Gemma n° 2238

“Quest’anno come gemma ho deciso di portare la gratitudine verso il mio cambiamento positivo.
L’anno scorso stavo passando un brutto periodo della mia vita: mi sentivo sola, senza nessun obiettivo e senza quella motivazione che ero solita avere, ma cercavo di nasconderlo. Facendo un giro in libreria, trovai questa raccolta di poesie di Franco Arminio, Studi sull’amore. Lessi tutte le poesie in un giorno ed evidenziai quelle che in quel periodo mi sembravano stupende.
Una di queste si chiama “Sono due giorni che soffro”:

Sono due giorni che soffro
per paura. E ho sofferto
per tutto il tempo che ho vissuto,
e qui nel petto un vago allarme,
un cuore che mi punta
e io scappo dal mio sangue,
mi faccio aria, mi nascondo
in tutte le parole che dico,
non c’è più nessun me
a cui posso appigliarmi,
c’è solo un cenno antico,
un cenno d’infanzia
fatto di neve e del petto di mia madre.
Ti prego, tienimi in vita,
stendimi al sole,
prestami un respiro.

Recentemente ho riletto il libro, per curiosità, e mi sono accorta di come tutto sia cambiato nel giro di pochi mesi. Ora sono grata per come la mia vita sia e per i miei obiettivi che sono riuscita a portare a termine anche se con molta difficoltà. Ma soprattutto sono grata per chi ho vicino: ho amici che mi supportano sempre, una famiglia che mi accetta per come sono e una persona che mi ama nonostante i miei difetti.
Come poesia di questo periodo ho scelto “Contro la morte esiste solo l’amore”:

Contro la morte esiste solo l’amore.
Le donne lo sanno meglio degli uomini,
meglio delle donne lo sa la luna,
meglio della luna lo sa il vento.
Lascia correre il tuo amore,
dentro di te e dentro gli altri.
Chi ama non esce mai di scena,
siamo tutti qui,
sangue della stessa vena.

(B. classe quarta).

Gemma n° 2162

“Questi siamo io e tre miei compagni di classe delle medie. Tutti e quattro avevamo l’esame orale lo stesso giorno.
Uno dei miei compagni decise di fare un selfie tutti assieme, per placare l’ansia e involontariamente anche il leggero imbarazzo, dato che nella classe c’erano diversi piccoli gruppi, non in contrasto tra loro, ma molto diversi negli interessi e nel modo di approcciarsi, e si sa che a quell’età i ragazzi stanno bene solo con chi considerano loro simili, per poi maturare con il tempo ed imparare a convivere con tutti quanti. Perciò, messi tutti e quattro assieme ed essendo alcuni di noi non molto in sintonia con altri, l’atmosfera era un po’ tesa e imbarazzata, ma quel selfie ci ha sicuramente uniti in quel momento che accomunava tutti e quattro. Inoltre quella data segna uno spartiacque, la fine delle scuole medie in vista dell’inizio delle superiori, due mondi completamente diversi sotto ogni punto di vista, dai rapporti, agli interessi, alle priorità. Perciò quel 15 giugno è un ricordo unico e inimitabile, uno di quei momenti andati che non torneranno mai” (L. classe quarta).

Gemma n° 2085

“La mia gemma rappresenta una scena, un ricordo e i suoi protagonisti. Il ricordo è anteriore al momento della foto ed è legato al periodo dell’asilo: mio zio aveva deciso di travestirsi da Babbo Natale per farmi una sorpresa, ma a me non piaceva Babbo Natale. Quando entrò in casa iniziai a piangere e corsi verso mia madre implorandola di mandarlo via e infatti mio zio fu cacciato di casa . Ogni anno mi ricordo di questa scena e mi fa ridere” (D. classe terza).

D’amore, di morte, di potere, ma soprattutto d’amore

Pubblico un altro editoriale di Fabio Cantelli Anibaldi scritto su Lavialibera. Parte da una considerazione della saggista Anne Applebaum (di cui ho apprezzato il libro Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici) su Vladimir Putin per poi considerare una paura che accomuna tutti gli uomini ma che viene affrontata in modi molto diversi: la paura della morte. Riflette su come il potere e il suo esercizio possano regalare l’illusione di dominare il tempo e, di conseguenza, sottomettere la morte. Solo facendo pace con il proprio limite, con le proprie paure, con il proprio bisogno d’amore, si può arrivare ad amare sorella morte e apprezzare la vita come “un’avventura di amore e di pace, di passione e di conoscenza”. Ritengo che gli spunti di riflessione siano veramente molti.

Sembra ossessionato e pieno d’odio. Sembra entrato in una fase nuova. Non so di cosa abbia paura, se della morte o di perdere il potere. Di certo è vissuto isolato per due anni, a causa della pandemia. Mi chiedo cos’abbia fatto, cos’abbia letto e guardato, per tutto quel tempo, da solo. Oggi sembra un uomo malato, disturbato. Così parla di Vladimir Putin la saggista americana Anne Applebaum, vincitrice nel 2004 del Pulitzer con un monumentale studio sui Gulag sovietici, intervistata dal Corriere della Sera.
Parole che dicono l’incapacità e insieme il timore dell’Occidente a indagare le radici della guerra, limitandosi a una scontata condanna morale corroborata da manifestazioni in cui urlare la propria indignazione. Non metto in dubbio la buona fede di chi è “sceso in piazza” né la buona volontà del Papa che invita anche i non cristiani a digiunare il primo giorno di Quaresima. Penso solo che non serva a nulla, che la guerra non si ferma denunciandone l’orrore – quante migliaia di volte è stato fatto? – e che chi la fa troverà sempre una buona ragione o almeno un alibi per continuare a farla, tanto più se i suoi accusatori lo definiscono un criminale: cosa che, lungi dal ferirli, esalta i criminali.
Le parole di Applebaum sono in tal senso emblematiche. La studiosa si avvicina al nocciolo della questione quando osserva che, dopo la pandemia, Putin pare entrato in una fase nuova: ossessiva, disturbata, malata. Ma subito se ne allontana quando commenta: “non so di cosa abbia paura, se della morte o di perdere il potere”.

È proprio questa presunta alternativa a impedirle di capire che le due paure sono, in realtà, una: paura della morte e di perdere il potere sono facce di una stessa medaglia quando l’esercizio del potere assume forme patologiche, ossia quando diventa, come perlopiù accade, una droga.  In tal senso per Putin – come per tutti i potenti della Terra – la lunga stagione del covid dev’essere stata un incubo. Non tanto o non solo perché ha sentito la propria incolumità in pericolo, ma perché il covid ha dimostrato un potere sulle vite degli altri infinitamente maggiore del suo. Per un uomo di potere – politico o economico che sia – la morte è pietra d’inciampo, smacco, scandalo perché è l’unica cosa sulla quale il suo potere non può nulla. La morte rivela la natura fittizia, teatrale del delirio di onnipotenza degli esseri umani quando non sono educati a riconoscere il loro limite costitutivo, il loro essere irrimediabilmente mortali. Delirio che però non riguarda solo gli uomini che concentrano su di sé enormi quantità di potere. Troppo bello se il problema fosse riducibile ai Putin, ai Bolsonaro e alle loro imitazioni in salsa pseudodemocratica tipo Johnson. O ancora, spostandosi in ambito economico-finanziario, ai vari Bezos, Musk, Zuckerberg… Il problema si estende agli innumerevoli che, se fossero al posto dei succitati, si comporterebbero allo stesso modo se non peggio. Se concentrato nelle mani di un autocrate vero o potenziale – cioè di qualunque persona si identifichi con un “io” non avendo scoperto come Rimbaud che «io è un altro» – il potere è droga che fa sentire onnipotenti perché decide sulla vita e la morte degli altri, considerati alla stregua di sudditi, soldati o impiegati di quel potere. 
Lo stesso vale per il denaro. Il time is money di Rockfeller e dei primi miliardari moderni si è capovolto in money is time: possedere denaro dà l’illusione di vivere più a lungo, accumularlo quella di vivere per sempre. Il predominio del capitale poggia su una garanzia di durata: se sono ricco potrò fronteggiare gli imprevisti della vita, se ho miliardi di euro o dollari ne uscirò indenne da quasi tutti. Quel “quasi” allude all’incontro con la morte, eventualità che i super-ricchi e gli autocrati rimuovono costantemente dal loro orizzonte psichico e esistenziale proprio perché la temono come nulla al mondo. La morte: screanzata guastafeste che osa presentarsi nella sala dove il potente e la sua cricca stanno ridendo, ballando, gozzovigliando, fornicando per ricordare a tutti che la festa un giorno finirà. Magnati e dittatori sono accomunati dalla stessa priorità: rimuovere il pensiero della morte per abbandonarsi spensierati all’ebbrezza che procura l’eccesso di soldi e di potere.
Chissà cos’ha fatto, si chiede Applebaum, Putin durante l’epidemia? Cosa avrà pensato nei momenti infinitamente lunghi in cui il suo potere non valeva quasi più nulla? In cui non poteva più addobbarsi di costumi magniloquenti o intimidatori, in cui era stato sottratto alla sua scena?  Se non fosse l’omuncolo tronfio e anche pavido che è, si sarebbe sentito mancare il terreno da sotto i piedi e, abbandonandosi al vuoto, avrebbe fatto pace con il suo limite, con le sue paure, con il suo bisogno d’amore, il bisogno d’amore che segna il soggiorno degli umani su questa Terra perché nasce dalla consapevolezza di esserne ospiti contingenti, viandanti mortali.  Ma è come togliere a un tossicomane l’eroina: superata la crisi d’astinenza si pone per lui il vero problema, cioè avere il coraggio di cambiare davvero, di andare al fondo delle sue paure – in primis quella di morire – e scoprire cosa c’è alla radice della dipendenza, il bisogno di amare e di essere amato, di sentirsi nutrito e protetto come nel grembo materno. Se questo coraggio non c’è e se non c’è nemmeno l’umiltà di chiedere sostegno affinché maturi in lui, il canto delle sirene della droga diventa richiamo ammaliante e irresistibile. Putin questo coraggio non ce l’ha avuto, come miliardi di uomini su questa Terra, ed ecco allora che il mondo dopo la pandemia si prospetta minacciosamente simile se non uguale al precedente, come se la lezione della pandemia – siete tutti interdipendenti, siete tutti vulnerabili – non fosse servita a nulla. Uscire da una crisi ma uscirne uguali è il peggio che ci si possa augurare: una crisi è, sempre, un’occasione di cambiamento cioè di vita, perché la vita è nella sua essenza divenire. La vita gira al largo dalle anime cristallizzate, si ritira dagli uomini che non mollano la presa da sé stessi, gli uomini che si preoccupano soltanto  di affermarsi e durare.
Tornando alla guerra, è la rimozione della mortalità a rendere crudele il potere e intrinsecamente violento il sistema che gli fa capo. Chi detiene il potere ma disconosce la sua mortalità per ciò stesso si costruisce un’immunità psicologica dalla morte uccidendo o facendo uccidere. La logica che, a loro insaputa – ne sono vittime ma non lo sanno – guida tutti i Putin di questa Terra può essere espressa così: ti faccio uccidere quindi prendo il posto della morte impersonale che colpisce a caso, la morte che accade a tutti e per tutti meno che a me, che la eguaglio per onnipotenza. Una civiltà che non riconosce la morte la infligge, e quel che resta dell’Occidente è un infliggere la morte per sentirsi onnipotenti e, finché si può, immortali.
Poi c’è modo e modo d’infliggere la morte e in tal senso mi pare che si debba almeno riconoscere a Putin il merito di giocare a carte scoperte, usando gli eserciti e le armi. C’è un modo più subdolo e vigliacco di uccidere con l’economia. Si parla in questi giorni di “sanzioni” contro la Russia come se il sistema economico neoliberista non fosse di per sé sanzionatorio, mosso da una logica selettiva che prevede diritti ridotti a privilegi, appannaggi riservati a chi se li può permettere, cioè a chi ha i soldi per acquisirli. Il “mercato” è una prosecuzione su vasta scala della logica dei lager o dei gulag, dove, tolti i comandanti dei campi e le loro cricche – i Rudolf Höss, gli Franz Stangl, i Naftaly Frenkel – non veniva subito ucciso solo chi era in grado di lavorare, venendo ucciso poi dal carico di lavoro, dalla fame, dalle malattie. 
In conclusione, come uscire da questo circolo vizioso che riguarda non solo autocrati e magnati ma la natura umana in generale, come ci racconta da sempre la grande arte e letteratura, affascinata di come basti un po’ di potere per corrompere l’animo dell’uomo, essere in gran parte codardo, incapace di guardare in faccia la sua fragilità?È evidente che non se ne esce senza una nuova cultura ed educazione che, a differenza di quelle tecnologiche/tecnocratiche, tutte volte a formare impiegati del “sistema mercato”, insegni a riconoscere e a rispettare la morte, a tenerne conto. E infine a volerle bene, perché è per lei, grazie a lei, che sentiamo il bisogno di amare e di essere amati, è solo per lei che la vita può essere una meravigliosa avventura di amore e di pace, di passione e di conoscenza.”

Gemma n° 1925

“E’ una foto scattata ieri mentre andavo a fare una passeggiata. Non sapevo cosa portare e tornata a casa ho scritto alcuni pensieri fatti durante la passeggiata: ho pensato di condividerli oggi.
Giornata splendida dopo una settimana volata tra pioggia, allenamenti e verifiche, perché non andare a fare una passeggiata nel bosco per schiarirmi le idee?
Non è un periodo facile, non riesco a trovare la motivazione giusta per fare nulla, non trovo uno scopo, il mio scopo, ma magari sono stati solamente giorni faticosi, sono solo stanca.
Esco, cuffiette nelle orecchie, alzo il volume fino a che il rumore dei miei passi non scompare, chiudo la porta di casa e parto.
È stata una camminata di circa 50 minuti in cui ho ascoltato musica ininterrottamente, ma non saprei nominare nemmeno un titolo tra le canzoni ascoltate perché i pensieri erano più assordanti.
Mi sono ritrovata sola, sperduta per il bosco del mio piccolo paesino a fare i conti con me stessa ed è stata la cosa più difficile del mondo. Inconsciamente la mia mente ha iniziato a vagare, a scavare sempre più a fondo nei ricordi, ripensando a quanto successo negli ultimi sei mesi, poi in terza, seconda, prima superiore, fino ad arrivare alla terza media. Qui le riflessioni si sono protratte per più tempo, accompagnate da lacrime e singhiozzi che non riuscivo a sentire a causa del volume troppo alto, come se non riuscisssi ad accettare il mio dolore, come se non avessi il diritto di piangere.
Ad un tratto parte una pubblicità di Spotify che mi strappa un sorriso, ritorno con la testa alla mia passeggiata e mi sento stupida a camminare per i campi sola e piangendo.
Riparte la musica. Ormai penso di essermi sfogata e di poter godermi finalmente la passeggiata, ma ad un tratto, senza volerlo eccoli lì di nuovo, questa volta però sono i ricordi dell’estate tra la prima e la seconda elementare…quella maledetta estate.
Piango.
Cerco di distrarmi, ma l’unica cosa a cui riesco ad aggrapparmi sono i miei amici, più o meno recenti, e tutto d’un tratto mi sento incredibilmente sola, sento un vuoto dentro che ho paura di non riuscire a colmare, ho paura di non farcela, di deludere tutti.
Non riesco più ad ascoltarmi e comincio a correre. Mi sfogo. Ricomincio a camminare.
Arrivata a casa mi accorgo di aver passato l’ultimo tratto di strada senza aver ascoltato né le parole della canzone, né i miei pensieri, come se per un momento tutto il mondo si fosse messo in pausa.
Quanto fa paura restare soli con se stessi”.

E’ difficile commentare la gemma di R. (classe quarta) tanto è ricca di suggestioni, emozioni, riflessioni. Ha premesso di non sapere cosa portare: ci ha portato in classe se stessa, la sua interiorità senza sovrastrutture o artificiali costrutti, un suo momento di fragilità e al contempo di forza. Non poteva farci regalo più grande. E mi ha anche ricordato di ricominciare a fare una cosa che da un po’ non faccio: deserto. Per me ‘fare deserto’ ha sempre significato prendere del tempo per me, isolarmi, appartarmi, mettere a tacere le voci delle cose da fare, degli impegni, delle incombenze e, in questo silenzio, ascoltarmi. Un proverbio tuareg dice Dio ha creato le terre con i laghi e i fiumi perché l’uomo possa viverci. E il deserto affinché possa ritrovare la sua anima. Può far paura restare soli con se stessi, ma penso sia la via da percorrere e che a forza di essere percorsa porti alla nostra anima. E’ tornando da lì che poi il deserto si fa sentiero, si fa viottolo erboso e si fa giardino; è tornando da quel deserto che il “vuoto dentro” si fa pienezza e la “paura di non farcela” si fa sfida e voglia di farcela.

Gemma n° 1831

“Quest’anno come gemma ho deciso di portare qualcosa che ricordasse mio nonno ma che allo stesso tempo fosse importante per me e quindi ho portato questa farfalla in vetro. Diciamo che è un po’ contraddittorio da parte mia in quanto le farfalle rappresentano una delle mie più grandi paure; questa apparteneva a mio nonno. Lui fin da piccolo ha sempre avuto questa grande passione e ne ha collezionate di tutti i tipi, di stoffa, metallo, rame. Ora la collezione la possiede mia nonna e si trova all’interno di una vetrina. Una cosa che mi ricordo particolarmente è che quando ero piccolina e andavo da loro, passavo davanti a questa vetrina e, pur avendo tanta paura e ribrezzo, venivo catturata e restavo lì a osservarle”.

G. (classe quinta) ha raccontato così la sua gemma. Anche questa gemma la commento con un testo letterario, questa volta proveniente dal lontano oriente. E’ Haruki Murakami a scrivere: “No, non do nomi alle farfalle. Ma anche senza nomi, le distinguo l’una dall’altra dal disegno e dalla forma. Inoltre, quando si dà loro un nome, chissà perché muoiono subito. Queste creature non hanno nome e vivono per un tempo molto breve. Ogni giorno vengo qui, le incontro, le saluto e faccio con loro vari discorsi. Ma, quando il tempo è giunto, le farfalle scompaiono da qualche parte, in silenzio. Penso siano morte, ma sebbene le cerchi, non ne trovo mai i resti. Svaniscono senza lasciare traccia, come se si fossero dissolte nell’aria. Le farfalle hanno una grazia incantevole, ma sono anche le creature più effimere che esistano. Nate chissà dove, cercano dolcemente solo poche cose limitate, e poi scompaiono silenziosamente da qualche parte. Forse in un mondo diverso da questo.” (1Q84)

Giù

Sto leggendo, ascoltando e guardando notizie, immagini, video cha arrivano dall’Afghanistan. Fa male e per questo ho deciso di non mettere nulla qui sul blog di quanto visto: ho preferito un quadro nero. Lascio spazio alle parole che il giornalista Toni Capuozzo ha scritto sul suo profilo fb: “Prima accompagnano l’aereo , un corteo disperato e festoso. Qualcuno riesce ad aggrapparvisi. Ci sono delle immagini che non se ne vanno più. Dell’11 settembre, visto e rivisto, non sono, nel mio album, quelle degli aerei che si conficcano nelle torri. Ho comprato, a New York, il libro che raccoglie le storie di ogni vittima. Ma non è quello che si apre, nei miei ricordi. E’ un libro di letteratura, un romanzo. “Molto forte, incredibilmente vicino”. E’ la storia di Oskar, orfano di un padre ucciso nel crollo delle torri gemelle. Nel libro ci sono le fotografie delle persone che si lanciarono dagli ultimi piani. Il bambino le scorre all’indietro – come facevamo noi da bambini con certi libriccini – come se fosse possibile tornare indietro nella storia, far risalire agli ultimi piani quelle silhouette nere, che scivolano per sempre lontano. E’ quella l’immagine che non cancellerò mai: il tempo di caduta, la scelta di morire per mano propria, piuttosto che soffocare nel buio…… oggi a Kabul altre figurine…. si erano aggrappati ai portelloni di un aereo in decollo. Quando i portelloni si sono chiusi, sono precipitati. Il tempo di caduta, l’ignoranza del volo aereo, la scelta di morire così, non lo so. Ma nella grande mappa delle vittorie e delle sconfitte, nel mappamondo della geopolitica, resteranno queste piccole tracce nere.”

Ulisse in primo banco con Dante

Mi ha intrigato il titolo del nuovo spazio che il professor Alessandro D’Avenia occupa sulle pagine del Corriere il lunedì. Dopo i “Letti da rifare”, arriva “Ultimo banco”. Queste le sue parole di lunedì 9 settembre, con le quali spiega la scelta del nome:

Anonimo fiorentino, Il naufragio della nave di Ulisse (1390-1400)

“Ogni vita che incontro in classe potrebbe essere descritta con il posto che decide di occupare in aula. Quelli dell’ultimo banco, per esempio, amano vedere senza esser visti, celati nella loro piccola trincea fatta di timidezze e rinunce o di clandestinità e spavalderia. Alle elementari mi nascondevo nelle retrovie per dedicarmi a ciò che più amavo: parlare e giocare. Così venivo regolarmente «punito» con le prime file. Oggi, all’ultimo banco ci siamo un po’ tutti: perennemente distratti, l’ultimo banco è diventato una condizione interiore. Ma la vita, prima o poi, fa l’appello, e ci chiama, con nome e cognome, a giustificare la rinuncia a venire alla luce o la mancanza di felicità. Vivere non è girare a vuoto, ma tendere a un fine: c’è vita se la vita ha un senso, attendiamo (verbo composto da tendere e ad) ciò che può rispondere alla nostra incompiutezza, che è la spinta senza cui il presente non diventa mai futuro, e che chiamiamo desiderio. Però l’attesa comporta attenzione (hanno la stessa radice di tendere), grazie alla quale si alimenta il desiderio, fonte di coraggio e iniziativa, e si soffoca la paura, che produce ansia e dipendenze (dal cellulare alle droghe). Dipendere è infatti l’opposto di tendere: chi dipende (pende da) s’aggrappa a qualcosa per paura e non cresce, chi tende, invece, nella vita si lancia intensamente, costi quel che costi. Ma tendere a cosa? A ciò che è intenso (altra parola che viene da tendere): la vita si «intensifica» dove trova ricchezza di senso, cioè dove non solo è custodita, ma si compie un po’ di più e quindi cresce.
Prendiamo l’esempio dei cellulari. Hanno colonizzato i nostri sensi, ipnotizzato l’attenzione, spento l’intensità del presente, relegandoci all’ultimo banco: è kriptonite (il misterioso minerale che priva Superman dei poteri) del desiderio. L’ho capito meglio quest’estate facendo un trekking di due settimane sulle Alpi con un gruppo di 15enni. La montagna spesso «scampa» dal segnale e invita a fare, di sé, degli altri e delle cose del mondo, il «campo» dell’attenzione. Il presente così offre la sua intensità e risveglia la tensione alla vita che in noi vuole crescere. Abbiamo anche proposto loro di liberarsi dei telefoni per 48 ore, e alla fine erano entusiasti, ringraziandoci per aver liberato energie in loro addormentate: «Mi sono sentito più vivo! Ho fatto e visto molte più cose! Mi sono divertito di più con gli altri!». Chi di noi riesce a stare senza la propria kriptonite per 48 ore? Il multitasking è in realtà uno degli inganni peggiori del nostro tempo. Provate a uscire a cena, a passeggiare, leggere… senza portare il cellulare: vi sorprenderà quante volte lo cercherete (dipendenza) e quanto sia intenso il segnale emesso da ciò che abbiamo sotto gli occhi. Per questo dopo i Letti da rifare voglio esplorare l’Ultimo banco: non un nostalgico ricordo del passato, ma un banco di prova per l’arte di vivere felici. Disattenti, ci auto-esiliamo in fondo all’aula: nelle relazioni e negli affetti, nella comprensione di noi stessi, degli altri e del mondo. Ma dove il desiderio retrocede, paura, noia e rinuncia hanno la meglio: non attendiamo più nulla, anzi, come nella Storia infinita di Michael Ende, aspettiamo, senza più speranza e immaginazione, che proprio il nulla ci divori. L’attenzione, che è l’unica possibile «presenza del presente», invece, distrugge un po’ di nulla (il vivere senza senso, cioè male) in noi e attorno a noi: la vita diventa «intensa» solo se siamo «attenti» a viverla.
Ogni lunedì sarà una pagina o un personaggio ad «alta tensione» a illuminare un ultimo banco dell’esistenza, per restituire luce al «qui e ora», e futuro al presente perduto. Oggi scelgo l’Ulisse di Dante: il suo «ardore» di «divenir del mondo esperto» ci strappa dalla paralisi del desiderio e spinge a mettersi in «mare aperto» per cercare, con i nostri amici, il compimento del desiderio ultimo di felicità. Così mentre l’Ulisse omerico torna e si ferma a Itaca, quello dantesco (alter ego del poeta) la lascia, non gli basta: il primo è un cerchio, il secondo una freccia del desiderio tesa al bersaglio della vita totale e piena. La vita terrena è una «breve vigilia dei sensi» da non sprecare, veglia di chi riceve l’alba, l’amore, la festa… proprio perché, vigile, li attende: noi diventiamo ciò a cui tendiamo. Il discorso pieno di eros dell’eroe risveglia nei compagni un desiderio tanto «acuto» da indurli a partire verso l’ignoto. Vivrebbero da «bruti», animali senz’anima, desideranti senza desiderio, se rinunciassero a «virtute e canoscenza», cioè il bersaglio della vita. E se Ulisse naufraga nell’abisso del desiderio, mostrando dove l’uomo arriva con le sue forze, Dante parte da quell’abisso, in cui scopre che il desiderio infinito di essere amato non è altro che il desiderio infinito di Dio di amarlo. E noi, come Ulisse e Dante, non siamo fatti per l’ultimo banco del desiderio, ma per il primo.”

Intimidazioni

Meno di tre settimane fa inviavo alle mie classi più grandi (quarte e quinte) l’intervista del giornalista friulano Giovanni Taormina all’ex-reggente ‘ndranghetista Luigi Bonaventura. Questa mattina, all’ingresso della sede Rai di Udine, gli è stata recapitata una busta con due proiettili all’interno. Se ci fosse bisogno di un ulteriore segnale che la mafia è presente anche qui…

https://www.rainews.it/tgr/fvg/video/2019/04/fvg-taormina-proiettili-rai-udine-f0a07600-47ce-4ac1-a939-2109af1f609f.html

Buona, cattiva, felice, infelice: quale AI?

Mi sono ripromesso di affrontare, nelle classi quinte, il tema dell’intelligenza artificiale. Non so se ce la farò. Intanto pubblico un articolo molto interessante di Francesco D’Isa su questioni di etica generale applicata a tale argomento. Questa la fonte.

“Se ogni apocalisse ha il suo immaginario, l’allegoria contemporanea ha le fattezze di due cigni neri. Uno è intinto nel petrolio e barcolla in un lago in secca; l’altro ha i contorni diffratti e cangianti del sogno di un algoritmo. “Cigno nero”, infatti, è un termine coniato da Nassim Nicholas Taleb per indicare un evento di grande impatto, difficile da prevedere e molto raro, che col solo accadere rivoluziona la realtà abituale – come l’idea che tutti i cigni sono bianchi. La caduta di un gigantesco asteroide, un’invasione aliena o la scoperta del fuoco sono tutti esempi di cigni neri; ognuno di essi è una piccola apocalisse, perché sebbene non se ne possa prevedere né il volto né la data, sappiamo che avverrà.
Con un po’ di cautela però, è possibile azzardarne la provenienza: nella precedente allegoria, i due cigni neri della contemporaneità sono il cambiamento climatico e l’avvento dell’intelligenza artificiale – ed è di quest’ultimo che scrivo. Non azzardo una cronologia dell’avvento, la cui origine si potrebbe identificare con l’invenzione del calcolatore di Pascal o persino con l’arte combinatoria di Lullo o gli automata di Erone di Alessandria. Per limitarsi al passato prossimo, gli ultimi sigilli infranti sono le vittorie delle IA al gioco del Go e la nascita dei deep fake, dei contenuti multimediali falsi ma credibili, che dalla pornografia (primo laboratorio di molte innovazioni tecnologiche) sono sfociati nella politica e nel marketing.
Un evento di minore importanza, ma senza dubbio di grande impatto nell’immaginario, è stato il primo contatto con l’interiorità delle intelligenze artificiali grazie ai deep dream. Si tratta di immagini surreali ottenute usando in maniera creativa l’output dell’algoritmo che identifica gli oggetti nelle fotografie – il risultato è il secondo cigno dell’allegoria, una sottile crepa nella scatola nera delle IA, che inocula il sospetto che gli androidi sognino le nostre stesse pecore. Non è possibile conoscere in anticipo la propria prole, ma è sufficiente poterla generare per porsi importanti questioni etiche: i nostri figli saranno buoni o cattivi? Felici o infelici? Migliori o peggiori di noi? È un bene o un male metterli al mondo? Le stesse domande si pongono anche per le IA, e per quanto suonino sempliciotte sono un buon punto di partenza.

Proverò dunque a usare le seguenti categorie: con l’etichetta di buone o cattive intendo il caso in cui le IA abbiano funzioni costruttive o distruttive per il benessere dell’umanità. Felici o infelici sono due etichette fluide, con cui indico la condizione predominante del vissuto delle IA. Entrambe glissano su un punto di estrema importanza, assimilabile al cosiddetto hard problem della coscienza, nella terminologia di David Chalmers: le IA esperiscono o esperiranno degli stati coscienti (i cosiddetti qualia)? È una questione di difficile soluzione, non solo per loro, ma anche per le piante, gli animali e gli esseri umani – o persino i sassi. Gli unici stati di coscienza che conosci con certezza, infatti, sono i tuoi. Nulla ti assicura che non vivi in un mondo di “zombie filosofici”, in cui sei l’unica persona dotata di coscienza. Chi scrive si dichiara cosciente, ma tu che leggi come puoi credermi, se non sulla parola? Se ti sembra un ozioso scetticismo, prova a considerare cosa implichi ignorarlo. Come si individua la coscienza e i suoi confini? Affidarsi a un avanzato test di Turing legato al comportamento non esclude che possa esistere un robot privo di essa. Viene in mente il test Voight-Kampff di Blade Runner; una serie di domande e indagini fisico-comportamentali in grado di stabilire chi è un androide e chi un umano. Il test però non dice se gli androidi hanno un vissuto reale, ed escludere la possibilità che ne siano privi ci espone a non poche contraddizioni, ben esemplificate dall’esperimento mentale della stanza cinese di Searle.
Scartare a priori l’ipotesi di IA prive di coscienza, inoltre, porta facilmente al panpsichismo, la teoria per cui tutto è conscio, da un termostato a un essere umano, seppure in differenti gradazioni. Una conclusione non priva di problemi, come ad esempio la difficoltà di capire come varie micro-coscienze si combinano e integrano formando una coscienza più grande. Nel nostro caso però, possiamo ignorare l’ipotesi in cui le IA non abbiano qualia, per il semplice fatto che non pone alcun dilemma etico.

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Infine, per migliori intendo delle IA più intelligenti e potenti di noi, mentre per peggiori delle IA simili a quelle attuali; molto capaci ma globalmente non al nostro livello. Si tratta di categorie soggettive, basate su idee più o meno condivise ma passibili di molte sfumature. Per esempio, una calcolatrice è più brava di te a fare i conti, ma non per questo la consideri migliore – ma queste e altre contraddizioni emergeranno in seguito, dunque non mi attardo in altre premesse. E allora, come saranno le intelligenze artificiali?

1) Buone, felici e migliori di noi.
È il migliore dei casi, l’utopia in cui partoriamo degli angeli che ci accudiscono e proteggono dal male. Sembrerebbe una buona notizia, ma questo paradiso terrestre ci riporta a uno dei grandi quesiti dell’umanità: cos’è la felicità? La vita in veste di neonati perfetti potrebbe consistere nell’ininterrotta soddisfazione dei nostri desideri, in un godimento perpetuo che non lascia spazio al dolore. Oppure nell’opposto, la cessazione del desiderio e la perdita dell’ego propugnata dai mistici. La felicità che ci garantiranno queste IA sarà un sogno oppiaceo senza effetti collaterali? Un orgasmo ininterrotto? Il soma vedico, l’illuminazione buddista o cos’altro? Quel che è certo è che lo decideranno loro, e se saranno davvero così buone e brave è probabile che indovineranno. Ogni utopia, però, lascia spazio all’inquietudine; se ci sbagliassimo a tal punto sul nostro conto da non accorgerci che è la morte l’apice del bene? In questo caso le IA, più sveglie di noi, ci distruggeranno come nel caso 5) e 6), senza interrogarci in merito alla nostra idea di felicità.

2) Buone, infelici e migliori di noi.
Come sopra, ma con la disturbante consapevolezza che mentre i nostri figli (anzi, schiavi) operano per il nostro bene, ignorano il loro. Al primo caso si aggiunge dunque la domanda: siamo disposti a entrare in un paradiso che condanna altri all’inferno?

3) Buone, felici e peggiori di noi.
In questo caso si suppone che le IA, per quanto potenti, non saranno in grado di decidere per noi. L’umanità però saprà usarle per il meglio, potenziando le proprie capacità al fine di migliorare la qualità globale della vita. È l’utopia moderata del reddito universale e della fine del lavoro. Sebbene sia meno fantascientifico di 1), questo caso presenta comunque degli interrogativi in merito all’influenza del lavoro sulla felicità umana. Pur senza cedere alla retorica capitalista della produzione a ogni costo, va considerato che non è mai esistita un’epoca in cui la maggioranza o la totalità degli uomini non sia stata costretta a lavorare (in senso ampio) per sopravvivere. Non possiamo prevedere sensatamente gli effetti sulla felicità di un mondo in cui nessuno lavora e in cui in ogni ambito delle servizievoli IA sono più brave di noi, perché non abbiamo alcun precedente su cui basarci. È però lecito supporre che questo scenario non accadrà all’improvviso, ma che presenti gradazioni che lo avvicineranno e intersecheranno con i casi (7) e (8). Le variabili in gioco sono troppe: la velocità dello sviluppo tecnologico, la sua capillarità, realizzabilità e applicazione. Cui si aggiunge l’organizzazione sociale e il contesto storico in cui accadrà il cigno nero.

4) Buone, infelici e peggiori di noi.
Come sopra, col solito prezzo di far scontare ad altri la nostra aumentata felicità. Senza contare – ma questo vale per ogni scenario – che potremmo non scoprire mai cosa provano i nostri figli.

5) Cattive, felici e migliori di noi.
Questa distopia ha varie forme, dal robot malvagio che gode nello schiavizzare, torturare o annientare l’umanità, a quello che ci stermina per semplice noncuranza fino alla superintelligenza illuminata che ci reputa alla stregua di un virus, per via delle enormi sofferenze che causiamo alla quasi totalità delle forme di vita del pianeta. L’ipotesi più curiosa in quest’ambito è forse il “paradosso delle graffette” proposto da Nick Bostrom. Il filosofo immagina un’IA programmata per assemblare delle banali graffette a partire da un certo numero di materie prime. Questa intelligenza potrebbe essere abbastanza potente da piegare l’intero pianeta al suo scopo, ma non da cambiarlo, e, nel giro di qualche tempo, trasformerebbe ogni risorsa del pianeta – comprese le forme di vita che ospita – in materie prime necessarie all’assemblaggio di graffette. Un aspetto curioso di questa ipotesi è che si potrebbe facilmente identificare la stessa umanità con questo mostro ecologico: siamo programmati per soddisfare i nostri desideri primordiali, come mantenerci e moltiplicarci, e consumiamo il pianeta senza porre mai in dubbio i nostri scopi.

6) Cattive, infelici e migliori di noi.
Come sopra, con l’aggravante che neanche gli aguzzini sarebbero felici. Non esito a definirlo uno dei peggiori tra i mondi possibili.

7) Cattive, felici e peggiori di noi.
Questo caso speculare a 3) deresponsabilizza le IA per spostare l’attenzione sul pessimo uso che potremmo farne. Ho già parlato dei deep fake ed è noto come l’analisi dei big data abbia in parte pilotato le ultime elezioni americane. Delle IA utilizzate per spingere gli interessi contingenti di pochi individui potrebbero risultare disastrose sul lungo periodo. Un piccolo ma interessante esempio contemporaneo è l’effetto degli algoritmi utilizzati per rintracciare e proporre dei contenuti che “ci potrebbero interessare” sui casi di depressi gravi. Proporre dei contenuti sempre più violenti o disturbanti, infatti, potrebbe istigare o coadiuvare il suicidio dei soggetti già depressi.

8) Cattive, infelici e peggiori di noi.
Anche in questo caso, avremmo tutti gli svantaggi del caso precedente con in più il danno di altro dolore.

E dunque, per tornare alla domanda iniziale, è un bene o un male mettere al mondo delle IA? L’esposizione di questi otto scenari non chiarisce molto le idee, ma rende quasi letterale il parallelo coi figli. Trovare una motivazione etica per qualunque forma di creazione, infatti, sia che si tratti di vita che di tecnologia, è più difficile del previsto. L’ignoranza del futuro, la molteplicità degli utilizzi e l’incapacità di identificare il bene sono dei limiti troppo grandi.
Ma la domanda potrebbe essere inutile, se anche noi siamo costretti a seguire l’imperativo di un “programma” che ci spinge inevitabilmente a creare qualcosa di nuovo, che siano figli, utensili o entrambe le cose. Non è facile, infatti, individuare il magnete alla base di ogni desiderio: proteggersi, mantenersi, accrescersi, riprodursi… tutto pare affannarsi contro «il dolore della paura della morte», come scrive Dostoevskij ne I demoni. In attesa del futuro, dunque, possiamo solo augurare il meglio ai nostri figli, affermando con Kirillov che «chi vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio».”

Gemma di speranza

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Da due anni non pubblico più le gemme che studentesse e studenti portano in classe. Purtroppo non ho il tempo materiale per poterlo fare. Stamattina c’è stata la prima gemma di quest’anno, in una classe terza. Si è trattato di un testo che era stato portato anche tre anni fa da una ragazza di quinta. Erano le parole di Antoine Leiris, l’uomo che perse la moglie nell’attentato parigino del Bataclan e che si ritrovò da solo a crescere un bimbo di 17 mesi. Le riporto:

«Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa.
L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio».

Mi ha profondamente colpito che in un periodo storico in cui mondo reale e virtuale fanno fatica a contenere toni sopra le righe, a limitare linguaggi di odio, a controllare reazioni provocatorie che arrivano soprattutto dal mondo adulto, una sedicenne abbia voluto regalare ai compagni una gemma che parlasse di rifiuto dell’odio. Sono risuonate in me le parole di Etty Hillesum: “A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un frammento di amore e di bontà che bisognerà conquistare in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere”.

Grazie B.

Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo

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Mentre guidavo, ieri pomeriggio, mi sono imbattuto in una voce calda e ferma che proveniva dall’autoradio e che pronunciava delle parole a me ben note (le considero un baluardo, una fonte continua di profonde riflessioni e meditazioni). Su Radiotre, nella trasmissione Ad alta voce, l’attrice Sandra Toffolatti stava leggendo dei brani tratti dal Diario 1941-43 di Etty Hillesum. Ne pubblico qui un estratto, e rimando a questo link coloro che volessero riascoltare la lettura.

11 luglio 1942, sabato mattina, le undici. Si dovrebbe parlare delle questioni più gravi e importanti di questa vita solo quando le parole ci vengono semplici e naturali come l’acqua che sgorga da una sorgente.
E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio. Su tutta la superficie terrestre sí sta estendendo pian piano un unico, grande campo di prigionia e non ci sarà quasi più nessuno che potrà rimanerne fuori. È una fase che dobbiamo attraversare. Qui gli ebrei si raccontano delle belle storie: dicono che in Germania li murano vivi o li sterminano coi gas velenosi. Non è granché saggio raccontarsi storie simili, e poi, se anche questo capitasse in una forma o nell’altra, è per responsabilità nostra? Da ieri sera piove con una furia quasi infernale. Ho già vuotato un cassetto della mia scrivania. Ho ritrovato quella sua fotografia che avevo perso quasi un anno fa, ma che sapevo avrei recuperato: ed eccola lì, in fondo a un cassetto disordinato. È tipico per me: io so che certe cose, grandi o piccole, si aggiustano – anche, e soprattutto, se sono cose materiali. Non mi preoccupo mai per il domani, per esempio so che tra poco dovrò andarmene di qui e non ho la più pallida idea di dove andrò a finire, e poi, anche le mie entrate sono ben scarse in questo momento – ma per me stessa non mi preoccupo mai, perché so che qualcosa succederà. Se si proiettano le proprie preoccupazioni sulle varie cose che devono accadere, si impedisce a queste cose di svilupparsi in modo organico. Ho una fiducia così grande: non nel senso che tutto andrà sempre bene nella mia vita esteriore, ma nel senso che anche quando le cose mi andranno male, io continuerò ad accettare questa vita come una cosa buona. Mi meraviglio di quanto io mi stia già orientando verso la prospettiva di un campo di lavoro. Ieri sera camminavo con lui lungo il canale, avevo dei comodi sandali ai piedi e d’un tratto m’è venuto da pensare: devo portarmi anche questi sandali, così potrò alternarli alle scarpe più pesanti. Che mi prende in questo momento? Una gioia così leggera, quasi scherzosa? Ieri è stato un giorno pesante, molto pesante; ho dovuto soffrire molto dentro di me, ma ho assorbito tutte le cose che mi sono precipitate addosso, e mi sento già in grado di sopportare qualcosa in più.
Probabilmente è di li che mi viene questa serenità, questa pace interiore: dalla coscienza di sapermela cavare da sola ogni volta, dalla constatazione che il mio cuore non s’inaridisce per l’amarezza, che i momenti di più profonda tristezza e persino di disperazione mi lasciano tracce positive, mi rendono più forte. Non mi faccio molte illusioni su come le cose stiano veramente e rinuncio persino alla pretesa di aiutare gli altri, partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri. Ma su questo punto non dobbiamo farci delle illusioni eroiche.
Mi chiedo che cosa farei effettivamente, se mi portassi in tasca il foglio con l’ordine di partenza per la Germania, e se dovessi partire tra una settimana. Supponiamo che quel foglio mi arrivi domani: cosa farei? Comincerei col non dir niente a nessuno, mi ritirerei nel cantuccio più silenzioso della casa e mi raccoglierei in me stessa, cercando di radunare tutte le mie forze da ogni angolo di anima e corpo. Mi farei tagliare i capelli molto corti e butterei via il mio rossetto. Cercherei di finire di leggere le lettere di Rilke. Mi farei fare dei pantaloni e una giacchetta con quella stoffa che ho ancora per un mantello d’inverno. Naturalmente vorrei ancora vedere i miei genitori e racconterei loro molte cose di me, cose consolanti – e ogni minuto libero vorrei scrivere a lui, all’uomo che – già lo so – mi farà morire di nostalgia. Certe volte mi sembra di morire sin da adesso, quando penso che dovrò lasciarlo e che non saprò più niente di lui.
Tra qualche giorno andrò dal dentista per farmi otturare tutti quei buchi nei denti: sarebbe proprio grottesco che mi venisse mal di denti. Mi procurerò uno zaino e porterò con me lo stretto necessario, poco, ma tutto di buona qualità. Mi porterò una Bibbia e quei libretti sottili, i Briefe an einen jungen Dichter, e in qualche angolino dello zaino riuscirò a farci stare lo Stundenbuch? Non mi porto ritratti di persone care, ma alle ampie pareti del mio io interiore voglio appendere le immagini dei molti visi e gesti che ho raccolto, e quelle rimarranno sempre con me.
Anche queste due mani vengono con me, con le loro dita espressive che sono come giovani rami robusti. Spesso saranno congiunte in una preghiera e mi proteggeranno; e staranno con me fino alla fine. E così questi occhi scuri col loro sguardo buono, dolce e indagatore. E se i tratti del mio viso diventeranno brutti e sconvolti dalla sofferenza e dal lavoro eccessivi, allora tutta la vita del mio spirito potrà concentrarsi negli occhi. Eccetera, eccetera. Naturalmente si tratta di un semplice stato d’animo, uno dei tanti che si provano in queste nuove circostanze. Ma è anche un pezzo di me stessa, una possibilità che ho. Una parte di me che sta prendendo sempre più il sopravvento. Del resto: un essere umano è poi solo un essere umano. Già ora abituo il mio cuore ad andare avanti, anche quando sarò separata da coloro senza cui non credo che potrei vivere. Il mio distacco esteriore aumenta di giorno in giorno per far posto a un sentimento interiore – la volontà di continuare a vivere e a sentirsi legati per quanto lontani si possa essere gli uni dagli altri. Eppure quando cammino con lui, la mano nella mano, lungo il canale – che ieri sera aveva un aspetto autunnale e tempestoso -, o quando, nella sua cameretta, mi scaldo ai suoi gesti buoni e generosi, allora provo di nuovo questa speranza e questo desiderio così umani: perché non potremmo rimanere insieme? Il resto non avrebbe più importanza, allora, io non voglio lasciarlo. Ma altre volte penso fra me: forse è più facile pregare da lontano che veder soffrire da vicino.
In questo mondo sconvolto, le comunicazioni dirette tra due persone passano ormai solo per l”anima. Esteriormente si è scaraventati lontano, e i sentieri che ci collegano rimangono sepolti sotto le macerie, cosicché in molti casi non potremo mai più ritrovarli. La prosecuzione ininterrotta di un contatto, di una vita in comune è possibile solo interiormente, e non rimane forse la speranza di ritrovarci ancora su questa terra?
Naturalmente io non so come reagirò quando mi toccherà lasciarlo per davvero. In questo momento ho ancora nelle orecchie la sua voce di stamattina al telefono, e stasera ceniamo alla stessa tavola. E domattina facciamo una passeggiata, poi pranziamo insieme da Liesl e Werner e di pomeriggio si farà musica. Per ora lui è sempre qui. E forse, nel profondo del mio cuore, io non credo neppure che dovrò lasciare né lui né altre persone. Un essere umano è poi solo un essere umano. In questa nuova situazione dovremo imparare un’altra volta a conoscere noi stessi. Molte persone mi rimproverano per la mia indifferenza e passività e dicono che mi arrendo così, senza combattere. Dicono che chiunque possa sfuggire alle loro grinfie deve provare a farlo, che questo è un dovere, che devo far qualcosa per me. Ma questo conto non torna. In questo momento, ognuno si dà da fare per salvare se stesso: ma un certo numero di persone – un numero persino molto alto – non deve partire comunque?
Il buffo è che non mi sento nelle loro grinfie, sia che io rimanga qui, sia che io venga deportata. Trovo tutti questi ragionamenti così convenzionali e primitivi e non li sopporto più, non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi; e sia che ora io mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors’anche in un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre. Forse mi potranno ridurre a pezzi fisicamente, ma di più non mi potranno fare. E forse cadrò in preda alla disperazione e soffrirò privazioni che non mi sono mai potuta immaginare, neppure nelle mie più vane fantasie. Ma anche questo è poca cosa, se paragonato a un’infinita vastità, e fede in Dio, e capacità di vivere interiormente. Può anche darsi che io sottovaluti tutto quanto.
Ogni giorno vivo nell’eventualità che la dura sorte toccata a molti, a troppi, tocchi anche alla mia piccola persona, da un momento all’altro. Mi rendo conto di tutto fin nei minimi dettagli, credo che nel mio «confrontarmi» interiore con le cose io stia saldamente piantata sulla terra più dura della realtà più dura. E la mia accettazione non è rassegnazione, o mancanza di volontà: c’è ancora spazio per l’elementare sdegno morale contro un regime che tratta così gli esseri umani. Ma le cose che ci accadono sono troppo grandi, troppo diaboliche perché si possa reagire con un rancore e con un’amarezza personali. Sarebbe una reazione così puerile, non proporzionata alla «fatalità›› di questi avvenimenti.
Spesso la gente si agita quando dico: non fa poi molta differenza se tocca partire a me o a un altro, ciò che conta è che migliaia di persone debbano partire. Non è che io voglia buttarmi fra le braccia della morte con un sorriso rassegnato. E’ il senso dell’ineluttabile e la sua accettazione, la coscienza che in ultima istanza non ci possono togliere nulla. Non è che io voglia partire a ogni costo, per una sorta di masochismo, o che desideri essere strappata via dal fondamento stesso della mia esistenza – ma dubito che mi sentirei bene se mi fosse risparmiato ciò che tanti devono invece subire. Mi si dice: una persona come te ha il dovere di mettersi in salvo, hai tanto da fare nella vita, hai ancora tanto da dare. Ma quel poco o molto che ho da dare lo posso dare comunque, che sia qui, in una piccola cerchia di amici, o altrove, in un campo di concentramento. E mi sembra una curiosa sopravvalutazione di se stessi, quella di ritenersi troppo preziosi per condividere con gli altri un «destino di massa».
Se Dio decide che io abbia tanto da fare, bene, allora lo farò, dopo esser passata per tutte le esperienze per cui possono passare anche gli altri. E il valore della mia persona risulterà appunto da come saprò comportarmi nella nuova situazione. E se non potrò sopravvivere, allora si vedrà chi sono da come morirò. Non si tratta più di tenersi fuori da una determinata situazione, costi quel che costi, ma di come ci si comporta e si continua a vivere in qualunque situazione. Le cose che devo ragionevolmente fare, le farò. I miei reni sono ancora infiammati e anche la mia vescica al piede non è kasher, mi farò rilasciare un certificato medico se sarà possibile. Mi si raccomanda infatti di cercarmi ancora un posto, una specie d’impiego presso il Consiglio Ebraico. La settimana scorsa sono stati autorizzati a impiegare 180 persone e ora i disperati vi si accalcano in massa: proprio come un pezzo di legno che dopo un naufragio va alla deriva sull’oceano infinito, un relitto a cui tutti i naufraghi tentano ancora di aggrapparsi. Ma trovo assurdo e illogico prendere delle iniziative. Né sono il tipo che sfrutta le sue buone relazioni. Del resto, sembra che vi si combinino parecchi intrighi, e il risentimento contro quel singolare organo di mediazione cresce di ora in ora. Inoltre: più tardi toccherà anche a loro.
E’ vero che gli inglesi a quel punto potrebbero essere sbarcati: così dicono coloro che conservano una speranza politica. Ma credo che si debba rinunciare a qualunque aspettativa che punti sul mondo esterno, che non si debba far calcoli sulla durata del tempo, ecc. ecc. E ora apparecchio la tavola.
Preghiera della domenica mattina [12 luglio 1942]
Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento -invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: non prenderanno proprio me. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia. Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te e molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio.
Per il dolore grande ed eroico ho abbastanza forza, mio Dio, ma sono piuttosto le mille piccole preoccupazioni quotidiane a saltarmi addosso e a mordermi come altrettanti parassiti. Be’, allora mi gratto disperatamente per un po’ e ripeto ogni giorno: per oggi sei a posto, le pareti protettive di una casa ospitale ti scivolano sulle spalle come un abito che hai portato spesso, e che ti è diventato familiare, anche di cibo ce n’è a sufficienza per oggi, e il tuo letto con le sue bianche lenzuola e con le sue calde coperte è ancora lì, pronto per la notte – e dunque, oggi non hai il diritto di perdere neanche un atomo della tua energia in piccole preoccupazioni materiali. Usa e impiega bene ogni minuto di questa giornata, e rendila fruttuosa; fanne un’altra salda pietra su cui possa ancora reggersi il nostro povero e angoscioso futuro. Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle bufere di questi ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio. Vedi come ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure, ma ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me. E tanto per fare un esempio: se io mi trovassi rinchiusa in una cella stretta e vedessi passare una nuvola davanti alla piccola inferriata, allora ti porterei quella nuvola, mio Dio, sempre che ne abbia ancora la forza. Non posso garantirti niente a priori, ma le mie intenzioni sono ottime, lo vedi bene.
E ora mi dedico a questa giornata. Mi troverò fra molta gente, le tristi voci e le minacce mi assedieranno di nuovo, come altrettanti soldati nemici assediano una fortezza inespugnabile.
14 luglio, martedì sera. Ognuno deve vivere con lo stile suo. Io non so farmi avanti per garantirmi quella che può sembrare la mia salvezza, mi pare una cosa assurda e divento irrequieta e infelice. Quella lettera in cui faccio domanda al Consiglio Ebraico, scritta su insistenza di Jaap, per un po’ mi ha fatto perdere l’equilibrio – lieto e insieme serissimo – che avevo oggi. Quasi fosse un’azione indegna – questo star tutti addosso a quell’unico pezzetto di legno che va alla deriva sull’oceano infinito dopo il naufragio, questo salvare il salvabile, spingersi a forza di gomiti, provocare l’annegamento altrui, tutto così indegno: e poi, questo spingere non mi piace. Io appartengo piuttosto al genere di persone che preferiscono galleggiare ancora un po’ sull’oceano, stese sul dorso con gli occhi rivolti al cielo, finché – con un gesto rassegnato e devoto – vanno a fondo per sempre. Io non posso fare diversamente. Le mie battaglie le combatto dentro di me, contro i miei demoni; ma combattere in mezzo a migliaia di persone impaurite, contro fanatici furiosi e gelidi che vogliono la nostra fine, no, questo non è proprio il mio genere. Non ho neppure paura, non so, mi sento così tranquilla, talvolta mi sembra di trovarmi in alto sui merli del palazzo della storia e di far correre lo sguardo su territori lontani. Mi sento in grado di sopportare il pezzo di storia che stiamo vivendo, senza soccombere. So tutto quel che capita e la mia testa rimane lucida. Talvolta è come se sul mio cuore venisse sparso uno strato di cenere. O come se sotto i miei occhi il mio viso appassisse e si dissolvesse, e nei suoi lineamenti grigi i secoli si inabissassero uno dopo l’altro, e tutto si disfacesse, e il mio cuore lasciasse andare tutto. Sono solo brevi momenti, dopo di che ritrovo ogni cosa e la mia testa ridiventa lucida, e sono di nuovo in grado di sopportare benissimo questo pezzo di storia. Una volta che si comincia a camminare con Dio, si continua semplicemente a camminare, e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata. Com’è singolare tutto ciò.
Riesco a capire un pezzetto di storia e di umanità, ma per ora preferisco non scrivere, avrei l’impressione che ogni parola sbiadirebbe e invecchierebbe all’istante, come se la parola nuova capace di sostituire quella vecchia abbia ancora da nascere.
Se io fossi in grado di registrare molte cose che penso e che sento e che talvolta mi si chiariscono in un baleno – cose che riguardano questa vita, gli uomini, e Dio – sono sicura che ne potrebbe venir fuori qualcosa di molto bello. Continuerò ad avere pazienza e lascerò maturare ogni cosa dentro di me.
Mi sembra che si esageri nel temere per il nostro povero corpo. Lo spirito viene dimenticato, s’accartoccia e avvizzisce in qualche angolino. Viviamo in modo sbagliato, senza dignità e anche senza coscienza storica. Con un vero senso della storia si può anche soccombere. Io non odio nessuno, non sono amareggiata. Una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito.
Se sapessero come sento e come penso, molte persone mi considererebbero una pazza che vive fuori dalla realtà. Invece vivo proprio nella realtà che ogni giorno porta con sé. L’uomo occidentale non accetta il ‘dolore’ come parte di questa vita: per questo non riesce mai a cavarne fuori delle forze positive. Bisogna che cerchi quelle due o tre frasi che avevo già trascritto da una lettera di Rathenau. Ecco cosa mi mancherà: qui basta che allunghi una mano, e subito ritrovo le parole e i frammenti di cui il mio spirito ha bisogno in un determinato momento. Bisogna invece che abbia tutto in me stessa. Si deve anche essere capaci di vivere senza libri e senza niente. Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera.
Ora sono le undici e mezzo di sera. Weyl si allaccia lo zaino troppo, troppo pesante per la sua fragile schiena, e si avvia a piedi alla stazione centrale. Io l’accompagno. Stanotte non si dovrebbe poter chiudere occhio, si dovrebbe soltanto poter pregare.”

Riorganizzare la speranza

neet

Ho letto su La Stampa l’articolo di Niccolò Zancan su Ernesto Grasso, ventunenne torinese la cui esperienza viene brevemente raccontata come emblema dei Neet, acronimo inglese inventato nel 1999 che sta per Not in employement, education or training. Fa parte di quei “giovani fra i 15 e i 24 anni che non studiano, non lavorano e non stanno facendo percorsi di formazione”: in Italia sono il 19%. Alcune delle sue parole mi hanno colpito “I pomeriggi sono la cosa più difficile. Gioco alla PlayStation. Vado a camminare. Ma non passano mai” […] “Mi sono iscritto a sette centri per l’impiego. Fino a qualche mese fa, ogni giorno andavo al centro commerciale a vedere se mettevano degli annunci. Ho provato all’Ikea, a Leroy Merlin. L’ultimo tentativo è stato per un posto da commesso in un negozio di videogiochi. Non servo. Mi scartano sempre. Dopo un po’, ti chiudi. Ci rinunci. Vivi dentro la tua stanza, aspetti che passi il pomeriggio”…

Nei mesi di maggio e giugno ho letto vari libri di psicologi, psichiatri, antropologi su adolescenti e giovani e ho partecipato a convegni e incontri. In Abbiamo bisogno di genitori autorevoli lo psicoterapeuta Matteo Lancini scrive: “Sostenere la speranza di un futuro possibile è il compito fondamentale di ogni genitore e di qualsiasi figura adulta significativa, impegnata in un ruolo affettivo o professionale con gli adolescenti. Il futuro rappresenta infatti lo spazio e il tempo della realizzazione di sé dell’adolescente, l’ambito dove potranno affermarsi il suo talento e la sua originalità. Se manca questa prospettiva, se l’adolescente si rappresenta senza futuro, in assenza di avvenire, c’è la crisi adolescenziale. Il disagio dell’adolescente dipende soprattutto da questo.” E ancora “gli adolescenti necessitano di un adulto non troppo angosciato, sufficientemente preoccupato e autorevole da restituire loro uno sguardo di ritorno pieno di fiducia e capace di avvicinare le risorse necessarie alla realizzazione di sé in una società davvero complessa. Tutto ciò richiede agli adulti più creatività di quanto ne fosse necessaria in un passato neanche troppo lontano”.

L’articolo citato in apertura di questo post portava questo sottotitolo: “Un giorno con un Neet: gioco alla playstation perché ho smesso di guardare al futuro”. Penso che per dare concretezza al futuro di Ernesto, o di un qualsiasi adolescente la cui visione sul domani sbatte contro un muro, sia necessario lavorare sul presente, sull’oggi (che poi è la stessa cosa che scrive Lancini). E’ proprio la preoccupazione per un domani impossibile da immaginare che impedisce di vivere, apprezzare e abbracciare il presente che diventa quindi a sua volta tempo di frustrazione.
Mi vengono in mente le preoccupazioni e le angosce dei discepoli di Gesù, sempre in ansia. Vedono Gesù placare la tempesta e camminare sull’acqua, ne fanno diretta esperienza (Pietro), vengono sfamati quando pare loro impossibile… Si stupiscono di tutto questo, eppure le preoccupazioni restano. I discepoli temono, Pietro inizia ad affondare, dopo la moltiplicazione e la mangiata a sazietà sono preoccupati per non aver preso i pani… E l’accusa che muove loro Gesù è sempre la stessa: “uomini di poca fede”. La paura blocca la fede, quella che nasce dall’esperienza di un Dio vicino, buono e amorevole, che sa le necessità dell’uomo prima ancora che queste vengano esplicitate (Mt 6,7-8: Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate). Ancora Lancini: “Se si vuole aiutare l’adolescente in crisi bisogna essere in grado di «raggiungere» il ragazzo o la ragazza là dove sono. La clinica dell’adolescente richiede di arrivare alla mente del paziente là dove è, là dove si trova adesso, con un profondo rispetto per come il soggetto prova a gestire l’insopportabile crisi evolutiva, il fatto di vivere in una quotidianità senza prospettive visibili dal suo punto di vista. Su queste basi è possibile costruire un’alleanza con l’adolescente che consenta a noi, e ai suoi adulti di riferimento, di avvicinargli le risorse utili alla ripresa evolutiva, alla scoperta del proprio vero Sé, del proprio talento, come unica possibilità per riorganizzare la speranza e investire in un futuro possibile”.

Paura, coraggio, potere, liberalismo

paura

Pubblico due post in uno, anzi, per la verità sarebbero tre. Dopo l’intervista a Zygmunt Bauman sull’utilizzo della paura da parte del potere, ho fuso due pezzi di Francesca Rigotti su paura, coraggio e liberalismo. Ne metto qui anche il pdf: Paura, coraggio, potere, liberalismo

LA PAURA E IL POTERE

Zygmunt Bauman

intervistato da Giulio Azzolini, “La Repubblica“, 5 agosto 2016

Professor Bauman, sono passati dieci anni da quando scrisse “Paura liquida” (Laterza). Che cos’è cambiato da allora?
“La paura è ancora il sentimento prevalente del nostro tempo. Ma bisogna innanzitutto intendersi su quale tipo di paura sia. Molto simile all’ansia, a un’incessante e pervasiva sensazione di allarme, è una paura multiforme, esasperante nella sua vaghezza. È una paura difficile da afferrare e perciò difficile da combattere, che può scalfire anche i momenti più insignificanti della vita quotidiana e intacca quasi ogni strato della convivenza”.
Per il filosofo e psicoanalista argentino Miguel Benasayag, la nostra è l’epoca delle “passioni tristi”. Che cosa succede quando la paura abbraccia la sfiducia?
bauman“Succede che i legami umani si frantumano, che lo spirito di solidarietà si indebolisce, che la separazione e l’isolamento prendono il posto del dialogo e della cooperazione. Dalla famiglia al vicinato, dal luogo di lavoro alla città, non c’è ambiente che rimanga ospitale. Si instaura un’atmosfera cupa, in cui ciascuno nutre sospetti su chi gli sta accanto ed è a sua volta vittima dei sospetti altrui. In questo clima di esasperata diffidenza basta poco perché l’altro sia percepito come un potenziale nemico: sarà ritenuto colpevole fino a prova contraria”.
Eppure l’Europa ha già conosciuto e sconfitto l’ostilità e il terrore: quello politico delle Br in Italia e della Raf in Germania, quello etnico-nazionalistico dell’Eta in Spagna e dell’Ira in Irlanda. Il nostro passato può insegnarci ancora qualcosa o il pericolo di oggi è incomparabile?
“I precedenti sicuramente esistono, tuttavia pochi ma decisivi aspetti rendono le attuali forme di terrorismo assai differenti dai casi che lei ricordava. Questi ultimi erano prossimi ad una rivoluzione (mirando, come le Br o la Raf, ad una sovversione del regime politico) o ad una guerra civile (puntando, come l’Eta o l’Ira, all’autonomia etnica o alla liberazione nazionale), ma si trattava pur sempre di fenomeni essenzialmente domestici. Ebbene, gli atti terroristici odierni non appartengono a nessuna delle due fattispecie: la loro matrice, infatti, è completamente diversa”.
Qual è la peculiarità del terrorismo attuale?
“La sua forza deriva dalla capacità di corrispondere alle nuove tendenze della società contemporanea: la globalizzazione, da un lato, e l’individualizzazione, dall’altro. Per un verso, le strutture che promuovono il terrorismo si globalizzano ben al di là delle facoltà di controllo degli Stati territoriali. Per altro verso, il commercio delle armi e il principio di emulazione alimentato dai media globali fanno sì che ad intraprendere azioni di natura terroristica siano anche individui isolati, mossi magari da vendette personali o disperati per un destino infausto. La situazione che scaturisce dalla combinazione di questi due fattori rende quasi del tutto invincibile la guerra contro il terrorismo. Ed è assai improbabile che esso abdichi a dinamiche ormai autopropulsive. Insomma, si ripropone, sotto nuove forme, il mitico problema del nodo gordiano, quello che nessuno sa sciogliere: e sono molti i sedicenti eredi di Alessandro Magno che, ingannando, giurano che le loro spade riuscirebbero a reciderlo”.
Per molti politici e molti commentatori, le radici del terrorismo vanno rintracciate nell’aumento incontrollato dei flussi migratori. Quali sono, a suo giudizio, le principali ragioni della violenza contemporanea?
“Com’è evidente, i profitti elettorali che si ottengono stabilendo un nesso di causa-effetto tra immigrazione e terrorismo sono troppo allettanti perché i concorrenti al gioco del potere vi rinuncino. Per chi decide è facile e conveniente partecipare ad un’asta sul mezzo più efficace per abolire la piaga della precarietà esistenziale, proponendo soluzioni fasulle come fortificare i confini, fermare le ondate migratorie, essere inflessibili con i richiedenti asilo… E per i media è altrettanto facile dare visibilità alla polizia che assalta i campi profughi oppure diffondere le immagini fisse e dettagliate di uno o due kamikaze in azione. La verità è che è maledettamente complicato toccare con mano le radici autentiche di una violenza che cresce in tutto il mondo, per volume e per intensità. E giorno dopo giorno diventa ancora più arduo, se non proprio impossibile, dimostrare che i governi abbiano individuato quelle radici e stiano lavorando davvero per sradicarle”.
Vuole dire che anche i politici occidentali utilizzano la paura come strumento politico?
“Esattamente. Come le leggi del marketing impongono ai commercianti di proclamare senza sosta che il loro scopo è il soddisfacimento dei bisogni dei consumatori, pur essendo loro pienamente consapevoli che è al contrario l’insoddisfazione il vero motore dell’economia consumistica, così gli imprenditori politici dei nostri giorni dichiarano sì che il loro obiettivo è garantire la sicurezza della popolazione, ma al contempo fanno tutto il possibile, e anche di più, per fomentare il senso di pericolo imminente. Il nucleo dell’attuale strategia di dominio, dunque, consiste nell’accendere e tenere viva la miccia dell’insicurezza…”.
E quale sarebbe lo scopo di questa strategia?
“Se c’è qualcosa che tanti leader politici non vedevano l’ora di apprendere, è lo stratagemma di trasformare le calamità in vantaggi: rinfocolare la fiamma della guerra è una ricetta infallibile per spostare l’attenzione dai problemi sociali, come la disuguaglianza, l’ingiustizia, il degrado e l’esclusione, e rinsaldare il patto di comando-obbedienza tra i governanti e la loro nazione. La nuova strategia di dominio, fondata sulla deliberata spinta verso l’ansia, permette alle autorità stabilite di venire meno alla promessa di garantire collettivamente la sicurezza esistenziale. Ci si dovrà accontentare di una sicurezza privata, personale, fisica”.
Crede che in tal modo le istituzioni rischino di smarrire il carattere democratico?
“Di sicuro la costante sensazione di allerta incide sull’idea di cittadinanza, nonché sui compiti ad essa legati, che finiscono per essere liquidati o rimodellati. La paura è una risorsa molto invitante per sostituire la demagogia all’argomentazione e la politica autoritaria alla democrazia. E i richiami sempre più insistiti alla necessità di uno stato di eccezione vanno in questa direzione”.
Papa Francesco appare l’unico leader intenzionato a sfatare quello che lei altrove ha chiamato “il demone della paura”.
“Il paradosso è che sia proprio colui che i cattolici riconoscono come il portavoce di Dio in terra a dirci che il destino di salvezza è nelle nostre mani. La strada è un dialogo volto a una migliore comprensione reciproca, in un’atmosfera di mutuo rispetto, in cui si sia disposti ad imparare gli uni dagli altri. Ascoltiamo troppo poco Francesco, ma la sua strategia, benché a lungo termine, è l’unica in grado di risolvere una situazione che somiglia sempre di più a un campo minato, saturo di esplosivi materiali e spirituali, salvaguardati dai governi per mantenere alta la tensione. Finché le relazioni umane non imboccheranno la via indicata da Francesco, è minima la speranza di bonificare un terreno che produrrà nuove esplosioni, anche se non sappiamo prevedere con esattezza le coordinate”.

PAURA, CORAGGIO e LIBERALISMO

Francesca Rigotti*

Per quanto riguarda la paura, la filosofia politica ha da tempo a disposizione un autore eccellente: Thomas Hobbes (1588-1679), «il gemello della paura» (sua madre lo partorì prematuramente – racconta egli stesso nella sua autobiografia – terrorizzata dalla notizia dell’arrivo dell’«Invincibile Armada»). Solo di recente la filosofia politica dispone anche di un’autrice eccellente, Judith Shklar.
Nel 1651 Hobbes pubblicò il Leviatano, nel quale proponeva una serie di misure per combattere la paura rigottiaccrescendo la sicurezza. Nel 1989 Shklar diede alle stampe un saggio dal titolo Liberalismo della paura, un testo complesso sul ruolo della paura nel processo di elaborazione teorica della politica.
Due parole sul contenuto a partire dai titoli, soprattutto sul secondo, che non è di immediata comprensione, anzi è proprio controintuitivo. In Liberalism of fear il genitivo sembra oggettivo e pare significare che il liberalismo «ha paura» di qualcosa, mentre ciò che si intende è il liberalismo come principio politico che libera dalla paura. Il Leviatano di Hobbes è invece il mostro biblico la cui immagine allegorica illustra il frontespizio della prima edizione del volume. Si tratta della famosa immagine rappresentante lo stato in veste di gigante, con in mano le insegne del potere dello stato e della chiesa (con la destra impugna la spada, con la sinistra la croce episcopale) e il cui corpo è formato da una moltitudine di individui di cui vediamo non i petti ma le schiene. La carne del gigante stato è la carne stessa di tutti gli individui che gli si affidano, rivolgendosi verso di lui pieni di paura, per venire difesi. Qui a liberare dalla paura è il potere dello Stato.
Lo stato di natura, una condizione ipotetica in cui gli uomini vivevano allo stato selvaggio, è per Hobbes uno stato di guerra e di anarchia, in cui tutti sono diffidenti e dove, dalla diffidenza, nasce la guerra di ognuno contro tutti. La legge di natura dice dunque che occorre difendersi con ogni mezzo possibile, ma anche cercare la pace a ogni costo. Ora, per garantirsi pace e sicurezza, il miglior mezzo di cui dispongono gli uomini è di stabilire tra loro un contratto col quale cedono allo stato i diritti che, se fossero conservati individualmente, costituirebbero una grave minaccia per la pace dell’umanità. Secondo Hobbes «il motivo e lo scopo di chi rinuncia al suo diritto o lo trasferisce allo stato, è soltanto la sicurezza sua personale, della sua vita e dei mezzi per conservarla». Come controparte per l’obbedienza dei sudditi lo stato promette sicurezza all’interno e all’esterno. È a questa dottrina che si richiamano oggi alcuni personaggi pubblici che pensano che lo stato sia legittimato a placare la paura col garantire la sicurezza a qualunque costo, anche a spese del venir meno delle libertà e dei diritti personali.
Il liberalismo della paura di Shklar, studiosa eccellente per il suo rigore intellettuale e la sua serietà morale, nonché per la sua filosofia sociale nitidamente laica e secolare da una parte, quanto dall’altra impegnata nella difesa dei deboli dall’oppressione e dalla tirannia, contiene una teoria dei diritti in base alla quale il primo diritto non è il diritto alla vita o alla libertà bensì il diritto ad essere protetti dal primo vizio, che a sua volta non è, nella teoria di Shklar, la superbia bensì la crudeltà, com’ella ben spiega in Vizi comuni. Tutti i diritti, anzi, dovrebbero essere impegnati a proteggere l’uomo dalla crudeltà. La crudeltà è il più crudele dei mali. La crudeltà ispira la paura e la paura distrugge la libertà. Questo non significa secondo Shklar che un sistema liberale non debba essere coercitivo e in alcuni casi incutere paura: un minimo di timore per la punizione in caso di trasgressione è implicito in ogni sistema legislativo, anche nel più liberale e democratico. Il senso profondo delle sue asserzioni è che il sistema liberale deve prevenire dalla paura creata da atti di forza arbitrari, inaspettati e non necessari, specialmente se perpetrati dallo stato, per esempio atti di crudeltà, di sopruso e di tortura eseguiti da corpi istituzionali come esercito, polizia e servizi segreti. In uno stato liberale non si dovrebbe aver paura della tortura perché la tortura non vi dovrebbe esistere, affermava Judith Shklar, mostrando ahimè non grande lungimiranza proprio rispetto al suo paese di adozione, gli Stati Uniti.
Questo è lo spirito che caratterizza il saggio Il liberalismo della paura, non il liberalismo della speranza e del progresso, ma il liberalismo che libera dalla paura. Se sapremo guardare alla crudeltà come al nostro vizio principale, indirizzeremo tutti i nostri sforzi a diminuire le occasioni in cui può essere esercitata. Perché la paura, lo sappiamo, «destroys freedom». Soggetti alla crudeltà, gli individui perdono l’energia che costituisce la libertà. E poiché sono i governi a controllare i mezzi più potenti per infliggere danni alla gente, è dei governi che si deve sospettare ed è dei governi che ci si deve indignare. I modelli di interazione sociale che promuovono, anche indirettamente, la crudeltà, diventano così bersagli dell’opposizione liberale.
Ora, nel successivo passaggio, si vede come la diseguaglianza induce la crudeltà in tentazione: così una società che considera come primo vizio la crudeltà è una società egualitaria che incoraggia la libertà dei cittadini nella costruzione del carattere proprio a ognuno. La posizione di Shklar è originale rispetto ad altri «teorici della paura», anche se conserva un punto in comune con essi, ovvero l’idea che diverse istituzioni, lo stato, la religione, abbiano il loro principio, il loro inizio e la loro giustificazione cioè, nella paura. Penso in particolare a Thomas Hobbes. Penso a Montesquieu, che faceva della paura il principio d’azione del regime dispotico come l’onore era il principio di quello monarchico e la virtù quello delle repubbliche. Penso a Hannah Arendt che denuncia il terrore in quanto fattore che annichilisce le persone, mentre salva in qualche modo la libertà che contiene in sé «la linfa stessa della libertà e del desiderio di riscatto».
Il liberalismo della paura dovrebbe garantire dagli abusi del potere e dalle sue intimidazioni chi è senza difesa e incoraggiare «l’eliminazione di quelle forme di dominio che impediscono la fruizione dei diritti fondamentali e che riducono la possibilità di scegliere liberamente il proprio futuro». È curioso inoltre che la posizione di Shklar, che diceva di non essere femminista perché non riusciva a immaginarsi in un sistema di credenze collettive, sia molto vicina a quella di Adriana Cavarero, teorica del femminismo della differenza e dell’essenzialismo, nel cercare di vedere il fenomeno della paura, Shklar, e del terrore, Cavarero, dalla parte delle vittime, che è la tesi del libro Orrorismo.
Si parla tanto, tantissimo di paura in questi anni, anche se non è la paura per il pericolo degli abusi dello stato il nocciolo, come lo era per Shklar, bensì un altro tipo di paura, per un altro tipo di pericoli. Alcuni commentatori politici sostengono addirittura che il senso di vulnerabilità e di paura si siano così sedimentati in noi da diventare la cifra della nostra epoca. Molti sociologi ed economisti hanno elaborato una «sindrome della paura», ripresa e diffusa dai media e sfruttata alla grande dai politici. Qualcuno per fortuna ha cominciato a ribellarsi, per esempio il norvegese Lars Svendsen, autore di una Filosofia della paura tradotta in inglese nel 2008 dall’originale norvegese del 2007 e accessibile anche in traduzione italiana. Il suo autore vi sostiene che non è che viviamo in un mondo senza pericoli, ma che non ha nemmeno senso guardare ogni fenomeno dalla prospettiva della paura, iniziata tra l’altro ben prima dell’11 settembre. Ci hanno propinato dosi massicce di ideologia apocalittica, la quale ci ha fatto persuasi che tutto va male e che in futuro andrà anche peggio; che i terroristi sono la minaccia più grave e più probabile (!) per le nostre vite, che gli stranieri sono un pericolo serio e gli stranieri migranti ci priveranno della nostra cultura e della nostra terra, che siamo in balia di terribili virus e di coloranti alimentari nocivissimi, che i nostri figli incontreranno pedofili ed erotomani a ogni passo, che i delitti contro la persona sono in aumento a dismisura (non è vero!, ma la loro percezione sì, ed è quella che conta!). In realtà viviamo nella società più sicura che sia mai esistita, e il dolore, la malattia e la morte, soprattutto la morte violenta, rappresentano nelle nostre esistenze una parte molto inferiore a quella giocata nelle generazioni precedenti. Svendsen, dopo aver introdotto la cultura della paura, spiega che cosa la paura è, quale è il suo rapporto col rischio, perché la paura attrae, in che cosa consiste il rapporto tra paura e fiducia, la politica della paura, l’ipotesi di un mondo immune o quasi da paura.
Francesca Rigotti (Ti-Press)Nella parte teorica del libro, il cap. 6 (La politica della paura), si citano autori moderni e contemporanei come Hobbes, Montaigne, Judith Shklar e Samuel Huntington, messi dall’autore in un unico paiolo. Bisognerebbe invece distinguere con maggior chiarezza, ed è quel che faccio, tra i «paurosi» (Hobbes e Huntington) e i «coraggiosi» (Montaigne, Shklar et al.): tra i primi, che affranti dalla paura si dispongono a rinunciare alle libertà civili pur di introdurre forme di controllo presumibilmente garanti di una maggior sicurezza, e i secondi, che sono disposti a difendere principi di libertà personale e diritti civili e legali assegnando a libertà e giustizia un ruolo superiore a quello della paura.
Mi fermo qui chiedendomi se, ispirati da Montaigne, Montesquieu e Shklar piuttosto che da Hobbes e Huntington, non si potrebbero mettere in campo altri dispositivi per vincere la paura che non siano misure liberticide quali l’introduzione dello stato di emergenza o lesive della dignità personale come il «body scanner». Magari un dispositivo banale come il coraggio. E propongo, a partire dal liberalismo della paura di Shklar, un liberalismo del coraggio, un liberalismo che incoraggia il coraggio oltre a prevenire dalla paura: un «coraggio del liberalismo»?
Prima di entrare nel merito, vorrei ancora ricordare le posizioni di due autori «protoliberali» che mi aiuteranno, per esclusione o per inclusione, a chiarire la mia posizione. Il primo autore è Kant, le cui osservazioni sul coraggio escludono tutte le donne dalla possibilità di esercitare e persino di conoscere questa virtù. In vari punti delle sue Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764), come pure dell’Antropologia da un punto di vista pragmatico (1798) il filosofo esprime chiaramente le sue considerazioni sul tema, pur non dedicando in alcuna delle due opere una trattazione particolare al coraggio. Kant non soltanto attribuisce le basse passioni al sesso femminile, e il ben più elevato intelletto al sesso maschile, ma assegna in toto i sentimenti connotati negativamente e passivamente alle donne, le emozioni attive e spositive agli uomini. Le donne hanno sentimenti; gli uomini abbiano dunque intelletto. Nell’ambito della distribuzione secondo il sesso, i due membri della coppia paura/coraggio spetteranno – ça va sans dire – alle donne la prima, agli uomini il secondo, anche perché il coraggio sarebbe per Kant una virtù razionale, che si avvicina dunque all’intelletto; la paura, un sentimento passionale. A quello che è presentato come un dato di fatto viene giusto data una breve spiegazione di ordine antropologico: la paura della donna garantisce la riproduzione della specie in quanto l’espressione di tale «naturale debolezza che pertiene al suo sesso» risveglia nel maschio i suoi altrettanto naturali caratteri di forza e di protezione.
Sappiamo che Kant non era un autore ancora completamente «liberale». Rivolgiamoci quindi a un autore successivo, nato e cresciuto negli USA, Ralph Waldo Emerson, le cui osservazioni sul coraggio includeremo nella nostra storia. Definire Emerson liberal-democratico è senza dubbio eccessivo, oltre che antistorico. Eppure anch’egli costituì un importante ambito di riferimento per molti filosofi liberali. In una conferenza tenuta nel 1859 davanti alla società dell’attivista antischiavista Theodore Parker, Emerson si soffermò a parlare del coraggio, e Courage fu infatti il titolo del saggio tratto dalla conferenza stessa. Emerson presenta il coraggio come una delle qualità che in maggior misura suscitano la meraviglia e la reverenza dell’umanità, insieme al disinteresse e alla potenza pratica. Il coraggio – scrive Emerson – «è lo stato sano e giusto di ogni uomo, quando è libero di fare ciò che per lui è costituzionale fare». Nemmeno la «timida donna», di fronte a situazioni estreme, teme il dolore e mostra il proprio coraggio quando ama un’idea più di ogni altra cosa al mondo, provando letizia «nella solitaria adesione al giusto», né teme «le fascine che la bruceranno; la ruota torturatrice non le fa spavento». La paura infatti, prosegue Emerson, è superficiale e illusoria quanto lo è il dolore fisico che alla fine, dopo il primo tormento, diventa quasi impercettibile. La paura è superabile quando si è all’altezza del problema che ci sta dinnanzi e quanto più si comprende precisamente il pericolo. L’antidoto alla paura è la conoscenza; la conoscenza toglie la paura dal cuore e dà coraggio e il coraggio è contagioso.
La prima virtù degli antichi greci, conclude Emerson, non fu la bellezza dell’arte bensì l’istinto del coraggio, che alle Termopili «tenne l’Asia fuori dall’Europa, l’Asia con le sue antiquatezze e con la sua schiavitù organica». Desidero però soffermarmi sull’accostamento tra coraggio e libertà, senza attribuirne l’esclusiva ad alcun paese o genìa, per tornare all’interrogativo che ponevo all’inizio: esiste un liberalismo che promuove il coraggio oltre a prevenire la paura, o ancor più precisamente esiste, e se sì in che cosa consiste, il «coraggio del liberalismo»?
Sembra in realtà, questo «coraggio del liberalismo», un sentimento non adeguato: il liberalismo è ritenuto una teoria politica ragionevole e tranquilla, ben lontana dall’infiammare gli animi alla stregua di altri movimenti e dottrine e che non spinge le persone sulle barricate. Tuttavia il liberalismo sarebbe impensabile – ritengo – senza il coraggio: tant’è che alcune posizioni contemporanee che propongono di sacrificare la libertà alla sicurezza per preservare dalla paura – non dei soprusi istituzionali come pensava Shklar, bensì degli attacchi terroristici e criminali – finiscono per snaturare i caratteri fondamentali del liberalismo, soprattutto nella versione, cui mi rifaccio, del liberalismo egualitario.
Alcuni commentatori politici sostengono che oggi il senso di vulnerabilità e di paura si siano così sedimentati in noi da essere divenuti la cifra della nostra epoca. Siamo la società della paura. La sindrome da paura e da insicurezza collabora alla rinascita dei populismi, che promuovono i politici che fanno proprio il tema della sicurezza e sbandierano politiche di repressione minacciando i valori dei diritti civili e più in generale della libertà. La società si polarizza tra coloro che fanno del pericolo dell’aggressione fisica la leva per introdurre un ordine gerarchico e di privilegi da una parte, e coloro che intendono difendere la privacy, il free speech e il valore della diversità culturale dall’altra.
Beninteso le gravissime minacce alla sicurezza – provenienti dal terrorismo, dalla criminalità internazionale, dall’immigrazione clandestina incontrollata – sono reali così come reale è l’esigenza di politiche efficaci. Accade però che la demagogia populista e la dinamica assolutista congiurino contro le libertà civili e contro l’esistenza di una sfera pubblica vitale, in una parola, contro la democrazia. Viene così a crearsi una frattura e una contrapposizione tra sicurezza e libertà nelle quali le due vengono di fatto opposte una all’altra come un aut aut. Ma la politica della paura e della limitazione delle libertà, corrodendo alla radice il tessuto della vita democratica, ottiene l’effetto di esporre sempre più alle minacce del terrorismo e della violenza, in modo tale che la democrazia è doppiamente messa a repentaglio: dagli attacchi esterni e dall’autoritarismo interno.
Ma per tornare al coraggio, andiamo a vederne dei casi negli esempi proposti da Shklar, che si rifaceva a sua volta a Michel de Montaigne; per esempio, il coraggio mostrato dai re indiani conquistati dai predoni spagnoli – afferma Shklar con la voce di Montaigne – , quel loro invincibile coraggio che consisteva nel dignitoso rifiuto di compiacere i loro conquistatori; come pure il coraggio dei poveri, dei contadini francesi dell’epoca di Montaigne che mostravano questa loro virtù vivendo rassegnati e morendo senza scalpore: anche questa per Montaigne-Shklar una forma di coraggio. Preferisco dunque individuare nel coraggio, il semplice coraggio di darsi autonomamente norme e regole, per contratto, per consenso, dopo dialogo e deliberazione, come una delle cifre della modernità e della secolarizzazione, che si presenta coi caratteri di adultità e maturità.
(Dal sito www.doppiozero.com i due articoli Paura e Coraggio)

*Francesca Rigotti: laureata in Filosofia (Milano 1974), Dr.rer.pol. (I.U.E. 1984), Dr.habil. (Göttingen 1991), è stata docente alla Facoltà di Scienze politiche dell´Università di Göttingen come titolare di un”Heisenberg Stipendium” della Deutsche Forschungsgemeinschaft e visiting fellow alDepartment of Politics dell´Università di Princeton e docente all´UZH. Tra le sue pubblicazioni si segnalano una dozzina di monografie edite da Bibliopolis (1981), Il Mulino (1989, 2000, 2002, 2006 e 2008), Feltrinelli (1992, 1995e 1998), Interlinea (2004 e 2008), tradotte in sette lingue, tutti pertinenti ad argomenti di storia del pensieropolitico-filosofico, di metaforologia e di comunicazione politica, oltre a numerosi articoli, e saggi su riviste specializzateinternazionali. Svolge un´intensa attività di critica libraria in riviste e quotidiani (http://search.usi.ch/persone/d9eef74c6a7b9dff8022c06af7e57531/Rigotti-Francesca).

L’impronta, la traccia

impronta

Pochi giorni fa si è tenuta in Polonia la Gmg. Ho letto in rete vari titoli, spesso polemici, sul discorso del papa alla veglia di preghiera: debole, buonista, semplicistico, banale… Finalmente stamattina, con calma, sono riuscito a leggerlo. Ne ho dedotto un’unica domanda e un ricordo.
La domanda: cosa c’è di diverso da quanto annunciato da Gesù nei Vangeli?
Il ricordo: Alessandro, scomparso nel 1999 a 23 anni dopo una battaglia contro la malattia. Ha lasciato un messaggio che trovo calzare a pennello con le parole di papa Francesco: “Io purtroppo ho dovuto sempre lottare nella mia vita, lottare per andare avanti, visto i miei numerosi problemi di salute. Nonostante ciò ho capito una cosa importantissima, direi fondamentale: l’importanza della vita e dell’amore di ogni persona. Giovani amate la vostra vita, non buttatela in stupide sciocchezze. Amatela fino in fondo, lottate per essa, abbiate il coraggio e speranza sempre, in ogni momento. Affidate pienamente la vostra vita al Signore e non avrete più paura di nulla. Che la vostra vita non sia una vita sterile … siate utili… “lasciate traccia“. Siete voi che dovete illuminare il mondo con la fiamma della vostra fede, del vostro amore.”

E queste sono le parole di Bergoglio al Campus Misericordiae di Cracovia:
Cari giovani, buona sera!
E’ bello essere qui con voi in questa Veglia di preghiera.
Alla fine della sua coraggiosa e commovente testimonianza, Rand ci ha chiesto qualcosa. Ci ha detto: “Vi chiedo sinceramente di pregare per il mio amato Paese”. Una storia segnata dalla guerra, dal dolore, dalla perdita, che termina con una richiesta: quella della preghiera. Che cosa c’è di meglio che iniziare la nostra veglia pregando?
Veniamo da diverse parti del mondo, da continenti, Paesi, lingue, culture, popoli differenti. Siamo “figli” di nazioni che forse stanno discutendo per vari conflitti, o addirittura sono in guerra. Altri veniamo da Paesi che possono essere in “pace”, che non hanno conflitti bellici, dove molte delle cose dolorose che succedono nel mondo fanno solo parte delle notizie e della stampa. Ma siamo consapevoli di una realtà: per noi, oggi e qui, provenienti da diverse parti del mondo, il dolore, la guerra che vivono tanti giovani, non sono più una cosa anonima, per noi non sono più una notizia della stampa, hanno un nome, un volto, una storia, una vicinanza. Oggi la guerra in Siria è il dolore e la sofferenza di tante persone, di tanti giovani come la coraggiosa Rand, che sta qui in mezzo a noi e ci chiede di pregare per il suo amato Paese.
Ci sono situazioni che possono risultarci lontane fino a quando, in qualche modo, le tocchiamo. Ci sono realtà che non comprendiamo perché le vediamo solo attraverso uno schermo (del cellulare o del computer). Ma quando prendiamo contatto con la vita, con quelle vite concrete non più mediatizzate dagli schermi, allora ci succede qualcosa di forte: tutti sentiamo l’invito a coinvolgerci: “Basta città dimenticate”, come dice Rand; mai più deve succedere che dei fratelli siano “circondati da morte e da uccisioni” sentendo che nessuno li aiuterà. Cari amici, vi invito a pregare insieme a motivo della sofferenza di tante vittime della guerra, di questa guerra che c’è oggi nel mondo, affinché una volta per tutte possiamo capire che niente giustifica il sangue di un fratello, che niente è più prezioso della persona che abbiamo accanto. E in questa richiesta di preghiera voglio ringraziare anche voi, Natalia e Miguel, perché anche voi avete condiviso con noi le vostre battaglie, le vostre guerre interiori. Ci avete presentato le vostre lotte, e come avete fatto per superarle. Voi siete segno vivo di quello che la misericordia vuole fare in noi.
Noi adesso non ci metteremo a gridare contro qualcuno, non ci metteremo a litigare, non vogliamo distruggere, non vogliamo insultare. Noi non vogliamo vincere l’odio con più odio, vincere la violenza con più violenza, vincere il terrore con più terrore. E la nostra risposta a questo mondo in guerra ha un nome: si chiama fraternità, si chiama fratellanza, si chiama comunione, si chiama famiglia. Festeggiamo il fatto che veniamo da culture diverse e ci uniamo per pregare. La nostra migliore parola, il nostro miglior discorso sia unirci in preghiera. Facciamo un momento di silenzio e preghiamo; mettiamo davanti a Dio le testimonianze di questi amici, identifichiamoci con quelli per i quali “la famiglia è un concetto inesistente, la casa solo un posto dove dormire e mangiare”, o con quelli che vivono nella paura di credere che i loro errori e peccati li abbiano tagliati fuori definitivamente. Mettiamo alla presenza del nostro Dio anche le vostre “guerre”, le nostre “guerre”, le lotte che ciascuno porta con sé, nel proprio cuore. E per questo, per essere in famiglia, in fratellanza, tutti insieme, vi invito ad alzarvi, a prendervi per mano e a pregare in silenzio. Tutti.
(SILENZIO)
Mentre pregavamo mi veniva in mente l’immagine degli Apostoli nel giorno di Pentecoste. Una scena che ci può aiutare a comprendere tutto ciò che Dio sogna di realizzare nella nostra vita, in noi e con noi. Quel giorno i discepoli stavano chiusi dentro per la paura. Si sentivano minacciati da un ambiente che li perseguitava, che li costringeva a stare in una piccola abitazione obbligandoli a rimanere fermi e paralizzati. Il timore si era impadronito di loro. In quel contesto, accadde qualcosa di spettacolare, qualcosa di grandioso. Venne lo Spirito Santo e delle lingue come di fuoco si posarono su ciascuno di essi, spingendoli a un’avventura che mai avrebbero sognato. La cosa cambia completamente!
Abbiamo ascoltato tre testimonianze; abbiamo toccato, con i nostri cuori, le loro storie, le loro vite. Abbiamo visto come loro, al pari dei discepoli, hanno vissuto momenti simili, hanno passato momenti in cui sono stati pieni di paura, in cui sembrava che tutto crollasse. La paura e l’angoscia che nascono dal sapere che uscendo di casa uno può non rivedere più i suoi cari, la paura di non sentirsi apprezzato e amato, la paura di non avere altre opportunità. Loro hanno condiviso con noi la stessa esperienza che fecero i discepoli, hanno sperimentato la paura che porta in un unico posto. Dove ci porta, la paura? Alla chiusura. E quando la paura si rintana nella chiusura, va sempre in compagnia di sua “sorella gemella”, la paralisi; sentirci paralizzati. Sentire che in questo mondo, nelle nostre città, nelle nostre comunità, non c’è più spazio per crescere, per sognare, per creare, per guardare orizzonti, in definitiva per vivere, è uno dei mali peggiori che ci possono capitare nella vita, e specialmente nella giovinezza. La paralisi ci fa perdere il gusto di godere dell’incontro, dell’amicizia, il gusto di sognare insieme, di camminare con gli altri. Ci allontana dagli altri, ci impedisce di stringere la mano, come abbiamo visto [nella coreografia], tutti chiusi in quelle piccole stanzette di vetro.
Ma nella vita c’è un’altra paralisi ancora più pericolosa e spesso difficile da identificare, e che ci costa molto riconoscere. Mi piace chiamarla la paralisi che nasce quando si confonde la FELICITÀ con un DIVANO / KANAPA! Sì, credere che per essere felici abbiamo bisogno di un buon divano. Un divano che ci aiuti a stare comodi, tranquilli, ben sicuri. Un divano, come quelli che ci sono adesso, moderni, con massaggi per dormire inclusi, che ci garantiscano ore di tranquillità per trasferirci nel mondo dei videogiochi e passare ore di fronte al computer. Un divano contro ogni tipo di dolore e timore. Un divano che ci faccia stare chiusi in casa senza affaticarci né preoccuparci. La “divano-felicità” / “kanapa-szczęście” è probabilmente la paralisi silenziosa che ci può rovinare di più, che può rovinare di più la gioventù. “E perché succede questo, Padre?”. Perché a poco a poco, senza rendercene conto, ci troviamo addormentati, ci troviamo imbambolati e intontiti. L’altro ieri, parlavo dei giovani che vanno in pensione a 20 anni; oggi parlo dei giovani addormentati, imbambolati, intontiti, mentre altri – forse i più vivi, ma non i più buoni – decidono il futuro per noi. Sicuramente, per molti è più facile e vantaggioso avere dei giovani imbambolati e intontiti che confondono la felicità con un divano; per molti questo risulta più conveniente che avere giovani svegli, desiderosi di rispondere, di rispondere al sogno di Dio e a tutte le aspirazioni del cuore. Voi, vi domando, domando a voi: volete essere giovani addormentati, imbambolati, intontiti? Volete che altri decidano il futuro per voi? Volete essere liberi? Volete essere svegli? Volete lottare per il vostro futuro? Non siete troppo convinti… Volete lottare per il vostro futuro?
Ma la verità è un’altra: cari giovani, non siamo venuti al mondo per “vegetare”, per passarcela comodamente, per fare della vita un divano che ci addormenti; al contrario, siamo venuti per un’altra cosa, per lasciare un’impronta. E’ molto triste passare nella vita senza lasciare un’impronta. Ma quando scegliamo la comodità, confondendo felicità con consumare, allora il prezzo che paghiamo è molto ma molto caro: perdiamo la libertà. Non siamo liberi di lasciare un’impronta. Perdiamo la libertà. Questo è il prezzo. E c’è tanta gente che vuole che i giovani non siano liberi; c’è tanta gente che non vi vuole bene, che vi vuole intontiti, imbambolati, addormentati, ma mai liberi. No, questo no! Dobbiamo difendere la nostra libertà!
Proprio qui c’è una grande paralisi, quando cominciamo a pensare che felicità è sinonimo di comodità, che essere felice è camminare nella vita addormentato o narcotizzato, che l’unico modo di essere felice è stare come intontito. E’ certo che la droga fa male, ma ci sono molte altre droghe socialmente accettate che finiscono per renderci molto o comunque più schiavi. Le une e le altre ci spogliano del nostro bene più grande: la libertà. Ci spogliano della libertà.
Amici, Gesù è il Signore del rischio, è il Signore del sempre “oltre”. Gesù non è il Signore del confort, della sicurezza e della comodità. Per seguire Gesù, bisogna avere una dose di coraggio, bisogna decidersi a cambiare il divano con un paio di scarpe che ti aiutino a camminare su strade mai sognate e nemmeno pensate, su strade che possono aprire nuovi orizzonti, capaci di contagiare gioia, quella gioia che nasce dall’amore di Dio, la gioia che lascia nel tuo cuore ogni gesto, ogni atteggiamento di misericordia. Andare per le strade seguendo la “pazzia” del nostro Dio che ci insegna a incontrarlo nell’affamato, nell’assetato, nel nudo, nel malato, nell’amico che è finito male, nel detenuto, nel profugo e nel migrante, nel vicino che è solo. Andare per le strade del nostro Dio che ci invita ad essere attori politici, persone che pensano, animatori sociali. Che ci stimola a pensare un’economia più solidale di questa. In tutti gli ambiti in cui vi trovate, l’amore di Dio ci invita a portare la Buona Notizia, facendo della propria vita un dono a Lui e agli altri. E questo significa essere coraggiosi, questo significa essere liberi!
Potrete dirmi: Padre, ma questo non è per tutti, è solo per alcuni eletti! Sì, è vero, e questi eletti sono tutti quelli che sono disposti a condividere la loro vita con gli altri. Allo stesso modo in cui lo Spirito Santo trasformò il cuore dei discepoli nel giorno di Pentecoste – erano paralizzati – lo ha fatto anche con i nostri amici che hanno condiviso le loro testimonianze. Uso le tue parole, Miguel: tu ci dicevi che il giorno in cui nella “Facenda” ti hanno affidato la responsabilità di aiutare per il migliore funzionamento della casa, allora hai cominciato a capire che Dio chiedeva qualcosa da te. Così è cominciata la trasformazione.
Questo è il segreto, cari amici, che tutti siamo chiamati a sperimentare. Dio aspetta qualcosa da te. Avete capito? Dio aspetta qualcosa da te, Dio vuole qualcosa da te, Dio aspetta te. Dio viene a rompere le nostre chiusure, viene ad aprire le porte delle nostre vite, delle nostre visioni, dei nostri sguardi. Dio viene ad aprire tutto ciò che ti chiude. Ti sta invitando a sognare, vuole farti vedere che il mondo con te può essere diverso. E’ così: se tu non ci metti il meglio di te, il mondo non sarà diverso. E’ una sfida.
Il tempo che oggi stiamo vivendo non ha bisogno di giovani-divano / młodzi kanapowi, ma di giovani con le scarpe, meglio ancora, con gli scarponcini calzati. Questo tempo accetta solo giocatori titolari in campo, non c’è posto per riserve. Il mondo di oggi vi chiede di essere protagonisti della storia perché la vita è bella sempre che vogliamo viverla, sempre che vogliamo lasciare un’impronta. La storia oggi ci chiede di difendere la nostra dignità e non lasciare che siano altri a decidere il nostro futuro. No! Noi dobbiamo decidere il nostro futuro, voi il vostro futuro! Il Signore, come a Pentecoste, vuole realizzare uno dei più grandi miracoli che possiamo sperimentare: far sì che le tue mani, le mie mani, le nostre mani si trasformino in segni di riconciliazione, di comunione, di creazione. Egli vuole le tue mani per continuare a costruire il mondo di oggi. Vuole costruirlo con te. E tu, cosa rispondi? Cosa rispondi, tu? Sì o no?
Mi dirai: Padre, ma io sono molto limitato, sono peccatore, cosa posso fare? Quando il Signore ci chiama non pensa a ciò che siamo, a ciò che eravamo, a ciò che abbiamo fatto o smesso di fare. Al contrario: nel momento in cui ci chiama, Egli sta guardando tutto quello che potremmo fare, tutto l’amore che siamo capaci di contagiare. Lui scommette sempre sul futuro, sul domani. Gesù ti proietta all’orizzonte, mai al museo.
Per questo, amici, oggi Gesù ti invita, ti chiama a lasciare la tua impronta nella vita, un’impronta che segni la storia, che segni la tua storia e la storia di tanti.
La vita di oggi ci dice che è molto facile fissare l’attenzione su quello che ci divide, su quello che ci separa. Vorrebbero farci credere che chiuderci è il miglior modo di proteggerci da ciò che ci fa male. Oggi noi adulti – noi, adulti! – abbiamo bisogno di voi, per insegnarci – come adesso fate voi, oggi – a convivere nella diversità, nel dialogo, nel condividere la multiculturalità non come una minaccia ma come un’opportunità. E voi siete un’opportunità per il futuro. Abbiate il coraggio di insegnarci, abbiate il coraggio di insegnare a noi che è più facile costruire ponti che innalzare muri! Abbiamo bisogno di imparare questo. E tutti insieme chiediamo che esigiate da noi di percorrere le strade della fraternità. Che siate voi i nostri accusatori, se noi scegliamo la via dei muri, la via dell’inimicizia, la via della guerra. Costruire ponti: sapete qual è il primo ponte da costruire? Un ponte che possiamo realizzare qui e ora: stringerci la mano, darci la mano. Forza, fatelo adesso. Fate questo ponte umano, datevi la mano, tutti voi: è il ponte primordiale, è il ponte umano, è il primo, è il modello. Sempre c’è il rischio – l’ho detto l’altro giorno – di rimanere con la mano tesa, ma nella vita bisogna rischiare, chi non rischia non vince. Con questo ponte, andiamo avanti. Qui, questo ponte primordiale: stringetevi la mano. Grazie. E’ il grande ponte fraterno, e possano imparare a farlo i grandi di questo mondo!… ma non per la fotografia – quando si danno la mano e pensano un’altra cosa -, bensì per continuare a costruire ponti sempre più grandi. Che questo ponte umano sia seme di tanti altri; sarà un’impronta.
Oggi Gesù, che è la via, chiama te, te, te a lasciare la tua impronta nella storia. Lui, che è la vita, ti invita a lasciare un’impronta che riempia di vita la tua storia e quella di tanti altri. Lui, che è la verità, ti invita a lasciare le strade della separazione, della divisione, del non-senso. Ci stai? Ci stai? Cosa rispondono adesso – voglio vedere – le tue mani e i tuoi piedi al Signore, che è via, verità e vita? Ci stai? Il Signore benedica i vostri sogni. Grazie!”.

La notte ch’io passai con tanta pieta

Gauguin. GetsemaniQuanta vicinanza provo con questo articolo-meditazione di Alessandro D’Avenia sulla notte tra il giovedì e il venerdì santo. La fonte è Avvenire.
«Sono terribilmente infelice. Se credi che una preghiera possa essere efficace (non scherzo), prega per me e vigorosamente». Così scriveva Charles Baudelaire a sua madre il 18 ottobre del 1860, dall’inferno spirituale da cui cercò di uscire negli ultimi anni della sua vita. Ogni uomo ha la sua notte. Ed è proprio in quella notte che trova Dio, perché la notte lo lascia nudo e senza risorse di fronte all’insufficienza di tutto e di se stesso. Dalla ferita inguaribile della propria radicale solitudine emerge l’unica preghiera vera, perché è la vita stessa a farsi supplica: voglio essere da te salvato, perché io da solo, ora che mi conosco, non posso. Dante, nel suo viaggio, si perde nella selva oscura, nella notte tra il giovedì santo e il venerdì santo dell’anno giubilare.
A quella notte dedica i primi versi del poema, il ‘la’ notturno al suo percorso di salvezza. Secondo molti commentatori è proprio la notte tra il giovedì 24 marzo e il venerdì 25 marzo che vede coincidere (come quest’anno) venerdì di Passione e Annunciazione. A quella notte del 24 marzo Dante dedica un verso che in undici sillabe scolpisce tutte le nostre notti: «la notte ch’io passai con tanta pieta». La ‘pieta’ è la parola che Dante usa per indicare, con perfetta polisemia, da un lato la paura della tenebra e dall’altra proprio la misericordia che lo raggiunge in quella tenebra, perché Maria lo soccorre mandando Lucia, Beatrice, Virgilio a recuperarlo.
Non può che essere così se la luce del giorno che gli fa sperare salvezza è quella del venerdì 25 marzo, data in cui nella tradizione medievale Dio creò il mondo e lo ricreò poi con il fiat di Maria. La notte che ogni uomo e donna attraversano per trovare Dio, la notte che gli esperti di vita spirituale attribuiscono ai santi come passaggio dolorosissimo e necessario, in cui l’uomo si sente dannato dalle sue sole forze e trova in Dio la sua unica e radicale speranza di salvezza, come chi sta cercando l’aria sott’acqua dopo essere naufragato. Nel Vangelo, che è la forma di ogni storia umana, essendo Cristo il Dna di ogni vita, questa notte deve essere tutte le nostri notti ed è per questo che in questa notte Cristo cade per terra nella sua selva, dalla quale si vede Gerusalemme, tra i contorti rami degli alberi d’ulivo, che preannunciano il tormento del legno della Croce.
Cristo, solo e triste fino alla morte in questa sua notte, il senso di tutte le notti degli uomini, chiede compagnia ad altri uomini, tre in particolare che, gravati da sonno e paura, si addormentano: la solitudine di Cristo non è lenita da nessuno, nessun uomo può raggiungerlo neanche standogli a fianco. Cristo sperimenta su di sé le conseguenze del peccato, viene applicata alla sua natura divina l’assoluta estraneità della morte, come un veleno che egli beve volontariamente, così da renderlo inefficace, dopo averne subito tutte le conseguenze. Il sudore è di sangue, perché l’essere viene sradicato dalla sua identità immortale e si sente morire in vita, donandosi alla morte. In questa notte, Cristo si trova faccia a faccia con il Padre, e lo chiama come nessun ebreo ha mai fatto, a dimostrazione che lui è l’unigenito figlio del Padre: lo chiama col nomignolo affettuoso dei bambini: Abbà, Babbo, Papino. L’uomo-Dio ha paura, per questo tutti gli uomini possono avere paura di ciò che li fa morire, possono avere paura di morire come le ragazze dell’autobus spagnolo, come i cittadini di Bruxelles. Cristo non elimina la paura, ma ci permette di abitarla: l’invito più frequente di Dio quando entra nella storia è ‘non temere’.
Un non temere che non elimina il nostro tremare di fronte alle difficoltà della vita, alle cadute, agli errori, alla nostra radicale solitudine quando la vita ci frusta. Ma lui può dirci di non temere, perché ha parlato con Abbà: ho paura di morire, gli ha detto, ma non sia fatto quello che voglio io, ma quello che vuoi tu. Salvami tu, perché io non so come fare, mi fido di te, ora che tutto sto per perdere, i miei si sono addormentati e Gerusalemme brilla nella notte come il più terribile patibolo. Nelle tue mani mi rifugio. È la notte della ‘pietà’ che Pascal sperimentò proprio scoprendo che il sudore di sangue di Cristo lo riguardava: «Quelle gocce di sangue le ho versate per te» (Pensieri, VII, 533); è la notte che Dante paragona proprio a un naufrago che si aggrappa alla terra, e si volge a guardare l’acqua mortifera. È ogni notte questa, la notte di un amore che si frantuma, la notte di una perdita irreparabile, la notte di chi scopre che le cose si rovinano e non corrispondono mai al nostro desiderio di infinito…
Grazie a quella notte noi possiamo attraversare le nostre, perché solo nella nostra notte impariamo a dire Abbà, l’unico nome che ci salva dalla notte, che spezza la nostra solitudine e ci raggiunge proprio lì dove ci sentivamo irreparabilmente soli e perduti, perché solo quella supplica radicale ci porta dritti nel cuore della Misericordia. «Miserere di me, gridai a lui», urla Dante a chi era già lì, Virgilio, inviato da Maria che aveva prevenuto il suo urlo notturno, urlo che così si svela essere non una richiesta ma la risposta adeguata a un’azione preventiva del Padre-Abbà, che ci attira a sé, più che mai, nei nostri Getsemani.”

Gemme n° 422

A volte mi riconosco in Novecento e credo che l’età in cui siamo sia critica, non siamo né bambini né adulti. Penso che quella scaletta di Novecento, per noi, possa fungere da slancio: il mondo avanti è infinito con miliardi di scelte, sotto c’è l’oceano in cui rischiamo di affondare, dietro c’è la nave, il nostro guscio in cui abbiamo vissuto a lungo. Guardando avanti abbiamo paura per quello che potrebbe esserci e temiamo di essere l’ultima ruota del carro. Queste sensazioni ed emozioni le provo, anche se cerco di soffocarle perché magari non è ancora il momento di preoccuparsi; tuttavia le scelte che devo fare mi fanno già pensare, mi fanno paura”. Questa è stata la gemma di C. (classe seconda).
Nella canzone “E’ necessario” i Tiromancino cantano: “Io so che non è facile riuscire a proiettarsi nel futuro immaginando come sarà la vita andando avanti; le scelte che farò saranno sempre più importanti dei dubbi che ho che oggi sono ancora tanti”. Da un lato ci sono sicuramente la paura e il timore, ma dall’altra c’è anche la possibilità di mettersi in gioco, di sentirsi padroni della nostra vita, registi e non attori o spettatori dell’esistenza.

Lassù

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Là in cima tutto è chiaro, nitido. Qui tutto è confuso, non a fuoco. Mi prometti che una volta là capirò tutto, che i dubbi spariranno e le cose da fare si mostreranno nella loro chiarezza? Perché vedi, quel corrimano non finisce… gira… E gira per finire? O gira perché poi c’è un’altra rampa? Non è che mano a mano che salgo il fuoco si sposta sempre più su, vero? La tettoia della pensilina ti copre solo quando sei in stazione, e solo se resti sul marciapiede… Lo vedi, lassù? Per mettermi sui binari, per essere pronto per il viaggio… devo essere disponibile a non avere protezione sulla testa e neppure corrimano a cui tenermi… Che dici, vado?

Possibili conseguenze

Sultanahmet square

Dimitri Bettoni ha scritto questo articolo il giorno dopo l’attentato di Istanbul. Ha evidenziato quattro conseguenze. Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso.
Camminare per le strade di Istanbul, lungo il lastricato di Sultanahmet, il giorno dopo. Vedere la città che cerca di ricominciare, pur ancora stordita, confusa, impaurita. Istanbul è mescolanza di odori, voci e colori, qui caos significa casa. Il vuoto ed il silenzio, invece, inquietano.
Mancano le code davanti a Santa Sofia e alla Basilica Cisterna, il frenetico andirivieni dei camerieri nei locali, manca persino l’assalto dei proprietari dei ristoranti, lo ammetto, solitamente quasi molesto, che provano a trascinarti ai loro tavoli. L’invito, se arriva, è apatico, sono molto di più gli occhi puntati verso le strade semivuote, le mani incrociate dietro la schiena, gli sguardi al cielo plumbeo che rotola sul Bosforo che ribolle.
Non fraintendiamoci, questa città è enorme, interi quartieri perseverano nelle proprie abitudini. Sultanahmet, però, è un punto sensibile: per gli strati e strati di Storia sotto la patina da agenzia pubblicitaria, e perché questi viali sono calpestati, ogni anno, da dodici milioni di turisti.
Undici di loro hanno perso la vita nell’attentato suicida, un numero minuscolo rispetto alla massa di persone che calca quotidianamente queste strade, eppure enorme se ci si sofferma a riflettere sulle molte conseguenze di quanto accaduto.
La prima è che undici esseri umani non torneranno a casa. La nazionalità tedesca di dieci di essi, l’undicesimo era peruviano, ha spinto molti a cercare un retroscena. Senza però una dichiarazione d’intenti esplicita, difficile stabilire con certezza l’intenzionalità di colpire cittadini di quella Germania che ha così stretti legami con la Turchia.
Più giusto soffermarsi sulle conseguenze: la Germania, i tedeschi, si sentono colpiti comunque, sia che siano stati scelti deliberatamente come bersaglio, sia che la statistica sia solamente una coincidenza figlia del fato. Tedeschi che, tra l’altro, sono il gruppo più consistente di quei dodici milioni di visitatori a cui accennavo prima.
In seconda posizione, i russi. E qui arriviamo alla seconda conseguenza di questo attentato: il danno economico e, soprattutto, d’immagine. Difficile pensare che questo 2016 sarà un anno roseo, per il settore turistico turco. “Sapevamo che sarebbe successo, era solo questione di quando”, raccontano i ristoratori di Sultanahmet, con il sospiro di chi ha visto concretizzarsi le proprie paure. “Ora è bassa stagione, si lavora comunque poco, ma quando arriverà la primavera, che succederà?”. Il fascino di Istanbul avrà la meglio sulla paura e sulla follia del gesto omicida? Quanto tempo servirà alla ferita per rimarginarsi?
La Turchia non è solo un paese che convive accanto ad un conflitto, quello siriano-iracheno. È un paese che la guerra ce l’ha in casa, con un sudest curdo messo a ferro e fuoco ormai da mesi. Le fotografie che arrivano da alcuni distretti di Diyarbakir o Cizre somigliano fin troppo a quelle di Aleppo o Homs.
La terza domanda che aleggia sul dopo attentato è quindi, quale sarà la risposta di Ankara? Se si presta orecchio alla narrativa del governo e dei media che lo sostengono, a questa violenza si aggiungerà altra violenza, non c’è spazio per distinguo e sottigliezze. Nel calderone con l’etichetta “terrorista” sono stati gettati ogni sigla o gruppo ritenuti responsabili di voler smembrare la Turchia, come già è stato fatto con Siria e Iraq: militanti dell’ISIS, gulenisti, curdi del PKK turco o del PYD siriano, insieme alla longa manus russa evocata invece da alcuni editorialisti favorevoli al governo: tutte minacce all’integrità della nazione turca.
Il 14 gennaio si è avuta la prima reazione ufficiale post-attentato dell’esercito: raid aerei sull’area di Qandil in Iraq, dove il PKK ha numerose basi logistiche e di addestramento. Sia nelle settimane precedenti l’attentato, sia nelle ore successive, sono stati eseguiti diversi arresti di presunti appartenenti allo Stato Islamico, cinque dei quali accusati di essere legati a Nabil Fadli, l’attentatore.
Di Fadli si sa che aveva nazionalità saudita. L’uomo aveva attraversato la Siria per raggiungere la Turchia, dove aveva ottenuto supporto logistico da complici ancora non identificati. Soprattutto, aveva richiesto asilo politico alla Turchia in qualità di rifugiato.
La quarta conseguenza del suo gesto riguarda perciò proprio la situazione di quegli oltre due milioni di rifugiati che la Turchia, impartendo una severa lezione di dignità e umanità all’Europa, ospita oggi sul proprio territorio. Riuscirà la coraggiosa politica di accoglienza a sopravvivere alla bomba di Sultanahmet?”

Gemma n° 351

La mia gemma è composta di due parti diverse. Prima un video legato ai fatti di Parigi: mi ha colpito la consapevolezza del bimbo che ci siano persone cattive, benché il papà lo rassicuri dicendogli che basta poco per potersi proteggere. Rispondere con la guerra non penso sia il modo giusto.
La seconda parte invece è una cosa personale: un mese fa ho visto una foto, ci sono stata male, poi una persona mi ha mandato un messaggio inaspettato che mi ha colpito molto per l’amicizia dimostratami.” Questa è stata la duplice gemma di M. (classe quinta).
Non mi sento di commentare un video come quello del bambino che racconta la sua paura. Ricordo che alcuni anni fa ho letto un libro sui bambini nelle guerre e sul tentativo di raccontarsi attraverso dei disegni. Non ho parole.

bambini guerra

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