“Io ho deciso di portare l’animazione, in particolare quella dei più piccoli. Io infatti faccio l’animatrice, sia al centro estivo che durante l’inverno. L’ho trovo un modo per stare a contatto con le persone, in particolare i bambini. Amo i bambini perché sono sinceri, non perdono tempo con persone che non sopportano e ti dicono tutto ciò che gli passa per la mente. Inoltre sono spensierati e con loro puoi fare discorsi che con gli adulti non faresti, come ad esempio “Qual è il tuo terzo colore preferito?”. Questa attività mi ha insegnato l’importanza della fantasia, costretta a uscire dalla mia zona di comfort, a risolvere i piccoli litigi e a riscoprire la bellezza del gioco. Questa è la mia gemma perché mi ricorda di non smettere mai di guardare il mondo con meraviglia” (G. classe prima).
Negli ultimi mesi, in vari confronti con colleghe e colleghi, ho messo in evidenza una difficoltà nella quale mi imbatto da circa due-tre anni a questa parte: faccio fatica a destare lo stupore in classe. Non voglio certo generalizzare, ma mi capita sempre più spesso di incrociare sguardi attoniti o volti inespressivi davanti a racconti o testi o filmati che dovrebbero far esclamare “oooooooh” (ricordo la meraviglia di qualche tempo fa quando mostravo uno di quei filmati che mostrano il passaggio dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande e viceversa). Ho attribuito la colpa alla disponibilità, cresciuta moltissimo negli ultimi anni, di tutto questo materiale on-line e alla sua facile fruibilità: insomma la sensazione che tutto è già stato visto, tutto è già stato detto. Magari non ci si è soffermati a riflettere, e ora, che è venuto il momento di farlo, è un ragionare “a freddo”, senza la spinta emozionale. Poi, però, mi capita di leggere in una classe prima, il testo scritto da una ragazza appena uscita dalla quinta, un testo che parla di amicizia, di vita, di morte, di amore e di passione per la vita. E molte/i si emozionano e hanno gli occhi rossi. Allora mi è venuto in mente quel testo di Alessandro D’Avenia scritto un mesetto fa per il primo giorno di scuola e che mi ero promesso di riprendere. E’ venuto il momento… Lo prendo dal suo blog (è stato pubblicato sul Corriere della Sera nella rubrica settimanale “Ultimo banco”).
“Non sembra ma la scuola e le ferie hanno la stessa essenza: l’incontro con la meraviglia. Durante le ferie è lo stupore che cerchiamo. In montagna o al mare, in campagna o in città, in un libro, panorama, volto, vogliamo incantarci. In queste occasioni, che non a caso poi ricordiamo e raccontiamo, tratteniamo il respiro (si dice «mozzafiato»), per ricevere più vita. Quale? Quella che appunto ci ispira: ci dà più respiro. Per questo abbiamo un senso da cui dipendono gli altri cinque: il senso della meraviglia. Se non funziona questo senso, la realtà diventa muta, insensata, neutra. Infatti è la qualità delle relazioni che abbiamo con il mondo che orienta il nostro individuarci, cioè scoprire in che cosa siamo unici e irripetibili. E proprio il senso della meraviglia detta la qualità di queste relazioni: si chiama «attenzione selettiva», un potenziamento dei nostri circuiti neurali diverso per tutti. Chi non prova stupore cerca stupefacenti: sostanze, non relazioni ma dipendenze. Pur di appartenere (sentirsi amato) sparisce nelle cose o negli altri, fino a non sapere più chi è e che cosa vuole. Chi invece conosce e allena il «suo» stupore trova sostanza (al singolare), cioè vita che lo sostiene, legami che lo ispirano e lo individuano, non sparisce nelle cose e negli altri ma sa stare di fronte al mondo, da protagonista. A scuola è difficile rendersene conto, piena com’è di grigiore e disincanto, ma in fondo la scuola finisce o comincia proprio se finisce o comincia l’incanto. Perché? La scuola non è un edificio (sarebbe troppo poco) ma ogni spazio-tempo della storia in cui incontriamo ciò che ci meraviglia. Si dà scuola – a volte anche a scuola – ovunque accada lo stupore, cioè un incontro reale con il mondo. Il primo giorno di scuola non è quindi l’inizio di un susseguirsi di ore a cui resistere in vista del prossimo ponte, ma una metafora del «senso della meraviglia». Come allenarlo? Cominciamo con un appello in cui a ciascuno sia chiesto: per raccontare quale stupore sei venuto al mondo? A scuola possiamo dare il buon esempio raccontando l’incanto che ci ha portato a voler raccontare ad altri la gioia della chimica, della filosofia, della cucina, dell’arte, dell’elettronica, della biologia, della meccanica, della matematica e tutte quelle che possiamo definire «materie della meraviglia», «sostanza del mondo» e non sostanze senza mondo, dipendenze senza gioia. Così avremo un primo appello di «incanti», ogni nome associato al pezzetto di mondo verso cui sente attrazione e quindi attenzione. Conoscere come e quando un ragazzo (e in generale una persona) sente di appartenere alla vita e che la vita gli appartiene è ascoltare una profezia sul suo destino. Per questo amo il titolo che l’astrofisica canadese Rebecca Elson ha usato per il suo libro di poesie «A Responsibilty to Awe», responsabilità dell’incanto, perché quando veniamo toccati da qualcosa stiamo già rispondendo (da cui responsabilità) a una chiamata della vita che vuole cura da noi, alla maniera che ci è più congeniale. Chi non prova incanto non può provare amore verso sé stesso e verso la vita, perché non sa cosa ama e non sa cosa lo chiama. Per questo bisogna raccontare ai figli e agli studenti dove l’incanto ci ha afferrati, perché loro cercano in noi prima che una lezione una elezione: scelta, vocazione, destino, responsabilità. Perché avremmo mai dedicato tempo e sforzi a qualcosa purché diventasse la nostra strada? Per questo un primo appello ben fatto chiede ai ragazzi dove l’incanto li abbia già afferrati, perché dal «senso della meraviglia» nasce il loro personalissimo «sentimento della vita»: l’amore per il mondo, per gli altri e per se stessi, unica reale difesa dalle dipendenze. Un ragazzo «irresponsabile» è semplicemente un ragazzo che non è mai stato chiamato alla vita e dalla vita, e quindi non ha mai potuto rispondere. Per questo l’appello è il momento più importante dell’orario scolastico: tu, proprio tu, per quale pezzetto di mondo sarai insostituibile? E quindi: per quale stupore sei qui? In fondo quando ci siamo innamorati di qualcuno, non è stato il suo modo unico di «stare» al mondo che ci ha sedotto? Alexandra Horowitz, docente di psicologia alla Columbia University, ha scritto un libro, On looking: eleven walks with expert eyes (Sul vedere: undici passeggiate con occhi esperti), in cui descrive il medesimo ripetuto e ignorato percorso, da casa alla scuola della figlia, in undici modi diversi, semplicemente perché lo percorre ogni volta insieme a una persona con una vocazione diversa, occhi diversi: un architetto, un biologo… un cane. Lo stesso tragitto di sempre diventa memorabile grazie ai modi unici, stupefatti e quindi stupefacenti, di percorrerlo, cioè di stare al mondo, di prendersene cura. Come diceva Chesterton non esistono argomenti poco interessanti, ma persone poco interessate. E allora mi viene da pensare a Van Gogh che abbracciò tardi la sua vocazione e imparò a dipingere da solo, e in dieci anni il suo sguardo rivoluzionò l’arte perché nessuno come lui sapeva stare davanti a girasoli, cipressi, volti, stelle… la stessa «materia» che tutti vedevano da secoli, ma senza il suo incanto. In una lettera del giugno 1888 chiedeva al fratello Theo i soldi per comprare tele e colori: «Non è forse la sincerità della natura a guidarci? E queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora – senza accorgersi che si sta lavorando – e talvolta le pennellate vengono in successione e con rapporti tra loro come le parole in un discorso o in una lettera. Ecco perché chiedo sfacciatamente tela e colori. Solo così sento la vita, quando lavoro a pieno ritmo» (giugno 1888). Lo stupore di un solo uomo, divenuto vocazione e opere, continua a risvegliare milioni di addormentati o di ciechi (per questo a scuola facciamo studiare Van Gogh). E allora facciamolo bene questo primo appello. Nome per nome, stupore per stupore, destino per destino, vocazione per vocazione. Chiedere «per raccontare quale stupore sei venuto al mondo?» a un adolescente è un dovere per noi, come diciamo che lo è la scuola per lui.”
“Come gemma per quest’anno ho deciso di presentare il mio fratellino A., un’esplosione di energia e dolcezza. Ha 21 mesi e mi ricordo benissimo la felicità che ho provato quando ho saputo che avrei avuto un altro fratellino. La mia famiglia è formata da molte persone, mia mamma, mio fratello, il marito di mia mamma, le sue due figlie e mio papà che non vive con noi ma che vediamo praticamente ogni giorno. A. è diventato una delle persone più importanti per me perché attraverso la sua gioia e spensieratezza riesce sempre a strapparmi un sorriso, anche nei momenti tristi o nelle giornate buie. Credo che grazie a lui la mia famiglia si sia unita ancora di più e sono convinta che lui sia molto fortunato, perché sta crescendo in un ambiente ricco di amore reciproco, condivisione e rispetto. Il mio fratellino adora anche mio padre che è un simpaticone, lo chiama zio e questa cosa mi fa stare bene. Devo ammettere che Antonio è molto rumoroso e spesso per rilassarsi ci sarebbe bisogno di silenzio ma lo ringrazio per tutta la positività che porta all’interno delle mura di casa, per le risate che ci facciamo per qualche sua espressione strana o per le prime parole che dice che sono sempre una sorpresa. Ogni giorno che passa mi rendo conto di quante siano le piccole cose che a lui creano meraviglia e stupore e che io invece, spesso, do per scontate. Questa esperienza di sorella sedicenne di una creatura così piccola, è una bellissima messa alla prova ed esercizio per non dimenticare quanto sia importante vivere con intensità e dare importanza alle persone che ci fanno stare bene” (M. classe terza).
“È da tutto l’anno che mi dico «questa è l’ultima gemma che posso presentare, devo trovare qualcosa degno di nota!» e poi non sono mai soddisfatta di quello che scelgo. È una mia cosa tipica, dare tutto per scontato, trovare tutto banale. Ma proprio queste cose, a cui spesso non attribuisco il giusto valore, sono quelle che mi porto nel cuore. Oggi voglio essere grata per tutto ciò che ho e che mi rende felice. – Amici e famiglia: credo che queste siano le cose che più sottovaluto, anche perché ci ho a che fare spesso e diventano quasi una “routine”. Ma il fatto che siano diventate parte integrante della mia giornata è un privilegio che solo in pochi hanno. Sono circondata da persone meravigliose che mi aiutano nel momento del bisogno, che mi strappano un sorriso quando sono triste e che, con il loro entusiasmo, mi fanno scoprire sempre cose nuove. – Musica: sono circondata dalla musica da quando ho memoria. Sono grata ai miei genitori per avermi permesso di seguire il mio sogno di suonare il violino. Nonostante ora non lo suoni più, è stato un compagno di vita con cui ho potuto esprimere sensazioni ed emozioni che a parole non sarei mai stata in grado di comunicare. E questo vale per tutto ciò che riguarda la musica, come ad esempio i concerti che offrono una versione diversa e unica che solo un live può trasmettere (non per niente dico spesso che i concerti sono una forma alternativa di terapia). – Tatuaggi: ho due tatuaggi (per ora) e raccontano due storie legate ai punti precedenti. Sul braccio sinistro ho il titolo di una canzone dei Pinguini Tattici Nucleari, una canzone che mi ha parlato dal primo ascolto (e che mi ha fatto piangere un fiume di lacrime in live). Nell’altro braccio ho due fiori che simboleggiano me e mia sorella. – Arte: come la musica, l’arte ha sempre fatto parte di me. Ho deciso di portare “sulla soglia dell’eternità” di Van Gogh visto ad una mostra a Trieste. Non so cosa sia successo in me ma, appena l’ho visto, è come se fossi stata completamente alienata dai miei pensieri e catturata nel quadro, come fossimo solo io e lui (inutile dire che, anche qui, ho pianto fiumi). Trovo meraviglioso il modo in cui le opere d’arte mi possano parlare in maniera così chiara e forte e come sappiano colpire la mia sensibilità. Per concludere, spero in futuro di dare meno per scontate tutte queste cose e di apprezzare tutto ciò che c’è di meraviglioso nella mia vita. Spero di non perdere mai l’entusiasmo nel vedere un tramonto o nel sentire una canzone per la prima volta, quell’entusiasmo della me bambina che vedeva tutto con occhio nuovo. (F. classe quinta).
“Ho deciso di portare come mia gemma di quest’anno una macchina fotografica analogica. Me l’hanno regalata a gennaio 2023. Sin dal momento in cui l’ho ricevuta ho saputo che sarebbe stato un regalo speciale per me perché ho sempre amato la fotografia vecchio stile, l’attesa e la preziosità che si attribuisce ad ogni scatto. Proprio per questo, essendo per me una cosa così preziosa, ho voluto utilizzare i 40 scatti del mio primo rullino attribuendo ad ognuno un valore significativo, diverso dalla maniera e concetto con cui utilizziamo la fotocamera del cellulare tutti i giorni. Ho deciso dunque di scattare le foto soltanto per immortalare momenti che so resteranno vividi nel mio cuore per tutta la mia vita. È per questo che a novembre, dopo quasi un anno, mi mancano ancora tre scatti. Quest’anno è stato per me un anno ricco di esperienze e di gioia, quindi sono impaziente di vedere il risultato di questo rullino. Per me qualcosa di unico è l’attesa che comporta lo sviluppo delle foto. Nella mia mente immagino già l’album di foto che riguarderò tra qualche anno, o addirittura mostrerò ai miei figli con una punta di nostalgia ma grata di tutto quello che la vita mi offre: amore, amicizia e magiche opportunità.” (C. classe quarta).
“Quest’anno come gemma ho deciso di portare una vacanza fatta quest’estate in Spagna, a Barcellona, un luogo che sognavo fin da piccolina. A luglio sono partita per 5 giorni in questa nuova città con i miei genitori. Per me si trattava, di fatto, di un nuovo Stato da visitare: gente con cultura, tradizioni, usanze e maniere per me nuove e diverse da quelle a cui sono sempre stata abituata. Di quei giorni mi ricordo benissimo la velocità con cui sono terminati ma ancor di più la felicità che mi hanno dato. Penso che sia proprio vero che viaggiare a volte possa essere la cura ai nostri problemi: la sensazione di scappare dai propri pensieri, il fatto di recarsi in una città totalmente sconosciuta, dove nessuno ti conosce e dove tu non conosci nessuno, la meraviglia nel camminare per le sue strade per la prima volta dopo averle guardate e riguardate su uno schermo centinaia di volte, la gioia nel provare nuovi cibi e nuovi piatti di cui hai da sempre sentito parlare. Durante l’intero anno non ho molte occasioni per passare del tempo con i miei genitori e la nostra unica vacanza estiva di quest’anno mi ha fatto avvicinare veramente molto a loro. Crescendo mi sto accorgendo che non sono più loro a dovermi coinvolgere nella scelta ma sono io invece che gli do delle proposte riguardanti ogni possibile viaggio. Questi giorni mi hanno fatto sentire veramente spensierata, nel vero senso della parola, mi hanno permesso di avverare uno dei tanti sogni tenuti nel cassetto che la me di qualche anno fa non avrebbe mai pensato di avverare, ma più di ogni altra cosa mi hanno trasmesso al massimo l’amore per il viaggiare. Ho amato ogni momento di queste giornate, soprattutto l’allegria ed il coinvolgimento degli spagnoli, che anche con poco sanno farti sentire nuovamente a casa, ma più di tutto ricorderò con grande nostalgia le passeggiate fatte alla sera sul lungomare illuminato e nella città storica accesa dal calore degli artisti di strada, con i quali ti senti subito in compagnia. Alla magia delle serate devo aggiungere però anche la bellezza delle sue case dallo stile art nouveau, da sempre viste nei libri di storia dell’arte, che nella realtà risultano ancora più affascinanti che in foto. Quello che ancora ad oggi, tuttavia, riesce a strapparmi un sorriso è il ricordo della vista panoramica che si ha dal punto più alto del parco Güell, situato su un promontorio, dal quale si ha una vista spettacolare dell’intera città fino alla sua costa”. (G. classe seconda).
“Ho portato il mio primo cellulare ricevuto in prima media. L’ho avuto per un anno, quindi un periodo di tempo non molto lungo. Delimita un periodo preciso della mia vita per cui vi sono legati i ricordi della prima media. Rappresenta un passaggio da una fase all’altra della mia vita: un telefono mio personale è stato il mezzo per conoscere meglio il mondo circostante ancora con occhi da bambino. Continuo a scoprire nuove cose anche oggi, ma non con quel punto di vista”.
Questa la gemma di L. (classe terza). Chesterton diceva che La cosa meravigliosa dell’infanzia è che tutto è in essa una meraviglia. Lo sforzo di prolungare quella meraviglia è di Oscar Wilde: Io continuo a stupirmi. È la sola cosa che mi renda la vita degna di essere vissuta.
La settimana scorsa ho scattato questa foto a Mariasole. Stava correndo in leggera salita. Ieri, guardando la foto, la nonna le ha chiesto “Cosa c’è laggiù?” indicando l’orizzonte, e lei ha risposto “Amu”, il suo modo di dire “Mare”. Ma quando correva Mariasole non lo sapeva, non sapeva che dopo la salita e oltre la balaustra ci sarebbe stato qualcosa di bellissimo e che lei ama tanto. E lo sguardo meravigliato di un bimbo quando viene sorpreso dall’inaspettato, dall’inatteso, dal sorprendente, dal bello, è qualcosa di unico perché è senza filtri, senza finzioni, senza freni: è gioia pura. Ed è contagioso! Perché ne vieni colpito anche tu che hai la fortuna di incrociare quello sguardo. A volte capita di vederlo anche a scuola, anche se molto più raramente. E’ l’espressione che ha in faccia chi dopo la salita, dopo aver superato le varie balaustre, ha colto con lo sguardo il mare, l’orizzonte. Compito mio da insegnante è mostrare le strade, accompagnare, motivare, dare l’idea, smuovere al movimento, far intuire una goccia del mare e poi, perché no?, fare come Sara in questa seconda foto: correre dietro a Mariasole perché non si fiondi in mari troppo pericolosi per lei 😉
Mi sto dedicando alla lettura notturna di L’appello di Alessandro D’Avenia. Ho l’abitudine di prendere nota dei passi che mi colpiscono e di riportarli poi su dei quadernetti (anche se è un po’ che non faccio quest’ultima operazione e mi manca farlo). Come si vede nella foto sono arrivato a pagina 50 e le citazioni sono già tante (come sempre mi capita con i libri del prof siciliano). Oggi mi voglio soffermare su alcuni di quei passi per restare sul tema dell’ultimo post: i buoni propositi per il nuovo anno.
E’ il prof. Romeo a parlare, il docente non vedente di un liceo scientifico: “Dare un nome proprio e dare alla luce sono la stessa cosa. Da quando sono cieco ho capito che la luce non è semplicemente quella che si riflette sulle cose, ma quella che ne esce quando le chiami per nome. […] Per riuscire a insegnare devo concentrarmi sulla presenza dei ragazzi e non sulle mie aspettative, devo lasciare che siano loro a venire alla luce e non io a illuminarli. Almeno ci devo provare…” (pag. 37). L’anno scorso sono riuscito a farlo in alcune classi e da loro sono uscite cose meravigliose che mi hanno emozionato e meravigliato. Le ore emozionanti e che generano meraviglia e stupore sono quelle che rimangono più impresse, quelle generative: lo sono per me, penso lo siano anche per loro. E con questo mi lego alla seconda citazione, è una studentessa a parlare, Elisa, anzi Virginia: “Soffoco tra queste mura così strette e mi chiedo che ci facciamo qui, tutti i giorni, a morire di noia. Perché volete costringere la vita nella taglia XXS dell’abitudine? Spero che lei possa raccontarci qualcosa che non abbiamo mai visto… Altrimenti la mia anima sarà costretta ad andarsene anche durante queste ore, pur di respirare. Non ho mai sentito una nota di meraviglia nelle parole della nostra professoressa di scienze.[…] Così è la mia vita, professore, fuggo sempre da dove ci si annoia e mi abbandono a lunghi sogni di trasformazione. Viaggio con l’anima e divento tutto ciò che mi stupisce. E devo farlo per forza, se non voglio morire di realtà.” (pag. 48).
Ecco quindi, dopo l’orecchio bambino del precedente post, altri due propositi: far venire alla luce e generare meraviglia (che mi suonano decisamente affini). C’è di che rimboccarsi le maniche.
Faticosetta la mattina di oggi: prima ora in succursale, seconda in centrale, terza in succursale, quarta in centrale, quinta in succursale. Potrei anche evitare l’amichevole di stasera, per oggi mi sono allenato… Poi ripenso un attimo: una studentessa racconta la sua passione per un cantante che non ti aspetti, Mario Tessuto; un’altra dopo un’unica visione ti riporta per filo e per segno il videoclip “Jesus walks” di Kanye West; altri si meravigliano davanti al genio di Jesus Christ Superstar; una classe quinta segue con attenzione la quarta delle sette brevi lezioni di fisica di Rovelli e riflette sull’importanza della ricerca della verità anche quando significa riconoscere di aver buttato 40 anni di ricerca; poco dopo si emoziona davanti alla storia di una bimba affetta da hiv raccontata da Spike Lee; con una prima emerge il tema dell’identità e dell’importanza delle relazioni, con tutte le conseguneti contraddizioni; un’altra seconda, dopo che una studentessa ha raccontato l’emozione di “Collateral Beauty”, si cimenta con la lentezza cinematografica di Decalogo 1 di Kieslowski e si interroga sulla frase “Dio esiste, è molto semplice, se ci si crede”. Infine una quarta si appassiona ai riti quotidiani dell’induismo e ammira la bellezza e la colorata precisione di alcuni mandala, dopo che uno studente ha proposto una riflessione sulla possibilità di cercare la fortuna anche là dove sembra che non ci sia. Ecco allora che quell’andirivieni tra succursale e centrale acquisisce un senso e mi fa capire che senza di esso mi sarei perso tutta questa bellezza. Un po’ di meraviglia in meno sarebbe entrata nella mia vita.
“Come gemma non ho voluto portare alcun oggetto, ma un’esperienza di quest’estate in ospedale. E’ un mercoledì, sono in un disco bar e ho bevuto un bicchiere di prosecco, ho un leggero mal di testa, ma nella norma. Durante la serata però va aumentando e si aggiungono dei giramenti di testa. Penso sia l’alcol, nonostante una certa meraviglia perché convinta di reggere un po’ di più. Ad un certo punto inizio a cadere da un lato; la cosa diventa alquanto imbarazzante, tutti mi fissano come fossi ubriaca. Mi cedono persino le gambe. Il giorno dopo, la cosa non si è risolta e i miei mi accompagnano in pronto soccorso: ci sono già andata, e come le altre volte, mi aspetto solo una ricetta o una medicina. Invece i medici dicono a mia mamma che devo restare in ospedale. Mia mamma è tedesca e sul momento non capisce, quindi resta in silenzio. Rimango in ospedale 7 giorni. Il giorno dopo il ricovero sarei dovuta partire per un viaggio in Sicilia. Invece il mio viaggio ha cambiato meta e itinerario. Ma anche questa esperienza, come tutti i viaggi mi ha portato qualcosa. In questi momenti ti rendi conto dei momenti belli. Sono uscita all’ospedale e la prima cosa che ho apprezzato è stata il sole. A volte diamo per scontate troppe cose.” Questa è stata la gemma di V. (classe quinta). Penso che questa gemma rappresenti il senso di questo lavoro sulle gemme: fermarsi un attimo, appuntarsi una cosa che si sta vivendo, che si vede, si ascolta o si conosce, e decidere di farle spazio dentro di noi in modo che vi resti. E magari regalarla agli altri; magari a loro non farà lo stesso effetto, ma… non si sa mai…
“La mia gemma è una foto in cui sono con mio fratello appena nato. Per 6 anni avevo chiesto ai miei genitori un fratellino. Adesso magari sono un po’ meno contenta perché dà un po’ di lavoro… ma in quel momento ero la persona più felice del mondo. La prima volta che l’ho preso in braccio avevo paura di romperlo e la maglietta che avevo indosso l’ho tenuta: avrei voluto portarla ma è in qualche baule della soffitta… quindi ho portato la foto”. Questa la gemma di G. (classe quarta). La bellezza e la capacità talvolta di saper tornare bambini, magari per riuscire a meravigliarsi pienamente, magari per guardare il mondo in modo diverso: “Lasciati guidare dal bambino che sei stato.” (Josè Saramago)
“Ci sono capolavori assoluti che ci emozionano intensamente, il Requiem di Mozart, l’Odissea, la Cappella Sistina, Re Lear… Coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza. E non solo: anche l’aprirsi ai nostri occhi di uno sguardo nuovo sul mondo. La Relatività Generale, il gioiello di Albert Einstein, è uno di questi.” (Carlo Rovelli, “Sette brevi lezioni di fisica”). Sono passati 100 anni: l’articolo in cui Einstein presenta la sua teoria scientifica è del novembre 1915.
Lasciarsi meravigliare, farsi stupire, permettere al nuovo di essere ospitato dentro di noi. Sono convinto che questa sia una delle più grandi risorse che possiamo avere. Penso si tratti di una capacità, non di un talento. Il talento lo puoi coltivare, ma o ce l’hai o non ce l’hai. La capacità la puoi costruire, allenare, far crescere. Cogliere il positivo in quello che si vive, accennare un sì invece che un no, aprire alla possibilità. Mi piacerebbe che diventasse abitudine, stile di vita; pena il perdersi delle cose. Arrivare ogni sera nel letto , rivolgere lo sguardo alla giornata che si è vissuta e poter dire: oggi mi porto a casa queste cose belle. E allenarci a guardarle, a scorgerle, a notarle: e sottolinearle. Questo è lo scopo del lavoro delle gemme che ho impostato quest’anno. Questo è il motivo per cui vengo preso dal rammarico quando vedo dei ragazzi di 18-19 anni che dicono no a una possibilità di ascolto e conoscenza, QUALSIASI possibilità di ascolto e conoscenza (stamattina), e per cui decido di scrivere queste parole. Questo è quello che mi fa sobbalzare il cuore di gioia quando vedo ragazzi mettere la passione in quello che fanno (ieri sera). Che quello sguardo non si chiuda: ritengo sia lo sguardo della vita sulla vita.
“Ho proposto una canzone sulla capacità di stupirsi: spesso le nostre giornate si succedono molto simili e penso sia importante dare rilievo anche a piccole cose, magari a stupidaggini, che hanno la capacità di renderci felici”: sono le parole con cui S. ha commentato questo brano di Povia:
E’ vero, S., a volte basta veramente poco, anche solo un modo diverso di vedere le cose:
“Lettera a mio figlio sulla felicità” di Sergio Bambarén (2010) è il libro che C. (classe quinta) ha portato in classe. “E’ un regalo di mia mamma di 2 anni fa. L’ho riletto; è un padre che scrive una lettera sulla felicità, sul modo di vivere, al figlio Daniel intervallandola con racconti della sua vita personale. Leggo alcune frasi importanti anche per la mia vita: sono le cose che ci aiutano a vivere meglio. Le ho prese dalla lettera e non dalle esperienze del padre.” Ed ecco le pagine del libro:
“Sono persuaso, come lo ero da bambino, che il segreto di un’esistenza felice e realizzata dipenda dalla direzione che si sceglie. E la chiave, figlio mio, è imboccare la tua strada, nessun’altra, solo quella che ti detta direttamente il cuore. Infatti, soltanto chi osa spingersi un po’ più in là scopre quanto può andare lontano, soltanto chi segue il proprio cammino ha la possibilità di vivere una vita basata sull’autenticità, l’amore, l’armonia. Soltanto chi cammina al cammino della propria musica è davvero libero. Perciò non seguire il sentiero tracciato da qualcun altro; piuttosto va’ dove una strada ancora non c’è e lascia la tua scia: se cadi, rialzati, affronta le avversità e trova sempre il coraggio di proseguire. Fai della tua esistenza qualcosa di spettacolare! Si vive una volta sola, ma se percorrerai la strada che appartiene a te e a te soltanto, una volta giunto al termine del viaggio avrai la sensazione di aver vissuto mille vite. La vita è meravigliosa, non importa che cosa ti diranno gli altri. Non dimenticare che la bellezza è negli occhi di chi guarda, sempre.” (pagg. 51-52)
“Poi passiamo a credere che la felicità arriverà quando noi o il nostro partner guadagneremo di più. Quando avremo i soldi per comperare una macchina più grande, quando potremo andare in vacanza, quando otterremo una posizione migliore in azienda, quando finalmente butteremo giù quei chili di troppo attorno al giro vita, quando andremo in pensione… E potrei andare avanti a oltranza. La verità, Daniel, a mio modesto parere, è che non c’è momento migliore per essere felici di adesso, qui e ora. Quando altrimenti? La vita sarà sempre piena di nuove sfide, di infinite posticipazioni. Tanto vale ammetterlo e convincersi che – lo ripeto – il momento per essere felici è semplicemente quello presente. Non illudiamoci che ci siano un domani o una strada da percorrere fino in fondo per raggiungere la felicità! La felicità e la strada per conquistarla iniziamo a costruirle a partire da questo istante, attimo dopo attimo. Perciò dai sempre valore al presente, mio piccolo Daniel, e non dimenticare mai che il tempo non aspetta nessuno. Negli anni a venire, non rimandare in attesa di finire la scuola, di innamorarti, di trovare un buon lavoro, di sposarti, se è ciò che vuoi, o di avere dei bambini… Perché un giorno i figli lasceranno il nido ed il tuo matrimonio potrebbe finire. Non abituarti ad aspettare un venerdì sera, un sabato mattina, la primavera, l’estate, l’autunno o l’inverno … Ma soprattutto non aspettare di avere esaurito il tuo tempo per capire che non c’è momento migliore per essere felice di questo! Non mi stancherò mai di ribadirlo: la felicità non si trova una volta tagliato il traguardo, ma proprio sulla strada che stai percorrendo, lungo il sentiero per raggiungere i sogni che hai deciso di inseguire. Tanto tempo fa ho letto da qualche parte queste parole. Mi auguro che siano per te un promemoria prezioso:
Lavora come se non ti servisse denaro,
ama come se non avessi mai dovuto soffrire,
e balla come se nessuno ti stesse guardando.
Questa è la vita!” (pagg. 56-58)
Le parole di Bambarén sono talmente pregne e cariche di significato che riesco solo a trovare una canzone che canti l’incredibilità della vita:
Sono allergico alle graminacee, alle composite e alle betullacee. Sono allergico a chi giudica, a chi crede di aver sempre ragione, a chi pensa che la via percorribile sia una sola, che guarda caso è la sua. Sono allergico a chi si ritiene indispensabile. Penso che le cose non siano solo nere o bianche, che ci siano le sfumature e i colori, che ci sia spazio, che le strade siano molte e con esse le curve e gli incroci e che ognuno sia libero di cercare, scoprire e percorrere le sue. Credo nell’inedito, nel potenziale di tutto quanto non è stato ancora espresso, nella possibilità di potermi meravigliare, nello stupore, nella strada non ancora battuta, convinto che anche lì ci sia il senso di cosa ancora non so.
E’ difficile trovare un oggetto particolare in una strada centrale, lungo un corso, in bella vista in vetrina: “Per ogni cosa c’è un posto ma quello della meraviglia è solo un po’ più nascosto”. L’uomo contemporaneo è abituato al prodotto pronto e servito sul piatto: ciò che costa fatica spesso spaventa e non ci si rende conto che invece la cosa desiderata e bramata, per cui magari si è sofferto e lottato porta la bellezza proprio in quella attesa e in quelle battaglie (“Il tesoro è alla fine dell’arcobaleno che trovarlo vicino nel proprio letto piace molto di meno”). Le imprese, anche quelle che paiono impossibili, non sono precluse, ma è bene sapere quello di cui si va alla ricerca: “Come cercare l’ombra in un deserto o stupirsi che è difficile incontrarsi in mare aperto. Prima di partire si dovrebbe essere sicuri di che cosa si vorrà cercare dei bisogni veri”. La meta deve essere valutata con calma, non è detto che la corsa e la premura siano ideali per questo tipo di viaggio, corriamo il rischio di trascurare l’essenziale: “Ma le più lunghe passeggiate, le più bianche nevicate e le parole che ti scrivo non so dove l’ho comprate. Di sicuro le ho cercate senza nessuna fretta perché l’argento, sai, si beve, ma l’oro si aspetta”. Buon inizio di anno scolastico e… buona meraviglia, sperando non sia troppo nascosta, con “Il negozio di antiquariato” di Niccolò Fabi (La cura del tempo, 2003).