Gemma n° 2259

“Ho portato la foto della mia nonna materna: si chiama H. Lei per me è la persona più importante; da piccolo preferivo stare a casa sua, non a che casa mia ci fossero litigi, ma lei mi ha insegnato l’educazione, il rispetto e, visto che è parecchio brava a cucinare, anche qualche tipico piatto albanese. Da poco mio nonno è morto, quindi cerco di starle più vicino possibile anche se lei abita in Albania. Questo Natale e per il mio compleanno è venuta qui in Italia, ci siamo divertiti e abbiamo riso tanto. Poi, quando se n’è dovuta andare, mi sono molto rattristito. Se la conosceste anche voi, pensereste la stessa cosa perché lei è così affettuosa e carina con tutti” (L. classe prima).

Gemma n° 2213

“Ho pensato molto a cosa avrei potuto portare quest’anno come gemma. L’unica cosa di cui ero certo è che avrei portato un ricordo da condividere con la classe, ma ne sono successe di cose negli ultimi tempi e non voglio sprecare il tempo di tutti elencandole una alla volta. Quindi ho portato una canzone che ho scoperto circa 6 mesi fa e da allora non ho mai smesso di ascoltarla. Il testo parla della nostalgia e del voler riaggrappare i momenti felici della vita, anche se alla fine dobbiamo tornare al presente. Questo tema è decisamente azzeccato anche perché spesso e volentieri mi capita di passare le notti insonni a ricordare eventi della mia vita, sia belli che brutti” (T. classe quarta).

Gemma n° 2161

“L’idea di portare questa gemma mi è venuta in mente passeggiando per le strade decorate di Udine ed ho pensato subito al fatto che si stia avvicinando il Natale, e che io non me ne stia quasi accorgendo. Mi sono ritornati in mente tutti i Natali trascorsi, soprattutto quelli di quando ero più piccola. Era davvero un periodo bellissimo perché l’atmosfera, la musica mi facevano stare bene ed ero molto felice. Mi sono sempre piaciuti di più i giorni precedenti piuttosto che il giorno in sé, anche se lo passavo con la mia famiglia, perché quella giornata sembrava che durasse davvero poco. Ora che ci penso mi dispiace di non riuscire più a sentire questa atmosfera come una volta, e al contrario di quando ero bambina, non sono più felice spontaneamente in questo periodo che mi fa pensare troppo a tutto. Vorrei riuscire a vivere a pieno ogni momento, perché anche se non lo rivivremo mai più, diventerà un bellissimo ricordo” (S. classe terza).

Gemma n° 2131

“Nonostante possa sembrare una cosa molto infantile, la mia gemma è questo peluche. Non mi ricordo bene la sua storia visto che ero molto piccola, ma so per certo che me l’ha regalato mia zia. L’aveva messo in una cesta assieme ad altri peluche e mi aveva fatto scegliere. Avevo scelto questo peluche perché il giallo per me era simbolo di felicità e in più la faccina sorridente mi ha incoraggiata a sceglierlo. Mia zia ha solo 16 anni in più di me ed essendoci cresciuta assieme mi sento molto legata a lei. Purtroppo da tre anni ha intrapreso un percorso di vita molto complesso che l’ha costretta ad una lontananza dalla sua famiglia. Volevo solo dire che con questo peluche io penso sempre a lei con la continua speranza che lei un giorno possa cambiare idea” (R. classe prima).

Gemma n° 1901

“Ho deciso di portare il primo vestitino che ho indossato quando sono nata: mi dicono che mi stesse persino grande. Pensare che ora ho 15 anni mi fa provare un po’ di nostalgia e ogni tanto vorrei tornare piccola ed essere coccolata com’era a quel tempo; ancora sono coccolata, però ugualmente vorrei tornare a quand’ero piccolina”.

Penso che abbia ragione A. (classe prima): non è la stessa cosa. Quando coccolo Mariasole le vedo fare una cosa di cui penso siano capaci solo i bambini così piccoli: si abbandona, si affida, è totalmente persa in quella coccola, senza altri pensieri. Se la gode, se la prende tutta quella coccola. Penso che crescendo perdiamo questa capacità, ci viene meno l’abilità di cogliere il 100% di quello che viviamo. Molti li chiamano filtri: a volte sono utili, a volte no.

Gemma n° 1805

“Ho deciso di portare una foto in cui ci siamo io, 18 anni fa, e mio nonno paterno che viveva con noi. Lui se n’è andato che io avevo un anno e qualche mese; praticamente non l’ho conosciuto e i miei ricordi si basano principalmente sulle foto e sui racconti di mia madre e mio padre. Nonostante questo mi sento legata a lui; soprattutto negli ultimi anni  sento forte questo legame. Sarebbe bello tornare indietro e conoscerlo meglio perché sento che mi manca quella parte di ricordi”.

La gemma di C. (classe quinta) mi ha fatto venire alla mente una canzone di Robbie Williams che solitamente faccio ascoltare in quarta quando parliamo di morte e aldilà. Si tratta di un brano molto dolce che parla della scomparsa della nonna. Ne metto la versione live, cullandomi al pensiero di che bello sarebbe poter per un attimo riabbracciare i nonni che non ci sono più.

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E’ un titolo che non attira, che non cattura, quello che ho scelto per questo post. Ma chi frequenta il Liceo dove insegno, capisce.
Domani quinta ora, lunedì prima, mercoledì seconda, giovedì terza. Preferirei non arrivassero. Ci sono alcuni momenti nel mio mestiere che non mi piacciono proprio, anzi, che mi fanno male: quell’Arrivederci mormorato l’ultima volta che esco da una quinta e che invece so bene essere un Addio. E’ senz’altro un momento ricco anche di soddisfazioni, di immagini legate ai cinque anni passati insieme, ai cambiamenti, loro e miei. Mi capita spesso di ripensare alle prime lezioni, nel febbraio del 1998 alle scuole medie di Latisana: tutto preparato nei minimi dettagli, al minuto, persino quando fare una battuta… nulla lasciato al caso… tutto sotto controllo e ben poco naturale, col terrore che qualche alunno alzasse la mano per fare una domanda. Ripenso con un sentimento di tenerezza a quel che sono stato. Ma tornando a quelle quattro ore che mi aspettano, e a tutte le altre volte di questi anni, in quell’attimo in cui do le spalle alla classe ed esco, sento la mancanza di un rapporto che si è costruito; e più avanti vanno gli anni, più è forte quel sentimento che diventa immediatamente nostalgia. E’ vero, dico “arrivederci”: ci si vedrà ancora, durante gli esami, dopo gli esami, in giro, su fb… Ma non posso negare di sentire che è anche un addio a quella classe e a quel gruppo; e ciò indipendentemente dal fatto che siano stati uniti o meno tra loro. E’ semplicemente qualcosa che non ci sarà più e che avverto come qualcosa di mio e che trovo difficile spiegare. Vero, bellissimo, stimolante e affascinante vederli crescere e diventare adulti, però la nostalgia resta. Chi saranno nella loro vita? Chi decideranno di essere? Saranno felici? Realizzeranno le loro aspettative? Faccio un respiro profondo e li accarezzo tutti col pensiero: “Arrivederci”.

Sulla nostalgia

4078432209_273e0aa6ac_oUn articolo di Roberto Cotroneo molto fertile.
In una pagina meravigliosa del suo libro L’ignoranza, Milan Kundera parla della nostalgia, e racconta come questa parola sia diversa da lingua a lingua, anche nei suoi significati, nelle sue sfumature. Sappiamo che nostalgia viene dalle parole greche nóstos e da álgos: ritorno e sofferenza. La sofferenza di non poter più tornare. Di non riuscirci più. Dunque la sofferenza di un mondo che non c’è, di persone lontane, di luoghi che non vedi da anni, di ritorni che appaiono impossibili. I portoghesi la chiamano saudade e in certi paesi si distingue tra nostalgia vera e propria e rimpianto della propria terra. Ad esempio gli islandesi, che hanno un lingua antichissima dicono söknudur per nostalgia, e heimfra, per il rimpianto. E gli spagnoli usano añoranza, che viene dal catalano enyorar, e a sua volta dal latino ignorare.
La nostalgia è non poter tornare e non poter sapere. Si dice con molte parole diverse, ma anche con espressioni che sono entrate nel linguaggio comune: «mi manchi», o in francese «je m’ennuie de toi», sento la tua mancanza. I tedeschi, ci spiega Kundera, preferiscono dire sehnsucht, «desiderio di ciò che è assente». La mancanza delle propria terra, dei propri luoghi, dell’amore, e ancora la distanza, il non poter sapere, il non poter vedere. Le nostalgie di Ulisse, il più grande avventuriero di tutti i tempi ma soprattutto l’uomo di nóstos e di álgos.
Agli inizi del secolo scorso, esploratori e scrittori coniarono l’espressione “mal d’Africa”. Il mal d’Africa era quella strana sensazione, alle volte improvvisa, che ti faceva rimpiangere il continente africano, anche se ci eri stato una sola volta e per poco: come un richiamo, ancestrale, arcaico, come una malattia priva di cure e alle volte irresistibile. Il luogo originario, il punto lontano da tutto dove hai bisogno di tornare è un tema fondante da sempre. La nostalgia diventa quasi uno spazio sacro, un rito di lontananza, nel nome dell’añoranza, dell’ignoranza. Solo che ormai nóstos e álgos hanno perso il loro valore. Non c’è più ritorno e dunque sofferenza, non c’è più lontananza, non c’è più immaginazione.
La grande rivoluzione non è soltanto il web, e non è soltanto la condivisione, ma è in quelle che chiamiamo le wearable technologies, ovvero le tecnologie portabili ed indossabili, modellate attorno al corpo delle persone, che permettono di fare molte cose: dal monitorare la nostra salute, rilevando dati corporei, al registrare emozioni, al tenersi in collegamento e in connessione con qualcun altro fino a condividere movimenti, immagini, musica, e quant’altro.
Molte startup si concentrano su queste tecnologie di ultima generazione, molti pensano che, a cominciare dall’Apple Watch, avremo davanti una nuova strada da percorrere, molto interessante. Con soluzioni che in alcuni casi possono essere straordinarie. Tutte le applicazioni mediche wearable permetteranno di monitorare e tenere sotto controllo la salute della popolazione anziana. Oppure, se siete diventati genitori da pochi giorni e volete stare tranquilli, potete far indossare al vostro neonato un abitino in cotone chiamato Howdy, prodotto da un’azienda di Monza, che tiene sotto controllo il suo cuore, la sua respirazione i suoi movimenti, e trasmette i dati al vostro tablet.
Ma al di là di questi prodotti specifici, e oltre quelli pensati per il fitness, che esistono da sempre, il futuro è molto orientato anche a un nuovo modo di indossare la nostalgia, per tenere lontana l’añoranza. Sistemi che permettono di avere con sé una vicinanza artificiale di immagini, sensazioni ed emozioni altrui che puoi indossare e sentire con te. Un passo ulteriore per prosciugare quel grande mare dove navigò Ulisse, il mare che gli restituì la via del ritorno. Si torna per poter raccontare, e lo stare lontani permette di ricordare. Oggi non ci sono partenze e ritorni, c’è un tempo misto, ibrido che non consente ricordi che non siano memoria di un presente indifferente, dove esserci o mancare è solo una connessione accesa o spenta, che cancella sogni e nostalgie.”

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Ho portato il mio vecchio ipod: mi interessa quello che c’è dietro e quello che c’è dentro. Dietro perché è con me da 9 anni, per cui ad esso sono legati tutti i ricordi, i viaggi in barca, in nave, in aereo, le amicizie e le persone. Dentro per la musica: mi rilassa, mi proietta, mi fa pensare e riflettere. Mi fa sentire a mio agio.”
Si parla spesso di quella occidentale come di una società materialista nel senso proprio del termine per il suo eccessivo dedicarsi agli oggetti e alle cose materiali. La gemma di E. (classe quarta) mi ha fatto pensare alla mia difficoltà a separarmi dal mio vecchio walkman regalatomi dai miei dopo gli esami di terza media, o dalle musicassette da me assemblate quando ero adolescente. La paura è quella di provare nostalgia un giorno futuro. Nostalgia per quegli oggetti che contengono dentro di sé emozioni e sensazioni. E concludo sempre dicendomi: “E perché buttarli? Un posticino in qualche armadio lo trovo!” 😛

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Prof, le mancheremo?

Torino_042 fbCi sono classi che, tra vacanze pasquali e ponti vari, rivedrò tra un mese. In una di queste mi è stato chiesto: “Prof, le mancheremo?”. Mi sono chiesto da dove nasca questa domanda. Mi sono risposto che probabilmente emerge dalla speranza di sentirsi rispondere “Sì, certo che mi mancherete”, da un bisogno di sentirsi apprezzati, riconosciuti, amati. Chi di noi non lo prova? Ci stacchiamo da qualcuno a cui teniamo e siamo felici se, dopo poco che ci siamo allontanati, ci chiama o ci manda un whatsapp per dirci “Mi manchi già”. Ci sono ore che funzionano perfettamente e nel momento in cui finiscono se ne ha già nostalgia perché si sente sulla pelle un brivido del volo appena fatto. Ce ne sono altre che funzionano meno, almeno apparentemente, ma che magari hanno lavorato nel profondo. A volte i sentieri della mente sono imperscrutabili. La mancanza degli studenti è una cosa a cui ci si deve abituare facendo questo mestiere, soprattutto quando il saluto è definitivo, all’ultima lezione del quinto anno; e c’è una sola cosa che allevia la malinconia di quegli ultimi sessanta minuti: il vedere gli studenti come speranze, come possibilità a cui si sono cercati di dare gli strumenti per il domani. Per cui, sì, nel momento stesso in cui suona la campanella di fine ora sento la mancanza di quegli alunni, sostituita subito dal desiderio di un nuovo incontro che poi diventa voglia di vederli volare con le proprie ali. Ed è allora che la mancanza si volge in gratitudine e commozione, felice, per una volta, di guardare le loro spalle e i loro talloni che vanno per mille strade.

Desiderio del mare

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“…e coloro ai quali quella musica giunge, sempre poi la odono nei propri cuori, e il desiderio del mare mai più li abbandona” (J.R.R.Tolkien, Il Silmarillion)

Arrivederci

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Ci sono alcuni momenti nel mio mestiere che non mi piacciono proprio, anzi, che mi fanno male. Il momento più doloroso è quell’Arrivederci mormorato l’ultima volta che esco da una quinta e che invece so bene essere un Addio. E’ senz’altro un momento ricco anche di soddisfazioni, di immagini legate ai cinque anni passati insieme, ai cambiamenti, loro e miei. Mi capita spesso di ripensare alle prime lezioni, nel ’98: tutto preparato nei minimi dettagli, al minuto, persino quando fare una battuta… nulla lasciato al caso… tutto sotto controllo e ben poco naturale. Mi rivedo con un sentimento di tenerezza per quel che sono stato. Ma tornando ad esempio a stamattina, e a tutte le altre volte di questi anni, in quell’attimo in cui do le spalle alla classe ed esco, sento la mancanza di un rapporto che si è costruito; e più avanti vanno gli anni, più è forte quel sentimento che diventa immediatamente nostalgia. E’ vero, dico “arrivederci”: ci si vedrà ancora, durante gli esami, dopo gli esami, in giro, su fb… Ma non posso negare di sentire che è anche un addio a quella classe e a quel gruppo; e ciò indipendentemente dal fatto che siano stati uniti o meno tra loro. E’ semplicemente qualcosa che non ci sarà più e che avverto come qualcosa di mio. Vero, bellissimo, stimolante e affascinante vederli crescere e diventare adulti, però la nostalgia resta. Faccio un respiro profondo e li accarezzo tutti col pensiero: “Arrivederci”.

Quel desiderio inappagato di ritornare

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Nel romanzo “L’ignoranza” Milan Kundera scrive: “La nostalgia è la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare”. Non mi ha fatto pensare tanto a dei luoghi fisici, appartenenti allo spazio, in cui desiderare di fare una capatina, ma a dei luoghi afferenti alla dimensione del tempo. Di quelli sì, mi capita di avere nostalgia; sono momenti, attimi, situazioni ricche di profumi, voci, colori che mi piacerebbe poter rivivere, magari per un attimo appena. Basta magari, come pochi giorni fa, la musica del solco di un vecchio LP, o la fragranza di un profumo chiuso in una vecchia boccetta, o una fresca calligrafia su un vecchio biglietto scritto sui banchi di scuola: tutto si palesa davanti agli occhi dell’immaginazione come se fosse realmente lì. E nasce l’anelito a poter viaggiare nel tempo…

 

Verrà un vento

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La tua nostalgia è un mare che puoi navigare,

la tua nostalgia è un terreno su cui puoi camminare,

perché te ne stai allora inerte e scorata

fissando il vuoto?

Verrà un mattino con un orizzonte più rosso

di tutti gli altri,

verrà un vento a porgerti la mano:

mettiti in cammino!

                                     (Edith Södergran)

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