Un piede sulla lavagna, un piede sull’altare

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Ormai un classico appuntamento del blog: quello con le Interferenze di Gabriella Greison su Avvenire. Il 14 novembre si è dedicata a Georges Lemaître.

“Georges Lemaître non indossava un camice, ma una tonaca. Non lavorava solo tra telescopi e lavagne, ma anche tra chiese e cattedrali. Era un sacerdote cattolico e, nello stesso tempo, uno dei più grandi cosmologi del Novecento. L’uomo che per primo ha osato dire una frase rivoluzionaria: “L’universo ha avuto un inizio”. Lo chiamavano “il prete che ha inventato il Big Bang”. In realtà lui preferiva parlare di “atomo primitivo”: una minuscola particella cosmica compressa oltre ogni immaginazione che, disgregandosi, avrebbe dato origine a tutto ciò che conosciamo — galassie, stelle, pianeti, persino noi. Quando Lemaître lo propose nel 1931, l’accoglienza fu tiepida se non ostile: Einstein, dopo una sua conferenza, gli disse con l’aria di chi mette un punto: i calcoli sono corretti, ma la fisica è “abominevole”. Non proprio un incoraggiamento. Eppure quel giovane prete belga non si spaventò. Continuò a fare i conti, a immaginare il cosmo come una pellicola che non si srotola solo in avanti ma può essere riavvolta: se oggi vediamo le galassie allontanarsi, allora ieri dovevano essere più vicine, e prima ancora più vicine, fino a un primo respiro, un lampo d’origine. Un universo che si espande implica un’origine, e un’origine cambia tutto. Non più un cosmo eterno e statico, ma una storia.
Molti, ancora oggi, faticano a credere che Lemaître fosse entrambe le cose: sacerdote e scienziato. Come se la fede e la ricerca fossero incompatibili per statuto. Lui non vedeva alcuna contraddizione. Celebrare la Messa e scrivere equazioni erano due modi di entrare nello stesso mistero, con due grammatiche differenti. Diceva che tra l’inizio della materia e l’atto della creazione c’è un abisso che la fisica non colma e che la teologia non misura; la fisica racconta il “come”, la fede interroga il “perché”. Due domande diverse, entrambe necessarie. Per questo non usò mai la fede per tappare i buchi della scienza, né la scienza per dimostrare l’esistenza di Dio: manteneva un equilibrio raro, una distanza di rispetto tra i linguaggi. Era convinto che la matematica potesse dire l’universo con una chiarezza che nessun’altra lingua possiede, ma che il mistero del suo perché restasse oltre ogni formula.
C’è un fotogramma che amo: Lemaître alla lavagna, gesso in mano, il colletto bianco in evidenza, e quegli occhi da alpinista dell’ignoto. Pochi sanno che prima della “teoria dell’atomo primitivo” c’è un suo articolo del 1927, quasi ignorato, in cui ricava — con naturalezza disarmante — l’idea che lo spazio si stia espandendo e collega la distanza delle galassie alla loro velocità di allontanamento. Quella che poi diventerà la “legge di Hubble” l’aveva già messa nero su bianco lui, con la serenità di chi non ha urgenza di intestarsi i meriti. Non cercava fama, cercava coerenza: se i dati dicono questo, è lì che dobbiamo andare, anche se la filosofia del tempo preferisce un universo.
La sua tenacia era quasi monastica: niente clamore, solo lavoro. E quando negli anni ’50 qualcuno provò a trasformare la sua intuizione in bandiera apologetica — “il Big Bang conferma la creazione biblica” — Lemaître fu il primo a frenare: mischiare i piani, semplificare, usare la fisica come prova di Dio, era per lui un errore concettuale e spirituale. “La scienza non ha bisogno di Dio per funzionare. E Dio non ha bisogno della scienza per esistere.” In una riga toglieva secoli di malintesi.
Il suo temperamento era così: una spiritualità silenziosa, fatta di dedizione, di studio, di ascolto del cielo. Non predicava dai pulpiti: lasciava che le equazioni diventassero finestre. E mentre il dibattito infuriava tra universi eterni e universi a nascita, tra staticità rassicuranti e dinamiche vertigini, Lemaître continuava a fare ciò che sapeva fare meglio: affinare i conti, interrogare i dati, accettare che il reale potesse essere più audace delle nostre abitudini mentali. L’idea di un “giorno senza ieri” era un terremoto non solo scientifico ma culturale: se il tempo ha una nascita, allora la storia del cosmo è davvero una storia, con un incipit, uno svolgimento, una trama che continua a dispiegarsi. Il che non “dimostra Dio” — Lemaître non lo disse mai — ma ci espone a una domanda più radicale: perché ci sono leggi così fini da permettere stelle, chimica, coscienze? Perché la musica delle costanti fisiche suona nella tonalità giusta per far emergere la vita? La scienza descrive; la spiritualità, se è onesta, non invade ma domanda.
C’è anche un’altra immagine: Lemaître seduto a un tavolo di lavoro nell’Università di Lovanio, fuori la luce grigia del Belgio, dentro una lavagna piena. Accanto, non premi e medaglie, ma libri sgualciti. Poteva pretendere riconoscimenti; scelse la discrezione. Più tardi sarebbe diventato presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, proprio perché capace di tenere i ponti aperti senza confondere le sponde. Non cercò mai d’essere protagonista: preferì aprire una strada e sparire ai margini del quadro. E proprio per questo la sua figura oggi risplende: perché ha lasciato spazio all’oggetto del suo amore — l’universo — più che al soggetto che lo raccontava.
Se dovessimo definire la sua spiritualità, potremmo chiamarla “spiritualità della ricerca”: lavoro silenzioso, fedeltà ostinata, meraviglia disciplinata. Non dogmi urlati, non scorciatoie. Un credente capace di custodire la trascendenza senza usarla come tappabuchi, uno scienziato capace di amare i limiti del proprio metodo senza trasformarli in muro. Ha accettato che la verità avesse più piani di profondità, che una formula potesse illuminare il come e una preghiera potesse sostenere il perché, senza che nessuna delle due pretenda l’ultima parola. In questo equilibrio sta la sua eredità più grande: la possibilità di abitare due mondi senza scegliere l’esilio.
E poi c’è l’epilogo che sembra scritto per il cinema: 1965–66, la scoperta della radiazione cosmica di fondo — quel fruscio termico che ci arriva da ogni direzione, eco tiepida della prima luce — che offre una conferma potente alla visione di un universo caldo e giovane che si espande. Lemaître ne viene a conoscenza poco prima di morire. Non fa proclami, non esulta: sorride con quella compostezza di chi sa che la scienza procede per indizi, mai per trionfi definitivi. È una tappa, non un arrivo. Anche la prova più elegante è sempre una soglia.
Lo confesso: quando racconto Lemaître io non sono una semplice cronista. Mi riguarda. Anche io vivo su quel crinale dove la ragione spinge e lo stupore trattiene; dove le equazioni aprono e le domande fanno aria; dove il “come” è una musica che voglio imparare e il “perché” è la vibrazione che non smette di chiamare. Non cerco dimostrazioni travestite da miracoli né miracoli travestiti da dimostrazioni. Cerco un luogo in cui ragione e poesia stiano nello stesso respiro. Per questo, quando parlo della sua teoria, non mi limito alla dinamica dello spazio-tempo che si dilata: sento, nello stesso gesto, una pedagogia del limite. La scienza non tutto può dire; la spiritualità non tutto deve dire. È nel varco tra i due che passa l’aria.
Georges Lemaître è morto nel 1966, pochi giorni dopo aver appreso che il cielo conserva ancora, ovunque, la memoria termica della sua nascita. Forse gli bastava: non l’ultima parola, ma un segno. La sua lezione, oggi, suona più necessaria che mai: il cosmo non è un problema da risolvere in fretta, è una storia da contemplare con attenzione. La fisica può dirci come procede; la spiritualità ci chiede perché ci riguarda. Tenere insieme queste due posture — senza confonderle, senza contrapporle — è l’arte sottile che lui ha praticato con una grazia che fa scuola.

E allora, la domanda inevitabile: davanti a un universo che ha avuto un inizio, davanti a un cielo che porta ancora l’eco di quel primo respiro, che cosa ne facciamo noi? Preferiamo archiviare tutto come caso, o sentiamo — anche solo per un istante — che dentro quell’inizio c’è una chiamata alla responsabilità, alla gratitudine, alla ricerca? Siamo disposti a vivere nell’apertura che Lemaître ci ha consegnato — un piede sulla lavagna, un piede sull’altare — senza chiedere all’uno di divorare l’altro, ma lasciando che insieme, finalmente, ci aiutino a guardare più lontano?”

Gemma n° 1865

“Innanzitutto vorrei proporre uno spezzone de Il giovane favoloso, film che parla della vita di Leopardi, non solo delle poesie ma anche delle sue vicende e della sua personalità.

L’ho scelto per due motivi. Il primo è che ho studiato Leopardi con una prof che mi ha insegnato un sacco di cose, il secondo è la lettura de L’arte di essere fragili di D’Avenia che ci ha consigliato la nostra attuale prof di lettere. La prof delle media mi ha fatto capire, attraverso questa poesia, un sacco di cose sull’adolescenza e su quello che può aspettarmi nella vita: nonostante ci saranno momenti difficili, saranno seguiti da momenti di felicità. Inoltre mi ha fatto capire che Leopardi non è un pessimista, ma un uomo speranzoso che celebra la vita e mi ha fatto apprezzare anche le altre poesie sue. Poi nel 2018 ho fatto delle vacanze a Recanati, prima ancora di sapere che fosse il paese di Leopardi. Ho visitato la casa ma mi hanno colpito soprattutto i luoghi delle sue poesie, la torre, la finestra da cui si affacciava, dal paesaggio che lascia senza fiato e senza parole. La passione per Leopardi mi è stata trasmessa poi da mia madre.”
E’ ricca questa gemma di E. (classe seconda) e per commentarla prendo a prestito delle parole di Alessandro D’avenia dal libro citato da lei: “Mi sono convinto che gli adolescenti non hanno domande: sono domande. Riformulano con i loro silenzi gli stessi “perché” reiterati tipici dei bambini, ma su un piano diverso: il bambino chiede come mai ci sono le stelle, l’adolescente chiede come ci si arriva, perché la speranza è desiderio (de-sidera, distanza dalle stelle), la sua mancanza è un disastro (dis-astro, assenza di stelle)”.

Un’inesauribile ricerca di luce

Martina Spollero ha terminato il Liceo Percoto nel 2020. Poi si è iscritta a Lettere Moderne ed è allieva della Scuola Superiore dell’Università di Udine. Insieme a Gabriele Visintin, studente di filosofia, ha scritto un articolo per Il chiasmo, magazine online edito dalla Rete Italiana degli Allievi delle Scuole e degli Istituti di Studi Superiori Universitari (RIASISSU), in collaborazione con l’Istituto Treccani. Lo ripropongo qui molto volentieri e aggiungo ai suggerimenti di lettura dei due autori il libro di Massimo Recalcati “Il grido di Giobbe”, sempre sullo stesso tema (libro che ho appena terminato).

Il muto dialogo tra l’uomo e Dio

“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”

Se l’esperienza del quotidiano è quella di una realtà profondamente intrisa dal male e dominata dalla sofferenza, come conciliare la constatazione del dolore con un vivo rapporto di fede? È possibile un dialogo con un Dio imperturbabile davanti alla sofferenza del frutto stesso del suo amore?
La visione della fede proposta dal filosofo danese Søren Kierkegaard (Copenaghen, 5 maggio 1813 – Copenaghen, 11 novembre 1855), sebbene influenzata dalla rigida educazione pietista impartitagli fin dalla giovinezza, risulta un tassello fondamentale nell’analisi dell’esperienza religiosa intesa come imprescindibile componente dell’esistenza umana. Il rapporto col divino che emerge dai suoi scritti viene rappresentato quanto mai distante dai dogmatismi interpretativi consueti mediante cui è percepita la fede. Essa risulta, infatti, caratterizzata da sentimenti radicalmente negativi quali l’angoscia e l’incomunicabilità, i quali isolano l’uomo entro i confini di una prospettiva che lo allontana dai suoi stessi simili.
Nell’opera Aut-Aut Kierkegaard individua differenti stadi della vita dell’uomo. Il primo di essi è quello della vita estetica, nel quale l’uomo sceglie di non scegliere, e ricerca, in tutte le loro forme, il piacere e il godimento personale. La brama della passione – inevitabilmente e per sua stessa natura – non giunge al suo pieno soddisfacimento, conducendo inesorabilmente l’uomo verso la noia e l’indifferenza. La figura esplicativa di questo stadio è appunto quella dell’esteta, del  seduttore, alla quale si contrappone l’uomo che incarna le caratterizzanti dello stadio etico e vive conformemente a una morale, inserito in una quotidianità e in una concretezza sociale e umana.  Questo momento di vita può essere rappresentato  dal marito fedele e laborioso. Come ben evidenziato da Remo Cantoni nel suo saggio introduttivo all’opera di Kierkegaard qui presa in esame, l’aut-aut denota la scelta con cui ci si sottopone al contrasto tra il bene e il male. Non accettare questa dicotomia, pertanto, non significa necessariamente propendere verso il male, bensì verso l’indifferenza etica.
La possibile comunicazione che sussiste ancora tra vita etica e vita religiosa viene definitivamente meno nel saggio che il filosofo danese pubblicherà pochi mesi più tardi: Timore e tremore. Mediante l’esempio di Abramo, rivela come l’uomo religioso, immerso in una fede totalizzante, si trovi in aspro contrasto con le convinzioni etiche e morali comunemente accettate e condivise. Il patriarca dell’ebraismo viene messo nella posizione di doversi confrontare con una richiesta assurda e irrazionale: sacrificare suo figlio Isacco. Il nodo insolubile e controverso del rapporto tra l’uomo e la spiritualità scaturisce dalla constatazione che Colui che pretende l’immolazione dell’amato risulti il medesimo che quella prole gliel’ha donata, Dio stesso. La prospettiva, annichilente e disarmante, è quella dell’innocente che si interroga circa il fondamento di un tale abominio e la richiesta di privazione dell’unico frutto d’amore concessogli attraverso il grembo della moglie Sara, simbolo di quella vita che sopravvive – oltre le soglie della morte – sotto forma di eredità nei posteri.
Il tragico dolore che Abramo si trova ad affrontare diventa icona dell’esperienza religiosa estesa a tutti gli uomini: essa risulta sconnessa – secondo Kierkegaard – dalla ragione, dalla morale, dalla razionalità. La fede è un salto nel buio, è un cieco abbandono a una volontà che non è conforme e coincidente a quella umana, e che per questo motivo non è comunicabile agli altri individui. Ne deriva un’esperienza di fede profondamente soggettiva e assolutizzante, una frattura che allontana l’uomo dal divino, il quale vive un rapporto assoluto con l’assoluto. “Chi si trova nel mare della disperazione trova l’assoluto”, asserisce Cantoni. L’uomo, dunque, incontra Dio proprio nella sofferenza più totale.

L’esempio letterario in cui confluiscono tutte queste considerazioni è quello del romanzo Giobbe, frutto del genio e della penna di Joseph Roth (Brody, 2 settembre 1894 – Parigi, 27 maggio 1939). Potremmo considerare Mendel Singer (protagonista del romanzo) come il tipico uomo morale kierkegaardiano che vive nella convinzione di incarnare una fede sincera, la quale si manifesta – nei limiti dell’illusione generata dalla sua soggettività – in un rapporto diretto con Dio, dinanzi al quale si genuflette e si abbandona completamente, togliendo a se stesso qualunque prospettiva di azione, nell’attesa che si portino a compimento i piani a lui destinati (il tutto fondato su preconcetti di matrice quasi fideistica che vedono un Dio dispensatore di beni ai giusti e di dolori a coloro che non si incamminano lungo la via della rettitudine). Il suo atteggiamento nei riguardi della fede è duplice e fortemente problematico: da un lato nega la necessità di intermediari, rivendicando la possibilità di instaurare un rapporto intimo con l’Assoluto, dall’altro non cerca mai veramente un dialogo con Dio. Nel momento in cui il concatenarsi di spiacevoli eventi imprevisti lo costringe a uscire dai binari della quotidianità e a fare esperienza di un dolore che attanaglia anche le vite degli innocenti, si avvia il turbolento processo di demistificazione dei pregiudizi sui quali si fonda il suo fragile credo, e che lo porteranno via via a prendere le distanze da una fede vissuta meccanicamente, in una sua forma sterile e semplicistica.
Proprio l’esperienza diretta con il dolore lo getta nella condizione di interrogarsi sul suo sentimento religioso. Il personaggio viene portato a mettere in discussione la volontà di Dio, il suo rapporto con esso e a prendere in mano le redini di una vita sino a quel momento vissuta come passivo spettatore. Davanti alle disgrazie che lo colpiscono, il suo diviene il grido ancestrale dell’innocente che lamenta l’ingiusta punizione di cui non coglie le ragioni, che rivendica – quasi portavoce degli interrogativi di ogni uomo – il diritto alla felicità. La rabbia si tramuta in rigetto totale della fede, la quale, in quanto elemento costitutivo della sua intera esistenza, porta il personaggio in qualche misura a rinnegare sé  stesso e ad abbandonarsi in un tetro nichilismo rassegnato e rancoroso.
Se il Giobbe biblico accetta il male così come accoglie il bene, in quanto si percepisce come ente infinitesimale rispetto a ciò che lo sovrasta e non vacilla mai nei suoi intenti – poiché caratterizzato da un rapporto con Dio genuino sin da principio – il personaggio rothiano compie un’evoluzione inversa. Il suo è un percorso che va dall’illusione di una fede sincera che, messa in discussione dalle prove cui si vede suo malgrado sottoposto da Dio, approda al termine del romanzo a un rinnovato dialogo più consapevole e autentico – e dunque più sincero – con il Creatore. Nel racconto si osserva, pertanto, la fede come sentimento profondamente umano che, proprio in quanto tale, manifesta i tratti di quelle stesse debolezze e inquietudini caratteristiche dell’uomo.

La prospettiva religiosa fin qui delineata ribalta la concezione odierna della fede come palliativo verso la sofferenza. Non è grazie alla morte e alla paura verso di essa che l’uomo, anelando a un’eternità metafisica, si rifugia nell’eternità per definizione (Dio), che risulta però inconsistente illusione, inconsciamente creata dall’uomo stesso. Fu il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (Landshut, 28 luglio 1804 – Rechenberg, 13 settembre 1872) a teorizzare che senza la morte come limite naturale non esisterebbero le religioni, così come Dio. La fede vista in questa prospettiva assumerebbe caratteri prettamente utilitaristici: l’individuo è costretto ad affidarsi a una figura ultraterrena e soprannaturale per sperare in una vita che possa superare la morte. Presentata in tal modo, l’adorazione religiosa è legata esclusivamente alla promessa di immortalità. Senza questa promessa, se dell’uomo, delle sue opere e del frutto delle sue fatiche nulla rimane, allora Dio non solo sarebbe “inutile”, ma non avrebbe senso neppure porsi la questione della sua esistenza. La fede esisterebbe fintanto che da essa si può ottenere un profitto reale e tangibile.
Nel suo senso antropologico, il dolore si manifesta nell’estrema concretezza di un’esperienza in grado di produrre quella discontinuità necessaria a rompere il ritmo abituale dell’esistere e a trasfigurare sotto una rinnovata luce le esperienze caratterizzanti del quotidiano. Risulta al contempo patimento e rivelazione: il suo porre inesorabilmente l’uomo dinanzi la cocente presa di consapevolezza dei suoi limiti e della sua fragilità, lo predispone all’analisi di sé e alla messa in discussione dei paradigmi interpretativi a lui consueti. Chiuso entro i confini del suo microcosmo esistenziale, l’individuo acquisisce paradossalmente una prospettiva privilegiata per meditare sulla natura e sullo scopo della sua stessa sofferenza in quanto «prezzo dell’esistenza e sapore dell’istante che passa» (Le Breton, 2007). L’impressione è quella di un patimento tutto individuale, incomunicabile agli altri e a loro incomprensibile che alimenta il ripiegamento in una dimensione inedita dell’esistenza. Il dolore può assumere un valore solo nel preciso istante in cui ad esso viene attribuito, quando diviene cioè epifania di un disegno ultimo che va al di là dei confini di quel frammento di vita che è l’uomo. Imprescindibile punto di partenza per il maturare di una fede viva e sincera è proprio l’esperienza del più profondo e totale abbandono, di quel tetro silenzio di un Dio che apparentemente tace davanti alla sofferenza umana. La visione screditante della fede come comodo palliativo non è altro che la distorsione derivante da un’interpretazione fortemente semplicistica del sentimento religioso e implica il rischio di deresponsabilizzazione dell’uomo e dell’agire: il sacrificio umano non è la sopportazione del dolore, è l’accoglienza di un messaggio di fede capace di farsi propulsore all’azione e occasione per una riscoperta sincera della presenza di un essere Altro, esterno ma allo stesso tempo componente intrinseca di sé.
Ciò che si è voluto dimostrare con quest’analisi è come l’esperienza religiosa, generata da un bisogno naturale e innato di assolutezza divina, divenga quotidiana riscoperta del rapporto autentico con l’Assoluto attraverso l’intima esperienza del dolore. L’essenza del sentimento di fede risiede nella tensione di un’inesauribile ricerca della luce tra le pieghe in ombra dell’esistenza, nel perpetuarsi di un’insaziabile esplorazione profonda della vita interiore spinta dalla volontà di dare risposte circa il senso dello stare al mondo e di quel fine ultimo verso cui la vita dell’uomo è volta teleologicamente a tendere.

Per saperne di più:
GIOVANNI PAOLO II, Salvifici doloris. Lettera Apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana, Roma, Paoline Editoriale Libri, 2015.
KIERKEGAARD, Aut-Aut, Milano, Mondadori, 2016.
KIERKEGAARD, Timore e tremore, Milano, Mondadori, 2016.
KOLAKOWSKI, Se non esiste Dio, Bologna, Il Mulino, 1997.
LE BRETON, Antropologia del dolore, Roma, Meltemi editore, 2007.
ROTH, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Milano, Adelphi edizioni, 2014.

Interrogativi come macigni

Pubblico uno spezzone di un film che non ho mai proposto ai miei studenti. La prima volta l’ho visto al liceo col mio prof di filosofia. Il film è vecchio, ma di uno spessore notevolissimo! E’ spesso ricordato come il film in cui l’uomo gioca a scacchi con la morte.

Cavaliere: Voglio parlarti più sinceramente che posso, ma il mio cuore è vuoto

La morte non risponde

Cavaliere: Il vuoto è uno specchio rivolto verso il mio viso. In esso vedo me stesso, e mi sento pieno di timore e di disgusto.

La morte non risponde

Cavaliere: Per la mia indifferenza verso i miei simili mi sono isolato dalla loro compagnia. Ora vivo in un mondo di fantasmi. Sono prigioniero dei miei sogni e delle mie fantasie.

Morte: Eppure non vuoi morire.

Cavaliere: Sì che lo voglio.

Morte: E cosa aspetti?

Cavaliere: Voglio conoscere.

Morte: Vuoi delle garanzie?

Cavaliere: Chiamale come vuoi. E’ davvero così inconcepibile afferrare Dio coi sensi? Perché deve nascondersi in una nebbia di mezze promesse e invisibili miracoli?

La morte non risponde.

Cavaliere: Come possiamo aver fede in coloro che credono, ma non possiamo aver fede in noi stessi? Che cosa accadrà a quelli di noi che vogliono credere ma non vi riescono? E che cosa ne sarà di coloro che non vogliono né possono credere?

Il cavaliere tace in attesa di una risposta, ma nessuno risponde. Vi è un completo silenzio.

Cavaliere: Perché non posso uccidere Dio dentro di me? Perché egli continua a vivere in questo modo doloroso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparmelo dal cuore? Perché, nonostante tutto, egli è un’illusoria realtà ch’io non posso scuotere da me? Mi ascolti?

Morte: Ti ascolto.

Cavaliere: Io voglio la conoscenza, non la fede, non supposizioni, la conoscenza. Voglio che Dio tenda la sua mano verso di me, si riveli e mi parli.

Morte: Ma egli rimane zitto.

Cavaliere: Lo chiamo nel buio, ma sembra come se non ci fosse nessuno.

Morte: Forse non c’è nessuno.

Cavaliere: Allora la vita è un atroce orrore. Nessuno può vivere in vista della morte, sapendo che tutto è nulla.

Morte: La maggior parte della gente non riflette mai né sulla morte né sulla futilità della vita.

Cavaliere: Ma un giorno si troveranno di fronte all’ultimo momento della vita, e guarderanno verso le tenebre.

Morte: Quando arriva “quel” giorno…

Cavaliere: Nella nostra paura formiamo un’immagine, e questa immagine la chiamiamo Dio.

Morte: Tu ti affanni.

Cavaliere: La morte mi ha visitato, questa mattina. Stiamo facendo una partita a scacchi. Questo rinvio mi permette di sistemare una questione urgente.

Morte: Di che questione si tratta?

Cavaliere: La mia vita è stata una futile impresa, un vagabondaggio, un mucchio di chiacchiere senza significato. Non ne ho rimpianto, né rimorso, poiché la vita dei più è assai simile a questo.