Ha molto impressionato la fotografia del presidente statunitense Donald Trump, seduto alla scrivania della Casa Bianca, circondato da Paula White, pastora della cosiddetta teologia della prosperità, e da altri esponenti religiosi. L’occasione è stata quella della firma di un ordine esecutivo presidenziale per l’istituzione, presso la Casa Bianca, di un Ufficio della Fede (ne ha scritto Massimo Gaggi sul Corriere della Sera). Approfitto per segnalare un video di Francesco Costa, giornalista de Il Post, sul rapporto degli statunitensi con la religione e come questa si incroci anche con la politica americana (video pubblicato prima del voto elettorale):
Inoltre pubblico interamente un pezzo di Luca Colacino per Treccani dal titolo Politica e religione negli Stati Uniti di Trump“La sensibilità politica europea di oggi non può che essere sorpresa da uno degli aspetti più evidenti dell’amministrazione del quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti: la forte presenza della religione nella sfera pubblica. Si tratta di un evidente ritorno della religione come parte integrante della cultura politica di una democrazia liberale occidentale. In seguito all’illuminismo e alla Rivoluzione francese, l’Europa ha subito un processo di secolarizzazione definito da un marcato sentimento anti-religioso fondato nella certezza che una politica della sola ragione potesse condurre ad una società libera dall’ingiusta oppressione morale e dall’intolleranza che si credeva le religioni portassero nella sfera pubblica.
Diverso è il sentimento che anima l’affermazione del presidente Donald Trump la mattina di giovedì 6 febbraio 2025, all’annuale “National Prayer Breakfast” in Washington D.C. in cui egli afferma: «Dobbiamo resuscitare la religione, la dobbiamo resuscitare con molta più forza». La domanda è la seguente: Il ritorno della religione nella politica di Trump è un esempio della storica strategia in cui la religione è fonte di legittimazione del potere che desidera essere incontrastato o è riconoscimento autentico di una necessità politica più profonda?
La risposta completa a questa domanda dovrà aspettare il giudizio della storia a venire, ma alcune considerazioni possono essere fatte già da ora. La prima riguarda l’onestà con cui i padri fondatori della repubblica americana hanno sempre riconosciuto che il successo degli ideali americani di libertà, progresso e giustizia dipendesse dal contesto culturale in cui i cittadini condividevano una visione cristiana del mondo. Il successo della politica, secondo loro, dipende dal successo della religione nella vita dei cittadini. Ad esempio, John Adams, il secondo presidente degli Stati Uniti, dichiarò nella famosa lettera alle milizie del Massachusetts che «la Costituzione americana è stata creata solo per persone religiose con una determinata moralità e perciò è completamente inadeguata al governo di qualsiasi altro tipo di persone». Nonostante il governo americano abbia sempre supportato la marcata separazione istituzionale tra Chiesa e Stato, essa non ha mai approvato la separazione culturale tra religione e politica. Le religioni istituzionali, seppure non riducibili alla dimensione temporale, sono sempre state fonte di una visione comune del mondo che permetteva una vera deliberazione sul bene comune. La religione cristiana in Occidente, infatti, è stata per anni una sorgente spirituale e intellettuale di riflessione sulla natura del bene comune. La stessa difesa delle libertà personali e della libertà di coscienza, di cui l’America è sempre stata grande promotrice, si basava sull’ipotesi di una società in cui gli individui erano responsabili delle proprie azioni davanti a Dio, la cui legge morale è una realtà oggettiva e intellegibile, almeno in parte, nelle categorie naturali e razionali. Questo non significa che la politica informata dalla religione smetta di deliberare e di avere visioni diverse sul bene comune. Infatti, la crisi della politica contemporanea non si basa sull’incapacità di essere d’accordo sulla natura del bene comune (il quale non è mai accaduto nella storia della politica); piuttosto, si basa sull’incapacità di trovare degli assiomi di pensiero comuni su cui costruire un dialogo di deliberazione e confronto politico effettivo. La politica di oggi è una politica senza metafisica, incapace di trovare degli assiomi filosofici comuni per la deliberazione sul bene comune. Ad esempio, senza una metafisica capace di definire l’esistenza reale e non nominale di una comune natura umana è molto difficile deliberare su quali siano effettivamente i cosiddetti “diritti umani”. Se non esiste una realtà metafisica di natura umana che sia intellegibile, allora questa diventa un concetto non scoperto ma costruito dall’intelletto e dalla volontà di ognuno. Per questo, la crisi contemporanea della politica senza metafisica è dovuta all’incapacità di avere un consenso di base sulle categorie filosofiche classiche.
Ma cosa c’entra questo con la religione nella politica? Si è detto che l’Europa, e con essa l’Occidente, è figlia di Atene, quale culla della cultura filosofica greca, e di Gerusalemme, quale sorgente della spiritualità e religiosità giudaico-cristiana. In effetti, la filosofia greca è stata tradotta nella cultura europea attraverso la mediazione della religione cristiana. Con il fenomeno della secolarizzazione, poi, si è cercato di rendere l’Occidente indipendente da Gerusalemme. Oggi, però, il problema della politica contemporanea non è l’incapacità di essere d’accordo su Gerusalemme, piuttosto è l’incapacità di avere Atene come punto di riferimento comune per una vera politica del confronto sul bene comune. La questione riguarda la possibilità dell’Occidente, ormai orfano delle proprie radici filosofiche e spirituali, di ritornare ad Atene come punto d’incontro della ragione universale all’infuori dalla mediazione di Gerusalemme. In altre parole, in una modernità che ha perso il senso di una ragione universale, abbandonando ogni credenza metafisica riguardo le categorie oggettive di bene comune e natura, è possibile riportare una vera politica del confronto senza la religione?
Sembra che gli Stati Uniti, a differenza dell’Europa, abbiano sempre riconosciuto che l’eredità filosofica di Atene per una politica capace di un vero confronto sul bene comune dipendesse dall’integrità della religione come interlocutore sociale. In questo senso vanno intese le parole di Trump nell’intervento alla National Prayer Breakfast in cui egli afferma: «Dai primi giorni della nostra repubblica, la fede in Dio è sempre stata la sorgente ultima della forza e il cuore pulsante della nostra nazione. Dobbiamo resuscitare la religione, la dobbiamo resuscitare con molta più forza. L’assenza della religione è stato uno dei problemi maggiori degli ultimi tempi. L’America è stata e sarà una nazione sotto la guida di Dio».
Quest’affermazione richiede una seconda considerazione sull’eccezionalismo americano nel contesto del ritorno della religione nella sfera pubblica. Non sono mancati, infatti, nelle ultime settimane, riferimenti al mandato di Trump come una manifestazione della provvidenza divina per il destino degli Stati Uniti. Nello stesso discorso alla National Prayer Breakfast, il presidente Trump ha fatto menzione di Roger Williams, pastore presbiteriano che ha fondato lo Stato di Rhode Island nominando la sua capitale Providence, e di John Winthrop, puritano inglese che sarebbe diventato governatore del Massachusetts, il quale nel celebre sermone La città sulla collina si richiama alle parole di Gesù nel Discorso della montagna per descrivere l’America come terra scelta da Dio per risplendere da esempio per il mondo intero.
In linea con questo tradizionale sentimento con cui gli americani si vedono strumenti della provvidenza divina per il benessere del mondo, il presente mandato di Trump, sin dall’inaugurazione presidenziale del 20 gennaio, è stato presentato come dono della provvidenza per la rinascita culturale e politica degli Stati Uniti, per il benessere di tutti gli americani e dei loro alleati. All’inizio della cerimonia di inaugurazione, infatti, Franklin Graham ha condotto i presenti in una preghiera in cui ha ringraziato Dio «per aver innalzato con mano potente il presidente Donald Trump». In maniera simile, la preghiera di benedizione del pastore Lorenzo Sewell nella stessa cerimonia ha parlato di Trump nei termini di un miracolo della provvidenza che lo ha salvato dall’attentato dello scorso 16 luglio come segno d’approvazione divina del suo mandato.
Seguendo questa logica, però, la storia ha lasciato trascorrere i più grandi mali dittatoriali sotto la credenza di una provvidenza divina che giustificasse incondizionatamente le autorità in potere. Se da un lato il rientro della religione nella politica è una necessità effettiva e potenzialmente buona, dall’altro lato questo rientro va qualificato e ragionato teologicamente. La retorica della provvidenza e dell’eccezionalismo che incorniciano il presente mandato presidenziale ci pone davanti a una questione teologica da cui dipende il successo del ritorno della religione in politica. Occorre infatti un correttivo proprio della fede cattolica alla credenza unilaterale nella provvidenza che gli Stati Uniti hanno ricevuto dalla tradizione protestante dei loro padri fondatori. Il pensiero cattolico, infatti, è solito tenere insieme due estremi in tensione tra di loro. In questo caso, la provvidenza divina, sotto la cui guida non sfugge nessun governo politico, deve essere accompagnata dalla credenza nella libertà e responsabilità personale delle autorità politiche. Per questo, durante la cerimonia di inaugurazione solo le preghiere del cardinale Dolan e di un altro sacerdote cattolico hanno attenuato il clima trionfalistico e provvidenziale delle altre preghiere con una sobria richiesta a Dio di concedere al presidente Trump e al suo vice, J.D. Vance, il dono della sapienza. Questo significa che affinché il ritorno della religione della politica non sia solo strumento di legittimazione, la religione e la Chiesa devono mantenere una distanza dalle autorità politiche che permetta loro di esercitare un ruolo profetico capace di richiamare la politica all’ordine morale qualora fosse opportuno, non di diventare serve e mere leggittimatrici della politica. Nell’Antico Testamento, infatti, i profeti avevano un ministero divino istituito per mantenere un sistema di equilibrio nei confronti del potere regale e politico del re.
L’ultima considerazione, perciò, riguarda il modo in cui la Chiesa deve esercitare il proprio ruolo profetico nei confronti della politica. Molto controverso, infatti, è stato l’appello diretto a Trump della vescova anglicana di Washington nella funzione religiosa di preghiera per la nazione il giorno dopo l’inaugurazione presidenziale. La vescova ha lanciato un appello diretto al presidente chiedendo, nel nome di Dio, di avere pietà verso i migranti e i transgender che in questo momento hanno paura a causa delle sue politiche. A questo appello, Trump ha risposto su X dicendo che la vescova «ha portato la sua chiesa nel mondo della politica in un modo molto scortese. Era cattiva nei toni, non convincente o intelligente. Non ha menzionato il gran numero di migranti illegali che sono entrati nel nostro Paese e hanno ucciso persone». Qualsiasi siano le ragioni di entrambe le parti, riconoscendo sia la necessità profetica di richiamare il potere a unire giustizia e misericordia, sia la natura complessa della questione, ciò che è chiaro è che il ruolo profetico della religione verso la politica richiede un coinvolgimento più ragionato della religione nel processo deliberativo e decisionale di quello che un’omelia o un tweet possono fare. Una deliberazione politica più sostanziale infatti è alla base delle ordinanze presidenziali a sostegno della vita che Trump ha attuato nei primi giorni del nuovo mandato.
La difficoltà della religione nel relazionarsi alla politica in modo costruttivo si è vista anche con lo scontro tra la Conferenza episcopale statunitense e il vicepresidente, cattolico praticante, J.D. Vance. La Conferenza episcopale ha pubblicato una dichiarazione che condanna le politiche anti-migratorie della nuova amministrazione presidenziale. J.D. Vance ha prontamente risposto alla condanna in un’intervista insinuando che la Conferenza episcopale abbia mosso accusa perché le politiche della nuova amministrazione significherebbero una perdita di 100 milioni di dollari l’anno che la Conferenza ha finora ricevuto dal governo federale per aiutare a reinsediare gli immigrati clandestini. Un’indagine giornalistica, tuttavia, sembrerebbe provare che la Conferenza episcopale avrebbe dovuto aggiungere altri fondi a quelli federali per la realizzazione del progetto con i migranti, dimostrando perciò che le accuse del vicepresidente sono infondate.
Ancora una volta, la realtà dei fatti è più complessa di quello che può essere comunicato con dichiarazioni prive di un confronto e una vera deliberazione. Perciò, il grande ritorno della religione nella politica, seppure un’autentica necessità, dipenderà sia dalla capacità della religione di mantenere insieme la fiducia nella provvidenza divina e la chiamata alla responsabilità personale davanti a Dio, ma anche dalla capacità che la politica e la religione avranno di performare un vero dialogo culturale e filosofico non guidato da brevi e polarizzanti dichiarazioni incapaci di includere la complessità delle questioni discusse”.
