“Come gemma non ho voluto portare alcun oggetto, ma un’esperienza di quest’estate in ospedale. E’ un mercoledì, sono in un disco bar e ho bevuto un bicchiere di prosecco, ho un leggero mal di testa, ma nella norma. Durante la serata però va aumentando e si aggiungono dei giramenti di testa. Penso sia l’alcol, nonostante una certa meraviglia perché convinta di reggere un po’ di più. Ad un certo punto inizio a cadere da un lato; la cosa diventa alquanto imbarazzante, tutti mi fissano come fossi ubriaca. Mi cedono persino le gambe. Il giorno dopo, la cosa non si è risolta e i miei mi accompagnano in pronto soccorso: ci sono già andata, e come le altre volte, mi aspetto solo una ricetta o una medicina. Invece i medici dicono a mia mamma che devo restare in ospedale. Mia mamma è tedesca e sul momento non capisce, quindi resta in silenzio. Rimango in ospedale 7 giorni. Il giorno dopo il ricovero sarei dovuta partire per un viaggio in Sicilia. Invece il mio viaggio ha cambiato meta e itinerario. Ma anche questa esperienza, come tutti i viaggi mi ha portato qualcosa. In questi momenti ti rendi conto dei momenti belli. Sono uscita all’ospedale e la prima cosa che ho apprezzato è stata il sole. A volte diamo per scontate troppe cose.” Questa è stata la gemma di V. (classe quinta).
Penso che questa gemma rappresenti il senso di questo lavoro sulle gemme: fermarsi un attimo, appuntarsi una cosa che si sta vivendo, che si vede, si ascolta o si conosce, e decidere di farle spazio dentro di noi in modo che vi resti. E magari regalarla agli altri; magari a loro non farà lo stesso effetto, ma… non si sa mai…
Gemme n° 268
“Arrivo a casa e getto lo zaino per terra, è finita un’altra giornata… “come è andata la visita sportiva xxx, faticato?” è una di quelle domande che fai per educazione, per fare conversazione: tanto l’idoneità la danno sempre, a tutti, sempre.
Mamma è seria, ma non seria da arrabbiata perché la mia camera è un disastro; ha il viso abbattuto di chi si fa un sacco di domande “allora come è andata questa visita?” insisto “Ha la scoliosi, xxx ha la scoliosi”. Aspetta, faccio mente locale, anche yyy ha la scoliosi, ha la schiena un po’ storta ma finisce qui. “Oddio, ma..ma quindi cioè non cambia niente?”. “Il medico non se la sente di darle l’idoneità, bisogna fare altre visite, si vedrà”.
E’ febbraio 2015 quando scopriamo che xxx, mia sorella, ha la scoliosi ossia un problema alla schiena.
È maggio, poche ore e i miei genitori torneranno a casa, con il verdetto, continuerà o no ginnastica?
Peccato, peccato perché c’era dell’altro, molto altro, e io di lì a poco lo avrei scoperto.
“Quindi?” scendo in cucina appena sento la chiave muoversi nella serratura.. Ho visto una sola volta papà davvero serio in tutta la mia vita ed è stato quel pomeriggio, non sapevo a cosa pensasse, non capivo perché tanta tristezza nei loro occhi… “xxx deve mettere il busto” arriva fredda come la doccia delle spiagge in estate, dura come lo spigolo del tavolo sul mignolo, è la batosta alla quale non sono pronta, quella che avevo letto sui blog ma avevo ritenuto “casi speciali”, quella che “xxx non metterà mai quella roba, lei è un caso meno grave” e invece no, xxx aveva un inclinazione della colonna vertebrale di già __ gradi, il che era gravissimo.
In 15 anni sono sempre riuscita a schivare le brutte notizie i piccoli problemi che mi si presentavano, ma quella volta era diverso, non c’era il piano B, non c’era un’uscita di sicurezza, era così e basta e a me le cose così e basta non piacevano.
Nelle parole della mamma c’era l’amaro di chi non vuole farsene una ragione, quell’orribile senso di colpa che si teneva addosso, si sentiva responsabile, e poi in fondo c’era la rabbia per non averlo scoperto prima, per non poterlo evitare.
Così salgo in camera, mi chiudo e torno su quel dannatissimo blog, e leggo fino ad aver finito le lacrime, fino ad addormentarmi.
Avete presente gli incubi, quelli in cui ti svegli e capisci che era tutto un sogno, che grazie al cielo era finito tutto? mi sarebbe piaciuto davvero tanto credere che anche quel pomeriggio di maggio fosse solo stato un brutto sogno.
xxx non l’aveva presa male, non le pesava tanto, certo era meglio non averlo ma non aveva pianto, urlato o cose simili, lo aveva messo ed era arrivata a casa con quello che lei ha chiamato jeansetto; è un busto in una speciale plastica leggera color jeans, perché secondo lei è molto più carino e alla moda. xxx lo indossa 20 ore al giorno, ci dorme e soprattutto ci va a scuola, gli amici le hanno fatto mille domande all’inizio, le hanno chiesto di toccarlo e di mostrarlo e lei, lei è spensierata e tranquilla, lo mostra con orgoglio e si diverte pure.
A volte mi capita di pensare a qualcuno che un giorno mi chieda di esprimere tre desideri, me ne basterebbe anche solo uno e sarebbe eliminare questo problema, ridarle la totale libertà.
La cosa che mi fa più male è sentirla dire “questo non lo posso mettere perché si vede sotto il busto” odio sentirla parlare così, non lo merita.
La mamma le ha insegnato che “jeansetto” la rende forte e indistruttibile che si può difendere dagli amici dispettosi, che avrà sempre la pancia piatta e che in inverno non avrà mai freddo. Cose così la rendono forte, le fanno capire che le prese in giro sono inutili.
Il medico disse una cosa quel pomeriggio “la sua vita cambierà radicalmente perché dipenderà totalmente dal busto” una frase così oltre che angosciante è anche totalmente falsa, xxx fa quello che vuole con o senza busto e soprattutto vive come vuole, con o senza busto.
Sono fiera di lei, e non smetterò mai di esserlo, sono fiera per la sua forza, per la determinazione con cui non sgarra, perché se lo tiene un’ora in meno si sente in colpa e soprattutto sono fiera della sua spensieratezza di chi guarda le cose con positività, a lei che è la più grande certezza della mia vita.”
Questa è la gemma con cui A. (classe seconda) ha voluto parlare di sua sorella. E ci ha fatto un grande regalo parlando di coraggio, di paura e di speranza. Sant’Agostino diceva “La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle”. Anche guardare le cose in modo diverso dal previsto è cercare di cambiarle. E ci vuole coraggio.
La malattia di Lucien
Mentre leggo appunto a inizio libro il numero delle pagine in cui ho trovato un passo per me rilevante. Poi, con calma, a distanza di tempo, ricopio quelle citazioni su dei quadernetti. Oggi mi sono imbattuto in un passo de “L’eleganza del riccio” che parla di malattia e morte. Sono esperienze sempre fortemente soggettive e il modo in cui le viviamo è condizionato da tantissimi aspetti, dal periodo in cui le si vive, alla frequenza con cui le attraversiamo e così via. Mi sono ritrovato molto soprattutto con le sensazioni descritte nella prima parte.
“Nel Natale del 1989 Lucien era molto malato. Non sapevamo ancora quando sarebbe arrivata la morte, ma eravamo legati dalla certezza della sua imminenza, legati dentro noi stessi e legati l’un l’altro da questo vincolo invisibile. Quando la malattia entra in una casa non si impossessa soltanto di un corpo, ma tesse tra i cuori un’ oscura rete che seppellisce la speranza. Come una ragnatela che avvolgeva i nostri progetti e il nostro respiro, giorno dopo giorno la malattia inghiottiva la nostra vita. Quando rincasavo, avevo la sensazione di entrare in un sepolcro e avevo sempre freddo, un freddo che niente riusciva a mitigare, al punto che negli ultimi tempi, quando dormivo al fianco di Lucien, mi sembrava che il suo corpo assorbisse tutto il calore che il mio era riuscito a trafugare altrove.
La malattia, diagnosticata nella primavera del 1988, lo consumò per diciassette mesi e se lo portò via la vigilia di Natale. L’anziana madame Meurisse organizzò una colletta tra gli abitanti del palazzo e in guardiola fu deposta una bella corona di fiori, cinta da un nastro senza nessuna dedica. Alle esequie venne solo lei. (…)
Nessuno considerò la malattia di Lucien una cosa degna di interesse. Magari i ricchi pensano che la gente modesta, forse perché ha una vita rarefatta, priva dell’ossigeno del denaro e del savoir-faire, vive le emozioni umane con scarsa intensità e maggiore indifferenza. Essendo portinai, era acquisito che per noi la morte fosse un evento scontato, nell’ordine delle cose, mentre per i possidenti essa avrebbe rivestito gli abiti dell’ingiustizia e del dramma. Un portinaio che si spegne è un piccolo vuoto nello scorrere della vita quotidiana, una certezza biologica a cui non è associata nessuna tragedia. Per i proprietari che lo incrociavano ogni giorno per le scale o sulla soglia della guardiola, Lucien era una non-esistenza che tornava al nulla da cui non era mai uscito, un animale che, vivendo una vita a metà senza fasti né artifici, al momento della morte doveva senz’altro provare solo un senso di ribellione a metà. Da queste parti, a nessuno poteva mai venire in mente che, come ogni altro, anche noi potessimo passare le pene dell’inferno, e che con il cuore stretto dalla rabbia man mano che il dolore ci devastava l’esistenza, fossimo sopraffatti dalla cancrena interiore, nel tumulto della paura e dell’orrore che la morte infonde in ognuno.”
(Mauriel Barbery, L’eleganza del riccio, Edizioni e/o, Roma 2009, pagg. 65-66)
Gemme n° 171
“Ho portato come gemma il ciondolino regalatomi da mia nonna, che è ammalata di tumore. Pur sentendola poco, la sento molto vicina; pur non avendo ricevuto molta speranza dai medici, lei mi ha insegnato quanto sia importante lottare. Mi dà forza e mi fa capire che tutti gli ostacoli si possono superare, o quanto meno relativizzare”. Con queste parole S. (classe seconda) ha presentato il proprio lavoro ai compagni di classe.
Affermava Pier Paolo Pasolini: “La mia è una visione apocalittica. Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare.”
Il giorno di dolore che uno ha
IL GIORNO DI DOLORE CHE UNO HA (Ligabue, Secondo tempo)
Quando tutte le parole sai che non ti servon più
quando sudi il tuo coraggio per non startene laggiù
quando tiri in mezzo Dio o il destino o chissà che
che nessuno se lo spiega perché sia successo a te
quando tira un po’ di vento che ci si rialza un po’
e la vita è un po’ più forte del tuo dirle “grazie no”
quando sembra tutto fermo la tua ruota girerà.
Sopra il giorno di dolore che uno ha.
Tu tu tu tu tu tu…
Quando indietro non si torna quando l’hai capito che
che la vita non è giusta come la vorresti te
quando farsi una ragione vorrà dire vivere
te l’han detto tutti quanti che per loro è facile
quando batte un po’ di sole dove ci contavi un po’
e la vita è un po’ più forte del tuo dirle “ancora no”
quando la ferita brucia la tua pelle si farà.
Sopra il giorno di dolore che uno ha.
Tu tu tu tu tu tu tu tu tu…
Quando il cuore senza un pezzo il suo ritmo prenderà
quando l’aria che fa il giro i tuoi polmoni beccherà
quando questa merda intorno sempre merda resterà
riconoscerai l’odore perché questa è la realtà
quando la tua sveglia suona e tu ti chiederai che or’è
che la vita è sempre forte molto più che facile
quando sposti appena il piede lì il tuo tempo crescerà
Sopra il giorno di dolore che uno ha
Tu tu tu tu tu tu tu tu tu…
La canzone è stata dedicata da Luciano Ligabue al giornalista Stefano Ronzani, morto a causa della leucemia: “si ammalò gravemente e ci fu un momento della sua malattia in cui capii che le lunghissime chiacchierate sul farsi forza, sul darsi speranza, sul combattere in qualche modo il suo male in realtà avevano perso significato… Provai allora a comunicargli questa cosa nella maniera che la fortuna o il caso o qualcuno ha deciso che, tutto sommato, con me funziona: una canzone… Quindi in maniera, se vuoi, anche patetica, per il suo compleanno gli feci avere questo brano, totalmente riscritto rispetto all’originale. La canzone gli servì; mi raccontò che l’aveva aiutato ad aprire dei rubinetti che aveva bisogno di aprire. Poi era un critico musicale e vide la cosa pure sotto un altro profilo. “Questa canzone è troppo bella perché resti dentro un nastrino. Non ha senso che rimanga fra me e te, pubblicala”. Devo dire che sono molto contento del successo che ha avuto, proprio per la storia che c’è dietro.” (da “Vivere a orecchio”)
La situazione descritta, quindi, è quella di una persona gravemente ammalata per la quale non ci sono più parole per dare spiegazioni e per infondere coraggio: anzi, il coraggio più grande è quello che serve per cercare di risollevarsi e non stare nella disperazione. E’ inevitabile chiedersi perché sia capitato qualcosa di cui non si può attribuire la colpa ad alcuno: magari si possono tirare in ballo Dio, o il destino o altro. La vita sembra ingiusta rispetto ai criteri personali ed è evidente che non è possibile tornare indietro: già farsene una ragione diventa un’ottima cosa e permette di vivere più serenamente. E allora si riescono a vedere anche dei momenti migliori:
– il vento si mette a soffiare e ci aiuta a sollevarci e magari a non dire “grazie, no” alla vita
– il sole si fa largo tra le nubi e getta i propri raggi proprio là dove è più necessario per noi
– la ferita brucia, ma il dolore è il segno che la pelle sotto è viva, pulsa e si sta ricreando
– il cuore, benché ferito perché azzoppato, riesce a prendere un suo ritmo e a farci ballare
– l’aria gira e soffia un po’ di aria pulita nei nostri polmoni
– c’è la consapevolezza che la vita non è facile, ma è sicuramente forte e magari basta spostare un po’ il piede (dall’acceleratore?) per guadagnare un po’ di tempo.
Le rose blu
https://www.youtube.com/watch?v=0oMJ23Z9H8c
LE ROSE BLU (Roberto Vecchioni, Di rabbia e di stelle)
Vedi, darti la vita in cambio sarebbe troppo facile,
tanto la vita è tua e quando ti gira la puoi riprendere;
io, posso darti chi sono, sono stato o chi sarò,
per quello che sai, e quello che io so.
Io ti darò tutto quello che ho sognato, tutto quello che ho cantato,
tutto quello che ho perduto, tutto quello che ho vissuto,
tutto quello che vivrò,
e ti darò ogni alba, ogni tramonto, il suo viso in quel momento
il silenzio della sera e mio padre che tornava io ti darò.
Io ti darò il mio primo giorno a scuola, l’aquilone che volava
il suo bacio che iniziava, il suo bacio che moriva io ti darò,
e ancora sai, le vigilie di Natale quando bigi e ti va male,
le risate degli amici, gli anni, quelli più felici io ti darò.
Io ti darò tutti i giorni che ho alzato i pugni al cielo
e ti ho pregato, Signore, bestemmiandoti perché non ti vedevo,
e ti darò la dolcezza infinita di mia madre,
di mia madre finita al volo nel silenzio di un passero che cade,
e ti darò la gioia delle notti passate con il cuore in gola,
quando riuscivo finalmente a far ridere e piangere una parola…
Vedi, darti solo la vita sarebbe troppo facile
perché la vita è niente senza quello che hai da vivere;
e allora, fa che non l’abbia vissuta neanche un po’,
per quello che tu sai, e quello che io so.
Fa che io sia un vigliacco e un assassino, un anonimo cretino,
una pianta, un verme, un fiato dentro un flauto che è sfiatato
e così sarò, così sarò,
non avrò mai visto il mare non avrò fatto l’amore,
scritto niente sui miei fogli, visto nascere i miei figli che non avrò.
Dimenticherò quante volte ho creduto e ho amato, sai,
come se non avessi amato mai,
mi perderò in una notte d’estate che non ci sono più stelle,
in una notte di pioggia sottile che non potrà bagnare la mia pelle,
e non saprò sentire la bellezza che ti mette nel cuore la poesia
perché questa vita adesso, quella vita non è più la mia.
Ma tu dammi in cambio le sue rose blu
fagliele rifiorire le sue rose blu
Tu ridagli indietro le sue rose blu.
Sono tre i personaggi di questo brano: chi parla, Dio e un lui che compare solo negli ultimi tre versi della canzone. E’ una preghiera, una richiesta che Vecchioni pone a Dio, un’offerta. Dare la vita non sarebbe difficile, non sarebbe neppure un regalo visto che è stato Dio a darla all’uomo (“tanto la vita è tua e quando ti gira la puoi riprendere”). Quello che il cantante vuol dare a Dio è la sua esistenza, è quello che lui ha vissuto e che vivrà, le sue esperienze, i suoi sogni, le sue canzoni, i suoi ricordi del padre e della madre, i suoi amori, i suoi rapporti, i suoi affetti, i suoi dolori, i giorni della ribellione… Senza queste cose la vita sarebbe nulla a pertanto sarebbe anche facile darla a Dio. Senza queste cose l’uomo si svuoterebbe di senso, il “fiato dentro a un flauto sfiatato”. Allora l’offerta è davvero grande, importante, preziosa, l’unica offerta che un uomo può fare per cercare di ottenere qualcosa di importante da Dio, addirittura qualcosa che non si potrebbe neppure ottenere (le rose blu in natura non esistono…).
Spiega Vecchioni: “Adesso farò una cosa che non è nemmeno una canzone… è molto di più… ed è una cosa nata in un momento di grande sofferenza nella vita di uno dei miei figli. Non credo che esista al mondo un dolore più grande di vedere soffrire una persona che si ama, soprattutto se è un figlio. Te ne stai lì, ti chiudi, il sangue che scorre, i nervi si accavallano, i muscoli fermi. E allora mandi una preghiera che sembra una bestemmia, o una bestemmia che sembra una preghiera, all’unica cosa che pensi che ti possa ascoltare, che poi si chiama Dio… E devi dare a Dio tantissimo per avere in cambio qualcosa per tuo figlio, non gli puoi dare in cambio solo la vita, è troppo facile… e allora gli dai in cambio tutto quello che hai vissuto, che è differente, come se non avessi mai amato, mai sognato, mai cantato, mai visto una donna, mai visto un bambino, mai visto la Primavera, mai visto il mare, come se non fossi mai nato oppure fossi nato ma come un lombrico, un verme, una schifezza di essere. E gli chiedi in cambio, per questo dare via tutto, quell’altra cosa. Perché arriva un momento che non te ne frega niente della bellezza della poesia, dei sogni e di tutte le piccole cose importanti che hanno fatto la tua esistenza”.
Gemma n° 65
Non pubblico la gemma di C. (classe seconda) in quanto si tratta di una foto privata: “Ho portato l’unica foto con mio nonno che se n’è andato questa estate, il 23 agosto, dopo un anno e mezzo di malattia. Per me, avendo passato l’infanzia con lui, è come un padre e l’ho assistito fino alla fine. Questa foto è stata scattata in Slovenia, all’ultimo pranzo fatto in famiglia.”
Dice Alex Haley: “Nessuno può fare per i bambini quel che fanno i nonni: essi spargono polvere di stelle sulla vita dei più piccoli.”
Happy
Prima ho pubblicato un post sulla felicità quotidiana. Quando mia moglie è tornata dal lavoro glielo ho mostrato e lei mi ha detto “Aspetta, guarda questo!”
FANTASTICO ED EMOZIONANTE!
“… è lontana, punto!”
Una notizia che ho letto ieri sera su Internazionale. La roporto pensando a Chiara: il titolo è praticamente suo.
“L’epidemia di febbre emorragica che ha colpito la Guinea è di una gravità senza precedenti, visto che molti dei casi registrati sono stati ufficialmente attributi al virus ebola e in particolare al ceppo Zaire, il più pericoloso. Lo ha confermato il presidente Alpha Condé in un discorso tenuto domenica sera in tv alla nazione, in cui ha parlato di 116 persone contagiate, di cui 72 già morte.
Che la situazione nel paese sia molto grave lo ha confermato anche il coordinatore di Medici organizzazione senza frontiere, secondo cui i morti per ebola confermati sono almeno 22.
Secondo il ministero della sanità guineano, la metà dei campioni positivi al virus è a Conakry, la capitale, e l’altra metà in due città del sud: Guékédou e Macenta. Altri casi sospetti, alcuni fatali , sono stati registrati in Liberia e Sierra Leone, che confinano con la Guinea.
Intanto le autorità della Guinea, l’Organizzazione mondiale per la sanità e Medici senza frontiere continuano a cercare di arginare la diffusione dell’epidemia.
Il virus si manifesta con febbre alta, diarrea, vomito, affaticamento e talvolta emorragie. Con un tasso di mortalità del 90 per cento è uno dei virus più contagiosi e letali per l’essere umano, dato che non è stata ancora trovata una cura. Si trasmette attraverso il sangue, i liquidi biologici e alcuni tessuti di persone o animali infetti. Dal 29 marzo alcuni ricercatori italiani dell’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma sono in Guinea per aiutare a identificare l’origine dei casi di febbre emorragica.
È la prima volta che ebola – già presente nella Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Gabon o Sud Sudan – è segnalato in Guinea.”
Su I discutibili si legge:
“Due anni fa, quando ero in Africa (in Tanzania, per la precisione), vi fu un’epidemia di ebola relativamente piccola nella confinante Uganda.
“Relativamente piccola”…. come dire…. Ancora aldilà del confine e sufficientemente distante da dormire la notte. Ma, credeteci, non era affatto simpatico. Né io avevo la prontezza di spirito di J. che, nonostante la diffusione del virus voleva andare a far rafting sulle sorgenti del Nilo: “è controllata“, diceva.
Allora, per mia fortuna, i media nazionali non si preoccuparono affatto della vicenda. Per mia fortuna, perché se i miei genitori l’avessero saputo mi avrebbero tartassato di domande inquiete.
Oggi come allora in Italia non se ne parla.
“Un virus spettacolare“, così lo descrive ancora oggi il suo scopritore, Peter Piot. Purtroppo. Un virus difficile da distinguere; per il quale non esistono cure specifiche, né vaccini; facilmente trasmissibile tramite tutti i fluidi corporei, anche da animali. Inizialmente si è sospettato che il virus fosse trasmesso da animali quali i gorilla. Ora si indaga sui pipistrelli. Quindi, l’ebola di diffonde soprattutto nelle aree rurali, prossime alle foreste.
Un virus che nel suo ceppo peggiore (lo “Zaire“) ha una mortalità di circa il 90%.
Orbene, da qualche tempo è in corso un’epidemia di ebola in Africa Occidentale. La prima dal 1994. Soprattutto in Guinea, ma le notizie riportano di alcuni casi anche in Sierra Leone e Liberia.
Come dice Piot “è frustrante”, perché dopo anni di ricerche ancora non si conosce l’esatta trasmissione del virus e perché contenerlo potrebbe esser relativamente facile, rispettando normali misure d’igiene. Ma in un paese poverissimo come la Guinea, le autorità hanno impiegato sei settimane ad identificare il virus dalla prima diffusione delle febbri emoraggiche.
Le ultime notizie dalla Guinea riportano che sarebbe arrivata nelle aree urbane della capitale Conakry. Città piena di bidonvilles.
I ministri riuniti al meeting ECOWAS hanno già denunciato l’epidemia in corso come “una grave minaccia alla sicurezza regionale”. Con stime di 72 morti su 116 infettati, decisamente lo è: la Mauritania ha già predisposto misure per limitare la circolazione delle persone; la Guinea ha vietato di consumare carne di pipistrello (sarà efficace?) ed i funerali; la compagnia aerea Gambia Bird ha limitato i voli su Conakry”
Vorrei sbrigarmi a uscire dalla vergogna
Sotto Natale ho letto in un boccone “Tutto torna” di Giulia Carcasi. L’inizio per me è stato fulminante, una scossa perché qualche anno fa ho scritto un breve racconto simile al suo incipit. E mi è tornata in mente Anna, mia nonna, e il pensiero oggi va a lei, lassù…
“Il mio bambino, non trovo il mio bambino,”grida una donna, s’aggrappa a chi passa.
Le chiedono: calma, cos’è successo.
Il bambino vuole camminare senza essere tenuto per mano, certe volte s’impunta così tanto che lei lo lascia fare, ma lo segue con lo sguardo, sta attenta. È stato un attimo, giura, un battito di ciglia e il bambino non c’era più. Maledice se stessa.
Le chiedono com’è fatto, quanti anni ha, come si chiama.
È un bambino sensibile al buio, risponde, come bastasse a riconoscerlo tra mille, di notte vuole la luce accesa sennò non s’addormenta. Gesù, se il bambino sta al buio è capace che impazzisce. Lei ha paura soltanto al pensiero che lui possa averne, nessuno in una vita intera, nessuno potrà arrivare a conoscerlo come lei lo ha conosciuto subito da subito, sentirlo come lei fa. Si piega sulle ginocchia e nello spavento si culla.
Quando vedo la folla intorno e lei al centro, porca puttana penso.
Un poliziotto chiede a tutti di stare indietro: un bambino è stato rapito. Mi faccio avanti e dico quello che devo.
“Questa favola la racconterà in commissariato,” m’interrompe l’agente appena inizio a spiegargli: ha il sospetto che io stia tentando d’intralciare o, addirittura, depistare le indagini.
“I documenti,” vuole, intanto guarda lei e ciecamente le promette giustizia.
“I documenti,” ripete mentre li sto cercando e penso che è assurdo: a un’emozione si crede, la verità ha bisogno di prove.
“Non li trova?” insinua, allora gli domando se anche a lei li ha chiesti.
“Le domande le faccio io,” mette in chiaro il poliziotto: non li ha chiesti.
Da una cartella tiro fuori i documenti, i miei e quelli di lei, l’agente li controlla con la faccia di uno che ha mischiato giorno e notte. “Prenda la signora e se ne vada,” mi avverte: che non accada più, come se lei e io avessimo scelta.
Provo ad alzarla da terra, mi scaccia, io la scacciavo quando voleva tenermi per mano. “Mi lasci”, non si muoverà da quel punto finché non ritrovano suo figlio.
Mi avvicino ancora, le parlo sottovoce, è un segreto nostro: il poliziotto mi ha detto che il bambino è in salvo, lo riporteranno direttamente a casa, dobbiamo andare a casa ad aspettarlo, altrimenti busserà alla porta e non la troverà.
“Dice davvero?”
C’è un istante, ogni volta che non mi riconosce, un tempo minuscolo e immenso in cui anche io dubito di me.
Glielo assicuro e non so se sono sincero o mento o tutt’e due, so che non ci farò mai l’abitudine, mentre lei ride ride e ringrazia il cielo. La prendo sottobraccio, gli altri ci fissano, con lentezza lei si alza e io vorrei sbrigarmi a uscire dalla vergogna. “Su, andiamo, mamma.”
Non mi sono perso e non mi hanno rapito.
Sono cresciuto e lei lo dimentica.
La più bella e intensa possibile
Cosa fai nella vita? Perché lo fai? Che senso ci trovi? Sono domande a cui dà una sua risposta il medico dell’anno di un prestigioso ospedale newyorkese, la dottoressa italiana Elvira Parravicini, intervistata qui da Riro Maniscalco per Il Sussidiario.
“Non e’ una ragazzina, anche se lo sembra. Quando poi parla mettendo tutto (o quasi) al diminutivo, non puoi fare a meno di sorridere. Sarà perché è abituata a trattare con i bambini piccoli, anzi, piccolissimi. Quelli che sono appena nati e lo sono a malapena e Dio solo sa se e quanto potranno continuare a vivere. Elvira Parravicini, neonatologa di Seregno, arrivata a New York (per starci) a metà degli anni novanta dove, a quasi 40 anni, ha dovuto ripartire dalla gavetta affrontando i famigerati “steps”, “residency” e “fellowship” che ogni medico americano deve percorrere (e non è che ce la facciano tutti). Elvira ce l’ha fatta e martedi 4 dicembre il suo ospedale, il prestigioso Morgan Stanley Children’s Hospital, della Columbia University a New York, la premia come “Medico dell’Anno”. Detta così suona come una ordinaria storia di successo. Ed è certamente una storia di successo. Ma bisogna capire perchè questa “bambina grande” è stata scelta tra tanti “grandi dottori”.
Elvira, sembra che al tuo ospedale non abbiano trovato nessuno di meglio da premiare… Ma cos’hai fatto di speciale per meritarti questo riconoscimento?
Veramente non lo so e non me lo aspettavo proprio. La mia ipotesi è questa: siccome questo è un premio dove chi vota sono le infermiere, certamente ha a che fare col lavoro di questi anni nella cura del Comfort Care. Mi spiego meglio. Quando un bambino è terminale e sta per morire, i medici se ne possono andare, possono dire “non c’è più niente da fare” e non affrontare la situazione. Questo succede nel 99 per cento dei casi. Ma l’infermiera no, lei è lì al capezzale del bambino coi genitori e la famiglia. E’ una situazione molto molto difficile da gestire, sembra impossibile. Come si può stare di fronte a questi bimbi, a cui non possiamo offrire una cura medica che li guarisca? Così, io credo, da quando ho cominciato a prendermi cura dei bambini terminali, come medico, è come se avessi detto alle mie infermiere: io sono qui con voi, con questi bambini e le loro famiglie. Io so che un bambino malato, anche se vive per sette minuti, ha bisogno del suo medico e della sua infermiera per quei sette minuti… Ho fatto medicina per aiutare i bambini malati, qualunque sia la lunghezza della loro vita. Non è che posso dire: la tua vita è cosi corta che non vale la pena di impegnarsi. Anzi è il contrario. Proprio perché è corta deve essere la più bella e intensa possibile. Cosi ho deciso di stare con questi bambini e sono stati loro che mi hanno insegnato quello di cui hanno bisogno. Allora le infermiere hanno capito che esiste un modo professionale di prendersi cura dei piccoli. Dopo forse un anno che avevo iniziato, alcune sono venute a cercarmi chiedendo di lavorare con me su questi casi. Le mie infermiere volevano aiutare questi bambini, ma mancavano di un’ipotesi di lavoro. E io ho imparato tanto dalle infermiere!
Come sei arrivata a fare quel che fai?
Semplicemente lavorando dove lavoro. In patologia neonatale mi sono trovata di fronte a dei bambini che avevano malattie che alcuni chiamano “incompatibili con la vita”, definizione che non mi piace. Infatti la loro vita c’è, solo che è molto breve. Ho incontrato pazientini che non potevano vivere più di poche settimane, giorni o minuti, anche con tutte le cure mediche offerte dalla medicina moderna. Mi sono detta: “Anche questi sono miei pazienti, come mi prendo cura di loro?” Cosi ho sviluppato una cura medica che ho chiamato comfort care dove il focus è sul benessere del paziente, visto che la guarigione non e’ possibile. Per un medico, particolarmente in questo paese, la vita lavorativa rischia di mangiarsi tutta la vita.
C’è per te un confine tra l’una e l’altra?
La mia vita è una, cioè la mia vita sono sempre io che faccio cose diverse. All’ospedale curo i neonati, poi canto in un coro, ho molti carissimi amici, ho una casa da tenere, cucinare, pulire, fare la spesa. Faccio cose diverse, ma ogni persona o situazione che ho davanti, sia un bimbo malato o un amico, o la spesa da fare, rispondo a Qualcuno che mi mette di fronte una certa situazione, o una certa persona, per motivi Suoi, e allora posso dirGli di sì o di no. Da questo punto di vista prendermi cura dei bambini terminali è dire sì come andare a fare la spesa, con, ovviamente, le dovute differenze.
A questo punto della tua vita professionale c’è gente che ti chiede, che ti fa domande rispetto a questa tua professione, che ti segue. Cosa vuol dire per te? E cosa vuol dire essere medico dell’anno oggi?
Quando gli altri mi fanno domande rispetto al mio modo di essere medico o mi seguono, io li rimando a due cose. Primo, ad essere seri col loro desiderio dell’inizio, il desiderio che li ha spinti ad entrare nella professione medica. Il punto di orgine è sempre puro e dobbiamo riguardarlo in continuazione per sapere cosa veramente vogliamo. La seconda riguarda essere onesti con la realtà. La realtà sfida il nostro desiderio, il suo compimento, la sua tenuta. Dico queste cose perché ho avuto e ho degli amici che mi invitano con fermezza a questo stesso lavoro e tutto quello che mi è successo non sarebbe mai successo – veramente non l’avrei neppure immaginato – senza di loro. Essere medico per me è molto semplice: è essere in rapporto con il Mistero che genera me e che mi ha invitato e suggerito di fare medicina, e che poi ha chiamato alla vita i miei pazientini e me li ha messi davanti. Dal punto di vista medico, è fondamentale che stia in rapporto col Mistero mentre curo i miei bimbi, perché solo Lui sa dove la vita di ognuno di loro deve andare. Solo seguendo le sue “indicazioni” – segni clinici, ecc. – capisco il trattamento medico adeguato, rispettando la loro piccola vita.
Cosa ti aspetta domani?
La cura di molti bambini che possono guarire e andare a casa felici e sani coi loro genitori e la cura di altri che vivono pochissimo tempo, ma che mi insegnano più degli altri che la bellezza della vita è che loro ci sono, anche solo per sette minuti! Infatti la bellezza della loro vita è che c’è Qualcuno che li vuole, come vuole me e te, caro Riro.”
Quel rudere dello Stato Sociale
Scrive Massimo Gramellini su La Stampa di ieri:
“Il governo non trova soldi per i malati di Sla, che rischiano di morire d’inedia istituzionale.
E se la tecnica Fornero ricomincia a piangere, la politica tace o parla d’altro: di quanto sia brutta e cattiva l’antipolitica. Mentre proprio di questo dovrebbe occuparsi: degli ultimi, dei deboli, di chi non ce la fa. Purtroppo non tutti i cittadini sono ricchi, ambiziosi e intelligenti. Non tutti nascono e rimangono sani. Però tutti fanno parte della stessa comunità e la politica è la mamma che facilita la vita al figlio più in gamba, ma poi si curva protettiva su quello più sfortunato. Ed è a lui che dedica le sue energie migliori, è con lui che sperimenta quanto infinite siano le capacità del cuore umano di amare. Forse le regole del gioco sono cambiate senza che ci avvertissero. Forse la politica ha deciso di dedicare le sue attenzioni soltanto ai potenti di cui è serva e ai servi con cui è prepotente. Lo Stato Sociale europeo – malgrado le sue magagne, le sue burocrazie, le sue ruberie – ha rappresentato la creazione più nobile della politica. Oggi se ne parla come di un rudere di cattivo gusto, un lusso anomalo del passato, un ostacolo al libero manifestarsi del Nuovo. A me un Nuovo dove i mercanti ingrassano e i malati di Sla muoiono sembra nascere già molto vecchio. Se lo Stato non ha più soldi per tutti, tocca alla politica indirizzare quelli che rimangono verso le tasche giuste (possibilmente non le proprie). E chiedere aiuto al mondo delle associazioni, così come una mamma in difficoltà lo chiederebbe a una sorella o a un’amica. Non a una sguattera.”
Una medicina dal volto umano
Gianni Bonadonna è un oncologo a cui un ictus ha fermato la possibilità di operare ma non di pensare. In un’intervista di Sara Gandolfi, su Sette, afferma:
Cosa significa essere un buon medico?
«La medicina è nettamente cambiata nel corso degli ultimi decenni grazie alle nuove tecnologie. Oggi il medico ha a disposizione un vasto campo di trattamenti farmacologici e quelli chirurgici si fanno più audaci. Avanzamenti tecnologici che però hanno creato miti e illusioni: al medico il mito di essere diventato onnipotente, al pubblico l’illusione che per ogni malattia ci sia un rimedio per guarire, subito. La medicina deve tornare a essere umana. È tempo di iniziare a insegnare sin dall’università a entrare nel mondo delle malattie come sono vissute dai pazienti. L’obiettivo principale della professione medica rimane quello di rendere un servizio all’umanità. Facendo tesoro degli errori passati e presenti, dovremo riconsiderare che abbiamo a che vedere con esseri umani e non soltanto con molecole.
Cosa ha il diritto di chiedere un paziente?
«Il malato ha il diritto di conoscere e decidere, di autodeterminare le proprie scelte. Il medico deve rispettare i diritti del paziente senza atteggiamenti autoritari e paternalistici, fornire con tatto e sincerità gli elementi necessari perché il malato partecipi con maggior consapevolezza alle procedure di diagnosi e cura e, quando richiesto, a uno studio terapeutico. La medicina per i clinici come per i pazienti deve restare un’arte, un modo d’incontrarsi e dialogare tra persone, non un contatto accidentale e frettoloso».
Per “mettersi nei panni” di un paziente, un medico deve ammalarsi?
«Non necessariamente. Ci sono medici più sensibili. Il medico deve saper infondere al malato fiducia per le cure che gli somministra, speranza di guarigione e soprattutto fargli sentire che non lo considera solo un numero ma una persona a tutto tondo. Un bravo medico non fa sentire abbandonato il malato, l’attenzione e l’ascolto sono una grande cura. Alcuni medici lo sanno: dai pazienti imparano il significato della vita, capiscono il peso della sofferenza».
È il medico o il paziente che deve decidere “quando fermarsi”?
«Il medico deve informare con tatto il paziente quando non vi è più possibilità di alcun trattamento efficace. In questo caso farlo vivere nel modo più dignitoso possibile è un atto di umanità, evitandogli l’accanimento terapeutico, cure inutili, le sofferenze evitabili. È l’alleanza medico-paziente che farà prendere la decisione corretta».





