arco, a Castellamare, a San Giuseppe Vesuviano, a Milano, Torino, Ravenna, Latina e a Bruxelles al parlamento europeo. Ma sono certo che tanti insegnanti in tante parti d’Italia il 23 settembre parleranno di lui ai loro alunni.
Un ponte tra passato, fatto di morte e sofferenza e futuro che ci auguriamo felice e libero dalle mafie. In fondo dipende solo da noi, dalle nostre scelte, dai nostri comportamenti.
Grazie a tutti coloro che con noi hanno seminato ogni giorno in questi lunghi quaranta anni, e a tutti coloro, donne e uomini di buona volontà, che continueranno a farlo.
Siete la nostra speranza. E vedrete che prima o poi cadranno nell’oblio i nomi dei mafiosi ma non quelli delle nostre vittime.
Siamo certi che i semi di speranza sparsi in questi anni in tanti luoghi, continueranno a germogliare e lo faranno ogni volta che qualcuno sceglierà di ribellarsi al silenzio, di denunciare, di raccontare ciò che vede senza piegarsi al ricatto o alla violenza, che resterà con la schiena dritta e scriverà una notizia pericolosa, ma vera. Accadrà, dovrà accadere, dobbiamo farcela.
Chi pensa ancora oggi di far tacere un giornalista che racconta la verità non sa che quella voce continuerà a essere viva attraverso le nostre voci e non si spegnerà.
Giancarlo diventi sempre di più il seme che genera un futuro migliore, più giusto, più umano, più felice.
È il 2025, settembre, fa caldo, ho terminato il mio turno in ospedale, e mi preparo a parlare ancora di Giancarlo.”
Fonte: La Repubblica/Napoli, 16/09/2025

Giornalismo tra racconto e “spiegazione”

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

Sono lontani i tempi in cui leggevo una cinquantina di libri all’anno; per ora sono a venti e ne sono comunque molto soddisfatto, anche perché il calo è dovuto alla meravigliosa presenza di Mariasole e Francesco. Tra le letture di questi mesi, alcune hanno a che fare con uno dei temi dell’articolo che vorrei proporre oggi: il rapporto tra come le cose avvengono e come esse sono raccontate, la relazione tra verità e post-verità. Ho letto Autocrazie. Chi sono i dittatori che vogliono governare il mondo di Anne Applenbaum, L’Africa non è un paese. Istruzioni per superare luoghi comuni e ignoranza sul continente più vicino di Dipo Faloyn, 2100: Come sarà l’Asia, come saremo noi di Simone Pieranni, Trump e il fascismo liberale di Slavoj Žižek, Grazie, Occidente! di Federico Rampini e Il crollo di Babele. Che fare dopo la fine del sogno di Internet? di Paolo Benanti. Ho appena iniziato Traffic. La corsa ai clic e la trasformazione del giornalismo contemporaneo di Ben Smith. Si tratta di libri non sempre allineati sullo stesso punto di vista: ad esempio mi piacerebbe assistere ad un confronto tra Dipo Faloyn e Federico Rampini su alcuni dei temi che hanno affrontato nei loro testi. Fare letture diverse però è uno dei metodi che utilizzo per cercare di sottrarmi alle bolle di filtraggio informativo. Su temi affini è stato anche molto interessante un intervento a cui ho assistito la scorsa settimana durante un corso di aggiornamento: a parlare è stato Laris Gaiser, esperto di geopolitica e geoeconomia.
L’articolo lo prendo invece da Avvenire e spiega cosa sia la hasbara utilizzata dal governo israeliano. Inutile che premetta io di cosa si tratti, lascio spazio direttamente ad Anna Maria Brogi.

“La chiamano hasbara. La “spiegazione”, dal punto di vista del governo di Israele, dei fatti che lo riguardano. I detrattori traducono: propaganda. In tempi di guerra si sa che è un’arma. Piuttosto costosa. A Gaza non c’è la carestia. Le foto dei bambini denutriti sono manipolate o mostrano gli effetti di malattie rare. Tutti i giornalisti di Gaza (solo palestinesi, poiché Israele vieta l’ingresso alla stampa) sono al soldo di Hamas. I terroristi fanno incetta del cibo e banchettano nei tunnel. I tredicimila dipendenti dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) sono tutti membri di Hamas. Negli ospedali di Gaza si nascondono i terroristi. I medici sono terroristi. Gli infermieri sono terroristi. Il numero delle vittime civili a Gaza, in proporzione ai combattenti uccisi, è inferiore a quello di altre guerre. Se fosse facile dimostrare queste tesi, il governo di Benjamin Netanyahu non avrebbe bisogno di tenere in piedi una macchina colossale di comunicazione, che comprende: un dipartimento delle Forze armate espressamente dedicato a ricostruire il legame diretto di ogni giornalista ucciso con la Jihad islamica o con Hamas; un gruppo di influencer ai quali (e solo a loro) è stato consentito ad agosto l’ingresso ai siti di distribuzione del cibo della Gaza Humanitarian Foundation per dire che nella Striscia non c’è fame; conferenze stampa di Netanyahu ad uso esclusivo dei giornalisti stranieri per denunciare presunte “fake news”; investimenti da decine di milioni di dollari per la promozione sui social e sui motori di ricerca di contenuti sponsorizzati dall’Agenzia di pubblicità del governo (sì, in Israele esiste: si chiama Lapam e riferisce direttamente all’ufficio del premier).
La campagna digitale lanciata nei mesi scorsi per dire che a Gaza “non c’è fame” è stata vista da oltre 6 milioni di utenti su YouTube e da altrettanti via Google. Stando a documenti pubblicati dal sito indipendente di giornalismo investigativo Dropsite News, in un articolo a firma di Jack Poulson e Lee Fang, il contratto stipulato lo scorso giugno per sei mesi con Google e YouTube dalla Lapam vale 45 milioni di dollari. «I registri mostrano che il governo israeliano – scrivono Poulson e Fang – ha speso allo stesso modo 3 milioni di dollari per una campagna pubblicitaria su X. Anche la piattaforma pubblicitaria francese e israeliana Outbrain/Teads riceverà circa 2,1 milioni di dollari». Un anno fa, la rivista statunitense di tecnologia Wired aveva rivelato l’esistenza di una campagna pubblicitaria israeliana su Google per screditare l’Unrwa. Campagna confermata dal responsabile della Sensibilizzazione pubblica del ministero della Diaspora, Hadas Maimon, il 2 marzo alla Knesset. Iniziative simili vengono condotte per screditare Ong palestinesi, a partire dalla Hind Rajab Foundation (dal nome della bimba uccisa mentre chiedeva aiuto alla Mezzaluna Rossa, dall’auto in cui era chiusa con i cadaveri di sei familiari), descritte come filo-terroristiche. E non c’è solo Gaza: una fase particolarmente frenetica di hasbara si è avuta a giugno in concomitanza con i dodici giorni di guerra contro l’Iran, presentata come essenziale per la sopravvivenza di Israele.
A conti fatti, il risultato è pari alle attese? Il presidente americano Donald Trump ritiene di no: «Israele ha perso la guerra delle pubbliche relazioni». La stampa israeliana è sempre più critica nei confronti del governo, allineandosi con buona parte della società. Ma la “spiegazione” è diretta all’opinione pubblica internazionale e in particolare a quella statunitense filo-israeliana, che oggi tentenna. L’importante è non perdere il sostegno militare degli alleati, che dovranno pur rispondere alle loro piazze reali e virtuali. Fattore essenziale, in tutto questo, sono i giornalisti. Da tenere rigorosamente fuori da Gaza. Capita poi che qualcuno riesca a procurarsi i documenti e sappia leggere i numeri. Facendo, anche in tempi di post-verità, informazione giornalistica”.

Mi piace concludere con una citazione dal libro di Paolo Benanti che ho concluso proprio ieri sera. Dopo un’interessante distinzione tra persuasione e manipolazione, il teologo francescano scrive: “Non si tratta di rincorrere l’utopico desiderio di rimuovere la manipolazione, un fenomeno molto più antico delle piattaforme digitali, ma di riconoscere l’esistenza di diritti cognitivi degli utenti che vanno riservati: le persone hanno diritto a una loro autonomia, nello spazio analogico come in quello digitale. Se si rimuove l’autonomia lo spazio democratico diviene autocratico. Uno spazio digitale non democratico di fatto minaccia anche la democrazia” (Il crollo di Babele, pag. 239).

La veglia con Leone XIV

Immagine tratta dal sito de Il Sole 24 ore

Pubblico, per chi se le fosse perse o semplicemente volesse tornarci sopra, domande e risposte della veglia di sabato 2 agosto a Tor Vergata durante il Giubileo dei Giovani. La fonte è il sito del Vaticano (ho tenuto solo la parte in lingua italiana). Forte è stata la tentazione di mettere in evidenza dei passaggi che mi hanno particolarmente toccato, ho preferito non “grassettare” nulla. Buona lettura. In fondo il video integrale della veglia.

“Domanda 1 – Amicizia

Santo Padre, sono Dulce María, ho 23 anni e vengo dal Messico. Mi rivolgo a Lei facendomi portavoce di una realtà che viviamo noi giovani in tante parti del mondo. Siamo figli del nostro tempo. Viviamo una cultura che ci appartiene e senza che ce ne accorgiamo ci plasma; è segnata dalla tecnologia soprattutto nel campo dei social network. Ci illudiamo spesso di avere tanti amici e di creare legami di vicinanza mentre sempre più spesso facciamo esperienza di tante forme di solitudine. Siamo vicini e connessi con tante persone eppure, non sono legami veri e duraturi, ma effimeri e spesso illusori.
Santo Padre, ecco la mia domanda: come possiamo trovare un’amicizia sincera e un amore genuino che aprono alla vera speranza? Come la fede può aiutarci a costruire il nostro futuro?

Carissimi giovani, le relazioni umane, le nostre relazioni con altre persone sono indispensabili per ciascuno di noi, a cominciare dal fatto che tutti gli uomini e le donne del mondo nascono figli di qualcuno. La nostra vita inizia grazie a un legame ed è attraverso legami che noi cresciamo. In questo processo, la cultura svolge un ruolo fondamentale: è il codice col quale interpretiamo noi stessi e il mondo. Come un vocabolario, ogni cultura contiene sia parole nobili sia parole volgari, sia valori sia errori, che bisogna imparare a riconoscere. Cercando con passione la verità, noi non solo riceviamo una cultura, ma la trasformiamo attraverso scelte di vita. La verità, infatti, è un legame che unisce le parole alle cose, i nomi ai volti. La menzogna, invece, stacca questi aspetti, generando confusione ed equivoco.
Ora, tra le molte connessioni culturali che caratterizzano la nostra vita, internet e i media sono diventati «una straordinaria opportunità di dialogo, incontro e scambio tra le persone, oltre che di accesso all’informazione e alla conoscenza» (Papa Francesco, Christus vivit, 87). Questi strumenti risultano però ambigui quando sono dominati da logiche commerciali e da interessi che spezzano le nostre relazioni in mille intermittenze. A proposito, Papa Francesco ricordava che talvolta i «meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati, dipendenti dal consumo» (Christus vivit, 105). Allora le nostre relazioni diventano confuse, sospese o instabili. Inoltre, come sapete, oggi ci sono algoritmi che ci dicono quello che dobbiamo vedere, quello che dobbiamo pensare, e quali dovrebbero essere i nostri amici. E allora le nostre relazioni diventano confuse, a volte ansiose. È che quando lo strumento domina sull’uomo, l’uomo diventa uno strumento: sì, strumento di mercato, merce a sua volta. Solo relazioni sincere e legami stabili fanno crescere storie di vita buona.
Carissimi, ogni persona desidera naturalmente questa vita buona, come i polmoni tendono all’aria, ma quanto è difficile trovarla! Quanto è difficile trovare un’amicizia autentica! Secoli fa, Sant’Agostino ha colto il profondo desiderio del nostro cuore – è il desiderio di ogni cuore umano – anche senza conoscere lo sviluppo tecnologico di oggi. Anche lui è passato attraverso una giovinezza burrascosa: non si è però accontentato, non ha messo a tacere il grido del suo cuore. Agostino cercava la verità, la verità che non illude, la bellezza che non passa. E come l’ha trovata? Come ha trovato un’amicizia sincera, un amore capace di dare speranza? Incontrando chi già lo stava cercando, incontrando Gesù Cristo. Come ha costruito il suo futuro? Seguendo Lui, suo amico da sempre. Ecco le sue parole: «Nessuna amicizia è fedele se non in Cristo. È in Lui solo che essa può essere felice ed eterna» (Contro le due lettere dei pelagiani, I, I, 1); e la vera amicizia è sempre in Gesù Cristo con fiducia, amore e rispetto. «Ama veramente il suo amico colui che nel suo amico ama Dio» (Discorso 336), ci dice Sant’Agostino. L’amicizia con Cristo, che sta alla base delle fede, non è solo un aiuto tra tanti altri per costruire il futuro: è la nostra stella polare. Come scriveva il beato Pier Giorgio Frassati, «vivere senza fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere una lotta per la Verità non è vivere, ma vivacchiare» (Lettere, 27 febbraio 1925). Quando le nostre amicizie riflettono questo intenso legame con Gesù, diventano certamente sincere, generose e vere.
Cari giovani, vogliatevi bene tra di voi! Volersi bene in Cristo. Saper vedere Gesù negli altri. L’amicizia può veramente cambiare il mondo. L’amicizia è una strada verso la pace.

Domanda 2 – Coraggio per scegliere

Santo Padre, mi chiamo Gaia, ho 19 anni e sono italiana. Questa sera tutti noi giovani qui presenti vorremmo parlarLe dei nostri sogni, speranze e dubbi. I nostri anni sono segnati dalle decisioni importanti che siamo chiamati a prendere per orientare la nostra vita futura. Tuttavia, per il clima di incertezza che ci circonda siamo tentati di rimandare e la paura per un futuro sconosciuto ci paralizza. Sappiamo che scegliere equivale a rinunciare a qualcosa e questo ci blocca, nonostante tutto percepiamo che la speranza indica obiettivi raggiungibili anche se segnati dalla precarietà del momento presente.
Santo Padre, le chiediamo: dove troviamo il coraggio per scegliere? Come possiamo essere coraggiosi e vivere l’avventura della libertà viva, compiendo scelte radicali e cariche di significato?

Grazie per questa domanda. La pregunta es ¿cómo encontrar la valentía para escoger? Where can we find the courage to choose and to make wise decisions? La scelta è un atto umano fondamentale. Osservandolo con attenzione, capiamo che non si tratta solo di scegliere qualcosa, ma di scegliere qualcuno. Quando scegliamo, in senso forte, decidiamo chi vogliamo diventare. La scelta per eccellenza, infatti, è la decisione per la nostra vita: quale uomo vuoi essere? Quale donna vuoi essere? Carissimi giovani, a scegliere si impara attraverso le prove della vita, e prima di tutto ricordando che noi siamo stati scelti. Tale memoria va esplorata ed educata. Abbiamo ricevuto la vita gratis, senza sceglierla! All’origine di noi stessi non c’è stata una nostra decisione, ma un amore che ci ha voluti. Nel corso dell’esistenza, si dimostra davvero amico chi ci aiuta a riconoscere e rinnovare questa grazia nelle scelte che siamo chiamati a prendere.
Cari giovani, avete detto bene: “scegliere significa anche rinunciare ad altro, e questo a volte ci blocca”. Per essere liberi, occorre partire dal fondamento stabile, dalla roccia che sostiene i nostri passi. Questa roccia è un amore che ci precede, ci sorprende e ci supera infinitamente: è l’amore di Dio. Perciò davanti a Lui la scelta diventa un giudizio che non toglie alcun bene, ma porta sempre al meglio.
Il coraggio per scegliere viene dall’amore, che Dio ci manifesta in Cristo. È Lui che ci ha amato con tutto sé stesso, salvando il mondo e mostrandoci così che il dono della vita è la via per realizzare la nostra persona. Per questo, l’incontro con Gesù corrisponde alle attese più profonde del nostro cuore, perché Gesù è l’Amore di Dio fatto uomo.
A riguardo, venticinque anni fa, proprio qui dove ci troviamo, San Giovanni Paolo II disse: «è Gesù che cercate quando sognate la felicità; è Lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è Lui la bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è Lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare» (Veglia di preghiera nella XV Giornata mondiale della Gioventù, 19 agosto 2000). La paura lascia allora spazio alla speranza, perché siamo certi che Dio porta a compimento ciò che inizia.
Riconosciamo la sua fedeltà nelle parole di chi ama davvero, perché è stato davvero amato. “Tu sei la mia vita, Signore”: è ciò che un sacerdote e una consacrata pronunciano pieni di gioia e di libertà. “Tu sei la mia vita, Signore”. “Accolgo te come mia sposa e come mio sposo”: è la frase che trasforma l’amore dell’uomo e della donna in segno efficace dell’amore di Dio nel matrimonio. Ecco scelte radicali, scelte piene di significato: il matrimonio, l’ordine sacro, e la consacrazione religiosa esprimono il dono di sé, libero e liberante, che ci rende davvero felici. E lì troviamo la felicità: quando impariamo a donare noi stessi, a donare la vita per gli altri.
Queste scelte danno senso alla nostra vita, trasformandola a immagine dell’Amore perfetto, che l’ha creata e redenta da ogni male, anche dalla morte. Dico questo stasera pensando a due ragazze, María, ventenne, spagnola, e Pascale, diciottenne, egiziana. Entrambe hanno scelto di venire a Roma per il Giubileo dei Giovani, e la morte le ha colte in questi giorni. Preghiamo insieme per loro; preghiamo anche per i loro familiari, i loro amici e le loro comunità. Gesù Risorto le accolga nella pace e nella gioia del suo Regno. E ancora vorrei chiedere le vostre preghiere per un altro amico, un ragazzo spagnolo, Ignacio Gonzalvez, che è stato ricoverato all’ospedale “Bambino Gesù”: preghiamo per lui, per la sua salute.
Trovate il coraggio di fare le scelte difficili e dire a Gesù: Tu sei la mia vita, Signore”. “Lord, You are my life”. Grazie.

Domanda 3 – Richiamo del bene e valore del silenzio

Santo Padre, mi chiamo Will. Ho 20 anni e vengo dagli stati Uniti. Vorrei farLe una domanda a nome di tanti giovani intorno a noi che desiderano, nei loro cuori, qualcosa di più profondo. Siamo attratti dalla vita interiore anche se a prima vista veniamo giudicati come una generazione superficiale e spensierata. Sentiamo nel profondo di noi stessi il richiamo al bello e al bene come fonte di verità. Il valore del silenzio come in questa Veglia ci affascina, anche se incute in alcuni momenti paura per il senso di vuoto.
Santo Padre, le chiedo: come possiamo incontrare veramente il Signore Risorto nella nostra vita ed essere sicuri della sua presenza anche in mezzo alle difficoltà e incertezze?

Proprio all’inizio del Documento con il quale ha indetto il Giubileo, Papa Francesco scrisse che «nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene» (Spes non confundit, 1). Dire “cuore”, nel linguaggio biblico, significa dire “coscienza”: poiché ogni persona desidera il bene nel suo cuore, da tale sorgente scaturisce la speranza di accoglierlo. Ma che cos’è il “bene”? Per rispondere a questa domanda, occorre un testimone: qualcuno che ci faccia del bene. Più ancora, occorre qualcuno che sia il nostro bene, ascoltando con amore il desiderio che freme nella nostra coscienza. Senza questi testimoni non saremmo nati, né saremmo cresciuti nel bene: come veri amici, essi sostengono il comune desiderio di bene, aiutandoci a realizzarlo nelle scelte di ogni giorno.
Carissimi giovani, l’amico che sempre accompagna la nostra coscienza è Gesù. Volete incontrare veramente il Signore Risorto? Ascoltate la sua parola, che è Vangelo di salvezza! Cercate la giustizia, rinnovando il modo di vivere, per costruire un mondo più umano! Servite il povero, testimoniando il bene che vorremmo sempre ricevere dal prossimo! Rimanete uniti con Gesù nell’Eucaristia. Adorate l’Eucarestia, fonte della vita eterna! Studiate, lavorate, amate secondo lo stile di Gesù, il Maestro buono che cammina sempre al nostro fianco.
Ad ogni passo, mentre cerchiamo il bene, chiediamogli: resta con noi, Signore (cfr Lc 24,29)! Resta con noi Signore! Resta con noi, perché senza di Te non possiamo fare quel bene che desideriamo. Tu vuoi il nostro bene; Tu, Signore, sei il nostro bene. Chi ti incontra, desidera che anche altri ii incontrino, perché la tua parola è luce più chiara di ogni stella, che illumina anche la notte più nera. Come amava ripetere Papa Benedetto XVI, chi crede, non è mai solo. Perciò incontriamo veramente Cristo nella Chiesa, cioè nella comunione di coloro che il Signore stesso riunisce attorno a sé per farsi incontro, lungo la storia, ad ogni uomo che sinceramente lo cerca. Quanto ha bisogno il mondo di missionari del Vangelo che siano testimoni di giustizia e di pace! Quanto ha bisogno il futuro di uomini e donne che siano testimoni di speranza! Ecco, carissimi giovani, il compito che il Signore Risorto ci consegna.
Sant’Agostino ha scritto: «L’uomo, una particella del tuo creato, o Dio, vuole lodarti. Sei Tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per Te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Te. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti e ti invochi credendoti» (Confessioni, I). Accostando questa invocazione alle vostre domande, vi affido una preghiera: “Grazie, Gesù, per averci raggiunto: il mio desiderio è quello di rimanere tra i Tuoi amici, perché, abbracciando Te, possa diventare compagno di cammino per chiunque mi incontrerà. Fa’, o Signore, che chi mi incontra, possa incontrare Te, pur attraverso i miei limiti, pur attraverso le mie fragilità”. Attraverso queste parole, il nostro dialogo continuerà ogni volta che guarderemo al Crocifisso: in Lui si incontreranno i nostri cuori. Ogni volta che adoriamo Cristo nell’Eucaristia, i nostri cuori si uniscono in Lui. Perseverate dunque nella fede con gioia e coraggio. E così possiamo dire: grazie Gesù per averci amati; grazie Gesù per averci chiamati. Resta con noi, Signore! Resta con noi!”.

Si può non fare

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Ho da poco terminato il libro “L’uomo oltre l’uomo. Per una critica teologica a transumanesimo e post-umano” di Tiziano Tosolini. La lettura è stata molto piacevole e stimolante. All’interno varie chicche. Ne riporto una, che in realtà è una citazione del filosofo italiano Giorgio Agamben dal suo libro Nudità:
“Paradossalmente la non accettazione della propria impotenza toglie all’uomo la sua vera e propria dignità: “impotenza” non significa qui soltanto assenza di potenza, non poter fare, ma anche e soprattutto “poter non fare”, poter non esercitare la propria potenza. Separato dalla sua impotenza, privato dell’esperienza di ciò che può non fare, l’uomo odierno si crede capace di tutto e ripete il suo gioviale “non c’è problema” e il suo irresponsabile “si può fare”, proprio quando dovrebbe invece rendersi conto di essere consegnato in misura inaudita a forze e processi su cui ha perduto ogni controllo. Egli è diventato cieco non delle sue capacità, ma delle sue incapacità, non di ciò che può fare, ma di ciò che non può, o può non, fare” (pag. 82).
Tecnologia, bioetica, politica, sport, lavoro, competitività … a tanti ambiti può essere riferito il testo sopra riportato. Buona riflessione.

Gemma n° 2749

“Questo è il primo anno che porto una gemma ed ero all’inizio molto indecisa su cosa portare. Ho deciso di portare il mio sport: la danza.
Io pratico un tipo di danza molto particolare che in tanti non conoscono e si chiama danza latino-americana.
Sono molto legata a questo sport perché è da 5 anni che lo pratico e mi ha insegnato che la perseveranza è sempre la risposta per ottenere risultati.
Da piccola, ero letteralmente incantata da questi bellissimi abiti indossati dai ballerini che mi sono imposta l’obiettivo di diventare anche io così e adesso posso dire di avercela fatta!
Ѐ emozionante salire sul palco davanti a tante persone per mostrare a tutti che sai ballare e, alla fine, prendersi gli applausi: una bella sensazione che ti fa guadagnare sicurezza e ti rende orgogliosa dei passi che hai esercitato a lungo.
Durante le gare, invece, sei molto nervoso perché è una competizione e hai paura di sbagliare, di andare fuori tempo, che ti cada l’acconciatura, che la musica si inceppi. Con il tempo, però, capisci che l’unica cosa che ti serve per ballare bene è la passione che ci metti.
Me lo dicono da quando sono piccola: la passione è tutto nella danza, perché con quella ti diverti e segui in modo più sciolto la musica.
Sono stata molto fortunata a trovare i migliori compagni e insegnanti che qualcuno potesse desiderare: loro ti supportano (e sopportano), ti fanno ridere e rilassare e non smettono mai di rialzarti se cadi.
Sicuramente ci sono stati alti e bassi, momenti sereni e di fatica, sudore e lacrime (e ancora ci saranno), ma ne è assolutamente valsa la pena perché sono orgogliosa del percorso che ho fatto, delle scelte che ho fatto, dello sport che faccio.
Ballare è qualcosa di liberatorio per me e non lo cambierei per nulla al mondo.
Ѐ la mia seconda casa e la mia seconda famiglia!”
(A. classe prima).

Tra determinismo e libero arbitrio

Immagine creata con ChatGPT®

Maddalena Feltrin è allieva della Scuola Superiore di Toppo Wassermann di Udine. Recupero un suo pezzo di un mese fa, scritto per Treccani. Il tema è di nuovo quello delle scelte, del libero arbitrio e del determinismo. Ci vuole un po’ di concentrazione, ma gli interrogativi che suscita sono numerosi e interessanti, così come le possibilità di approfondimento.“

Accettando l’analisi che viene proposta da alcuni neuroscienziati come J.D. Haynes e B. Libet, si è costretti all’ammissione di una visione deterministica del mondo, ossia la concezione della realtà per la quale tutti i fenomeni sono collegati l’un l’altro secondo un ordine necessario e invariabile. In altre parole, in natura, data una causa o una legge, può verificarsi soltanto un certo effetto o un particolare fenomeno e non un altro. Nell’Universo non c’è spazio per una variazione spontanea né per il perseguimento di una libera scelta.
Questa visione del mondo comporta degli effetti su molti aspetti del nostro approccio alla vita, ed è emblematico il caso della legislazione, che necessita di essere completamente rivista. La legge è, infatti, basata sull’idea che le persone siano responsabili delle loro azioni (tranne in eccezionali occasioni) ma, se ogni prassi umana è ricondotta a prevedibili schemi di risposta a degli stimoli, non si può più pensare di punire un uomo: egli, ontologicamente, non ha mai preso una vera decisione! Conseguentemente, la negazione del libero arbitrio mette in discussione l’esistenza stessa del sistema giuridico e di qualsiasi forma normativa.
Di fronte a questa conclusione, alcuni filosofi come T. Nagel, P. van Inwagen e C. McGinn ribadiscono l’importanza dell’intuizione della libertà. Essa è la condizione ineliminabile dei giudizi morali e lo stesso Haynes ammette come – non appena si comincia ad interpretare il comportamento delle altre persone – sia virtualmente impossibile credere che esse non stiano attivamente prendendo delle decisioni. Siamo, quindi, condannati a credere nella libertà, anche se abbiamo buone ragioni per pensare deterministicamente. Pertanto, dobbiamo – a loro detta – ammettere il paradosso di dover credere a qualcosa la cui esistenza sembra impossibile da provare: come scrive Inwagen, «il libero arbitrio sembra […] essere impossibile. Ma sembra anche che il libero arbitrio esista. Perciò l’impossibile sembra esistere».
Per rispondere a questa contraddizione, il biofisico H. Atlan recupera il senso di responsabilità del singolo in una visione deterministica con un confronto tra le neuroscienze e Dio. Egli, riprendendo la visione spinoziana della mente e del corpo intesi come aspetti diversi della stessa sostanza, sviluppa il suo pensiero a partire da un verso in un antico trattato ebraico, Capitoli dei padri 3:15 (Pirkei Avot, ndr): Tutto è previsto ma viene concesso il permesso [di scegliere];
e, successivamente, utilizza nella sua argomentazione un passo dal Salmo di Davide (Ps 141:4):
Non inclinare il mio cuore ad alcuna cosa malvagia,
per commettere azioni malvagie con i malfattori,
e fa che io non mangi delle loro delizie.

In questi passaggi delle Sacre Scritture, infatti, l’uomo non percepisce di aver determinato le proprie azioni, ma viene ugualmente definito responsabile di esse. Davide, infatti, sembra quasi accusare Dio di manipolazione o inclinazione perversa, implicitamente dichiarandolo ‘autore’ delle sue azioni malvagie – ma ciò è impossibile, in quanto all’Altissimo non può essere attribuito alcun atto ingiusto. La spiegazione teologica che viene data in risposta a questo paradosso è la stessa che si può utilizzare per recuperare il senso di responsabilità in una visione deterministica su base scientifica: dal momento che la libertà di scelta è puramente un’illusione, gli uomini possono solamente osservare l’agire di una forza esterna nel loro stesso corpo. Contemporaneamente, tuttavia, sono ritenuti imputabili di qualsiasi loro pensiero e gesto in quanto essi stessi si illudono di poter scegliere. Inoltre, non sarebbe possibile giudicare moralmente un agente non umano (che sia Dio o la legge di natura delle cose): la preghiera del re di Israele non è una critica morale all’Onnipotente, ma è una supplica che semplicemente riflette il modo con cui Dio opera e ‘funziona’. Le azioni divine non sono il risultato di una scelta etica, ma sono un modo di essere. Il senso di responsabilità implicato nelle nostre azioni è qualcosa che appartiene alla nostra logica, e che ha senso solamente se si mantiene separato dal concetto di determinismo neurale. Anche se la possibilità di scelta, in senso assoluto, potrebbe essere un’illusione, il concetto di responsabilità è perfettamente reale.
Questi due piani possono essere distinti più facilmente nella lingua inglese, che distingue tra consciousness e conscience: con la prima si intende ‘coscienza di sé, consapevolezza di esser vivi’, con la seconda invece la sensibilità etica dell’individuo. Conseguentemente, si può mantenere una responsabilità per ciò che accade attraverso il proprio corpo, indipendentemente dal controllo della consciousness (riservato a Dio, o al naturale corso degli eventi), ma nella loro piena acquiescenza in una fase di conscience. Tuttavia, il concetto rimane per noi sfuggente e difficile da accettare in quanto queste due funzioni, nei fatti, operano come un unico sistema integrato e con assoluta interdipendenza tra le parti.”

Gemma n° 2741

“Quest’anno ho scelto come gemma una foto della mia squadra di pallavolo. I motivi sono tanti. In primis la pallavolo è uno sport che fa parte della mia vita da anni e che mi lega molto a mio padre: infatti anche lui è appassionato di questo sport e lo pratica ancora. Quando ero bambina, lui passava il tempo a lanciarmi la palla e insegnarmi a prenderla al volo, ed era uno dei miei giochi preferiti. Quest’anno in particolare la pallavolo mi ha dato tanto perché non faccio parte di un semplice gruppo ma di una vera squadra, in cui ho trovato amicizia, supporto, divertimento e motivazione per dare il massimo. Così gli allenamenti sono diventati un momento in cui liberare la mente dai problemi e concentrarmi sul giocare al meglio” (G. classe quinta).

Gemma n° 2694

“La mia gemma, quest’anno, è aver ritrovato me stessa attraverso la danza.
Dopo un lungo periodo in cui per ragioni di salute non mi era stato possibile ballare, il mio corpo ha potuto nuovamente muovere i suoi passi verso la felicità.
Sento che la danza va ben oltre la coreografia e la tecnica. Mi permette di esprimermi senza bisogno di parole e di affrontare stress, ansia e tristezza, trasformandoli in energia positiva.
E’ un modo per connettermi alla parte più profonda di me, di incontrare gli altri, di creare legami e condividere esperienze.
“In choreis, anima libertatem invenit”, “Nella danza, l’anima trova la libertà”. Questa frase descrive a pieno come mi sento quando salgo sul palco: leggera.
Il corpo si muove sulla musica, finalmente libero da ogni vincolo e libero di esprimere la forza e l’essenza di quello che sono. La danza regala la libertà più grande che possa esistere: mostrare la persona che si è senza inibizioni, fragilità e paure. La danza é stata la mia piú grande passione fin da quando ero piccola, mi fa sentire viva”.
(E. classe seconda).

Gemma n° 2610

“Quest’anno ho deciso di portare come gemma una foto di me bambina, quella del mio primo saggio di danza. Come si può vedere dalla mia espressione, ero davvero felice, e questa immagine rappresenta perfettamente come mi sento quando ballo. La danza è sempre stata una parte fondamentale di me, il mio posto sicuro, il luogo dove il mondo intorno smette di esistere. Fin da piccola, quando sentivo la musica, tutto diventava più chiaro; potevo chiudere gli occhi e sentire che, attraverso la danza, potevo essere me stessa, senza paura e senza giudizio. A tre anni, ricordo che dissi a mia madre che volevo fare “il ballo delle danze”. Inizialmente, era solo un modo per divertirmi e stare con le mie amiche, ma col passare del tempo è diventato il mio rifugio. Quando ero triste, ballare mi aiutava a liberarmi; quando ero felice, era il mio modo di esprimere una gioia che non riuscivo a contenere. Con il tempo, ho capito che la danza non era solo un passatempo: era il mio linguaggio segreto, quello che mi permetteva di raccontare chi ero, anche quando le parole non ci riuscivano. Negli ultimi anni, mi rendo conto di quanto sia importante nella mia vita, soprattutto quando iniziano ad accumularsi i problemi e le paranoie. Quando ballo, riesco a dimenticarmi di tutto, come se i problemi non esistano più per quel lasso di tempo. Mi ha insegnato ad ascoltare il mio cuore e a fidarmi di ciò che sento. È la mia compagnia più fedele, il posto dove tornare ogni volta che ho bisogno di ritrovarmi” (B. classe terza).

Gemma n° 2595

“Come gemma quest’anno ho deciso di portare qualcosa di speciale che ho sempre tenuto per me e che mi ha sempre fatto stare bene: cantare. Questa cosa non l’ho mai detta a nessuno tranne che alla mia vicina di casa e cara amica che ha condiviso questa passione con me cantando insieme. Sento che ogni volta che canto vedo le cose in maniera diversa e forse a colori. Mi sento libera di esprimermi in tutti i modi possibili che ho e in me nasce sempre una vitalità tale da non voler smettere. Il tempo sembra fermarsi e ascoltando la mia voce riesco a calmarmi e smettere di pensare. Ho deciso di portare la mia canzone preferita: Video Games di Lana Del Rey (E. classe quinta).

Gemma n° 2582

“Come gemma ho deciso di portare sia il mio scooter che la mia moto. A primo impatto per qualcuno possono sembrare dei semplici pezzi di plastica e metallo messi insieme, però per me sono due mezzi importanti ed hanno un forte significato: lo scooter, il ciack per chi se ne intende, per quanto sia un mezzo modesto e non troppo veloce, è stato il primo motore che mi abbia mai portato in giro ed è stato molto emozionante, oltre al sentimento di libertà, quando i giri motore salivano. Il cuore si cercava di sincronizzare eravamo una cosa unica, infatti ora mi riferisco a lui come fosse una persona. Per quanto riguarda la moto è stato molto più lento il processo, ma già in concessionaria è stato amore a prima vista, l’ho provata 4 mesi dopo averla comprata però è stato veramente incredibile: non sapevo come staccare la frizione, ho imparato che bisogna ascoltare molto la moto, è una conversazione tra pilota e veicolo. La prima volta che ho provato ad utilizzarla su strada mi sono reso conto di come sia stupenda la moto: con l’andare ovviamente i giri motore salivano e dovevo scalare le marce. Sentire il motore che ti dice quando salire è proprio bello, e succede perché è la moto stessa a dirti cosa vuole e come si sente, tu devi solo mostrarle la via e accontentarla, un pilota ama sempre la sua moto, veloce o lenta che sia. Inoltre vorrei aggiungere che, lo so che non si dovrebbe guidare con uno stato psicofisico alterato, però, quando sei arrabbiato o turbato o anche semplicemente infastidito e prendi la moto ti tranquillizza: il rumore del motore sopprime i pensieri; l’acceleratore accetta la tua rabbia; i freni ascoltano le tue paure e lo scarico fa uscire i pensieri negativi. Mi è capitato un paio di volte sia in motorino che in moto, che non vedevo dritto, ero arrabbiato, annebbiato dalla rabbia e ho preso la moto: sono stato fuori mezz’ora e mi sono calmato del tutto, ho lasciato che i miei pensieri venissero lasciati dietro di me dallo scarico” (A. classe terza).

Gemma n° 2549

Immagine creata con ChatGPT®

“La gemma di quest’anno è la mia estate. È stata una delle migliori estati fino ad ora, soprattutto per quanto riguarda la crescita personale e la responsabilità. Ho lavorato tutta l’estate e continuo tutt’ora a fare la cameriera. Sentivo il bisogno e la curiosità di sapere cosa si prova a lavorare e a sentirmi più indipendente finanziariamente. Ora posso essere libera di spendere i soldi come mi pare senza sentirmi in colpa per chiederne troppi ai miei genitori.
Inoltre ho imparato a relazionarmi con i clienti e a stare dietro alle loro esigenze (non tutti sono cortesi), e con i colleghi di lavoro.
Allo stesso tempo, nonostante lavorassi molto, sono riuscita spesso ad uscire con i miei amici, a divertirmi e a fare nuove esperienze con loro.
Ho cercato di organizzare il tempo al meglio.
Dopo quest’estate ho capito che sto veramente crescendo e che sto entrando nel mondo adulto, cosa che un po’ mi spaventa ma prima o poi doveva succedere”
(G. classe quinta).