In ricordo di Fratel Biagio

Riporto il caldo saluto che don Agostino Petriciello rivolge oggi, sulle pagine di Avvenire, a fatel Biagio Conte, scomparso a Palermo in questi giorni a causa di una malattia.

“Fratel Biagio è morto? No, questa è una menzogna. Fratel Biagio è vivo, più vivo che mai, adesso che è volato via da questo mondo. Lo incontrai, ci incontrammo. Insieme ci calammo nelle acque pure del Vangelo e della preghiera per tentare di dissetare l’arsura che ci portiamo dentro. Quel giorno, come sempre, avevo pregato: «Manda, Signore, un angelo sul mio cammino». E l’angelo, ancora una volta, arrivò. Aveva un volto pulito, incorniciato da una barba incolta che gli dava l’aspetto di un antico patriarca; un sorriso largo, sereno, leggero. E degli occhi stupendamente verdi. «Come sono belli gli angeli», pensai. E mi misi alla tua scuola. L’angelo non va ostacolato, ma ascoltato, seguito. Quante volte ero stato ad Assisi? Quante volte avevo desiderato di poter essere stato contemporaneo di Francesco? Quante volte avevo sostato e sognato davanti al suo saio, ormai quasi ridotto in polvere? Un giorno lo incontrai sul mio cammino, Francesco. Si chiamava Riccardo. Chiedeva la carità di un passaggio in auto. Incuriosito, mi fermai. Mi riportò alla fede. Poi, come un’aquila alla quale va stretto il nido, volò verso un Paese da cui tanti fratelli scappano. A servire un popolo che tanti potenti affliggono. A farsi povero per loro e con loro. Oggi lo vedo poco. La Tanzania è lontana. Rimane l’affetto, la riconoscenza, la collaborazione, la nostalgia. Il desiderio e il bisogno di essere scandalizzato ancora dalla radicalità dei coraggiosi.
E arrivasti tu, Biagio. A ricordare a me, alla Chiesa, al mondo, che l’amore vero non conosce le mezze misure; che gli innamorati sanno osare, rischiare, mettersi in gioco, sfidare il destino. Sempre eccessivi, sempre presenti. Sei stato un ingordo, frate. Hai affollato quella schiera di uomini e donne che non si accontenta mai. Che guarda continuamente oltre l’orizzonte. Che non ha paura di niente, nemmeno del peccato. Che non si ferma nemmeno davanti all’evidenza. Milioni di persone muoiono di fame. Avresti voluto sfamarle tutte, ma non ti era possibile. Non ti sei arreso. Hai dato da mangiare ai poveri di Palermo. Confidando in Dio. Fidandoti della Provvidenza. Ai poveri di pane si aggiunsero i poveri di cuore, i poveri di spirito, i poveri di vita. Non ti sei scagliato con rabbia contro i rapinatori dei forni altrui, li hai cercati, li hai trovati, li hai aiutati a non perdere la speranza, la dignità, la fede. Sei stato, Biagio, un calcio negli stinchi per tanti tiepidi come me.
Il Francesco di Assisi siciliano del nostro tempo. Com’è bella la nostra santa madre Chiesa, frate. Questa grande famiglia dove c’è posto per tutti, santi e peccatori e peccatori trasformati in santi. Così simili, così diversi, così normali, così strani, così originali. Sei volato via a pochi giorni di distanza da papa Benedetto. Le differenze tra te e lui, tra la tua vita e la sua, saltano agli occhi. Eppure quanto vi somigliate. Con strumenti diversi e diverse voci, insieme avete cantato la serenata a chi vi aveva rapito il cuore. Che state facendo, adesso? Quale inenarrabile Mistero stanno contemplando i vostri occhi? Biagio, Benedetto, fratelli di tutti, pregate per noi.
Alla Sicilia, cui la mafia stupida e assassina, ha fatto tanto male, ha strappato tante vite, il Signore ha voluto regalare un uomo buono, semplice, spoglio, indifeso, ricco della sua sola povertà. Un uomo con le braccia larghe, lo sguardo lungo, il cuore senza confini. Non hai disprezzato niente dei doni che Dio ha dato agli uomini. Hai voluto condividerli con i poveri. In fondo – permettimi – sei stato lo scaltro del vangelo. Hai capito che la gioia non viene dal possesso e dal potere, ma dal servizio che si rende alle persone, soprattutto quelle che sanno gioire per le piccole cose. Quanto pane hai spezzato agli affamati? « Entra, benedetto dal Padre». A quanti ignudi hai offerto un mantello e un tetto perché non morissero di freddo e di vergogna? « Entra, benedetto dal Padre» Fratel Biagio, Pino Puglisi, Rosario Livatino, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Doni immensi della Sicilia del nostro tempo alla Chiesa e al mondo. Prega per noi, frate. Continua ad essere l’angelo che ognuno desidera incontrare. Grazie per averci ricordato che «alla sera della vita ciò che conta è avere amato». Ottienici il dono della perseveranza, perché, come te, non ci stanchiamo di fare sempre e solamente il bene.”

In tanti espulsi con Claudio

In questi anni ho scritto alcune volte sul Burundi e sull’attività di Padre Claudio Marano. L’avventura sembra giunta al capolinea, certo non per suo volere. Ammetto che, penso un po’ come tutte le persone che in questi anni si son date da fare per aiutare i ragazzi del centro, mi sento espulso anche io… L’articolo è preso dal Messaggero Veneto, autrice Monica Del Mondo, my sister:
Padre Claudio Marano ha lasciato il Burundi, probabilmente per sempre. Il sacerdote saveriano è stato “invitato” ad andarsene dal Centro giovani Kamenge, da lui fondato nel 1990 per proporre ai ragazzi la via della pace e della convivenza.
padre claudioPadre Claudio è un uomo di chiesa e di pace. È l’uomo al quale, nel 2002, è stato assegnato a Stoccolma il premio Nobel alternativo per i suoi meriti umanitari. Con la morte nel cuore, ha fatto la valigia ed è rientrato in Italia. Ma di fatto è stato estromesso. Difficile capire da chi e perché.
Sulla carta i Saveriani hanno ceduto il Centro alla Diocesi di Bujumbura (capitale dello stato burundese) e questa ha deciso di mettere altre persone alla guida della struttura. In realtà le motivazioni possono essere più complesse, a cominciare da una non condivisione (anche negli ambienti cattolici) dello stile “impegnato nel sociale” di padre Claudio Marano, per proseguire con i problemi economici del Centro e con la considerazione di quanto scomodo possa essere un luogo in cui si parla di pace alla periferia della capitale di un Paese dilaniato dai conflitti etnici, dalla corruzione e dalle divisioni, dove mantenere il potere significa far leva proprio su queste miserie e contraddizioni.
Padre Claudio non esita a parlare di un’“espulsione”. Non la prima della sua vita, ma la più dolorosa. «Un’espulsione è un fatto terribile: all’improvviso – racconta padre Claudio – tu non sei più quello di prima, il ruolo che avevi cambia, i progetti intrapresi vengono stoppati. È molto pesante».
Classe 1951, il sacerdote è nato a Melarolo, piccola frazione di Trivignano Udinese. Dopo l’ordinazione e un anno in Francia, nel 1980 è andato per la prima volta in Burundi dov’è rimasto per 5 anni fino a quando i missionari furono cacciati dalla dittatura militare. Lavorò fino al 1990 per la stampa missionaria e poi ritornò in Burundi per intraprende l’avventura del Centro giovani.
Tutto ha inizio da un campo di due ettari, coltivato a fagioli e mais. Lì si comincia a costruire un Centro dove i giovani, tutti, gli Hutu e i Tutsi, quelli di un quartiere e quelli dell’altro, i musulmani con cristiani e protestanti, possano divertirsi assieme, frequentarsi, conoscersi.
«Il nostro scopo – spiega padre Claudio – era creare un ambiente attraente, con strutture, spazi, attrezzature dove i giovani potessero vivere assieme e imparare la fraternità». Utilizzando i linguaggi più diversi, dallo sport al film, dal teatro alla musica, nel Centro Kamenge si parla della pace ma, soprattutto, si propone la vita in pace.
Non è facile, perché fuori si spara e le case vengono distrutte. Non è facile per un ragazzo di un’etnia parlare con un giovane di un’altra etnia, sapendo che fuori i suoi familiari sono stati ammazzati. Non è facile vincere odi e paure.
Non è facile giocare a calcio con un arbitro che grida “tutti a terra” quando si sentono fischiare le pallottole. In 25 anni si sono iscritti al Centro 44.550 giovani. Sono in duemila a frequentarlo ogni giorno, giovani dai 16 ai 30 anni.
«Abbiamo lavorato sulle differenze – precisa padre Claudio –, coinvolto i rappresentanti delle varie religioni e i diversi quartieri con i loro club e le loro associazioni. Abbiamo cercato di aprire il Centro al mondo esterno».
Per un periodo il Centre Kamenge ospitò anche un ospedale da campo. Per mandare avanti il Centro sono impegnati 60 stipendiati e 70 volontari. Le spese sono tante.
«Occorrono circa 450 mila euro l’anno – specifica padre Claudio Marano –, cifra che per metà viene coperta dalle donazioni da organizzazioni umanitarie, ecclesiastiche o private. Altri fondi arrivano dalle persone che si danno da fare per organizzare iniziative e raccogliere denaro. Ma ci siamo anche indebitati, per promesse di denaro non mantenute. Non è una situazione semplice per una realtà che da un lato viene mostrata come esempio di convivenza quando c’è il delegato di turno dall’estero e dall’altro ha nemici ovunque».
Non è forse un caso che, mesi fa, padre Claudio sia incappato nell’accusa di essere coinvolto nell’omicidio delle tre suore italiane in Burundi. «Mi avevano solo visto entrare in un bar e parlare con una persona», ricorda.
Sono in tanti, anche dal Friuli, ad aver inviato aiuti a padre Claudio e tanti i risultati ottenuti, riconosciuti a livello internazionale.
«Quando vedi un ragazzo finire la sua partita a basket, togliersi le scarpe per far giocare un altro ragazzo e quel ragazzo non è della sua stessa etnia e neppure del suo quartiere, capisci per cosa stai lavorando. Lo capisci quando vedi i giovani assieme, nei cantieri lavoro estivi, impegnati per costruire la casa di altre persone, distrutta dai conflitti».
Ora è tutto finito. «I Saveriani hanno ceduto il Centro alla Diocesi che lo fa gestire da tre preti. Non mi hanno voluto. Eppure sarei rimasto lì – dice il sacerdote –, anche a pulire i bagni. Hanno già detto che se non riusciranno a proseguire con il Centro, lo trasformeranno in scuola privata. Tanto si sta poco. Le strutture ci sono. E anche belle e appetibili. Ma solo per chi se le potrà permettere».
Padre Claudio ha lasciato là, con i ragazzi, il suo cuore: «Non riesco a vivere bene se non con loro». Ora si prende un periodo di riposo, in attesa di una nuova destinazione decisa dai suoi superiori. E guarda i giovani friulani con occhi velati di tristezza.
«È una disperazione vedere qui i giovani senza speranza. Stare chiusi nelle proprie stanzette con telefonini o pc significa chiudersi alla vita. È nell’incontro con l’altro la vita. Bisogna riscoprire la bellezza del vivere assieme. Altrimenti saremo sempre qui a contare: quanti migranti riusciremo a ospitare, quanti zingari potremo tollerare, quante auto ci stanno nel garage, quante tv nel salotto. Non le cose riempiono la nostra vita, ma le persone», chiude padre Claudio.