Colonne sonore rosa

Ho pubblicato poco fa una serie di articoli che parlavano di situazioni conflittuali, di guerra e guerriglia. Quando lavoro ho quasi sempre musica ad accompagnarmi e a volte capitano delle coincidenze. Mentre pubblicavo il post precedente la colonna sonora era “The postwar dream” dei miei amati Pink Floyd con le incalzanti domande a Margaret Thatcher, primo ministro inglese che aveva voluto la guerra delle Falkland.

Dimmi la verità, dimmi perché Gesù fu crocifisso.
E per questo che papà è morto? Era per te? Ero io?
Ho guardato troppa televisione?
C’è un ombra di accusa nei tuoi occhi?
Se non era per i Giapponesi, così bravi a fare navi,
i cantieri navali di Glasgow sarebbero ancora aperti.
E non deve essere un gran divertimento per loro
sotto il sol levante, con i loro ragazzi che si suicidano.
Che cosa abbiamo fatto, Maggie? Che cosa abbiamo fatto?
Che cosa abbiamo fatto all’Inghilterra?
Dobbiamo urlare? Dobbiamo gridare?
“Che cosa è successo al sogno del dopoguerra?”
Oh Maggie, Maggie, che cosa abbiamo fatto?

Che peso ha?

ISIS

Ma l’Islam moderato esiste o non esiste? Come si configura? Ad esso viene data voce? O non conviene farlo emergere perché non farebbe audience? Esso è effettivamente rappresentativo? Scrive oggi Francesco Pistocchini su Popoli:
Intrecci politici e militari, spesso opachi, hanno consentito ai militanti estremisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (oggi identificati con la sigla Is) di occupare parte della Siria e dell’Iraq con l’obiettivo dichiarato di fondare un Califfato compiendo stragi, soprattutto tra le minoranze non islamiche (cristiani, yazidi e altri) e tra gli stessi musulmani. Tuttavia molte voci nell’islam sunnita si sono levate contro l’Is, anche se non sempre messe in risalto dai media, non solo in Occidente, ma anche in Paesi musulmani più conservatori.
Tra questi spicca il Gran muftì dell’Arabia Saudita, lo sceicco Abdulaziz Al sl-Sheikh, che il 19 agosto ha definito sia l’Is sia al Qaeda «nemici numero uno dell’Islam» e non appartenenti in alcun modo alla fede comune. La corrente wahabita che sostiene il regime saudita condivide alcune posizioni dottrinali dei terroristi, ma respinge i metodi violenti e il pericolo di destabilizzazione che rappresentano. Si ritiene che molti sauditi si siano uniti ai ribelli in Siria e Iraq e non è chiaro quanto la posizione dei religiosi wahabiti possa influenzare le loro scelte.
Anche importanti autorità dei principali Paesi dell’area hanno condannato le stragi, a partire dal Gran muftì di al-Azhar, Egitto, Shawqi Allam, che ha denunciato l’Is come una minaccia per l’islam. Il responsabile degli Affari religiosi in Turchia, Mehmet Görmez, ha affermato che: «La dichiarazione fatta contro i cristiani è veramente terribile. Gli studiosi islamici hanno bisogno di concentrarsi su questo perché l’incapacità di sostenere pacificamente altre fedi e culture annuncia il collasso di una civiltà».
Sul piano ufficiale, sia l’Organizzazione per la cooperazione islamica, che riunisce 57 Paesi, sia la Lega araba, si sono espresse contro i crimini commessi nelle scorse settimane in Iraq, parlando esplicitamente in difesa delle minoranze cristiane e degli yazidi. E inoltre non sono mancate le condanne da parte delle autorità delle comunità islamiche negli Usa, in Gran Bretagna e Francia, specialmente dopo l’assassinio del giornalista James Foley.
Chiara ed esplicita è la posizione dei musulmani in Italia. A fronte di una quarantina di mujaheddin di provenienza italiana partiti per la jihad in Siria e Iraq, persone di cui ha ampiamente parlato la stampa in questi giorni, in un appello del 12 agosto contro le guerre, l’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia che raggruppano 1,2 milioni di fedeli, ricorda che «il rispetto e la protezione della Gente del Libro (i cristiani e gli ebrei) e, in generale di tutte le popolazioni che vivono in un Paese o territorio governato dai musulmani è un dovere ineludibile di qualunque potere che si richiami all’Islam». L’Ucoii aggiunge che quando una forza che affigge insegne islamiche viola tutte le regole morali del conflitto, non può essere giustificata o sostenuta da alcuna referenza religiosa.
Davide Piccardo, responsabile del Coordinamento associazioni islamiche di Milano (Caim) conferma a Popoli.info la posizione dei musulmani nel nostro Paese: «Quanto sta accedendo in queste settimane in Siria e in Iraq, per effetto dell’avanzata dell’Isis, sono aberrazioni. In questo frangente noi siamo non solo con i cristiani iracheni e siriani, ma con tutte le minoranze religiose vittime della violenza».
I musulmani italiani ricordano che anche 16 ulema sunniti di confraternite sufi di Mosul sono rimasti vittime dei fanatici dell’Is così come gli imam di alcune grandi moschee, mentre altri musulmani, tra cui i peshmerga curdi, fanno fronte all’avanzata degli estremisti.”

Il seme nella pagoda

Kha Khat

Massimo Morello è un giornalista che vive a Bangkok. Stamattina ho letto un suo interessante articolo su Studio.
«Non credo in Dio. Il Buddha è un Maestro. L’uomo non deve pregare, deve seguire la via» dice Phra, il Venerabile, Phitoo. «Dio non esiste. Se esistesse dovrebbe essere buono. Quindi non ci sarebbe il male» dice Ashin, il Maestro, Kelasa. Entrambi sono monaci della foresta, di quelli che in Thailandia, Laos o Birmania, là dove è più forte l’ortodossia della scuola Theravada, si dedicano alla meditazione in luoghi isolati. Il primo in un villaggio nell’estremo nord-est della Thailandia, verso il confine col Laos. Il secondo in un luogo ancor più remoto, tra i monti dello Shan meridionale, in Birmania.
Incontri non casuali. «Se vuoi capire vieni nel mio posto» aveva detto Phra Phitoo nel nostro incontro al Wat Mahadhatu di Bangkok, un tempio che ospita la più importante università buddhista thai.
«Nulla è impossibile per chi vuole comprendere davvero» aveva detto Ashin Kelasa, quando l’avevo incontrato a Mandalay, dopo avermi dato poche, scarne indicazioni per raggiungerlo nel suo eremo.
Quel che volevo capire era il cosiddetto “integralismo buddhista”. Credevo nella magia del buddhismo. I suoi valori di compassione, nel senso di empatia, comprensione, rispetto, mi apparivano antitetici con le “Milizie degli Illuminati” che in tutto il sud-est asiatico cercano di trasformare il Dharma, la legge morale, in legge dello Stato, dottrina politica. Un fenomeno che in Birmania si è manifestato con le esplosioni d’intolleranza e violenza nei confronti della minoranza musulmana (circa il 5% su una popolazione di 60 milioni): nell’ultimo anno si sono susseguiti veri e propri pogrom anti-islamici, con oltre 250 morti e circa 150.000 persone rimaste senza casa.
Un “terrore buddhista”, come strillato nella copertina di Time del 1° luglio, che ha il volto di un monaco: Wiseitta Biwuntha, noto come Ashin Wirathu, leader del movimento 969, che si richiama ai 9 attributi del Buddha, i sei del suo insegnamento e ai nove del “Sangha”, la comunità dei fedeli. In un paese, come tutti gli altri dell’area, ossessionato dalla numerologia, 969 è divenuto il simbolo della difesa del “savanna”. Questo termine pali, che ingloba la comunità buddhista e l’essenza stessa dell’insegnamento del Buddha, da oltre due millenni giustifica ogni deviazione dall’insegnamento stesso.
«Quando lasci che il seme di un albero metta radici in una pagoda, all’inizio ti sembra piccolo. Ma sai che dovrai tagliarlo prima che cresca troppo e distrugga l’edificio» ha detto Ashin Wirathu, secondo cui i musulmani minacciano l’identità birmana.
«I monaci non devono occuparsi di politica» commenta infastidito Phra Phitoo, quando gli chiedo un commento. Secondo quel tranquillo monaco della foresta thailandese, l’importante è concentrarsi su se stessi. Ma alla fine anche lui si lascia andare a qualche valutazione teologica. «Il cristianesimo è avido e l’induismo stupido». Peggio di tutte è l’Islam. «È una religione cattiva: uccidi e vai in paradiso». Con minor virulenza è lo stesso giudizio di Ashin Wirathu. «I musulmani sono fondamentalmente cattivi. Maometto gli permette di uccidere qualsiasi creatura» ha dichiarato.
Ashin Kelasa predica invece la tolleranza. «Giudicate le persone, non la loro religione» predica di fronte a circa duecento seguaci birmani nel ritiro di meditazione al termine del Thingyan, il capodanno lunare. Un invito al dialogo tanto più importante perché avviene poco tempo dopo gli scontri tra buddhisti e musulmani avvenuti proprio in quella regione. In privato, però, anche questo ex professore di matematica, autore di un saggio su Buddhismo e Democrazia, manifesta insofferenza nei confronti dei musulmani. «Il problema è che con loro non è possibile il dialogo. Giudicano gli altri ma non accettano di mettersi in discussione». Per quanto riguarda l’estremismo dei monaci che incitano alla violenza si limita a negarlo con un sofisma. «Non ci sono monaci violenti. Se sono violenti non sono monaci».
Seguire i monaci della foresta, alla fine, non è servito a comprendere le ragioni delle derive integraliste del buddhismo. Anzi, il sonno della meditazione ha generato nuovi dubbi, incubi. «Osservali e falli passare» mi tranquillizza Ashin Kelasa. «Il senso del buddhismo nessuno può dartelo, devi conquistarlo».
Aveva capito tutto John Burdett, ex avvocato inglese che scrive romanzi gialli ambientati in Thailandia. «Questo è uno dei grandi vantaggi del buddhismo, amico mio: non è focalizzato sui risultati. Non c’è alcun modo in cui tu possa influire sul destino degli altri, ma solo sul tuo» mi aveva detto.
Forse è proprio in questo senso del dubbio e della ricerca individuale, sottinteso a tutta la cultura buddhista – almeno nel Theravada – che si possono cogliere i motivi inconsci di contrasto con l’Islam. «È la paura che genera violenza» dice Ajarn Sulak Sivaraksa, filosofo buddhista thai, uno dei padri fondatori del Network of Engaged Buddhists, organizzazione nota per l’impegno sociale e l’apertura al dialogo inter-religioso. La paura, a sua volta, è generata dal confronto con una religione così di piena di certezze, gerarchica come quella musulmana.
Più si osservano i propri dubbi, più si comprende che il problema dell’integralismo buddhista è ben più complesso di quanto appaia nell’ottica occidentale e monoteista, con i suoi criteri di giudizio tanto netti e “corretti”.
In Birmania, inoltre, il movimento sta diffondendosi proprio per le aperture democratiche del governo. La diffusione di Internet, la “libertà” di stampa, stanno dando voce a vecchie tensioni inter-etniche alimentate all’epoca della colonizzazione britannica in nome del divide et impera. Il regime militare che ha dominato il paese sino a tre anni fa riusciva a sedarle con un controllo feroce. Tanto che nel 2003 lo stesso Ashin Wirathu era stato incarcerato per istigazione alla violenza anti-musulmana, ed è stato liberato solo nel 2012 con altre centinaia di prigionieri politici. La nuova aria di libertà che si avverte non appena si mette piede in Birmania, inoltre, ha innescato un fenomeno psicosociale: la rabbia repressa in decenni di dittatura cerca sfogo in qualsiasi direzione.
Le analisi di alcuni commentatori occidentali secondo cui gli scontri inter-religiosi rappresentano il vero volto di un governo pseudo-democratico sono basate su una vera e propria forma di miopia geopolitica. Al contrario, come ha scritto Joshua Kurlantzick, analista del Council of Foreign Relations di Washington, “mettono a serio rischio il processo di riforme avviato dal presidente Thein Sein”.
È quest’ottica che va giudicato l’atteggiamento di Aung San Suu Kyi, accusata dalle anime belle dell’Occidente di aver “tradito” la causa per la quale ha trascorso vent’anni agli arresti e rischiato la vita. La Signora, non avrebbe condannato con sufficiente durezza le violenze contro la minoranza musulmana. In particolare Aung San Suu Kyi è giudicata colpevole di “silenzio” riguardo l’ennesima persecuzione contro i Rohingya, minoranza musulmana stanziata nel Rakhine, la regione birmana affacciata sul Golfo del Bengala.
Anche in questo caso, osservando da lontano, si sono create parecchie confusioni. A partire da quelle geografiche: in alcuni casi i Rohingya sono stati “assimilati” ai musulmani delle regioni centrali e viceversa. In altre parole per molti, in Occidente, tutti i musulmani birmani sono Rohingya.
La loro situazione, invece, è ben più drammatica. I Rohingya sono gli indesiderati del sud-est asiatico. Sono circa 800.000 persone, etnicamente e culturalmente assimilabili ai bengalesi. Per questa differenza sono discriminati e perseguitati più di chiunque altro, considerati “immigrati illegali”. Sono talmente disperati da cercare rifugio in Bangladesh, uno dei paesi più poveri al mondo. Dove sono confinati in campi privi di ogni assistenza. «Qui siamo già in troppi per troppo poco lavoro. Sarebbe una guerra tra poveri» dice un funzionario dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
Più o meno, è quanto dichiarato da Aung San Suu Kyi, intervistata dalla Bbc riguardo i Rohingya. «Sto chiedendo tolleranza, ma non credo che si dovrebbe usare la propria leadership morale, se volete chiamarla così, in nome di una qualsiasi causa senza però andare realmente all’origine del problema».
L’origine del problema, è la stessa di tutti i conflitti etnici e religiosi che negli ultimi anni sono esplosi in Asia, dalle Filippine al sud della Thailandia, lo Sri Lanka, il Bangladesh, l’Indonesia: una miscela esplosiva di democrazia immatura, nazionalismo, sperequazioni economiche abissali.
Nella maggior parte dei casi, poi il terrore non è stato buddhista. Mentre è un buddhista, un monaco vietnamita a proporre una soluzione. Si tratta del maestro Zen Thich Nhat Hanh. «Se incontri il Buddha uccidilo. Devi liberarti da ogni dogma. Se non sei capace di uccidere il Buddha non puoi uccidere i tuoi preconcetti».”

Bilanci di viaggio

papa al muro

A qualche giorno di distanza dal viaggio del papa in Terra Santa posto un articolo di Massimo Faggioli, pubblicato oggi su La Rivista Il Mulino: non è un pezzo di cronaca di quanto è successo, ma una lettura di inquadramento storico del viaggio, per cui lo consiglio alle classi più grandine (anche se non è vietato alle altre…).
“Il pellegrinaggio papale in Terra Santa è entrato a far parte della storia del moderno papato come un test, un momento critico da cui tentare di comprendere alcune traiettorie della chiesa cattolica contemporanea ma anche le differenze tra i singoli pontificati. Il pellegrinaggio di papa Bergoglio in Terra Santa (Giordania, Palestina, Israele, 24-26 maggio 2014) seguiva quello di Paolo VI (gennaio 1964), Giovanni Paolo II (marzo 2000), e Benedetto XVI (maggio 2009).
Il viaggio del 1964 era il primo di un papa moderno all’estero, nel clima del Vaticano II, all’insegna di sensibilità ecumeniche completamente nuove a livello ufficiale, storicamente precedente alla “revanche de Dieu” che inizia con la guerra del 1967 e gli anni Settanta, e teologicamente ancora riluttante a prendere atto del sionismo e del suo frutto compiuto nello Stato di Israele (parola che papa Montini si astenne visibilmente dal pronunciare in quei giorni). Il pellegrinaggio di Giovanni Paolo II del 2000 era il viaggio del primo papa del dialogo interreligioso esercitato in prima persona sulla base del mandato conciliare e oltre esso, nel contesto del Giubileo del 2000, ma prima dell’inizio della cesura dell’anno 2000-2001 (la seconda Intifada dopo la passeggiata di Sharon alle moschee nel settembre 2000 e la scia di attentati e violenze nelle città israeliane e palestinesi; l’11 settembre 2001; la costruzione della “barriera di separazione” tra Israele e territori a partire dal 2002). Il viaggio di Benedetto XVI nel 2009, infine, arrivava a poche settimane dalle polemiche scaturite dalla decisione di togliere la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, uno dei quali notoriamente antisemita, e contribuiva a condizionare la gestualità già inibita del papa teologo: le aspettative del discorso del papa a Yad Vashem circa le responsabilità della Chiesa (anche in quanto cattolico tedesco) andarono deluse.
In questo quadro, rispetto a quello dei precedessori il viaggio di papa Francesco rappresenta un passo ulteriore. Da un lato, Bergoglio ha assunto per la visita a quella terra e ai suoi simboli divisi e condivisi l’immagine della poliedricità (figura da lui analizzata nell’esortazione Evangelii Gaudium per descrivere la Chiesa) dello snodo religione-terra-pace in Medioriente. Il papa ha parlato a interlocutori diversi e ha bilanciato l’immagine di un cattolicesimo che – specialmente sotto Benedetto XVI – aveva ripreso la memoria della Shoah e il ruolo dello Stato di Israele sotto il segno di una “religione civile” che in Occidente ha una forte connotazione islamofobica. Il gesto di preghiera di Francesco di fronte alla “barriera di separazione” da parte palestinese e, il giorno dopo, alla tomba del fondatore del sionismo Theodor Herzl e al monumento per le vittime israeliane del terrorismo rappresentano messaggi inviati a entrambe le parti: ma rappresentano soprattutto la presa di coscienza da parte del papato che vi sono elementi altri (i “loci alieni” della teologia) e storicamente nuovi rispetto all’itinerario teologico-biblico classico del pellegrinaggio cristiano in Terra Santa. In questo senso, papa Francesco ha fatto propria una mappa già nota a molti – cristiani, ebrei e musulmani inclusi -, ma che finora aveva stentato a entrare nel registro dei viaggi papali. Francesco parla e agisce come cristiano in Terra Santa con maggiore libertà rispetto al predecessore italiano, polacco, tedesco che dovevano parlare per forza di cose anche come figli di quella Europa colpevole della Shoah. Le amicizie interreligiose del gesuita Bergoglio in Argentina sono parte di questa nuova condizione di libertà del papato globale dalle ipoteche della storia europea.
paoloviatenagoraDall’altro lato, papa Francesco ha ripreso una rotta invertita dal Vaticano di Benedetto XVI dal punto di vista teologico: l’incontro con il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo rappresenta la ripresa di un dialogo con gli ortodossi orientali che aveva promesso molto, invano, sotto Benedetto XVI. L’incontro di Gerusalemme tra Francesco e Bartolomeo ha un’origine storicamente vicina, durante l’inaugurazione del pontificato nel marzo 2013 e la straordinaria presenza di Bartolomeo a Roma (la prima volta nella storia in un’occasione del genere), ma anche un’origine lontana, quell’incontro tra Paolo VI e Atenagoras nel gennaio 1964 e alla revoca delle scomuniche reciproche nel 1965 alla conclusione del Concilio Vaticano II. L’incontro tra Francesco e Bartolomeo rappresenta la prova delle potenzialità di una ripresa senza timori del concilio.
Il lato sorprendente della visita del papa in Terra Santa riguarda l’azione politica della Santa Sede di Francesco. Sotto Benedetto XVI e il suo segretario di Stato cardinale Bertone, il Vaticano aveva dato segnali di volersi sottrarre alle responsabilità politiche della Chiesa figlia dell’Impero Romano in quell’area (e non solo là), consegnando così la questione geopolitica del cattolicesimo a rappresentanti locali (le chiese arabe compromesse coi regimi, i sicofanti del cattolicesimo teo-con di scuola statunitense). La mossa di papa Francesco dell’invito in Vaticano, “a casa del papa”, rivolto ad Abu Mazen e Shimon Peres nello stesso giorno delle elezioni europee è una delle tante ironie della storia, dopo anni in cui sia l’Europa sia gli Stati Uniti avevano dichiarato fallimento di fronte alla questione israelo-palestinese.
Emerge un volto politico di Francesco, che viene a completare un anno in cui gli interventi “politici” sono stati pochi e ben delimitati: la veglia del 7 settembre 2013 per la Siria (preventivo a un possibile intervento americano); l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium del novembre 2013; la freddezza ostentata coi politici italiani in tutto questo periodo; l’udienza al presidente Obama. Il pellegrinaggio in Giordania, Palestina e Israele danno maggiori elementi per giudicare la politica del Vaticano di Francesco e del segretario di Stato cardinale Parolin: un’azione che richiama, in termini diversi, la Ostpolitik di Giovanni XXIII e Paolo VI (allora contro gli episcopati renitenti rispetto alla politica del dialogo, oggi contro i patriarchi e gli episcopati cattolici compromessi coi despoti del Medioriente). Anche da questo punto di vista, continua per forza di cose il protagonismo di papa Francesco, in assenza (tranne rare eccezioni) di una élite episcopale mondiale in grado di seguire la traccia segnata dal vescovo di Roma.”

Da Aleppo

Prendo da Oasis e ripubblico senza altri commenti questi due estratti di e-mail che arrivano da Aleppo:

aleppo

“15 aprile 2014

[…] In queste condizioni durissime non sentiamo affatto avvicinarsi la Pasqua, perché siamo in una situazione difficilissima, in particolare ad Aleppo in questi giorni. Da una settimana soffriamo per una lunga interruzione dell’elettricità e dell’acqua e i generi alimentari faticano ad arrivare in città a causa dei violenti scontri che si svolgono lungo le vie di accesso. Questo ha causato un aumento pazzesco dei prezzi dei generi alimentari. La vita è diventata difficilissima, una famiglia come la mia per vivere ha ormai bisogno di 400 euro al mense. Ma come sai io non ho lavoro da più di un anno e mezzo. Per questo vorrei domandarti come posso ottenere un visto per me e la mia famiglia verso il vostro Paese, almeno fino a quando finirà la guerra da noi. […] Vi auguro di stare bene e in pace.

28 aprile 2014

[…] Noi da 10 giorni siamo senza elettricità e acqua. È la crisi più dura che abbiamo vissuto, a causa dell’interruzione dell’elettricità e dell’acqua e dell’aumento del costo dei generi alimentari e della casa. Ieri ad Aleppo c’è stata una grande esplosione, grandissima, ha provocato una scossa terribile. Stiamo pensando di uscire dalla città, ma prima di tutto non abbiamo i soldi necessari per farlo. Poi ci ho messo tutta la vita per costruirmi la casa ed è veramente difficile lasciarla con una tale facilità. Aspettiamo almeno che le cose si calmino e che la strada ritorni sicura per il Libano. […] Buona Pasqua a voi. Pregate perché abbiamo pace e sicurezza.”

Forse in questa casa

atelierIl 7 luglio 1973, nel giorno di un suo compleanno, Marc Chagall, all’inaugurazione del Museo con alcune delle suo opere, ha detto queste parole: “Se ogni vita va inevitabilmente verso la fine, dobbiamo, durante la nostra, colorarla, con i nostri colori di amore e di speranza… Forse in questa casa verranno i giovani e i meno giovani a cercare un’ideale di fraternità e d’amore, così come i miei colori e le mie linee l’hanno sognato… Forse non ci saranno più nemici…”.

Mi piacciono perché le posso pensare abbinate a un luogo fisico (una casa, una città, un ufficio, un atelier, uno studio, un luogo di culto, un parco) e a un luogo meno fisico se non addirittura metafisico (la mente, il proprio lavoro, un libro, un quadro, una canzone, un film, una poesia, un sorriso, una relazione, una storia d’amore, una fede, il cuore di ognuno…)

Come una madre con amore e dolore mette al mondo un bambino, i giovani e i meno giovani costruiranno il mondo dell’amore con un nuovo colore e tutti, qualsiasi religione abbiamo, potranno venirvi e parlare di questo sogno, lontano dalle malvagità e dalla violenza. Vorrei che in questo luogo si esponessero opere d’arte e testimonianze della spiritualità di tutti i popoli; che si facesse udire la musica e la poesia dettate dal cuore di tutto il mondo. E’ possibile questo sogno? Ma nell’arte come nella vita, tutto è possibile se, alla base, c’è l’Amore

L’anima in pace

Hui-k'oOggi pubblico una storiella breve e folgorante della tradizione buddhista. Questa la fonte.
Un giorno Hui-k’o si presentò a Bodhidharma e gli disse: “La mia anima è tormentata: ti prego, dalle pace!”
“Portami qui la tua anima e io le darò pace.”
“Come faccio? Quando la cerco, non la trovo.”
“Allora è già in pace.”

La deriva del Sud Sudan

Prendo dal sito di Limes un articolo di oggi di Antonella Napoli sul Sud Sudan.
Ad Addis Abeba proseguono i colloqui di pace per porre fine agli scontri tra l’esercito fedele al presidente Kiir e i ribelli guidati dal suo ex vice Machar. Scoperte le prime fosse comuni. Gli sfollati sono già 120 mila.
In Sud Sudan, le forze dell’esercito fedeli al presidente Salva Kiir e i ribelli leali all’ex sud sudanvice presidente Riek Machar, nonostante i colloqui di pace in corso ad Addis Abeba, continuano a combattere. La situazione è in stallo, soprattutto sul punto relativo ai prigionieri politici. Kiir accusa Machar di avere tentato un colpo di Stato e non intende liberare i funzionari governativi ritenuti complici del fallito golpe, mentre il suo ex vice chiede il rilascio immediato di 11 prigionieri di alto profilo. Le violenze etniche fra i sostenitori di Kiir e quelli di Machar sono scoppiate il 15 dicembre. Il Consiglio di Sicurezza pochi giorni dopo ha approvato all’unanimità la richiesta del segretario generale Ban Ki-moon di rafforzare la missione di pace delle Nazioni Unite dispiegata nel paese. La risoluzione porta a circa 14 mila le unità del contingente che avrà un mandato limitato alla protezione dei civili. Ad oggi si stimano oltre 120 mila sfollati, 45 mila dei quali hanno trovato rifugio nelle basi Onu, e un migliaio di vittime.
Nel frattempo l’Unione Africana cerca di mediare un accordo di pace tra le parti. Il governo sud sudanese si è impegnato a un cessate il fuoco dopo due settimane di scontri. Machar, ritenuto il massimo responsabile dei massacri nei confronti di numerosi civili, non sembra però intenzionato a deporre le armi anche se fa sapere di essere pronto a trattare. Gli 8 leader dell’Africa orientale riuniti a Nairobi stanno predisponendo una bozza di accordo che dovrebbe garantire lo stop alle crescenti violenze in Sud Sudan. Il presidente etiope Hailemariam Desalegn e quello keniano, Uhuru Kenyatta, hanno già incassato l’ok di Juba a sospendere ogni azione repressiva nei confronti degli oppositori.
Anche gli Stati Uniti sono in prima linea per scongiurare la nuova guerra civile nel giovane Stato africano. Il presidente Barack Obama ha annunciato l’invio di un contingente statunitense per proteggere i cittadini e gli interessi americani ed “evitare che gli ultimi combattimenti facciano precipitare il Sud Sudan nei giorni bui del suo passato”. L’inquilino della Casa Bianca si augura che “le violenze cessino e tutte le parti ascoltino i saggi consigli dei loro vicini e si impegnino per il dialogo e per misure immediate che riportino la calma e sostengano la riconciliazione”.
Nonostante il progresso delle trattative, gli scontri proseguono. L’esercito del Sud Sudan, fedele al presidente Kiir, continua infatti a contrapporsi ai militari golpisti guidati da Machar nella zona petrolifera di Malakal. Si tratta di un’area di importanza strategica perché ricca di petrolio. I ribelli controllano ancora la città di Bantiu, la più grande della provincia di al Wahda, ma le truppe governative hanno ripreso il controllo di tutto il territorio circostante. Nei combattimenti sono stati coinvolti anche molti civili, vittime di una vera e propria pulizia etnica. I funzionari delle Nazioni Unite sul posto ritengono che a correre maggiori rischi sia la popolazione nei dintorni di Bor, nello stato di Jonglei, dove sono in corso gli scontri più intensi. Finora le località in cui c’è stato il maggior numero di vittime sono Juba, Malakal, Bentiu e Pariang. Il commissario per i Diritti umani delle Nazioni unite, Navi Pillay, ha confermato la notizia diffusa da emittenti locali del rinvenimento di centinaia di corpi in fosse comuni, per lo più di etnia dinka. La prima fossa comune è stata scoperta a Bentiu, nello Stato di Unity e almeno altre due sono state rinvenute a Jebel-Kujur e Newside. E il timore, forse più una certezza, è che l’orrore non sia ancora finito.

Non per esaltare se stesso

Quando leggo pagine di storia del passato, mi capita spesso di chiedermi cosa stessero pensando le persone che vivevano in quel tempo storico. Per questo motivo ho deciso che quando succede di rendersi conto di essere in un momento storico è necessario fermarsi. L’ho fatto meno di un anno fa, alla rinuncia di Benedetto XVI, e lo rifaccio ora alla morte di Nelson Mandela. In classe stiamo guardando il bel racconto della sua vita, mandato in onda da Raiuno venerdì notte; una delle cose su cui ci siamo maggiormente soffermati è stato il capolavoro di Mandela nel percorso di riconciliazione e perdono. Qui sotto pubblico il ricordo di Madiba di un altro grande protagonista di quel cammino: Desmond Tutu.

9 dicembre 2013 alle ore 12.20
tutu e mandelaNon riesco a crederci, eppure è così. Madiba, che ha dato così tanto a noi e al mondo, non c’è più. Sembrava che sarebbe stato sempre con noi. Diventò un gigante per il mondo solo dopo il 1994, quando divenne presidente del Sudafrica. Ma la sua figura aveva cominciato a ingigantirsi quando era a Robben Island. Già allora veniva descritto in termini che lo facevano sembrare più grande dei comuni mortali. Si vociferava che qualcuno nell’Anc temesse che si sarebbe scoperto che il colosso aveva i piedi d’argilla e quindi volesse “eliminarlo” prima che il mondo rimanesse deluso. Non aveva ragione di aver paura. Mandela superò le aspettative.
Incontrai Madiba una volta, di sfuggita, all’inizio degli Anni ’50. Studiavo per diventare insegnante al Bantu Normal College, vicino Pretoria, e lui era giudice nella gara di dibattito tra la nostra scuola e la Jan Hofmeyr. Era alto, distinto, affascinante. Incredibilmente, non lo avrei più rivisto fino a quarant’anni dopo, il febbraio del 1990, quando lui e Winnie trascorsero la loro prima notte di libertà in casa nostra, a Bishopscourt, un sobborgo di Città del Capo. In quei 40 anni erano successi eventi memorabili: la campagna per la resistenza passiva, l’adozione del Freedom Charter e il massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960. Quella strage ci disse che anche se protestavamo pacificamente ci avrebbero sterminati come insetti e che la vita di un nero contava poco. Il Sudafrica era un Paese dove c’erano cartelli che annunciavano senza vergogna «Vietato l’ingresso agli indigeni e ai cani». Le nostre organizzazioni politiche erano proibite; molti membri erano in clandestinità, carcere o esilio. Abbandonarono la non violenza: non avevano altra scelta che passare alla lotta armata. Fu così che l’Anc creò l’Umkhonto we Sizwe, con Nelson a capo. Mandela aveva capito che la libertà per gli oppressi non sarebbe arrivata come una manna dal cielo e che gli oppressori non avrebbero rinunciato spontaneamente ai loro privilegi. Essere associati a quelle organizzazioni fuorilegge diventò un reato di sedizione: e questo ci porta al capitolo successivo, il processo di Rivonia.
Temevano che Mandela e gli altri imputati sarebbero stati condannati a morte, come chiedeva la pubblica accusa. All’epoca studiavo a Londra: organizzammo veglie di preghiera a Saint Paul per scongiurarlo. I difensori cercarono di convincere Mandela a moderare i toni della sua dichiarazione dal banco degli imputati, temendo che il giudice potesse prenderla come una provocazione. Ma lui insistette che voleva parlare degli ideali per cui aveva lottato, per cui aveva vissuto e per cui, se necessario, era pronto a morire. Tirammo tutti un enorme sospiro di sollievo quando fu condannato ai lavori forzati, anche se significava un lavoro massacrante nella cava di Robben Island.
Qualcuno ha detto che i 27 anni che Mandela ha trascorso in prigione sono stati uno spreco, che se fosse stato rilasciato prima avrebbe avuto più tempo per tessere il suo incantesimo di perdono e riconciliazione. Mi permetto di dissentire. Quando Mandela entrò in carcere era un giovane uomo arrabbiato, esasperato da quella parodia di giustizia che era stato il processo di Rivonia. Non era un pacificatore. Dopo tutto era stato comandante dell’Umkhonto we Sizwe e il suo intento era rovesciare l’apartheid con la forza. Quei 27 anni furono cruciali per il suo sviluppo spirituale. La sofferenza fu il crogiolo che rimosse una gran quantità di scorie, regalandogli empatia verso i suoi avversari. Contribuì a nobilitarlo, permeandolo di una magnanimità che difficilmente avrebbe ottenuto in altro modo. Gli diede un’autorità e una credibilità che altrimenti avrebbe faticato a conquistare. Nessuno poteva contestare le sue credenziali. Quello che aveva passato aveva dimostrato la sua dedizione e la sua abnegazione. Aveva l’autorità e la forza d’attrazione di chi soffre in nome di altri: come Gandhi, Madre Teresa e il Dalai Lama.
Eravamo tutti incantati l’11 febbraio 1990, quando il mondo si fermò per vederlo emergere dalla prigione. Che meraviglia è stato essere vivi, poter provare quel momento! Ci sentivamo orgogliosi di essere umani grazie a quell’uomo straordinario. Per un attimo tutti abbiamo creduto che essere buoni è possibile. Abbiamo pensato che i nemici potevano diventare amici e abbiamo seguito Madiba lungo il percorso di perdono e riconciliazione, esemplificato dalla Commissione per la verità, da un inno nazionale poliglotta e da un governo di unità nazionale in cui l’ultimo presidente dell’apartheid poteva essere il vicepresidente e un “terrorista” il capo dello Stato.
Madiba ha vissuto quello che ha predicato. Non ha forse invitato il suo ex carceriere bianco come ospite d’onore alla cerimonia d’inaugurazione della sua presidenza? Non è forse andato a pranzo con il procuratore del processo di Rivonia? Non è forse volato a Orania, l’ultimo avamposto afrikaner, per prendere un tè con Betsy Verwoerd, la vedova del sommo sacerdote dell’ideologia dell’apartheid? Era straordinario. Chi può dimenticare quando si spese per conservare l’emblema degli Springboks per la nazionale di rugby, odiatissima dai neri? E quando, nel 1995, scese sul campo di gioco all’Ellis Park con una maglia degli Springboks per consegnare nelle mani del capitano Pienaar la coppa del mondo di rugby con la folla, composta soprattutto da bianchi afrikaner, che scandiva «Nelson, Nelson»?
Madiba è stato un dono straordinario per noi e per il mondo. Credeva ferventemente che un leader è lì per guidare, non per esaltare se stesso. In tutto il mondo era un simbolo indiscusso di perdono e riconciliazione, e tutti volevano un po’ di lui. Noi sudafricani ci crogiolavamo nella sua gloria riflessa. Ha pagato un prezzo pesante per tutto questo. Dopo i suoi 27 anni di prigionia è arrivata la perdita di Winnie. Quanto adorava sua moglie! Per tutto il tempo che sono stati in casa nostra, seguiva ogni suo movimento come un cucciolo adorante. Il loro divorzio fu per lui un colpo durissimo. Graça Machel è stata un dono del cielo.
Madiba si preoccupava davvero per le persone. Un giorno ero a pranzo con lui nella sua casa di Houghton. Quando finimmo di mangiare, mi accompagnò alla porta e chiamò l’autista. Gli dissi che ero venuto da Soweto con la mia auto. Pochi giorni dopo mi telefonò: «Mpilo, ero preoccupato per il fatto che guidi e ho chiesto ai miei amici imprenditori. Uno di loro si è offerto di spedirti 5.000 rand al mese per assumere un autista!». Spesso sapeva essere spiritoso. Quando lo criticai per le sue camice pacchiane mi rispose: «E lo dice uno che gira con la sottana!». Mostrò grande umiltà quando lo criticai pubblicamente perché viveva con Graça senza essere sposato. Alcuni capi di Stato mi avrebbero attaccato, lui mi invitò al suo matrimonio.
Il nostro mondo è un posto migliore per aver avuto una persona come Nelson Mandela e noi in Sudafrica siamo un po’ migliori. Come sarebbe bello se i suoi successori lo emulassero e se noi dessimo il suo giusto valore al grande dono della libertà che ha conquistato per noi a prezzo di tanta sofferenza. Ringraziamo Dio per te, Madiba. Che tu possa riposare in pace e crescere in gloria.
in “la Repubblica” del 7 dicembre 2013 (Copyright Mail and Guardian Traduzione di Fabio Galimberti)

Una vita appesa ad un fax

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Ho da poco terminato di leggere il fumetto di Joe Kubert “Fax da Sarajevo”. Racconta la storia, vera, della famiglia Rustemagić, marito, moglie e due figli, della loro vita durante l’assedio di Sarajevo del 1992 e della loro fuga. Ervin Rustemagić racconta tutto attraverso dei fax inviati fortunosamente. Lascio qui alcuni estratti della vita di Ervin, della moglie Edina, della figlia Maja e del piccolo Edvin.

“Oggi nevica a Sarajevo, e nessuno sa cosa ci riservi questa giornata, né quanto sangue colerà sulla neve.

Per noi che siamo qui, appare oggi ridicolo ripensare agli attentati terroristici in Italia, in Francia, in Inghilterra… quando i terroristi uccidevano 5, 6 o una dozzina di persone. Quanto chiasso è stato fatto per quegli attentati!! Noi qui abbiamo centinaia di attentati terroristici di quel genere ogni giorno e tutti se ne fregano! New York, Londra, Parigi, Roma, Amburgo sono sotto shock quando una bomba esplode in una stazione o nella metropolitana… Solo nel nostro quartiere di Dobrinja finora sono esplose 250.000 fra bombe e granate…

Maja compirà dieci anni il 20 luglio e il suo unico desiderio è che rimaniamo in vita.

Ieri era il 114° giorno di assedio a Sarajevo e un amico qui ha detto: ‘Perfino le Hawaii dopo 114 giorni di vacanza risulterebbero insopportabili’. Mi inquieta pensare a quello che succederà dopo la guerra. Ho paura che non ci potrà mai più essere una vita normale qui.

‘C’è gente che muore troppo presto, altra troppo tardi. Raramente al momento giusto’. Ebbene, le decine di migliaia di persone che sono morte in Bosnia durante questi ultimi mesi sono morte troppo presto. Un bambino è morto ieri nel ventre di sua madre, uccisa da una granata, venti giorni prima di nascere.

Un milione e cinquecentomila granate sono esplose nella città di Sarajevo (tre granate per abitante fino ad ora), e nessuno potrà mai dire quanti milioni di proiettili siano stati sparati. E’ il barbaro assedio di una città all’alba del 21° secolo.”

Il mio sangue è il tuo sangue

Ho scoperto in rete il sito Notizie Geopolitiche, da cui ho preso questo articolo di Enrico Oliari.

277-0-34092_dalai-lama trento.jpg“Nel corso della recente visita a Trento, Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama premio Nobel per la Pace nel 1989 e fino al 2011 capo del Governo tibetano in esilio, ha ribadito la dottrina della non-violenza e della fratellanza universale: “quando incontro voi – ha spiegato in occasione della conferenza stampa indetta presso il Palazzo della Provincia – mi sento univoco, uguale a tutti. Tutti noi cerchiamo la felicità e, come si dice presso le isole Hawaii, il mio sangue è il tuo sangue, le mie ossa sono le tue ossa: sulla Terra siamo sette miliardi, dobbiamo essere tutti fratelli, senza discriminazione di alcuno. Se non siamo ‘noi’, ma ‘io e gli altri’, io mi isolo e questo è alla base di tutte le ansietà e di tutti i conflitti; per questo motivo è necessario liberarsi dell’‘io’ e, per raggiungere la felicità, vedere gli ‘altri’. Se ci stringiamo le mani, ma nella mente ci sono sentimenti di differenza, allora dobbiamo prendere delle decisioni. L’amicizia, invece, va donata agli altri senza aspettative e l’essere sinceramente amici non è qualcosa che deriva dalla pratica religiosa: io ho un gatto che capisce che gli sono amico, per cui mi viene vicino; mentre se ho nella mia testa ansietà, questi si allontana. Ecco, noi dovremmo prendere esempio come se quel gatto fosse un guru”.

Riferendosi agli operatori della stampa presenti ha poi indicato che “la felicità nasce dentro e proprio voi giornalisti potreste far capire messaggi di felicità e non vedere solo gli aspetti economici della professione: voi giornalisti avete questa missione”.

Notizie Geopolitiche ha posto al Dalai Lama domande di carattere politico, ovvero quale messaggio dà al popolo tibetano a fronte dei 105 arsi vivi dal 2009 in segno di protesta per l’occupazione della loro terra ed i soprusi da parte dei cinesi e se vede spiragli per un possibile dialogo con la nuova dirigenza cinese guidata da Xi Jinping e da Li Kequiang: “Non appena avvenne il primo caso di tibetano immolatosi in segno di protesta – ha raccontato il Dalai Lama – , ho cercato di mandare messaggi ed inviti a desistere da tali gesti. Sono un sintomo importante di malessere ed io, che vivo al di fuori del Tibet, ho chiesto ai cinesi di prendere provvedimenti. Coloro che si danno fuoco sono persone offese, non ubriaconi. Spesso escono dalle prigioni traumatizzati e persino menomati. Quello tibetano è un popolo di sei milioni di persone che soffrono ed io sono qui per servirli: si tratta di un problema che, come aveva detto lo stesso Deng Xiaoping, non può essere risolto con la forza ed io auspico che questi nuovi leader politici usino la saggezza, non la forza”.”

Se ne può parlare?

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Di articoli sulle recentissime elezioni in Israele se ne trovano tantissimi in rete e sui quotidiani. Riporto qui quello dell’israeliana Sivan Kotler, preso da Internazionale: offre numerosi spunti di riflessione.

“La notte nella quale Benjamin Netanyahu vinse per la prima volta le elezioni, nel maggio del 1996, fece freddo nonostante il vento caldo del deserto. Fu così che giustificammo il brivido che ci passò sulla schiena. Eravamo all’inizio del nostro servizio militare, ancora incredule per aver votato per la prima volta nella nostra vita. Eravamo ragazze con la divisa e il fucile che sapevano abbastanza del nostro passato, poco del nostro presente e quasi nulla del futuro.

Furono le prime elezioni dopo l’assassinio dell’ex primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. Che noi, la “generazione delle candele”, avevamo seguito con trepidazione davanti alle tv, assieme a un paese intero. Furono elezioni di testa a testa tra Benjamin Netanyahu, all’epoca un giovane politico ma molto criticato, e l’attuale presidente israeliano Shimon Peres, allora candidato laburista.

Sono passati diciassette anni. Quell’anno il Time, sulla sua copertina, si chiese: “Sarà in grado di portare la pace?”. Pochi mesi fa, prima delle ultime elezioni, il Time l’ha definito “Bibi The King”. Non ha più risposto alla domanda del ’96. Questa potrebbe anche essere l’ultima copertina dedicata a lui. “È incredibile”, tuona David Grossman, intervistato dalla televisione israeliana la sera prima delle elezioni. “Sono circa cent’anni che scegliamo la strada delle guerre senza mai arrenderci. L’unica volta che abbiamo provato la strada della pace, dopo il primo fallimento abbiamo perso subito la speranza”.

Grossman è tra le poche persone che parlano di pace. Una soluzione, sostiene lo scrittore, “che ci serve, non perché fa bene agli arabi ma perché fa bene a noi”. Grossman, assieme ad altri scrittori e intellettuali israeliani, è un forte sostenitore del partito Meretz. Un piccolo partito di sinistra (appena 6 seggi nelle ultime elezioni), che crede fermamente nella soluzione di due nazioni per due popoli.

A differenza dei tanti giornalisti, scrittori ed intellettuali passati in politica, Grossman sostiene che “ognuno deve fare le cose che sa fare”. All’intervistatrice che gli chiedeva perché, ha risposto: “Se vado a dirigere il governo, chi si metterà al posto mio a scrivere le mie storie?”.

Dal maggio del 1996 è cominciata un’altra storia. Da quando, divise in fila per tre, ci hanno annunciato i risultati delle elezioni. Yitzhak Rabin, un leader visionario, era stato da poco assassinato, portando via con sé la nostra speranza di pace. Ricordo che ancor prima di comunicarci i risultati dei primi exit poll, ci dissero di non esprimere nessun tipo di emozione, e di mantenere il massimo silenzio. “Non siete in un campo estivo”, gridavano gli ufficiali, “siete soldatesse all’esercito dello stato israeliano”.

Quando ci fu chiaro che il vincitore in quella tornata elettorale era Netanyahu, a qualcuna di noi sfuggì una smorfia di delusione. Altre si misero a piangere. Era un pianto che racchiudeva in sé sconcerto e paura per una possibile punizione dei superiori, con 21 giorni di fermo in caserma. Ma evidentemente non piangevano solo per questa ragione.

Con la conferma di Netanyahu come primo ministro, si potrà rinchiudere il ventennio personificato dall’effetto “Bibi”. Bibi che va, ma più che altro, Bibi che torna. Lo slogan elettorale di Netanyahu all’epoca era “facciamo una pace sicura”, che in ebraico ha un secondo significato: “facciamo la pace, sicuro”.

Oggi nel mezzo di sorprese elettorali, di resoconti e di sconfitte, lo slogan attuale di Netanyahu “un leader forte per un governo forte” è mestamente anacronistico, visti i risultati e il crollo del partito di maggioranza relativa del ticket Netanyahu-Liberman.

E della pace non parla più nessuno.”