Tra Halal e Haram

Riporto l’articolo “Halal d’Europa. Definizioni teologiche e rappresentazioni sociali” di Khalid Rhazzali, preso da Reset.

halalIl termine Halal ha oramai acquisito una certa diffusione anche nei media italiani e comincia a figurare nelle conversazioni quotidiane anche dei non musulmani. In questo uso corrente la nozione collegata al lemma sembra prevalentemente evocare un islam fatto di obblighi e di divieti, perentori e indiscutibili, che dettano agli adepti di questa religione norme di comportamento soprattutto di carattere alimentare. Insomma, per i più, Halal è ciò che i musulmani possono bere e mangiare senza trasgredire i loro precetti. In qualche misura gli italiani hanno cominciato a dare per acquisite queste consuetudini a maggior ragione perché le “zone di contatto” culturale (Hermans, Kempen 1998) si vanno moltiplicando e perché, aspetto a cui oggi si tende a dar un’importanza legittima, ma che oscura probabilmente la complessità di quanto si lega al rapporto dei musulmani con i loro precetti, i musulmani costituiscono un significativo segmento del mercato interno, nonché in prospettiva una vasta “prateria” per le esportazioni del made in Italy (Rhazzali 2014).
In realtà, il termine Halal fa parte di un sistema lessicale e concettuale complesso e nella sua configurazione più autentica e articolata particolarmente raffinato. L’opposizione tra Halal (lecito) e Haram (illecito) istituisce uno spazio ampio all’interno del quale si situano molti termini intermedi, come ad esempio Makruh (sconsigliabile) e Mubah (ammissibile), che consentono di inquadrare i vari comportamenti rispetto alla loro propensione a contribuire positivamente o negativamente alla relazione di un complessivo ordine fisico e spirituale nel singolo come nella comunità. Al di là dell’aspetto che si è soliti registrare, quello del divieto, che bandisce alcuni tipi di carne o di bevande, questo sistema di precetti trova la sua dimensione più propria in una prospettiva teologica nella quale il credente è chiamato a elaborare modalità attraverso le quali fare il miglior uso di sé nella prospettiva di una più attiva e riuscita adesione alla volontà divina.
Va precisato che contrariamente a quanto spesso si ritiene, l’islam, la pace e la sottomissione ad Allah, non ha nulla a che fare con una mortificante soggezione a un Dio punitore, esso piuttosto intende favorire la piena adesione dell’uomo alla generosità creatrice di un Dio che innanzitutto è Rahman (misericordioso) e Rahim (clemente) (Rhazzali, 2010). Di conseguenza, più ancora che a impedire materialmente determinati consumi, la norma punta a impegnare il credente in un esercizio di organizzazione orientata verso l’alto dei propri istinti e in generale della soddisfazione dei propri bisogni. La repressione in sé stessa non è un valore, mentre essenziale è la capacità di porsi limiti e di renderne moralmente fruttuoso il rispetto favorendo un insieme di pratiche virtuose. Certamente nella storia dell’islam e in molti contesti della sua realtà attuale non sono mancate versioni esasperatamente rigoriste che hanno dato dell’islam in generale un’immagine ascetica e addirittura guerriera alla quale esso non può però in alcun modo venire ridotto, cosa che risulta tanto più evidente, quanto più le comunità musulmane sappiano adeguatamente dar peso all’approfondimento della ricchezza della proposta teologica e del respiro spirituale del Corano e delle tradizioni di pensiero ad esso ispirate.
Questa prospettiva diviene più evidente ancora quando si consideri un momento essenziale per l’islamhalal2 quale il Ramadan, dove la regolazione del rapporto con il cibo diviene un tratto decisivo di questo Rokn (pilastro). Il Ramadan è il mese del calendario lunare destinato alla purificazione, finalità alla quale si riferisce la indubbiamente impegnativa prescrizione che vuole non si assuma né cibo, né bevande dal sorgere dell’alba all’avvenuto tramonto. Significativamente, questo arco temporale nonostante la gravosità dell’impegno viene vissuto nel mondo islamico come un periodo non privo di aspetti gioiosi. Dopo il tramonto, poi alla fine dell’intero mese, si apre un tempo di festa in cui la socialità tocca i suoi momenti più intensi e in cui anche l’elaborazione gastronomica del cibo si sviluppa con particolare vigore. Il Ramadan infatti va concepito in rapporto a un insieme di equilibri che si estende all’intero anno e al corso complessivo della vita. Esso costituisce una periodica intensificazione della dimensione religiosa dell’esistente e come tale esalta sia lo sforzo nell’aderire alla volontà divina, sia la gioia che premia l’ordine che così si realizza. Proprio un’osservazione più attenta del profilo teologico, e delle concrete pratiche del Ramadan, potrebbe dimostrare quanto di equivoco operi in una visione cupa dell’islam e delle sue prescrizioni in particolare. Va sottolineato come il Corano non proponga né precetti alimentari in genere, né digiuni durante il Ramadan, come pura somministrazione di una sofferenza. Non vi è in altri termini disprezzo del corpo, quanto l’intenzione di procurare una “vera” salute. Il Corano è particolarmente attento nel prevedere una serie di eccezioni che intervengano a impedire che il rispetto delle norme sconfini in un danno fisico o morale grave (si pensi alla previsione di deroghe dagli obblighi per i viaggiatori, i malati, le gestanti, i bambini e la sospensione dei divieti nei confronti di cibi e bevande considerate Haram quando circostanze d’emergenza giustifichino il ricorso ad essi).
La moderazione nel ricorrere al cibo che può giungere sino al digiuno prolungato non presuppone alcun disprezzo né del cibo, né del corpo. Attraverso una condotta corretta e, meglio ancora, sapiente, il rapporto con il cibo materiale diviene accesso a un cibo spirituale, come risulta ancora più evidente dalla relazione che si instaura tra cibo assunto nel rispetto delle norme e la dimensione sociale. Paradossalmente i divieti e gli obblighi finiscono per agire, come per altro avviene in altre religioni (si pensi al grande apporto dato dalla cucina conventuale alle tradizioni gastronomiche dell’Europa cristiana o al rapporto tra feste e invenzioni culinarie nell’evoluzione della cucina ebraica), come stimolo all’elaborazione gastronomica, all’arricchimento dei significati culturali dell’alimentazione.
In uno scenario come quello della diaspora islamica in Europa (Saint-Blancat, 1995), e in Italia in particolare, questa complessità di motivi religiosi e culturali spesso sembra eclissarsi e il confronto interculturale con i contesti d’accoglienza che pure potrebbe giovarsene largamente, finisce per registrare aspetti più esteriori e semplificati. Ciò avviene non solo nello sguardo tra il diffidente, il curioso e, a volte, lo schiettamente amichevole degli europei, ma nella stessa relazione che in molti casi i musulmani intrattengono con la propria religione, di cui percepiscono talvolta più gli aspetti riducibili a comportamento esteriore che la vastità dell’esperienza spirituale a essa collegata. Non si può in proposito tacere che nelle politiche pubbliche italiane ed europee sovente la gestione della diversità religiosa e culturale è stata orientata a favorire forme di riduttiva caratterizzazione identitaria, dove il riconoscimento delle concrete fisionomie culturali e della loro intensa evoluzione nello spazio europeo rischia di risolversi in un generico multiculturalismo. Non a caso l’oscillazione tra resistenza e accoglienza da parte dei contesti sociali e istituzionali ospitanti ha trovato nel rapporto con le tradizioni alimentari islamiche uno dei più espliciti banchi di prova, dal riconoscimento o meno del diritto dei musulmani a vedere prese in considerazione le loro esigenze alimentari nelle strutture pubbliche, alla diffusione non sempre incontrastata dell’imprenditoria gastronomica dei musulmani (Saint-Blancat, Rhazzali, Bevilacqua, 2008) degradata spesso a puro business etnico, sino all’interesse crescente per un’elaborazione normativa volta a fare dell’halal qualcosa di più simile a un brand che a un principio morale (Bergeaud-Blackler, Bruno, 2010) . Eppure la gastronomia proposta dai vari filoni delle tradizioni musulmane sta incontrando un interesse tenace e da parte non soltanto dei musulmani d’Europa sino a proporsi come una parte ormai ampiamente accettata del nostro comune paesaggio alimentare.
Forse al di là delle retoriche politiche che sovente e incredibilmente hanno fatto degli usi alimentari musulmani il nucleo di aggressive costruzioni sociali e al di là anche della gestione solo affaristica dell’Halal come occasione per dare respiro all’impresa alimentare, si va configurando un’esperienza diffusa e interculturale del gusto da cui si potrebbe ripartire per recuperare accanto ai segni che essa lascia nell’ordine materiale, anche la ricchezza e la varietà di una filigrana culturale cresciuta nel tempo con l’osmosi costante tra il cibo del corpo e il cibo dell’anima.”

Gemme n° 161

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“Ho portato come gemma una citazione dal film Vita di Pi. Un padre spiega al figlio cosa sia credere e non credere «…perché voler credere in tutto allo stesso momento corrisponde esattamente a non credere in niente. […] Ascoltami, invece di saltellare continuamente da una religione all’altra perché non cominci con la ragione? In poche centinaia di anni la scienza ci ha fatto capire l’Universo più di quanto la religione non abbia fatto in diecimila anni. […] Sì, alcuni mangiano carne, altri mangiano verdure, non mi aspetto che tutti concordino su tutto ma preferisco che tu creda in qualcosa con cui io non concordo piuttosto che accettare tutto ciecamente, e questo, comincia col pensare razionalmente…»”. Questa citazione è stata la gemma di E. (classe seconda). La accompagno con una citazione del fisico tedesco Max Planck: “Solamente quando ci sentiamo sotto i piedi il saldo terreno dell’esperienza della vita reale ci è lecito darci senza timore ad una concezione del mondo fondata sulla fede in un ordine razionale dell’universo”.

Tra divinità e matite

Pubblico l’articolo di Matteo Andriola che abbiamo letto in quinta stamattina. Una riflessione molto interessante sfiorando Nietzsche, Kierkegaard e Marx, tra storia e filosofia.

Nessun dio può odiare una matita.

matite_ruota1Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, probabilmente non esagero ritenendo la satira lo specchio della libertà di un Paese. Tristemente attuale, il dibattito relativo agli eventuali limiti che essa dovrebbe imporsi tiene banco in maniera piuttosto vigorosa. La presenza di un limite negherebbe il concetto stesso di satira, questo è vero, ma ciò che spesso, troppo spesso, viene sottovalutato è il fatto che non sia possibile né corretto fare i conti esclusivamente con il livello di tolleranza del proprio Paese o della propria confessione, facendone l’unico termine di paragone. La recente tragedia cui abbiamo assistito impotenti, altro non è se non l’ennesima dimostrazione di quanto la vita sia oramai subordinata ad interessi differenti, un valore non più inalienabile e imprescindibile, quanto piuttosto una merce di scambio da utilizzare in una guerra destinata a concludersi senza vincitori né vinti. Le vittime del terribile attentato al periodico Charlie Hebdo pagano un dazio infinitamente salato, capri espiatori di una situazione di esacerbata intolleranza che li ha visti diventare un subdolo e abietto pretesto nelle mani di un fanatismo sempre più becero e ingiustificabile.

In situazioni come questa, la banalizzazione e la generalizzazione sono i nemici più ostici da fronteggiare, e l’ignoranza induce sempre più di frequente a ritenere che il colpevole di un gesto tanto efferato quanto vigliacco non sia il singolo in quanto tale, ma piuttosto ciò che esso rappresenta.

La Storia è però una maestra troppo autorevole e competente quando si tratta di fornire un insegnamento, e con il consueto rigore didattico ci ricorda come la religione, anche quella cristiana, abbia mietuto vittime con clamorosa regolarità nel corso dei secoli. Gli esempi sono troppi e sarebbe impossibile riportarli tutti in questa sede, ma pescando in un passato neanche troppo lontano, credo che alle popolazioni centroamericane massacrate dai conquistadores, i cattolici Cortes e Pizarro non dovessero apparire molto diversi da come appaiono oggi coloro che si rendono colpevoli di ingiustificabili barbarie in nome di un profeta che non può neppure essere raffigurato. Gli spagnoli tuttavia, e non è un mistero, non avrebbero neppure levato un’ancora se nel nuovo mondo non vi fosse stata l’opportunità di allungare le mani su enormi quantitativi d’oro, né i crociati dal canto loro avrebbero preso la strada di Gerusalemme se a Roma non avessero intravisto in questi pellegrinaggi armati la possibilità di un lauto guadagno. La religione, oggi come allora, a conti fatti, risulta il pretesto più valido e facilmente vendibile, in grado di rendere accettabile anche ciò che razionalmente non potrebbe mai esserlo. Il ricordo dell’attentato alle torri gemelle o le sconvolgenti immagini delle decapitazioni dell’ISIS sono ancora davanti agli occhi di tutti, e per quanto mi sforzi di trovare un senso a tutto ciò che da sempre accade, concludo sempre la mia ricerca a mani vuote. Tutti agiscono in nome di un dio, qualunque sia, caritatevole e misericordioso, ma per soddisfare le sue richieste, travisando e maneggiando ad arte il suo messaggio, ricorrono al contraddittorio strumento della violenza. Il superamento di Dio auspicato da Nietzsche, in questo senso, prescindendo dalla posizione religiosa di ciascuno, responsabilizzerebbe l’individuo, ponendolo di fronte a se stesso senza condizioni, privandolo di uno strumento che, snaturandosi, troppo spesso si tramuta in pretesto. Non è oggetto dell’intervento l’opportunità di credere o meno, ma partendo dal presupposto di scegliere la strada della Fede, qualunque essa sia, non si potrà fare a meno di constatare come nessun dio possa pretendere il sacrificio del sangue, di cui è invece perennemente assetato soltanto l’uomo, capace di perpetrare orribili violenze in nome di un credo, senza voler ammettere che il reale problema risieda in realtà nell’innata inclinazione dell’individuo a non accettare l’altro poiché ritenuto diverso, e di conseguenza inferiore. L’impressionante manifestazione di solidarietà tenutasi a Parigi dovrebbe configurarsi non come una manifestazione anti islamica, quanto piuttosto come una presa di posizione contro una situazione insostenibile in cui sono sempre gli innocenti a fare le spese di un disegno perverso in cui potere e interessi scavalcano con inconcepibile noncuranza il valore di quella vita che ogni uomo dovrebbe amare più di qualunque altra cosa, sia che creda sia che non creda. Come accennato, non mi preme in questa sede entrare in merito alla questione della Fede, poiché credo di non aver titolo se non per sostenere la mia intima posizione al riguardo; quello della Fede è un argomento delicato, la cui verità, come sosteneva Kierkegaard, è un discorso del singolo, suo e soltanto suo. Da qualunque angolazione la si osservi però, la violenza come strumento religioso risulta una contraddizione nei termini, e un mondo che si professa civile e moralmente evoluto, non può fare a meno in nessun caso di poggiare sulle solide fondamenta della tolleranza, in cui il rispetto della vita altrui è e sarà sempre il viatico migliore per raggiungere il rispetto di se stessi. In un Paese laico e democratico, la scelta religiosa rappresenta uno straordinario esempio di libertà che tutti dovrebbero proteggere gelosamente, ma la società ha sprecato troppo spesso l’occasione per riscattarsi e temo se la lascerà sfuggire anche questa volta, calpestando il prossimo e il diritto di espressione, preferendo mantenere in vita una tensione sempre più pericolosa e retrograda. Nel riscontrare il potenziale ottenebrante della religione, Marx colse nel segno definendola “oppio dei popoli”, e mai come oggi tale espressione risulta di sconvolgente attualità. Non mi illudo che la situazione possa cambiare, poiché non riconosco al genere umano la preziosa dote della tolleranza, ma sono certo di non sbagliare sostenendo che nessun dio, qualora dovesse esistere, possa accettare che un suo figlio muoia a causa di un disegno, a causa di una matita. Per quanto io mi possa sforzare, non intravedo nulla di religioso in ciò che sta accadendo, né riuscirò mai a convincermi del fatto che un dio possa pretendere ciò che la Storia ha voluto e vuole farci credere che pretenda.

L’Illuminismo ci ha lasciato in eredità molte teorizzazioni, ma il suo merito più grande è stato quello di rifiutare l’accettazione passiva di convinzioni secolari, e nessun filosofo del tempo potrebbe sentirsi offeso per il fatto che, per l’occasione, io scelga di rispolverare Voltaire, che sarebbe sicuramente sceso in piazza per manifestare la propria solidarietà alle vittime della tragedia parigina e che, senza remore né timori di sorta, avrebbe certamente ripetuto, gridandola a squarciagola, una delle più note affermazioni a lui attribuite: “Non sono d’accordo con te, ma darei la vita per consentirti di esprimere le tue idee”.”

Su Parigi 2

Pubblico in pdf ancora alcuni articoli che ho trovato navigando in rete in questi giorni: sono molto vari, spesso in contraddizione tra loro (basta vederne la provenienza). Il tutto per continuare ad alimentare e approfondire la discussione affrontata in classe.

Le colpe dell’Islam e le nostre – La Stampa
La globalità del nuovo islamismo – La Stampa
Io non sono Charlie – La Stampa
Pensiero critico per andare contro gli estremismi – La Stampa
La vera satira non può limitarsi – La Stampa
Ma c’è un confine che va rispettato La Stampa
Come evitare lo scontro di civiltà dopo la strage di Parigi -Limes
Ma Islam vuol dire pace _ Vito Mancuso
La deriva violenta della umma coranica nel mondo – Il Foglio
Un calcio all’estremismo – Il Sole 24 ORE
Ecco come Al-Qaeda ha addestrato e globalizzato la jihad dallo Yemen – Il Sole 24 ORE
Chi dà la colpa all’Islam aiuta i terroristi – L’Espresso
Io sono Charlie (e stupida). Ho sbagliato_ è scontro di civiltà – Il Giornale
Da al Qaida allo Stato Islamico, ovvero_ il jihad dall’élite al popolo – Limes

Su Parigi

Pubblico in pdf alcuni articoli che ho trovato navigando in rete stamattina, tenendomi ben lontano dalle dichiarazioni degli esponenti politici e dagli scontri di social network e talkshow.

Attacco di Parigi, colpita la libertà di espressione – Avvenire
Condanna senza remore dagli islamici moderati – Avvenire
Il cuore dell’occidente – Repubblica
L’anima e la ragione – Il Sole 24 ORE
Noi Europei – L’Espresso
Noi musulmani dobbiamo reagire – Corriere
Non siamo come loro, è la nostra forza – La Stampa
Quelle voci lasciate sole anche da noi
Un attacco allo stile di vita fondato sulla tolleranza – Il Sole 24 ORE
Appello Organizzazioni Musulmane francesi – Internazionale
Una Guerra ai nostri Valori – La Stampa

Un bellissimo libro

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Aggiungo ai libri letti quest’estate “Habibi” di Craig Thompson, consigliatomi e imprestatomi da una collega. Andrò a comprarlo: uno dei più bei fumetti che abbia mai letto, un capolavoro assoluto! Splendidi disegni, ricchissimo racconto (oltre 650 facciate). L’ho iniziato stamattina e non sono riuscito a smettere; ho interrotto malvolentieri la lettura per prepararmi il pranzo. Vi sono contenuti riferimenti a racconti spirituali e mitologici delle tradizioni monoteiste, coranica e biblica, a filosofi, alla calligrafia, all’etimologia e alla semantica, all’ecologia e all’inquinamento, al problema della risorsa dell’acqua, alla numerologia, alla simbologia. Fantasia enorme e splendida creatività!

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Il seme nella pagoda

Kha Khat

Massimo Morello è un giornalista che vive a Bangkok. Stamattina ho letto un suo interessante articolo su Studio.
«Non credo in Dio. Il Buddha è un Maestro. L’uomo non deve pregare, deve seguire la via» dice Phra, il Venerabile, Phitoo. «Dio non esiste. Se esistesse dovrebbe essere buono. Quindi non ci sarebbe il male» dice Ashin, il Maestro, Kelasa. Entrambi sono monaci della foresta, di quelli che in Thailandia, Laos o Birmania, là dove è più forte l’ortodossia della scuola Theravada, si dedicano alla meditazione in luoghi isolati. Il primo in un villaggio nell’estremo nord-est della Thailandia, verso il confine col Laos. Il secondo in un luogo ancor più remoto, tra i monti dello Shan meridionale, in Birmania.
Incontri non casuali. «Se vuoi capire vieni nel mio posto» aveva detto Phra Phitoo nel nostro incontro al Wat Mahadhatu di Bangkok, un tempio che ospita la più importante università buddhista thai.
«Nulla è impossibile per chi vuole comprendere davvero» aveva detto Ashin Kelasa, quando l’avevo incontrato a Mandalay, dopo avermi dato poche, scarne indicazioni per raggiungerlo nel suo eremo.
Quel che volevo capire era il cosiddetto “integralismo buddhista”. Credevo nella magia del buddhismo. I suoi valori di compassione, nel senso di empatia, comprensione, rispetto, mi apparivano antitetici con le “Milizie degli Illuminati” che in tutto il sud-est asiatico cercano di trasformare il Dharma, la legge morale, in legge dello Stato, dottrina politica. Un fenomeno che in Birmania si è manifestato con le esplosioni d’intolleranza e violenza nei confronti della minoranza musulmana (circa il 5% su una popolazione di 60 milioni): nell’ultimo anno si sono susseguiti veri e propri pogrom anti-islamici, con oltre 250 morti e circa 150.000 persone rimaste senza casa.
Un “terrore buddhista”, come strillato nella copertina di Time del 1° luglio, che ha il volto di un monaco: Wiseitta Biwuntha, noto come Ashin Wirathu, leader del movimento 969, che si richiama ai 9 attributi del Buddha, i sei del suo insegnamento e ai nove del “Sangha”, la comunità dei fedeli. In un paese, come tutti gli altri dell’area, ossessionato dalla numerologia, 969 è divenuto il simbolo della difesa del “savanna”. Questo termine pali, che ingloba la comunità buddhista e l’essenza stessa dell’insegnamento del Buddha, da oltre due millenni giustifica ogni deviazione dall’insegnamento stesso.
«Quando lasci che il seme di un albero metta radici in una pagoda, all’inizio ti sembra piccolo. Ma sai che dovrai tagliarlo prima che cresca troppo e distrugga l’edificio» ha detto Ashin Wirathu, secondo cui i musulmani minacciano l’identità birmana.
«I monaci non devono occuparsi di politica» commenta infastidito Phra Phitoo, quando gli chiedo un commento. Secondo quel tranquillo monaco della foresta thailandese, l’importante è concentrarsi su se stessi. Ma alla fine anche lui si lascia andare a qualche valutazione teologica. «Il cristianesimo è avido e l’induismo stupido». Peggio di tutte è l’Islam. «È una religione cattiva: uccidi e vai in paradiso». Con minor virulenza è lo stesso giudizio di Ashin Wirathu. «I musulmani sono fondamentalmente cattivi. Maometto gli permette di uccidere qualsiasi creatura» ha dichiarato.
Ashin Kelasa predica invece la tolleranza. «Giudicate le persone, non la loro religione» predica di fronte a circa duecento seguaci birmani nel ritiro di meditazione al termine del Thingyan, il capodanno lunare. Un invito al dialogo tanto più importante perché avviene poco tempo dopo gli scontri tra buddhisti e musulmani avvenuti proprio in quella regione. In privato, però, anche questo ex professore di matematica, autore di un saggio su Buddhismo e Democrazia, manifesta insofferenza nei confronti dei musulmani. «Il problema è che con loro non è possibile il dialogo. Giudicano gli altri ma non accettano di mettersi in discussione». Per quanto riguarda l’estremismo dei monaci che incitano alla violenza si limita a negarlo con un sofisma. «Non ci sono monaci violenti. Se sono violenti non sono monaci».
Seguire i monaci della foresta, alla fine, non è servito a comprendere le ragioni delle derive integraliste del buddhismo. Anzi, il sonno della meditazione ha generato nuovi dubbi, incubi. «Osservali e falli passare» mi tranquillizza Ashin Kelasa. «Il senso del buddhismo nessuno può dartelo, devi conquistarlo».
Aveva capito tutto John Burdett, ex avvocato inglese che scrive romanzi gialli ambientati in Thailandia. «Questo è uno dei grandi vantaggi del buddhismo, amico mio: non è focalizzato sui risultati. Non c’è alcun modo in cui tu possa influire sul destino degli altri, ma solo sul tuo» mi aveva detto.
Forse è proprio in questo senso del dubbio e della ricerca individuale, sottinteso a tutta la cultura buddhista – almeno nel Theravada – che si possono cogliere i motivi inconsci di contrasto con l’Islam. «È la paura che genera violenza» dice Ajarn Sulak Sivaraksa, filosofo buddhista thai, uno dei padri fondatori del Network of Engaged Buddhists, organizzazione nota per l’impegno sociale e l’apertura al dialogo inter-religioso. La paura, a sua volta, è generata dal confronto con una religione così di piena di certezze, gerarchica come quella musulmana.
Più si osservano i propri dubbi, più si comprende che il problema dell’integralismo buddhista è ben più complesso di quanto appaia nell’ottica occidentale e monoteista, con i suoi criteri di giudizio tanto netti e “corretti”.
In Birmania, inoltre, il movimento sta diffondendosi proprio per le aperture democratiche del governo. La diffusione di Internet, la “libertà” di stampa, stanno dando voce a vecchie tensioni inter-etniche alimentate all’epoca della colonizzazione britannica in nome del divide et impera. Il regime militare che ha dominato il paese sino a tre anni fa riusciva a sedarle con un controllo feroce. Tanto che nel 2003 lo stesso Ashin Wirathu era stato incarcerato per istigazione alla violenza anti-musulmana, ed è stato liberato solo nel 2012 con altre centinaia di prigionieri politici. La nuova aria di libertà che si avverte non appena si mette piede in Birmania, inoltre, ha innescato un fenomeno psicosociale: la rabbia repressa in decenni di dittatura cerca sfogo in qualsiasi direzione.
Le analisi di alcuni commentatori occidentali secondo cui gli scontri inter-religiosi rappresentano il vero volto di un governo pseudo-democratico sono basate su una vera e propria forma di miopia geopolitica. Al contrario, come ha scritto Joshua Kurlantzick, analista del Council of Foreign Relations di Washington, “mettono a serio rischio il processo di riforme avviato dal presidente Thein Sein”.
È quest’ottica che va giudicato l’atteggiamento di Aung San Suu Kyi, accusata dalle anime belle dell’Occidente di aver “tradito” la causa per la quale ha trascorso vent’anni agli arresti e rischiato la vita. La Signora, non avrebbe condannato con sufficiente durezza le violenze contro la minoranza musulmana. In particolare Aung San Suu Kyi è giudicata colpevole di “silenzio” riguardo l’ennesima persecuzione contro i Rohingya, minoranza musulmana stanziata nel Rakhine, la regione birmana affacciata sul Golfo del Bengala.
Anche in questo caso, osservando da lontano, si sono create parecchie confusioni. A partire da quelle geografiche: in alcuni casi i Rohingya sono stati “assimilati” ai musulmani delle regioni centrali e viceversa. In altre parole per molti, in Occidente, tutti i musulmani birmani sono Rohingya.
La loro situazione, invece, è ben più drammatica. I Rohingya sono gli indesiderati del sud-est asiatico. Sono circa 800.000 persone, etnicamente e culturalmente assimilabili ai bengalesi. Per questa differenza sono discriminati e perseguitati più di chiunque altro, considerati “immigrati illegali”. Sono talmente disperati da cercare rifugio in Bangladesh, uno dei paesi più poveri al mondo. Dove sono confinati in campi privi di ogni assistenza. «Qui siamo già in troppi per troppo poco lavoro. Sarebbe una guerra tra poveri» dice un funzionario dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
Più o meno, è quanto dichiarato da Aung San Suu Kyi, intervistata dalla Bbc riguardo i Rohingya. «Sto chiedendo tolleranza, ma non credo che si dovrebbe usare la propria leadership morale, se volete chiamarla così, in nome di una qualsiasi causa senza però andare realmente all’origine del problema».
L’origine del problema, è la stessa di tutti i conflitti etnici e religiosi che negli ultimi anni sono esplosi in Asia, dalle Filippine al sud della Thailandia, lo Sri Lanka, il Bangladesh, l’Indonesia: una miscela esplosiva di democrazia immatura, nazionalismo, sperequazioni economiche abissali.
Nella maggior parte dei casi, poi il terrore non è stato buddhista. Mentre è un buddhista, un monaco vietnamita a proporre una soluzione. Si tratta del maestro Zen Thich Nhat Hanh. «Se incontri il Buddha uccidilo. Devi liberarti da ogni dogma. Se non sei capace di uccidere il Buddha non puoi uccidere i tuoi preconcetti».”

L’amore sopra ogni cosa

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Nella rubrica Ădāmà su Jesus di maggio 2014, Gabriella Caramore scrive:
“Perché le religioni, mi chiedevo il mese scorso in Ădāmà, se il mondo sembra procedere, per lo più, senza bisogno di riferirsi a un Dio, o a una sapienza codificata, o a grandi figure spirituali, e sembra non avere sete d’altro che di sé stesso, e del proprio inoltrarsi convulso e inconsapevole verso la catastrofe? Una prima risposta la rinvenivo nel fatto che ciò che ha dato vita alle grandi tradizioni religiose è la stessa sete di conoscenza che ha dato origine al sapere filosofico, scientifico, morale, politico di tutta la storia dell’umanità.
Ma vi è un’altra “spinta” che ha contribuito al sorgere delle religioni, alle loro scritture, alle loro storie, alle loro aggregazioni: quella di alleviare le sofferenze di uomini e donne, di dare un senso al dolore, quando non lo si possa estinguere del tutto, quella di contenere le forze distruttive che abitano il cuore dell’uomo. In una parola, il tentativo di fare comunità, di creare società, di costruire convivenza.
Quando a Gesù viene chiesto – come si racconta nei Vangeli sinottici – quale sia il comandamento più grande, in una sintesi geniale accosta due versetti della Bibbia ebraica, e risponde che, alla fine, vi è un solo comandamento: quello di amare l’unico Dio e di amare chiunque ci si presenti come prossimo. Se ci si china sul prossimo con amore, si ama anche Dio. E se si ama Dio, questo amore si manifesta nella cura del prossimo. Ma se noi allarghiamo lo sguardo al di fuori dell’orizzonte giudaico e cristiano, troviamo affermazioni analoghe in tutte – ma davvero tutte – le altre sapienze: nei grandi poemi indiani e nei discorsi del Buddha, nei pensieri di Confucio e nelle massime del Dao, nel jainismo e nello zoroastrismo, nella sapienza latina e nei discorsi del profeta Muhammad. Questo, in definitiva, il “programma” di ogni religione, che sfocia fino al grande mare della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “Ciò che tu non vuoi che ti venga fatto, non farlo a nessun altro”.”

Bilanci di viaggio

papa al muro

A qualche giorno di distanza dal viaggio del papa in Terra Santa posto un articolo di Massimo Faggioli, pubblicato oggi su La Rivista Il Mulino: non è un pezzo di cronaca di quanto è successo, ma una lettura di inquadramento storico del viaggio, per cui lo consiglio alle classi più grandine (anche se non è vietato alle altre…).
“Il pellegrinaggio papale in Terra Santa è entrato a far parte della storia del moderno papato come un test, un momento critico da cui tentare di comprendere alcune traiettorie della chiesa cattolica contemporanea ma anche le differenze tra i singoli pontificati. Il pellegrinaggio di papa Bergoglio in Terra Santa (Giordania, Palestina, Israele, 24-26 maggio 2014) seguiva quello di Paolo VI (gennaio 1964), Giovanni Paolo II (marzo 2000), e Benedetto XVI (maggio 2009).
Il viaggio del 1964 era il primo di un papa moderno all’estero, nel clima del Vaticano II, all’insegna di sensibilità ecumeniche completamente nuove a livello ufficiale, storicamente precedente alla “revanche de Dieu” che inizia con la guerra del 1967 e gli anni Settanta, e teologicamente ancora riluttante a prendere atto del sionismo e del suo frutto compiuto nello Stato di Israele (parola che papa Montini si astenne visibilmente dal pronunciare in quei giorni). Il pellegrinaggio di Giovanni Paolo II del 2000 era il viaggio del primo papa del dialogo interreligioso esercitato in prima persona sulla base del mandato conciliare e oltre esso, nel contesto del Giubileo del 2000, ma prima dell’inizio della cesura dell’anno 2000-2001 (la seconda Intifada dopo la passeggiata di Sharon alle moschee nel settembre 2000 e la scia di attentati e violenze nelle città israeliane e palestinesi; l’11 settembre 2001; la costruzione della “barriera di separazione” tra Israele e territori a partire dal 2002). Il viaggio di Benedetto XVI nel 2009, infine, arrivava a poche settimane dalle polemiche scaturite dalla decisione di togliere la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, uno dei quali notoriamente antisemita, e contribuiva a condizionare la gestualità già inibita del papa teologo: le aspettative del discorso del papa a Yad Vashem circa le responsabilità della Chiesa (anche in quanto cattolico tedesco) andarono deluse.
In questo quadro, rispetto a quello dei precedessori il viaggio di papa Francesco rappresenta un passo ulteriore. Da un lato, Bergoglio ha assunto per la visita a quella terra e ai suoi simboli divisi e condivisi l’immagine della poliedricità (figura da lui analizzata nell’esortazione Evangelii Gaudium per descrivere la Chiesa) dello snodo religione-terra-pace in Medioriente. Il papa ha parlato a interlocutori diversi e ha bilanciato l’immagine di un cattolicesimo che – specialmente sotto Benedetto XVI – aveva ripreso la memoria della Shoah e il ruolo dello Stato di Israele sotto il segno di una “religione civile” che in Occidente ha una forte connotazione islamofobica. Il gesto di preghiera di Francesco di fronte alla “barriera di separazione” da parte palestinese e, il giorno dopo, alla tomba del fondatore del sionismo Theodor Herzl e al monumento per le vittime israeliane del terrorismo rappresentano messaggi inviati a entrambe le parti: ma rappresentano soprattutto la presa di coscienza da parte del papato che vi sono elementi altri (i “loci alieni” della teologia) e storicamente nuovi rispetto all’itinerario teologico-biblico classico del pellegrinaggio cristiano in Terra Santa. In questo senso, papa Francesco ha fatto propria una mappa già nota a molti – cristiani, ebrei e musulmani inclusi -, ma che finora aveva stentato a entrare nel registro dei viaggi papali. Francesco parla e agisce come cristiano in Terra Santa con maggiore libertà rispetto al predecessore italiano, polacco, tedesco che dovevano parlare per forza di cose anche come figli di quella Europa colpevole della Shoah. Le amicizie interreligiose del gesuita Bergoglio in Argentina sono parte di questa nuova condizione di libertà del papato globale dalle ipoteche della storia europea.
paoloviatenagoraDall’altro lato, papa Francesco ha ripreso una rotta invertita dal Vaticano di Benedetto XVI dal punto di vista teologico: l’incontro con il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo rappresenta la ripresa di un dialogo con gli ortodossi orientali che aveva promesso molto, invano, sotto Benedetto XVI. L’incontro di Gerusalemme tra Francesco e Bartolomeo ha un’origine storicamente vicina, durante l’inaugurazione del pontificato nel marzo 2013 e la straordinaria presenza di Bartolomeo a Roma (la prima volta nella storia in un’occasione del genere), ma anche un’origine lontana, quell’incontro tra Paolo VI e Atenagoras nel gennaio 1964 e alla revoca delle scomuniche reciproche nel 1965 alla conclusione del Concilio Vaticano II. L’incontro tra Francesco e Bartolomeo rappresenta la prova delle potenzialità di una ripresa senza timori del concilio.
Il lato sorprendente della visita del papa in Terra Santa riguarda l’azione politica della Santa Sede di Francesco. Sotto Benedetto XVI e il suo segretario di Stato cardinale Bertone, il Vaticano aveva dato segnali di volersi sottrarre alle responsabilità politiche della Chiesa figlia dell’Impero Romano in quell’area (e non solo là), consegnando così la questione geopolitica del cattolicesimo a rappresentanti locali (le chiese arabe compromesse coi regimi, i sicofanti del cattolicesimo teo-con di scuola statunitense). La mossa di papa Francesco dell’invito in Vaticano, “a casa del papa”, rivolto ad Abu Mazen e Shimon Peres nello stesso giorno delle elezioni europee è una delle tante ironie della storia, dopo anni in cui sia l’Europa sia gli Stati Uniti avevano dichiarato fallimento di fronte alla questione israelo-palestinese.
Emerge un volto politico di Francesco, che viene a completare un anno in cui gli interventi “politici” sono stati pochi e ben delimitati: la veglia del 7 settembre 2013 per la Siria (preventivo a un possibile intervento americano); l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium del novembre 2013; la freddezza ostentata coi politici italiani in tutto questo periodo; l’udienza al presidente Obama. Il pellegrinaggio in Giordania, Palestina e Israele danno maggiori elementi per giudicare la politica del Vaticano di Francesco e del segretario di Stato cardinale Parolin: un’azione che richiama, in termini diversi, la Ostpolitik di Giovanni XXIII e Paolo VI (allora contro gli episcopati renitenti rispetto alla politica del dialogo, oggi contro i patriarchi e gli episcopati cattolici compromessi coi despoti del Medioriente). Anche da questo punto di vista, continua per forza di cose il protagonismo di papa Francesco, in assenza (tranne rare eccezioni) di una élite episcopale mondiale in grado di seguire la traccia segnata dal vescovo di Roma.”

Acqua di vita

Poco tempo fa ho pubblicato un post sul mito del diluvio. Sempre a proposito dell’acqua, in seconda abbiamo letto di diverse cosmogonie antiche che fanno riferimento proprio al mondo acquatico. Nel libro “Il principi passione” Vito Mancuso propone le seguenti:

  • Sumeri: il nome Nammu (madre degli dei) si scrive come il mare
  • Egizi: esiste Nun, un oceano primordiale indistinto, a cui tutto tornerà alla fine
  • Babilonesi: il mondo nasce dalla coppia del dio Apsu e della dea Tiamat, personificazione delle acque dolci e delle acque salate
  • Assiri: le acque superiori e inferiori esistono prima che cielo e terra ricevano i loro nomi
  • Ebrei: prima della creazione (Gn 1, 3) ci sono l’abisso e le acque (Gn 1, 2) che si ritraggono per far spazio al mondo (Sal 77, 17; 93, 3-4; 104, 7.9)
  • Hindu: un inno vedico recita “All’inizio c’era la tenebra nascosta dalla tenebra; l’Universo era acqua salsa senza forma distinta”
  • Cinesi: “il Supremo Uno genera l’acqua”
  • Greci: il padre degli dei è considerato Oceano

Mancuso cita anche tre scienziati:

  • G. Schroeder (fisico): “La vita della cellula si svolge in un mare d’acqua, dentro e fuori. Il comune denominatore di tutte le forme di vita conosciute è che sono basate sull’acqua”
  • G. M. Whitesides (chimico): “… al momento non conosciamo eccezioni: la vita avviene nell’acqua”
  • C. De Duve (biologo): “… la vita ha avuto probabilmente inizio in acque vulcaniche calde”.

Alcuni giorni fa la riproduzione casuale di una playlist che avevo salvato mi ha proposto una canzone del progetto Rezophonic che ci sta a pennello. Il brano “Nell’acqua” è frutto di una collaborazione tra Mario Riso e Caparezza, insieme a Cristina Scabbia e Roy Paci

Ogni astrofisico pensa che la vita sia nata
Con l’esplosione di un’immensa infinita granata
Per i credenti, nada La Terra fu creata
Da un essere supremo in meno di qualche giornata
Ebbene sì, lascia che seguano libri di Genesi
Anche se c’è chi si dilegua come Phil coi Genesis,
I testamenti dispensano nemesi ma
In fondo sono popolari più di Elvis in Tennessee
Mi chiedi: “Credi a quelli là? O credi a questi qua?
Dimmi qual è la verità Chi la merita?”
La vita non è là La vita non è qua
Né là né qua, ma nell’acqua
Ne là né qua, ma nell’acqua
Ne là né qua, ma nell’acqua
La vita non è là La vita non è qua
Ne là né qua, ma nell’acqua!
Sono un credente, eccome! Io credo in Poseidone
Perché se l’acqua scompare… dopo un po’ si muore
Io nella commedia della vita voglio recitare
Anche una particella elementare come Positrone
Perciò non credo a quelli là Né credo a questi qua
Tu vuoi da me la verità? Beh, la verità
La verità non è là La verità non è qua
Né là né qua, ma nell’acqua

E io non seguo gli schemi
Di chi mi crede nato dagli atti osceni degli alieni
Non credo nella cometa che fecondò questo pianeta
In un colpo di reni
Io venero Atraua
Dio dell’acqua degli Aztechi Ti condanna se la sprechi
Se ti ci anneghi e la neghi Se dici che te ne freghi
Sedici Mesi di siccità
E allora capirai che la vita non sta
Ne là né qua, ma nell’acqua
Ne là né qua, ma nell’acqua
La vita non è là La vita non è qua
Ne là né qua, ma nell’acqua!

Diluvi

HicksIn alcune classi abbia dato un’occhiata al racconto del Diluvio Universale presente nel libro della Genesi. Carolina Orsini mostra velocemente come la radice del racconto appartenga a diverse tradizioni:

“Nella storia dell’umanità, di diluvi ce ne sono stati a centinaia. E ogni cultura racconta il suo «Diluvio universale» come quella ebraica fa nella Genesi. Ne abbiamo scelti alcuni che raccontano come diversi popoli abbiano dato ragione di un fenomeno naturale.

SIOUX (Iowa). Unktehi, un mostro acquatico, provocò un grande diluvio per distruggere l’umanità. La gente si ritirò su una montagna, ma l’acqua uccise tutti. Le anime degli uomini si pietrificarono e divennero pipe di pietra.

NAVAJO (Arizona e Nuovo Messico). Gli Uomini-Insetto vennero mandati via dal mondo a causa dei loro peccati: gli dei li inondarono con un grande muro d’acqua.

ESKIMO (Canada). Un diluvio uccise uomini e animali, tranne due sciamani. Essi dormirono insieme ed ebbero dei figli, tra cui la prima donna del mondo.

MAYA (Messico). Gli dei mandarono un diluvio per uccidere gli uomini di legno, una versione imperfetta che abitava il mondo prima dell’umanità attuale.

AZTECHI (Messico). Il dio Tezcatlipoca rivelò a un uomo e una donna che sarebbe giunto un diluvio. Loro si costruirono una imbarcazione con un tronco d’albero e si salvarono. Ma gli venne fame e pensarono di cucinare del pesce. Gli dei, sentendo l’odore del fuoco mandarono Tezcatlipoca a punire i sopravvissuti. Il dio scese sulla terra e li trasformò in cani.

IPURINA (Amazzonia). Mayuruberu, capo delle cicogne, provocò un’inondazione facendo scaldare un paiolo d’acqua vicino al sole e facendolo poi traboccare. L’umanità sopravvisse, ma tutte le piante vennero distrutte.

INCA (Perù). L’acqua crebbe fino a sormontare le montagne più alte. Tutto il creato perì, tranne un uomo e una donna che galleggiarono in un guscio.

PIGMEI (Africa). Un giorno un camaleonte, sentendo un rumore dentro un albero, riuscì ad aprirne il tronco. Ma dal tronco uscì una tale massa d’acqua da inondare tutta la terra.

YORUBA (Africa). Il dio Ifa, stanco di vivere sulla terra, andò ad abitare in cielo. Senza il suo aiuto, l’umanità fece arrabbiare gli dei, finché uno di questi, adirato, la distrusse con un grande diluvio.

KIKUYU (Kenya). Gli spiriti anziani distrussero una città inondandola di birra. Gli abitanti si rifugiarono nelle caverne.

HINDU (India). Manu, il primo essere umano, trovò un piccolo pesce nell’acqua in cui si bagnava. L’animale lo pregò di proteggerlo dai pesci più grandi, e in cambio consigliò a Manu di costruire una barca per proteggersi dall’imminente diluvio.

MAORI (Nuova Zelanda). Ci fu un tempo in cui il culto della divinità Tane era trascurato. Due maestri pregarono perché venisse un diluvio, che convincesse gli uomini della sua potenza.

KOOTENAY (Canada). Una piccola femmina di uccello, incurante degli avvertimenti del marito, bevve da un lago proibito. Dalle acque uscì un mostro che la rapì. Il marito la salvò, ma il mostro sollevò una grande mole d’acqua che invase la terra.

PIMA(Arizona). Un grande muro d’acqua verde venne e distrusse tutto. Szeuka, il figlio della terra, si salvò galleggiando su di una imbarcazione a sfera.”

Forse in questa casa

atelierIl 7 luglio 1973, nel giorno di un suo compleanno, Marc Chagall, all’inaugurazione del Museo con alcune delle suo opere, ha detto queste parole: “Se ogni vita va inevitabilmente verso la fine, dobbiamo, durante la nostra, colorarla, con i nostri colori di amore e di speranza… Forse in questa casa verranno i giovani e i meno giovani a cercare un’ideale di fraternità e d’amore, così come i miei colori e le mie linee l’hanno sognato… Forse non ci saranno più nemici…”.

Mi piacciono perché le posso pensare abbinate a un luogo fisico (una casa, una città, un ufficio, un atelier, uno studio, un luogo di culto, un parco) e a un luogo meno fisico se non addirittura metafisico (la mente, il proprio lavoro, un libro, un quadro, una canzone, un film, una poesia, un sorriso, una relazione, una storia d’amore, una fede, il cuore di ognuno…)

Come una madre con amore e dolore mette al mondo un bambino, i giovani e i meno giovani costruiranno il mondo dell’amore con un nuovo colore e tutti, qualsiasi religione abbiamo, potranno venirvi e parlare di questo sogno, lontano dalle malvagità e dalla violenza. Vorrei che in questo luogo si esponessero opere d’arte e testimonianze della spiritualità di tutti i popoli; che si facesse udire la musica e la poesia dettate dal cuore di tutto il mondo. E’ possibile questo sogno? Ma nell’arte come nella vita, tutto è possibile se, alla base, c’è l’Amore

La blasfemia in Pakistan

Dal sito di Reset. Dialogue on Civilizations prendo questo articolo molto interessante sulla legge sulla blasfemia in Pakistan. E’ di Martino Diez.

blasfemia-pakistan-asia-bibi
“La legge sulla blasfemia pakistana è tristemente nota per i suoi effetti discriminatori verso le minoranze religiose e il caso di Asia Bibi, di cui si attende la sentenza in secondo grado dopo la condanna a morte in primo grado, non è purtroppo isolato. Ma da dove nasce questo provvedimento, contenuto agli articoli 295/B-C e 298/A-C del codice penale? Storicamente, esso rappresenta una delle sinistre eredità del dittatore filo-islamista Zia-ul-Haq (1978-1988). Promulgate tra il 1984 e il 1986, le norme integrano l’originario comma 295/A che gli inglesi avevano inserito nel 1927 nel codice penale indiano. Ma mentre la disposizione coloniale mirava a proteggere i luoghi di culto di tutte le religioni, sullo sfondo delle crescenti tensioni tra musulmani e hindu, i nuovi commi voluti da Zia-ul-Haq (e che Nawaz Sherif ha ulteriormente inasprito nel 1990) sono a senso unico. Viene proibito il danneggiamento del Corano, in qualsiasi forma, nonché espressioni offensive verso il Profeta dell’Islam, «a parole, dette o scritte, o con rappresentazione visibile» e verso i protagonisti della storia sacra islamica, in particolare le mogli del Profeta e la sua famiglia, i quattro califfi ben guidati e i Compagni. Non pago, l’articolo 298 vieta al «gruppo Qadiani o Lahori (che chiamano sé stessi Ahmadi)» di attribuire il titolo di “Comandante dei credenti” a qualcuno diverso dai califfi ben guidati, o di “Madre dei credenti” a qualcuno diverso da una moglie di Muhammad, di chiamare “membro della Casa” una persona al di fuori della famiglia di Muhammad, di denominare il proprio luogo di culto “moschea” o azan il proprio appello alla preghiera. Infine, il codice vieta agli Ahmadi di definirsi musulmani. Il tutto accompagnato da pene draconiane, fino all’ergastolo e alla morte.
Oltre a offrire un esempio efficace dell’irrigidimento che la sharî‘a classica (una giurisprudenza più che un diritto) subisce nel processo di traduzione nei moderni codici statali, queste norme s’inseriscono in un clima di mobilitazione permanente che tende a presentare l’Islam in Pakistan come oggetto di una minaccia costante. Affermazione quantomeno sorprendente in un Paese in cui il 96% della popolazione è musulmana e in cui la Costituzione del 1973, all’articolo 31, attribuisce allo Stato il compito primario di «permettere ai musulmani […], individualmente e collettivamente, di ordinare le loro vite in accordo con i principi fondamentale e i concetti basilari dell’Islam e offrire loro strumenti con cui comprendere il significato della vita secondo il Santo Corano e la Sunna». Senza dubbio, leggi come quelle sulla blasfemia sono funzionali al mantenimento della tensione sociale nel Paese, perpetuando l’esistenza di capri espiatori (le minoranze religiose non musulmane, ma anche la comunità sciita) su cui scaricare la responsabilità degli insuccessi economici e politici di cui è testimone la storia recente del Pakistan[1].
In effetti, e contrariamente a quello che si potrebbe pensare istintivamente, numerosi studi – Pew Forum in testa – hanno dimostrato che il livello di violenza a sfondo religioso è direttamente proporzionale agli sforzi che lo Stato mette in atto per favorire una fede sulle altre. «Più lo Stato impone dei vincoli, più aumentano i contrasti a base religiosa»[2]. E il caso pakistano non fa eccezione. Tra il 1927 e il 1986 si contano 7 soli casi di blasfemia, mentre dal 1986 a oggi gli episodi hanno già superato il migliaio e la norma sulla blasfemia è costata la vita a più di 20 persone. Anche se finora non sono mai state eseguite condanne a morte ufficiali (presumibilmente per le reazioni internazionale che susciterebbero), molti accusati sono stati raggiunti in carcere da sicari e molti altri sono stati linciati dalla folla inferocita. Anche solo proporsi di toccare questa legge può costare caro, come mostra l’assassinio di due politici coraggiosi che si erano battuti per modificarla, il cristiano Shahbaz Bhatti, ministro delle minoranze, e il musulmano Salman Taseer, governatore del Punjab. Nonostante questo, o forse proprio per questo, la legge è diventata una bandiera, tant’è vero che nell’aprile del 2009 il Pakistan ha presentato alla Commissione ONU dei Diritti umani la proposta di «estendere a livello mondiale le proprie leggi sulla blasfemia»[3].
Dopo trent’anni di abusi, è forte la tentazione di liquidare come provocatoria non solo questa proposta pakistana, ma anche una serie di richieste analoghe presentate negli anni dall’Organizzazione della Conferenza Islamica e che invocano la tutela delle religioni (al plurale). È facile opporre a queste richieste il principio della libertà di espressione, ma occorre anche riconoscere che un problema con i simboli religiosi esiste. L’elenco degli incidenti a sfondo confessionale montati ad arte negli ultimi anni è molto lungo: si va dai roghi del Corano inscenati da un oscuro pastore in Florida, a film offensivi contro la figura di Muhammad, ma anche a numerose profanazioni di luoghi di culto o simboli religiosi ebraici e cristiani. Per fare un solo esempio, in Egitto lo shaykh salafita Abu Islam nel 2012 ha pubblicamente bruciato la Bibbia esortando i suoi seguaci a orinarvi sopra.
In quest’ottica, le proposte di “tutela delle religioni” possono essere lette come la risposta, sbagliata, a una necessità reale, quella cioè di definire fin dove può arrivare la libertà di espressione e se esista un limite al diritto di critica e alla creatività artistica. Istintivamente, la risposta dell’occidentale medio a queste domande è no, salvo poi dover prendere atto degli incidenti continui che si verificano a livello mondiale e che dimostrano come ogni gesto individuale debba ormai considerare le sensibilità di una platea mediatica potenzialmente globale. Nel campo musulmano invece, come abbiamo visto, viene spesso avanzata la proposta di una neutralizzazione preventiva, secondo il principio per cui “ogni religione deve rispettare le altre”. L’espressione in sé sarebbe condivisibile, ma nei fatti finisce per significare che andrebbe rifiutata qualsiasi critica a ogni religione. Non è difficile comprendere come questa opzione sia nei fatti inaccettabile. Non solo, com’è ovvio, per quanti non si riconoscono in nessuna religione (e che si troverebbero così ridotti al silenzio), ma anche per i credenti, che finirebbero costretti a un dialogo delle cortesie, senza la possibilità di un dibattito reale. In effetti anche i musulmani, quando invocano questo principio, lo fanno in realtà a partire da una pre-comprensione delle altre fedi che è implicita nel concetto islamico di (mono-)profezia. Le altre religioni, nei fatti, non sono da criticare nella misura in cui si conformano all’immagine che il Corano ne fornisce. Il problema è più arduo di quanto appaia a prima vista, perché ogni fede contiene inevitabilmente degli elementi di rottura (e dunque di critica, anche vigorosa) con la tradizione che la precede. Sarebbe ben curioso se, in forza di un’applicazione del principio di “protezione delle religioni”, venisse proibito ai predicatori musulmani di stigmatizzare le pratiche pagane dell’Arabia preislamica. Difficile a ogni modo pensare che questo potesse essere l’obiettivo della richiesta pakistana presentata alle Nazioni Unite.
Commentando alcuni fatti che nell’estate 2012 avevano visti protagonisti diversi militanti salafiti e che ancora una volta mettevano in luce il problema dei limiti della libertà d’espressione, il giurista tunisino Ben Achour scriveva: «Se la nozione di muqaddasât [cose sacre] è lasciata al potere politico, quest’ultimo si porrà come arbitro del gioco e dunque padrone delle coscienze. In questo modo si ritorna allo Stato teocratico. […] A mio avviso, la libertà di espressione artistica e filosofica dev’essere allargata senza limiti, a meno che essa non perturbi l’ordine pubblico»[4]. L’affermazione di Ben Achour sembra cogliere nel segno, permettendo di uscire dall’impasse. In linea di principio la priorità va accordata al diritto di critica, senza il quale il pensiero non può conoscere reale avanzamento. I numerosi intellettuali musulmani che sono dovuti riparare in Occidente mostrano che il vero problema oggi in molti Paesi islamici è liberare la parola dal timore dell’accusa di eterodossia, non proteggere una religione che è già presente in modo massiccio nella vita quotidiana. Scriveva con lucidità l’editorialista egiziano Muhammad Khair: «Gli estensori della Costituzione [islamista del 2012] combattono una battaglia immaginaria contro i fantasmi dell’“identità”, del “proselitismo”, della “propaganda sciita” e dell’“occidentalizzazione”, e varie altre “cospirazioni”, ma il risultato è che la Costituzione, anziché svolgere il suo compito di garante dei diritti e delle libertà, finisce per fare l’esatto contrario, in quanto cerca di tutelare tutti coloro che godono della maggioranza, del potere o dell’autorità»[5].
Tuttavia nella proposta di Ben Achour si trova anche un’importante clausola, il riferimento all’ordine pubblico. Benché anche questo principio si presti a strumentalizzazioni, esso ha il vantaggio di toccare non il piano delle convinzioni, ma quello dei comportamenti pratici. Vanno cioè proibiti quegli atteggiamenti che, dalla critica, passano all’attacco delle persone e della loro dignità, mettendo a rischio il bene pratico della convivenza, mentre lo Stato non ha titolo per valutare l’ortodossia o meno di una posizione teologica. A nostro avviso questo semplice principio (che tra l’altro ispirava la legge pakistana prima delle aggiunte di Zia-ul-Haq) è sufficiente per consentire al pensiero critico di esplicarsi in libertà, senza dimenticare le ricadute anche comunitarie delle scelte di ciascuno e le offese che attentati gratuiti ai simboli sacri portano inevitabilmente con sé. Un conto insomma è bruciare il Corano (un atto da condannare senza riserva), un altro è discutere di metodi esegetici senza la minaccia di un’accusa di apostasia (si pensi al caso dell’egiziano Nasr Abu Zayd).
La proposta di sanzionare in modo complessivo ogni “diffamazione delle religioni”, proprio perché fa di ogni erba un fascio, si rivela confusa e potenzialmente pericolosa. Ciò che va condannato piuttosto è l’incitamento all’odio. Di questo incitamento, peraltro, l’attuale legge pakistana sulla blasfemia costituisce purtroppo un raffinato esempio.
[1] Sulla condizione dei cristiani in Pakistan cfr. l’articolo molto documentato di John O’Brien, Christians in Pakistan, «Islamochristiana» 39 (2013), 175-189.
[2] Angelo Scola, Non dimentichiamoci di dio, Rizzoli, Milano 2013, 78.
[3] L’espressione si trova nell’Annual Report of the United States Commission on International Religious Freedom, maggio 2009, 65.
[4] Yadh Ben Achour, La misura della libertà: libertà senza misura?, «Oasis» 16 (2012), 18.
[5] Muhammad Khair, Il mondo dell’uomo, originariamente pubblicato su at-Tahrîr, 13 novembre 2012.”

Tra fede e morale

Un interessante articolo di Simone Cosimi su Wired tratta l’argomento del rapporto tra il credere in Dio e la morale. Coloro che credono in Dio sono anche portatori di un alto tasso di moralità? I dati sono molto diversificati a livello mondiale (per fortuna!).
ethics“È necessario credere in Dio per essere persone migliori? A quanto pare un sacco di gente nel mondo la pensa così. Almeno nei quaranta Paesi coinvolti da un’indagine firmata dal celebre istituto statunitense Pew Research Center. Oltre 40mila individui intervistati nel corso degli ultimi due anni per capire il rapporto fra moralità e fede. Incrociandolo con la ricchezza prodotta in quelle aree del pianeta. Il primo risultato di massima è evidente: questa convinzione, e cioè che sia necessario credere in (un) Dio per considerarsi moralmente a posto in quanto legati all’osservanza di valori più giusti, è più diffusa nel Paesi poveri o in via di sviluppo rispetto a quelli sviluppati. Ma non mancano alcune eccezioni né diverse sfumature a livello macroregionale.
In più della metà dei Paesi, 22 su 40, una chiara maggioranza sostiene questo parallelo. Posizione prevalente per esempio in Africa. Si va dal Ghana, dove il 99% è convinto di questo rapporto, al Sudafrica dove pure solo il 21% ritiene che non sia necessario avere un qualche tipo di fede. Stesso tipo di dinamica in Medio Oriente: se gli egiziani (95%) o i giordani (94%) ma anche i palestinesi (85%) credono che questo rapporto sia essenziale l’unica eccezione dell’area è costituita da Israele, dove la percentuale scende al 37%. Sotto il 70% scende solo quel rompicapo di religioni che è il Libano. Significativo anche il dato della Turchia, dove appena il 9% della popolazione non considera la religione una garanzia di buoni valori di vita.
Il quadro si fa un po’ più diversificato in America Latina. Che appare piuttosto spaccata. Se a El Salvador il 93% sostiene l’assioma fede=valori, anche il Brasile non scherza con l’86%. Poco sopra l’80% della Bolivia o del Venezuela. La proporzione comincia a sbilanciarsi in Paesi come il Messico, dove il 40% non crede che sia necessario confidare in Dio per lustrare la propria moralità, mentre Argentina e Cile risultano quasi spaccate a metà. Tuttavia l’escursione più profonda avviene nella macroregione Asia-Pacifico, d’altronde troppo variegata in distanze, popoli e culture anche solo per tracciare una labile linea comune. Se Indonesia, Pakistan, Filippine e Malesia si muovono su percentuali plebiscitarie (rispettivamente 99%, 98%, 83%, 89%) e l’India si attesta su un massiccio 70%, la Corea del Sud si spacca 44%/54% mentre in Giappone e Australia vincono quelli che non ritengono la fede un elemento essenziale della moralità individuale.
E l’Europa? In nessuno dei nove Paesi presi in esame la maggioranza dei cittadini ritiene la fede essenziale per la propria moralità. Tuttavia la Grecia è praticamente divisa a metà e anche in Polonia il 44% è comunque convinto della bontà di questa affermazione. Percentuale che in Russia cala al 38%. Una caduta che continua in Germania (33%), in Italia (il 71% non ritiene che serva credere, il 27 sì, maggioranza fra gli ultracinquantenni), Gran Bretagna (20%), Spagna e Repubblica Ceca (19%) e Francia (15%). Insomma il pianeta è decisamente complicato: non sarà uno scontro di civiltà ma certo un quadro sempre delicato anche in ottica politica.
Unica eccezione alla schiacciante secolarizzazione occidentale è costituita dagli Stati Uniti. D’altronde per chiunque sia appassionato di politica Usa e segua le campagne elettorali non è una sorpresa: per il 53% degli americani (contro il 46) il legame fra fede e valori morali è essenziale. A rompere lo schema Paesi poveri credenti/Paesi ricchi non credenti ci pensa anche la Cina. Che certo è tutt’altro che un Paese in via di sviluppo nel senso tradizionale della formula, ma in cui il Prodotto interno lordo pro capite è comunque un sesto di quello statunitense: il 75% non è convinto che sia necessario credere in Dio per essere un’ottima persona. Ciononostante, qualche anno fa i credenti erano stati stimati in 300 milioni. Situazione singolare e frutto evidente della storia recente di un grande Paese dove il rompicapo delle (tante) religioni presenti è legato a doppio filo alle varie fasi del regime comunista.”

All’università di Ifrane

Al Akhawayn UniversityUn articolo un po’ lungo, ma molto molto interessante. E’ di Marco Ventura, pubblicato su Il club de La Lettura del Corriere.
“Sono studenti universitari come gli altri. Li incontri nel campus a passeggio sui viali, jeans, felpa e giubbotto, magari calzoncini corti nella bella stagione. Tra una lezione e l’altra li trovi ai tavolini della caffetteria. Li incroci a mensa, nei club studenteschi. O diretti alle residenze, con i sacchi della spesa. Sembrano distinguersi solo perché un po’ più avanti con gli anni. Devi entrare in aula con loro, per cogliere la vera differenza. Devi osservare che cosa succede quando il professore apre la discussione sul testo assegnato per quel giorno. La preparazione è impeccabile. La precisione è strabiliante. Senza guardare le fotocopie ricordano esattamente ciò che hanno letto. Ma se nelle prime lezioni chiedi di criticare l’autore, se spingi all’interpretazione personale, li metti in imbarazzo.
Comprendi allora che non sono studenti come gli altri. Ti spiegano: a dieci anni, per entrare nelle migliori scuole religiose, come la mitica Qarawiyyin di Fez, dovevano già conoscere il Corano a memoria. Per anni, da allora, la loro vita è stata apprendimento mnemonico, disciplina. Ora sono imam. Guide della comunità musulmana. Le loro famiglie sono orgogliose. Sono fieri di loro il Marocco e il suo re: Mohammed VI, comandante dei credenti.
Non sono studenti come gli altri, ma si trovano in questo campus universitario per diventarlo. A modo loro. Nel 2010, il ministro degli Affari religiosi marocchino, Ahmed Toufiq, siglò un accordo col rettore dell’università Al Akhawayn di Ifrane per l’istituzione di un corso di formazione per imam. In autunno arrivò il primo gruppo. Per tre anni gli imam studiano le religioni nella società contemporanea e l’islam globale. Autorità governative e accademiche hanno scommesso sulla compatibilità tra lo studio islamico tradizionale e il sapere occidentale. Uomini che dopo anni di scuola coranica hanno conseguito l’ijaza, titolo che consente l’accreditamento presso il ministero degli Affari religiosi, possono integrarsi in un’esperienza accademica all’americana. Gli imam che usciranno dal training saranno più forti, più completi: pronti per essere leader ovunque; a proprio agio a Meknes e a Montreal, a Casablanca e a Manchester.
Dopo tre anni, il progetto è ormai consolidato. Il governo del Mali ha firmato un accordo per inviare propri imam. Sembra che nelle scorse settimane anche la Tunisia abbia raggiunto un’intesa con le autorità marocchine. Al corso in scienze religiose, religious studies, disegnato per gli imam, s’iscrivono anche studenti americani e europei, che vengono qui soprattutto per l’islam. Connell Monette e Emilie Roy, rispettivamente direttore e professoressa nel programma, sono canadesi, con un solido percorso nordamericano nei religious studies. Il loro primo problema con gli imam è stato l’inglese, lingua ufficiale del corso. Ma la vera questione è più profonda. Dopo lunghi anni di madrassa, di scuola religiosa, gli imam che arrivano a Ifrane sono supini all’autorità del testo e dell’insegnante e hanno una testa divisa in due: esiste il sì e il no, il vero e il falso. L’islam è verità, il resto è ignoranza. Studiare l’islam secondo il metodo tradizionale fa bene; invece studiare qualsiasi altra cosa, soprattutto le altre religioni, fa male.
Monette, Roy e gli altri professori provano a spezzare la naturale resistenza dei loro studenti speciali senza minacciare la loro reverenza per l’islam. Lo studio critico della religione è proposto come un altro mondo che può aggiungersi a quello delle scuole coraniche. Il modello educativo dei religious studies di Al Akhawayn, scrivono Monette e Roy, «non è alternativo, ma di complemento» all’educazione tradizionale ricevuta nelle madrasse. Il banco di prova è lo studio della preghiera rituale musulmana, salât. Non si mette in discussione la verità islamica sul culto a Dio. Ma si usa il concetto di salât anche per definire in qualsiasi religione la ritualità, il comportamento esteriore, e si aiuta lo studente a familiarizzarsi con la categoria accademica di «rituale», cui non è più necessario applicare un giudizio di verità e falsità.
Il compito di professori e studenti è titanico. Si tratta di riconciliare due mondi straordinariamente diversi, fin nel paesaggio. Gli imam che hanno studiato a Fez sono cresciuti nella medina, con l’odore che sale dalle vasche in cui si conciano le pelli, i canti delle confraternite sufi, la ressa per le viuzze in cui si ammassano pezzi di carne e stoffe, datteri e ciambelle. È tutto diverso quassù a Ifrane, sul Medio Atlante, 1.600 metri di altezza, la Chamonix del Nord Africa. Struttura e vita del campus sono da università americana. Potresti scambiare il minareto della moschea per il campanile di Berkeley, se non fosse per la neve che ricopre i prati. I manifesti in bacheca pubblicizzano un corso di maquillage, la seduta settimanale di sensibilizzazione contro le molestie sessuali, la conferenza di Aicha Belarbi, ex ministro femminista venuta da Rabat. In un’aula della biblioteca, Jeremy Gunn sta preparando la proiezione serale del corso di cultura americana. Dalla Grace Kelly quacchera di Mezzogiorno di fuoco al predicatore di Furore, alla Madonna di Material Girl e alla Lady Gaga di Beautiful, Dirty, Rich.
Per gli imam paga il governo, ma costa caro iscriversi in questa università, in cui i rampolli del Marocco benestante studiano ingegneria, management e comunicazione, mentre gli studenti americani e europei vengono a imparare come si cammina sul filo di scambi e denaro che collega l’Occidente al mondo arabo. Gli imam si mischiano a studenti, come l’italiana Sofia, che hanno fretta di crescere e di riuscire.
Il collega Bouziane Zaid mi ha invitato nel suo corso di comunicazione e sviluppo, per parlare della teologia della liberazione. Racconto di Oscar Romero, di Desmond Tutu. Una studentessa di Liegi con il velo si stupisce che in tanti anni nelle scuole cattoliche del Belgio nessuno le abbia mai parlato di tutto ciò; si entusiasma al pensiero di un islam liberatore degli oppressi. Kenza Oumlil mi ha invitato nel suo corso di teoria dei media. Agli studenti interessa il business, nessuno vuol fare il giornalista: mestiere troppo mal pagato, troppo pericoloso. Non per questo si tirano indietro quando viene il momento delle domande.
Mi incalzano sui due Papi, sul rinnovamento della Chiesa, su ciò che ho dichiarato in proposito ad Al Jazeera un anno fa. Non ci sono imam in aula. Questi corsi non fanno parte del programma. Ma alla mia conferenza, la sera, una dozzina di loro è in sala. Parlo dell’uso della religione nella politica post moderna: faccio scorrere le immagini del Dalai Lama e di Tom Cruise, di Berlusconi e Gheddafi, dei manifesti svizzeri anti-minareto, delle musulmane in marcia a Parigi contro la laicità che vieta loro di indossare il velo a scuola, dei barbuti che a Londra inneggiano alla sharia che dominerà il mondo, debellando la democrazia.
Un imam, a fine conferenza, mi dice la sua passione per un islam politico, la sua determinazione nel costruire una religione di progresso. Gli imam di Al Akhawayn si preparano a diventare gli ambasciatori nel mondo dell’islam del Marocco. Non hanno dubbi che il loro sia il migliore islam possibile. Moderato ed energico, tradizionale e moderno. Non hanno velleità rivoluzionarie. Stanno con un ministero degli Affari religiosi impegnato a costruire un islam ufficiale, di credo asharita e di scuola malikita, sensibile al sufismo e alle tradizioni popolari.
Nella geopolitica globale, quest’islam d’ordine piace a molti, anche in Occidente. Quello che avviene sul campus, tuttavia, sfugge alle strategie e ai disegni. È grande politica, certo, ma anche, soprattutto, traiettorie individuali. Glorianna Pionati, psicologa italoamericana del campus, mi dice che i problemi sono simili per tutti: l’ossessione della verginità, la paura dell’omosessualità, i diversi modelli sociali e familiari che fanno l’individuo a pezzi. C’è l’imam che ha trovato qui la fidanzata, l’imam già sposato, quello che attende la scelta delle famiglie. C’è chi resterà in Marocco, chi sogna il Canada. C’è chi è a disagio per questa formazione e chi grazie ai corsi, mi dice Emilie Roy, «ha smesso di vedere l’islam come una bolla di astrazione teologica». Ci sono infine i tanti che hanno solo voglia di capire, di fare, che si preparano a percorrere le strade del mondo pensandola come Gunn: «Il problema non sta nelle religioni, ma in coloro che popolano le religioni».”

Tetris

tetrisPer sorridere un po’

Fuori categoria

In classe (in quinta in particolare, ma anche in seconda) stiamo parlando di fede, agnosticismo, ateismo, Dio, non-Dio, silenzio di Dio, onnipotenza-impotenza-assenza… Ciascuno di voi si è messo in gioco dicendo come la pensa, idee, dubbi, opinioni. Oggi pubblicodiario_etty il pensiero di una donna che non può essere incasellata all’interno di un certo credo religioso. In quinta ho già citato Etty Hillesum, e anche qui sul blog ho già riportato qualcosa di questa giovane di origini ebraiche e dal pensiero singolare, originale, tormentato e molto profondo. Ecco qui poche righe da cui si potrebbe trarre un trattato di teologia interreligiosa.
Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: (…) tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi.” (E. Hillesum, Diario 1941-1943. Edizione integrale)