Fuori dal Pakistan!

Questa mattina, andando al lavoro ho ascoltato la puntata di Stories di Cecilia Sala del 2 novembre.

Ecco la presentazione della puntata: “Il primo novembre le unità di poliziotti pachistani sono andate casa per casa nelle città a caccia di afghani senza documenti. Per radunarli, arrestarli temporaneamente e caricarli sui camion con destinazione Afghanistan. È la conseguenza della decisione del governo del Pakistan di deportare con la forza tutti gli afghani che vivono nel paese senza documenti: sono almeno un milione e settecentomila persone. E l’ingresso improvviso di quasi due milioni di persone in un paese insicuro come l’Afghanistan è la premessa per una catastrofe umanitaria che non abbiamo mai visto negli ultimi 80 anni.”
Ho voluto approfondire ulteriormente le cose.
Prima di tutto, per rendersi conto dell’andamento, un semplice grafico dell’Ispi  (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale):

Poi propongo un articolo del 2 novembre di Vatican News, a cura di Leone Spallino e Luana Foti, con un’intervista a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia:
“Il Pakistan non è più un luogo sicuro per i profughi provenienti dall’Afghanistan senza i permessi necessari: si tratta di 1.7 milioni di persone che sono ora passibili di arresto e deportazione forzata. Il 3 ottobre, il ministro dell’Interno pakistano Sarfraz Bugti, aveva lanciato un ultimatum, scaduto ieri 1 novembre, in cui dava un mese di tempo per lasciare volontariamente il Paese a una parte della cospicua comunità afghana rifugiatasi nel vicino Pakistan. “Se a questo ultimatum scaduto seguiranno espulsioni di massa in un Paese tra l’altro impoverito e devastato da recenti terremoti, per queste persone la vita sarà veramente a rischio”, afferma a Vatican News- Radio Vaticana il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury.

Secondo i dati ufficiali del Ministero degli Interni, infatti, in Pakistan sono registrati come richiedenti asilo 1.3 milioni di afghani mentre a 800mila è stato riconosciuto lo status di rifugiati. Oltre a loro, ci sono 1.7 milioni di persone che vivono nel Paese illegalmente, perché senza documenti regolari e non riconosciuti né come richiedenti asilo né come rifugiati. “Il fatto che siano sprovvisti della documentazione adeguata non è colpa loro”, spiega Noury. Lo status di rifugiato infatti viene attestato da un documento rilasciato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite ma queste procedure sono lentissime, spiega. “Sappiamo di minacce, intimidazioni e tentativi di estorsione da parte di funzionari pakistani nei confronti di queste persone. Quindi, in sintesi, che paghino loro per inefficienza e ritardi di altri è irresponsabile”, dichiara il portavoce di Amnesty Italia.
L’esodo afghano verso il Pakistan dura da decenni. I primi flussi risalgono agli anni Settanta, motivati dalla ricerca di opportunità economiche migliori, poi la fuga dall’occupazione sovietica negli anni ottanta e dal primo regime talebano negli anni novanta. Dal ritorno dei talebani al potere nell’agosto del 2021 invece si stima che siano arrivati oltre 600mila afghani. Ma molti di loro sono finiti in campi di accoglienza in cui erano sottoposti a condizioni di vita dure segnate da un accesso limitato all’istruzione, all’assistenza sanitaria e al lavoro.
La decisione adottata dal governo pakistano di espellere i rifugiati privi di documenti è stata motivata da questioni definite “di sicurezza nazionale”. Nei primi nove mesi del 2023 infatti in Pakistan si sono verificati numerosi attacchi suicidi che hanno provocato la morte di oltre 1.000 persone, tendenza che dura nel Paese da ormai due anni. Secondo il Centro di ricerche e studi per la sicurezza CRSS, gli episodi violenti in Pakistan sono aumentati del 57% negli ultimi mesi. Gli attacchi sono in parte condotti dai talebani pakistani del gruppo terroristico più grande del Paese, il Tehrik-i-Taliban Pakistan. E le autorità di Islamabad hanno accusato il regime talebano afghano di finanziare questi attacchi terroristici. Accusa che quest’ultimo rigetta.
Alcune organizzazioni internazionali a difesa dei diritti umani sono preoccupate per le potenziali ritorsioni sulla vita degli afghani costretti a ritornare nel Paese dal quale erano fuggiti. “Il rischio è che riprenda la caccia alla persona. Per le autorità afghane, avere a casa uomini e donne, attivisti, giornalisti, insegnanti, persone a cui davano la caccia, potrebbe portare a un esito tragico come la loro eliminazione fisica perché percepite come nemici” dice ancora Noury. Inoltre, aggiunge, molti di loro non avrebbero un luogo dove andare e senza una casa non avrebbero accesso a servizi fondamentali e  a mezzi di sostentamento, senza contare l’arrivo della stagione fredda. “Sarebbe veramente un gesto irresponsabile rimandare queste persone in Afghanistan. Si tratterebbe peraltro di una grave infrazione del diritto dei rifugiati che prevede il divieto assoluto di respingimento in luoghi in cui le persone respinte potrebbero essere a rischio di subire violazioni dei diritti umani”, spiega Riccardo Noury.
L’occidente, in questo, sottolinea ancora il portavoce di Amnesty Italia, non ha aiutato il Pakistan. “Dopo l’evacuazione dell’agosto del 2021 gli stati occidentali hanno voltato le spalle all’Afghanistan. Il governo tedesco aveva promesso mille reinserimenti al mese, eppure in Germania non è arrivato neanche un afgano”. Quello che Amnesty auspica è un cambio di rotta soprattutto attraverso finanziamenti al Pakistan nella gestione dell’enorme flusso di rifugiati. “Se lo farà, e verranno accelerate le procedure di riconoscimento tutto finirà bene. Perché alla fine, se queste persone che non sono in regola lo fossero, lo stesso Pakistan non avrebbe dato questo ultimatum”.
Infine propongo un approfondimento, sempre del 2 novembre, di AsiaNews su una questione più specifica, quella degli afghani che avevano collaborato con le forze Usa:
“Tra gli afghani espulsi in questi giorni dal Pakistan ci sono anche migliaia di richiedenti asilo e personale che aveva collaborato con le forze americane e alleate in vent’anni di guerra in Afghanistan, individui ai quali era stato promesso un visto per gli Stati Uniti.
L’espulsione di tutti i migranti presenti nel Paese illegalmente era stata annunciata circa un mese fa dal governo di Islamabad, che aveva dato la possibilità di uscire dal Paese in maniera volontaria entro il primo novembre. Le autorità locali hanno comunicato che almeno 200mila persone sono tornate spontaneamente, evitando così l’arresto da parte delle forze di sicurezza pakistane. Sui social sono stati anche circolati video di bambini afghani che salutano i compagni di classe prima di partire. Nonostante le critiche delle Nazioni unite e di diversi gruppi umanitari, in alcune città si sono verificati veri e propri rastrellamenti (anche di rifugiati con i documenti in regola), in seguito ai quali decine di afghani sono stati stipati su camion e autobus per essere trasportati ai valichi di frontiera.
Secondo Sarfaraz Bugti, ministro dell’Interno del governo provvisorio del Pakistan (che resterà in carica fino alle prossime elezioni, previste a gennaio 2024) 1,7 milioni di afghani “non sono registrati” e vivono nel Paese “illegalmente”. Le Nazioni unite sostengono che oltre a 2 milioni di afghani senza documenti, nel Paese risiedano anche quasi 1,3 milioni di rifugiati con un permesso di soggiorno, chiamato “prova di registrazione” (Proof of registration, PoR) e altri 880mila che hanno il diritto legale di rimanere nel Paese, mentre gli scappati dopo la riconquista di Kabul da parte dei talebani ad agosto 2021 sono tra i 600 e i 700mila. Tra i migranti che il governo pakistano vorrebbe rimpatriare in Afghanistan sono comprese anche famiglie che hanno fatto domanda d’asilo dopo il ritiro delle truppe statunitensi (circa 60mila individui), persone con permessi scaduti e che non hanno possibilità di rinnovarli, e pure afghani in attesa di ottenere il visto da altri Paesi terzi.
Alcuni funzionari statunitensi hanno affermato di aver inviato alle autorità pakistane una lista di circa 25mila persone che avevano collaborato con il governo americano, per cui avrebbero il diritto di essere trasferite negli Stati Uniti attraverso un programma speciale (che ha subito enormi rallentamenti). Ieri, però, un funzionario pakistano ha detto a Voice of America di aver rifiutato la lista presentata dagli americani a causa di discrepanze significative: l’elenco è stato esaminato “ma l’abbiamo trovato imperfetto e incompleto”, ha detto l’incaricato in forma anonima. Washington nei prossimi giorni dovrebbe rivedere la lista e inviare agli afgani dei documenti da condividere con le autorità locali per impedire (o almeno ritardare) il rimpatrio, ma persino alcuni cittadini che erano stati incarcerati per “crimini minori” sono stati rilasciati per essere rispediti in Afghanistan: “Questa azione è una testimonianza della determinazione del Pakistan a rimpatriare chiunque risieda nel Paese senza un’adeguata documentazione”, ha scritto sui social il ministro Bugti.
Secondo diversi esperti, anche se i talebani hanno allestito campi profughi temporanei al di là del confine, il Paese non è pronto ad accogliere il ritorno di migliaia di cittadini. L’Afghanistan da due anni sta cercando di far fronte a una pesante crisi umanitaria: almeno 15 milioni di persone soffrono di grave insicurezza alimentare, che è stata aggravata da disastri naturali come inondazioni e terremoti e una sempre più frequente siccità.
Da decenni il Pakistan accoglie i rifugiati afghani e già in passato si erano verificati rimpatri forzati (ragione per cui in anni recenti gli afghani hanno sempre più frequentemente preferito affrontare il viaggio per arrivare in Europa anziché fermarsi nella regione), ma mai su questa scala, hanno commentato gli esperti, secondo i quali, a determinare le espulsioni sono questioni di politica interna e il deterioramento dei rapporti tra i due Paesi dell’Asia meridionale. I migranti afghani sono trattati da tempo come capro espiatorio, accusati dal governo di Islamabad di favorire il terrorismo e, indirettamente, di ostacolare la ripresa economica del Paese, “rubando il lavoro” ai pakistani.
In realtà negli ultimi due anni il Pakistan, dopo aver a lungo sostenuto i talebani, ha visto la propria politica ritorcersi contro, subendo un aumento di attentati da parte dei Tehrik-e-Taliban Pakistan o TTP, i talebani pakistani, che, galvanizzati dalla vittoria dei “cugini” afghani, mirano a creare un Emirato islamico anche in Pakistan, prendendo come obiettivi le sedi e le istituzioni governative.
Non è un caso, infatti, che nelle scorse settimane le autorità talebane abbiano emesso una fatwa che vieta ai propri miliziani di condurre attacchi in Pakistan, dove la violenza non è considerata parte del jihad. Con questo termine gli “studenti coranici” si sono sempre riferiti alla guerra portata avanti per vent’anni contro gli Stati Uniti.
A giugno diversi combattenti dei TTP erano stati trasferiti verso le aree centrali dell’Afghanistan lontano dal confine, ma non pare sia servito a placare le tensioni con Islamabad, dove a guidare la politica è l’esercito, mentre il governo ad interim, che verrà sostituito nei prossimi mesi, si sta facendo carico delle critiche pubbliche senza andare incontro a particolari conseguenze. Rispondendo alle critiche da parte occidentale, infatti, il ministro Bugti ha sostenuto che le pratiche di espulsione siano del tutto legittime in quanto oggigiorno sono messe in atto da diverse nazioni, anche in Occidente.”

Gemme n° 450

The Migrant Journey Through The Eyes Of An Eight Year Old Syrian Girl
Shaharzad Hassan mostra un suo disegno, fotografato nel campo profughi di Idomeni, Grecia, 18 marzo 2016 (Matt Cardy/Getty Images)

La mia gemma consiste in alcune foto dei disegni fatti da Shaharzad Hassan, una bambina di Idomeni, campo profughi in Grecia. Lei è siriana, ha 8 anni e così sta raccontando l’esperienza della diaspora siriana. Sono rimasta colpita perché i disegni raccontano la storia di questi profughi attraverso i suoi occhi. Da un lato emerge la tenerezza, dall’altro quanto loro capiscano la situazione. Penso sia una visione molto realistica dei fatti.” Questa è stata la gemma di G. (classe quinta).
Magnus Wennman è un fotoreporter svedese. In un’intervista alla CNN, presentando il proprio lavoro “Where The Children Sleep” che potete vedere qui, ha detto: “Il conflitto e la crisi possono anche essere difficili da capire , ma non è difficile capire che questi bambini hanno bisogno di un posto sicuro per dormire. Questo è facile da comprendere. Hanno perso la speranza, e ci vuole molto perché un bambino smetta di essere tale e smetta di essere felice, anche nei posti veramente brutti”.

Perdite

Provare per un po’ a camminare con le scarpe di un’altra persona. C’è da sperare che siano del numero giusto, ma potrebbero essere troppo strette e causare dolore o troppo larghe e rendere incerto il nostro passo. Potrebbero essere del numero corretto ma di una forma strana, magari col tacco, o un sandalo infradito, fastidioso per chi non è abituato a portarlo. Potrebbero essere perfettamente adatte al terreno come degli scarponi quando si è in montagna, oppure decisamente fuori luogo come delle scarpe da calcio a un matrimonio. Provare a indossare le scarpe di un altro e tentare di muovere dei passi mi aiuta a cercare di capire il suo punto di vista, la situazione che lui sta vivendo. Lo voglio fare anche oggi, e lascio qui questa scarpa scomoda… (la fonte è un articolo di Marialaura Conte preso da Oasis)

“«Della perdita del passato, ci si consola facilmente; è della perdita del futuro che non ci disorientatisi riprende». E ancora «il Paese di cui l’assenza mi rattrista e mi ossessiona non è quello che ho conosciuto nella mia giovinezza, è quello che ho sognato e che non ha mai potuto vedere il giorno».
Queste parole estrapolate dall’ultimo romanzo di Amin Maalouf, scrittore libanese che vive in Francia dal ’76, sono capaci di descrivere con una sintesi geniale quello che Oasis ha visto e sperimentato recentemente in Medio Oriente, visitando i campi profughi, ascoltando le testimonianze di chi, stando dentro la ferita della guerra, li aiuta e accompagna.
Anche il titolo di questo romanzo, I disorientati, aiuta a comprendere cosa c’è in gioco oggi. Da una parte, infatti, descrive in modo particolarmente aderente il profilo di chi si trova trapiantato in un altrove non scelto, imposto da circostanze storiche che investono le vite dei singoli in modo imprevedibile. Rimanda al volto di una delle tante donne incontrate in un campo nella Bekaa. Giovane di neanche trent’anni, il volto pallido incorniciato da un velo nero stretto, con i suoi bambini appesi alle braccia, una signora siriana esprimeva il dolore per la perdita del marito assassinato vicino a casa, ma ancor di più il vuoto per la sua vita sospesa, l’angoscia per un futuro incerto, per una vita sospesa nell’incertezza più totale: privata della possibilità di tornare indietro e di andare avanti. E dall’altra questa parola del titolo, “disorientati”, contiene in sé “oriente”. Come rilevato dallo stesso Maalouf, essa richiama chi ha perso il suo “Oriente”, o il suo personale sogno, e al tempo stesso l’idea di un Oriente che, perdendo i suoi “sognatori”, va smarrendo se stesso. Si svuota.
La suggestione che porge Maalouf ai suoi lettori sembra dire qualcosa anche all’Occidente e dell’Occidente. Ma per comprenderlo occorre tornare a Beirut. Qui, a inizio settembre, quando la situazione era molto tesa per la minaccia del bombardamento americano, il prof. Pascal Monin, dell’Université Saint Joseph spiegava che nulla fa più paura ai libanesi delle autobombe, perché colpiscono imprevedibili e vigliacche le vittime più innocenti in momenti ordinari, come i bambini sulla via verso la scuola. E, aggiungeva Monin, la vera bomba innescata oggi pronta a saltare non si sa bene dove è quella dei profughi: un milione sui quattro di popolazione (dati dello scorso settembre), diffusi in tutto il territorio, armati in alcuni casi, sicuramente arrabbiati, sono uno dei problemi rimossi dalle istituzioni, incastrati in logiche dei blocchi contrapposti delle varie forze politiche. In Libano si parla di un milione di persone, alle quali vanno aggiunte le centinaia di migliaia in Giordania, Turchia, Iraq, Egitto…
E in Europa? Qui si litiga su dove e come sistemare gli immigrati che arrivano dal Sud e dall’Est del mondo. Qualche giorno fa un giornale milanese pubblicava un titolo che diceva: A Milano non c’è più posto per i profughi siriani. Ma, avendo in mente i numeri mediorientali e l’immagine della distesa di Za’tari, il campo nel nord della Giordania, il secondo più popoloso del mondo con i suoi 150.000 ospiti, sorge immediata la domanda: quanti sono i profughi che giungono a Milano? Secondo alcuni dati registrati in Prefettura, i siriani che hanno chiesto asilo politico a Milano sono centoventi. Solo centoventi. Certo si tratta di numeri ufficiali, sappiamo che spesso non corrispondono alla realtà, ma il numero è esiguo se paragonato al movimento registrato tra Siria, Libano e Giordania. E Milano è Milano, una delle capitali europee.
Mons. Maroun Lahham, quand’era vescovo a Tunisi, nel 2011 aveva usato toni forti per dire all’Europa che era paradossale vedere la fatica che faceva ad accogliere poche migliaia di immigrati tunisini in cerca di cibo e lavoro, non delinquenti, quando la stessa Tunisia aveva fino ad allora accolto numerosi profughi libici potendo offrire molto di meno. «L’Europa si salva – aveva detto Mons. Lahham – finché è fedele alle sue origini cristiane. E uno dei valori cristiani più forti è la condivisione, la solidarietà. Apritevi allora al fratello che si trova in difficoltà, anche se diverso». Senza voler semplificare la questione molto complessa dei profughi né scivolare in facili buonismi, è indubitabile che questo tema ancora una volta sta smascherando il volto impagliato della vecchia Europa, per la quale può risultare vitale un paragone con l’esperienza che viene da Oriente.”