Tempo di Quaresima

Giorgio Vasari, Vegliardi dell’Apocalisse, 1572-74, Santa Maria del Fiore, Firenze

All’inizio di questo tempo di Quaresima ero fuori casa e lontano dal computer. Per cui recupero oggi, attraverso i consigli di lettura di Gianfranco Ravasi pubblicati ieri su Il Sole 24 Ore e che ho reperito sul sito del Cortile dei Gentili.

“In una società così secolarizzata la Quaresima è una parola ignorata e forse ignota, se non nello stereotipo «faccia da quaresima». Nella storia della cultura occidentale è stato, però, un tempo ricco di simbolismi e di pratiche spirituali: si pensi solo al digiuno, un segno carico di significati anche caritativi, tipico pure di altre fedi (ad esempio, il Kippur ebraico e il Ramadan musulmano), da non equivocare con la dieta che ne è solo una scimmiottatura “laica”. Ma il cuore di questo arco temporale di quaranta giorni che è iniziato mercoledì scorso col rito delle Ceneri – vero e proprio schiaffo alla superficialità vana e vacua contemporanea – è la tensione verso la Pasqua. Abbiamo, così, voluto infilare una collana di testi – tra i tanti apparsi in questo periodo – che si proiettano idealmente verso una meta “pasquale”.
È la meta suprema della storia, configurata nella risurrezione di Cristo, che è l’irruzione dell’eterno nel tempo, del divino nel creaturale, dell’infinito nel relativo. In questa prospettiva l’opera più alta, vero e proprio vessillo non solo religioso ma anche artistico, è l’Apocalisse. Nella sterminata letteratura che l’ha commentata, ricreata, attualizzata e persino deformata facciamo emergere un testo lasciato in eredità da uno dei maggiori studiosi di quest’opera, il gesuita italo-argentino Ugo Vanni, scomparso a Roma a 89 anni lo scorso 27 settembre. Un discepolo, Luca Pedroli, ha edito la lettura integrale condotta dal suo maestro su quelle pagine sacre, adatte certo a palati forti, ma aliene dall’eccitazione oracolare o dalla vena catastrofica alla Apocalypse now in cui sono state compresse. L’opera, sottoposta a varie ermeneutiche millenaristiche, apocalittiche, esoteriche, storiche, allegoriche e così via, è collocata da Vanni in un grembo ecclesiale liturgico nel quale s’intrecciano e interagiscono, attraverso l’efficacia del rito, storia ed escatologia, presenza e attesa, il realismo amaro della persecuzione e la scenografica luminosa della nuova Gerusalemme futura. L’imponente commento di Vanni, preceduto da un volume a parte con un’introduzione generale e col testo tradotto e accompagnato dal greco a fronte, è una straordinaria guida per varcare l’orizzonte letterario e teologico di quest’opera dalla quale non si può uscire indenni.
Accanto a questo monumento esegetico collochiamo il mini-libretto di Harry O. Maier dell’università di Vancouver che punta, invece, a disegnare uno schizzo sull’attualità dell’Apocalisse, codice interpretativo del “tempo presente” e del “senso della fine” (o piuttosto del fine) della storia. Lo studioso canadese s’interroga: «L’Apocalisse può darci qualcosa in cui sperare che non sia solamente una morte inevitabile raggiunta dopo tante delusioni e sofferenze?». E la sua è una vivace risposta positiva, piena di ammiccamenti a varie vicende odierne.
Ma lo sguardo su quell’“oltre” può essere ben più acuto e capace di perforare la trama globale della storia alla ricerca di un filo dinamico segreto in tensione verso un Oltre trascendente. È ciò che ha fatto una teologa tedesca dell’Eberhard-Karls-Universität di Tubinga, Johanna Rahner, classe 1962, che porta il cognome di uno dei maggiori teologi del secolo scorso, Karl Rahner. La sua s’intitola esplicitamente Introduzione all’escatologia cristiana: eppure non esita a varcare le frontiere minate dei territori misteriosi fatti balenare da questa disciplina teologica. Intendiamo alludere a quelle domande che spesso si archiviano perché generano vertigini o rigetti: che cos’è la risurrezione del corpo e dell’anima? Che valore ha la scenografia del giudizio finale? Che senso ha per l’uomo contemporaneo smaliziato far balenare immagini paradisiache o infernali? L’idea di una stasi purgatoriale oltre la morte è una mitologia arcaica o può essere ricondotta a una prospettiva concettuale coerente? La reincarnazione è compatibile con un’escatologia cristiana? E più brutalmente: esiste una legittima ermeneutica dell’immaginario cristiano sull’oltrevita così da riconoscerne o negarne l’esistenza? Queste e tante altre questioni affiorano in pagine terse e vivaci che non esitano a citare, accanto ai teologi e filosofi paludati, anche la Arendt e Benjamin, Brecht e Camus, Darwin e Foucault, Klee e Keplero-Copernico-Newton-Galilei e così via.
Rimane, comunque, una certezza: quegli orizzonti estremi, sempre rimossi, ritornano a galla e ci assillano, credenti e no, perché «dove si perde la capacità di sperare nel futuro, anche quello oltre la morte, alla fine si perde ciò che è propriamente umano». Anche in questo caso, a lato dell’architettura ideale sontuosa della Rahner, poniamo un mini-testo, scritto da un teologo raffinato come Rosino Gibellini che in poche pagine riesce a raccogliere il succo di un’insonne ricerca di molti, rubricandolo sotto il titolo modesto ma accattivante di Meditazione sulle realtà ultime. In realtà si tratta di una sintesi della ricerca sul tema dell’escatologia nella riflessione teologica del secolo scorso, che è simile a un delta molto ramificato di questioni e che ha coinvolto i maggiori pensatori. Essi si sono confrontati sulla dialettica tra morte e vita in Dio, sull’immortalità dell’anima e la risurrezione dei morti (categorie apparentemente alternative), sulla preghiera per i defunti, una prassi tradizionale nella cristianità e così via.

Certo è che affacciarsi sull’eterno e sull’infinito con la nostra attrezzatura gnoseologica ancorata a linguaggi e strutture spazio-temporali è un’impresa ardua. È ciò che anche l’ebraismo ha sperimentato attraverso vari sguardi. Uno di questi è la celebrazione del sabato, Un momento di eternità, come recita il titolo di un saggio di Benjamin Gross, della nota Università israeliana di Bar-Ilan, scomparso nel 2015. La filigrana di rimandi biblici e giudaici, molto attraente, regge una riflessione che scopre del sabato non solo la sua dimensione storica, familiare, sociale, liturgica, etica ma proprio il suo essere segno di pienezza. Non spazio temporale vuoto, ma spina nel fianco delle divagazioni e distrazioni della nostra cultura, così che l’occhio dell’anima si protenda verso il futuro escatologico.
È «un assaggio di eternità», come lo definiva Abraham J. Heschel nel suo famoso Il Sabato (ultima edizione presso Garzanti nel 1999), tentativo felice di mostrarne «il significato per l’uomo moderno». Concludiamo, allora, questa nostra carrellata libraria stando sulla porta della Quaresima, tempo “pasquale” germinale, con una testimonianza del fisico Giuliano Toraldo di Francia rilasciata anni fa durante un congresso su Teilhard de Chardin: «Sono un agnostico, ma leggendo le opere di questo gesuita scienziato capisco il suo tentativo di trovare un senso all’avventura del mondo e alla nostra vita. Se Dio è il nome di questo senso, anch’io posso pregare: In te, Domine, speravi».

Il tempo del digiuno

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Ieri, oltre che essere il giorno dopo martedì grasso, per i credenti cristiani era il mercoledì delle ceneri che ha dato inizio alla Quaresima. Enzo Bianchi, sul sito della Comunità di Bose, ha proposto questa riflessione che aiuta a comprendere il senso cristiano del digiuno.
Il mangiare appartiene al registro del desiderio, deborda la semplice funzione nutritiva per rivestire rilevanti connotazioni affettive e simboliche. L’uomo, in quanto uomo, non si nutre di solo cibo, ma di parole e gesti scambiati, di relazioni, di amore, cioè di tutto ciò che dà senso alla vita nutrita e sostentata dal cibo. Il mangiare del resto dovrebbe avvenire insieme, in una dimensione di convivialità, di scambio che invece, purtroppo e non a caso, sta a sua volta scomparendo in una società in cui il cibo è ridotto a carburante da assimilare il più sbrigativamente possibile.
Il digiuno svolge allora la fondamentale funzione di farci sapere qual è la nostra fame, di che cosa viviamo, di che cosa ci nutriamo e di ordinare i nostri appetiti intorno a ciò che è veramente centrale. E tuttavia sarebbe profondamente ingannevole pensare che il digiuno – nella varietà di forme e gradi che la tradizione cristiana ha sviluppato: digiuno totale, astinenza dalle carni, assunzione di cibi vegetali o soltanto di pane e acqua -, sia sostituibile con qualsiasi altra mortificazione o privazione. Il mangiare rinvia al primo modo di relazione del bambino con il mondo esterno: il bambino non si nutre solo del latte materno, ma inizialmente conosce l’indistinzione fra madre e cibo; quindi si nutre delle presenze che lo attorniano: egli “mangia”, introietta voci, odori, forme, visi, e così, pian piano, si edifica la sua personalità relazionale e affettiva. Questo significa che la valenza simbolica del digiuno è assolutamente peculiare e che esso non può trovare “equivalenti” in altre forme di rinuncia: gli esercizi ascetici non sono interscambiabili! Con il digiuno noi impariamo a conoscere e a moderare i nostri molteplici appetiti attraverso la moderazione di quello primordiale e vitale: la fame, e impariamo a disciplinare le nostre relazioni con gli altri, con la realtà esterna e con Dio, relazioni sempre tentate di voracità.
Il digiuno è ascesi del bisogno ed educazione del desiderio. Solo un cristianesimo insipido e stolto che si comprende sempre più come morale sociale può liquidare il digiuno come irrilevante e pensare che qualsiasi privazione di cose superflue (dunque non vitali come il mangiare) possa essergli sostituita: è questa una tendenza che dimentica lo spessore del corpo e il suo essere tempio dello Spirito santo. In verità il digiuno è la forma con cui il credente confessa la fede nel Signore con il suo stesso corpo, è antidoto alla riduzione intellettualistica della vita spirituale o alla sua confusione con lo psicologico.
Certamente, poiché il rischio di fare del digiuno un’opera meritoria, una performance ascetica è presente, la tradizione cristiana ricorda che esso deve avvenire nel segreto, nell’umiltà, con uno scopo preciso: la giustizia, la condivisione, l’amore per Dio e per il prossimo. Ecco perché la tradizione cristiana è molto equilibrata e sapiente su questo tema: “Il digiuno è inutile e anche dannoso per chi non ne conosce i caratteri e le condizioni” (Giovanni Crisostomo); “E’ meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli” (Abba Iperechio); “Se praticate l’ascesi di un regolare digiuno, non inorgoglitevi. Se per questo vi insuperbite, piuttosto mangiate carne, perché è meglio mangiare carne che gonfiarsi e vantarsi” (Isidoro il Presbitero).
Sì, noi siamo ciò che mangiamo, e il credente non vive di solo pane, ma soprattutto della Parola e del Pane eucaristici, della vita divina: una prassi personale ed ecclesiale di digiuno fa parte della sequela di Gesù che ha digiunato, è obbedienza al Signore che ha chiesto ai suoi discepoli la preghiera e il digiuno, è confessione di fede fatta con il corpo, è pedagogia che porta la totalità della persona all’adorazione di Dio.
In un tempo in cui il consumismo ottunde la capacità di discernere tra veri e falsi bisogni, in cui lo stesso digiuno e le terapie dietetiche divengono oggetto di business, in cui pratiche orientali di ascesi ripropongono il digiuno, e la quaresima è sbrigativamente letta come l’equivalente del ramadan musulmano, il cristiano ricordi il fondamento antropologico e la specificità cristiana del digiuno: esso è in relazione alla fede perché fonda la domanda: “Cristiano, di cosa nutri la tua vita?” e, nel contempo, pone un interrogativo lacerante: “Che ne hai fatto di tuo fratello che non ha cibo a sufficienza?”.”

La quaresima di Radio Deejay

quaresimaScrive Diego di Radio Deejay (!):
“bentornata tra noi! So che non sei abituata ad essere notata, ma quest’anno prometto di considerarti per quel che meriti, un’occasione per alzare l’asticella. Da oggi cominciano i quaranta giorni (che ricordano gli anni di esodo degli ebrei, nel deserto, e i giorni di digiuno e tentazione di Gesù, prima che iniziasse a predicare) che precedono la Pasqua. La festa più importante dei cristiani. No? Beh, così dovrebbe essere! Da oggi iniziano giorni in cui poter, se non seguire i precetti del digiuno ecclesiastico e dell’astinenza dalla carne il venerdì, quantomeno rimettere in discussione le nostre priorità. Provare a riempirci un po’ meno di cibo – e di cose materiali in genere – ad ascoltare ciò che abbiamo dentro. E magari scoprire che molte frustrazioni, tristezze e malesseri, ci vengono solo come conseguenza del nostro vivere in modo vorace, e che non abbiamo un tempo infinito per accumulare piacere sulla terra,e che presto o tardi si tornerà ad esser cenere (che dà il nome a questo speciale mercoledì) per cui vale la pena di pensare a chi aspetta le nostre scuse, un nostro sorriso, o un’attenzione che non abbiamo mai concesso. E imparare – come recita un antico libro, il Qoelet – che c’è un tempo giusto per ogni cosa, e vivere bene il tempo del digiuno, porta a godere il tempo della festa. E se viviamo bene il tempo presente , arriveremo pronti al nostro tempo per morire. Altrimenti tutta la nostra vita è inutile. E il tempo del ravvedimento, che c’è nell’ebraismo, nell’islam, e in tutte le pratiche religiose, è l’unico modo per cambiare in meglio, per far morire in noi le cose brutte e farne nascere di belle; per diventare uomini e donne nuovi. Che poi, per chi ci crede, si esprime con il termine risorgere.
Bentornata attesa!
Diego”

Una Resurrezione da vivere

Scrive Paolo Conti sul Corriere:

papa, benedetto xvi, dimissioni papa, chiesa, quaresima, concilio, resurrezione, martini“Esiste una possibile lettura delle dimissioni di Benedetto XVI legata al tempo liturgico e che può contenere un messaggio connesso alle parole del Papa sulla Chiesa con il «volto deturpato» dalle rivalità, dalle divisioni, dagli individualismi. L’addio del Pontefice al soglio pontificio sembra studiato con cura. L’annuncio pochi giorni prima della Quaresima, cioè il tempo non solo del digiuno, dell’espiazione, del lutto ma del profondo cambiamento: richiami perfetti per la crisi dell’universo ecclesiale denunciata da Benedetto XVI. Un Conclave quindi convocato in tale tempo, perciò maggiormente dedicato al silenzio e al mutamento, alla riflessione su quanto è accaduto nel cuore della Chiesa (ed è stato sottolineato da Ratzinger). Infine l’elezione di un nuovo Papa che, chiunque sarà, celebrerà una Pasqua di Resurrezione il 31 marzo che potrebbe davvero indicare al mondo una Chiesa «rinata» dopo i quaranta giorni di contrizione (un periodo che ricorre nella Bibbia: i quaranta giorni di Gesù nel deserto, di Mosè sul Sinai, del Diluvio universale, episodi di radicali metamorfosi). Dice per esempio il sacerdote missionario dehoniano Fernando Armellini, biblista che ha insegnato a lungo in Africa e ha quindi il polso della «Chiesa lontana» (almeno nella percezione dell’Europa): «È una lettura certamente vicina alle istanze di quella Chiesa cattolica più vicina e attenta alla Parola di Dio, più matura e consapevole, che magari segue i corsi biblici e la lectio divina». Cosa chiede questa base cattolica? «Sicuramente l’urgenza di un rinnovamento, di una rinascita della Chiesa. Proprio Benedetto XVI ha avuto parole dure sulla realtà ecclesiale e sugli scandali che la attraversano. Quindi la lettura delle dimissioni del Papa collegate alla Quaresima e alla successiva idea di Resurrezione credo sia in sintonia con la necessità dei fedeli di un autentico cambiamento, di una Chiesa più autenticamente evangelica». Questa «Resurrezione» della Chiesa con il nuovo Papa in quale linea si dovrebbe collocare? «Direi sulla linea del cardinal Carlo Maria Martini che avvertiva profondamente la necessità della rigenerazione della struttura ecclesiale che, agli occhi del mondo dei fedeli, appare ormai troppo pesante, troppo ancora medioevale nei paludamenti, in certe liturgie pompose che offuscano la semplicità di quanto avvenne nell’Ultima Cena. C’è un grande e diffuso desiderio di ritorno all’essenziale, a ciò che il Maestro consegnò ai suoi discepoli, al suo amore per il mondo e soprattutto per gli ultimi».

Aggiunge don Felice Accrocca, docente alla facoltà di Storia ecclesiastica della Pontificia Università Gregoriana: «Vivere un Conclave nel tempo della Quaresima significa certamente avere ben chiare tre dimensioni. Cioè la carità, la conversione e la preghiera. Richiami forti dopo il riferimento di Benedetto XVI alle divisioni nella Chiesa». Conclude Gianni Gennari, teologo e scrittore, sacerdote fino all’aprile 1984 quando si sposò col rito cattolico grazie alla dispensa di Giovanni Paolo II sollecitata proprio da Joseph Ratzinger («mi sento un prete romano emerito»): «Seguendo una simile ipotesi mi viene da dire che la Resurrezione col nuovo Papa dovrebbe avvenire nel segno che proprio Benedetto XVI ci ha indicato durante l’udienza di ieri al Clero Romano». A cosa si riferisce in particolare? «All’attualità estrema del Concilio Vaticano II, richiamata da Ratzinger. ” Tantum aurora est “, disse Giovanni XXIII, è appena l’aurora. Per applicare gli insegnamenti di un Concilio occorre tempo». Il legame tra l’addio di Benedetto XVI alla Quaresima affidando la Pasqua al nuovo Papa? «Altamente simbolico. Benedetto sa di essere riuscito a realizzare la collegialità “affettiva”. Quella “effettiva” è lontana, troppo spesso la Curia romana pensa di poter decidere tutto da sola senza nemmeno coinvolgere il Papa. Ecco perché la Chiesa ha il “volto deturpato”. Ora è tempo di risorgere, di costruire la Chiesa collegiale e fraterna, aperta al dialogo».”

Dentro la Quaresima

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Scrive Giorgio Bernardelli su Vinonuovo:

“Andiamo avanti a parlarne. Sì, abbiamo assolutamente bisogno di continuare a parlare delle dimissioni di Benedetto XVI. Però – vi prego – almeno stavolta non buttiamola (come invece stiamo già facendo) sulle solite domande: ha fatto bene o ha fatto male? O addirittura: di chi è la colpa? Chi lo ha lasciato solo? E non fermiamoci neppure ai sentimentalismi: tu sei più o meno dispiaciuto di me? Se abbiamo capito qualcosa di questi quasi otto anni in cui Benedetto XVI ha servito la Chiesa come successore di Pietro, dovremmo almeno coltivare il desiderio di guardare come lui la storia con gli occhi della fede. Cioè con quello stesso sguardo che – come ci ricorda bene padre Lombardi – Joseph Ratzinger da Papa continuerà ad additarci fino al 28 febbraio. E allora la domanda per il cristiano oggi può essere una sola: in che modo il Signore ci parla attraverso questo gesto? La domanda è evidentemente molto grande e credo che la prima cosa sia custodirla nel cuore: questo è un passaggio che non possiamo avere la pretesa di incasellare subito con i nostri ragionamenti. Anche la vita della Chiesa ci parla di Dio e allora questo deve essere prima di tutto un tempo in cui porsi in ascolto. Ad esempio credo che potrebbe essere molto utile riprendere in mano in questi giorni quei brani del Vangelo che ci raccontano di come i discepoli molto spesso non capivano quanto stava facendo il Maestro. Questa è la situazione normale del cristiano; mi fanno sempre molta paura quanti anche di fronte ai gesti più grandi e più densi di novità non si sentono almeno un po’ tremare le gambe.

Fatta questa premessa – ma cercando di rimanere su questa stessa lunghezza d’onda – provo a balbettare un paio di idee. E la prima è legata alla giornata di oggi, il mercoledì delle Ceneri. Lo sottolineava bene già ieri Luca Bortoli, ma voglio esplicitarlo ancora di più: se provo a guardare con gli occhi della fede l’annuncio del Papa il primo aspetto che mi colpisce è il fatto che questo tempo di passaggio per la Chiesa avverrà tutto dentro il tempo forte della Quaresima. Credo che questo sia già di per sé un segno importante (e oso credere che Benedetto XVI ci abbia pensato). Un successore di Pietro si ritira per dedicare l’ultimo tratto della sua vita alla riflessione e alla preghiera proprio nel tempo durante il quale queste due dimensioni della vita cristiana ci vengono poste davanti come la strada maestra per l’incontro con il Signore Risorto. È come se oggi stessimo cominciando una Quaresima speciale. Perché stavolta – anche quando sarà finita – nel silenzio di un monastero in Vaticano sarà rimasto qualcuno ad accompagnarci e a ricordarci che quel passo in avanti, quel cambiamento che è chiesto alla nostra vita, non può subito spegnersi aspettando comodamente i buoni propositi della Pasqua successiva. È la Quaresima del primato della vita spirituale rispetto a tutto il resto, di Maria che rispetto a Marta sceglie la parte migliore che non le sarà tolta. Tra i miei ricordi professionali più belli c’è la sera dell’elezione di papa Ratzinger: la chiave di lettura che personalmente scelsi fu partire non dal Ratzinger teologo o dai suoi vent’anni in Vaticano, ma dal nome di Benedetto. Nome sorprendente – scrissi allora – ma soprattutto programmatico su quale fosse il tipo di risposta alla crisi della fede che il nuovo Papa aveva in mente. Ecco: credo che a quel nome dobbiamo tornare anche oggi. È un successore di Pietro che ha scelto di chiamarsi Benedetto quello che – non sentendosi più nelle condizioni per dare il massimo nel labora – sceglie di concentrarsi sull’ora. Nessuna fuga, nessun abbandono.

Questo riguardo a Joseph Ratzinger. Ma permettetemi di aggiungere un’ultima idea: anche il Conclave nel cuore della Quaresima a me pare un segno grande. Dopo la stagione ecclesiale che abbiamo vissuto, dopo gli scandali, i dossier sulla Curia e Vatileaks, che cosa meglio del cammino verso la Pasqua può aiutare i cardinali a ritrovare l’unico centro che può permettere di vivere in profondità questo momento? Perché – al di là dei racconti giornalistici – un conclave non è solo la scelta di un nome; è un momento in cui la Chiesa si guarda allo specchio, verifica il suo cammino. Ed è necessariamente anche un tempo di conversione, dal momento che da duemila anni sappiamo quanto grande sia – sempre – la distanza tra ciò che siamo e la fedeltà al Vangelo di Gesù. Certo, oggi non c’è più l’austerità delle cellette di appena qualche decennio fa, ma il Conclave resta comunque un tempo di grande sobrietà per chi vi partecipa. Non è che forse è proprio questo ciò di cui la Chiesa oggi aveva più bisogno?”

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