Equilibri sottili

In diverse classi parliamo del rapporto tra Europa e religioni. Aggiungiamo un altro tassello per la discussione: è un articolo di Riccardo Noury di Amnesty, preso da Le persone e la dignità.

“Lunedì scorso la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che la compagnia aerea Nadia.jpgBritish Airways ha avuto un comportamento discriminatorio a causa della fede religiosa di una sua impiegata, stabilendo un risarcimento di 32.000 euro. La vicenda è quella di Nadia Eweida, una cristiana copta, che si era rivolta all’organo di giustizia europeo contestando l’obbligo, imposto dalla British Airways, di togliersi un crocifisso dal collo. Nel 2006 la donna, addetta al check-in, si era rifiutata di rispettare il codice di abbigliamento della compagnia aerea che prevedeva l’assenza di ornamenti intorno al collo ed era stata licenziata. Un anno dopo il codice era stato modificato e Nadia Eweida era stata reintegrata. Ma, nel frattempo, il suo ricorso era partito.

Richiamando l’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali, la Corte europea ha ribadito che indossare simboli religiosi è una parte importante del diritto alla libertà di religione e alla libertà di espressione. Amnesty International, in una nota, ha auspicato che questa sentenza possa contribuire a contrastare la discriminazione nell’impiego nei confronti di fedeli di ogni religione. Sono molti, infatti, i casi simili a quello di Nadia Eweida in molti paesi europei. Divieti o limitazioni relativi a simboli religiosi o culturali, così come a capi d’abbigliamento, soprattutto nei confronti di fedeli musulmani, sono stati imposti da datori di lavoro privati con la scusa che non erano necessari ai fini dello svolgimento dell’opera professionale richiesta. Non è che ognuno possa fare completamente come gli pare, sia chiaro. Vi sono casi in cui i datori di lavoro possono applicare regolamenti restrittivi per un obiettivo legittimo, nella misura in cui tali restrizioni siano necessarie e proporzionali all’obiettivo.

Nella stessa sentenza, la Corte europea dei diritti umani ha respinto il ricorso di altre persone di fede cristiana. In particolare, quelli di Lilian Ladele e di Gary McFarlane, i quali per motivi religiosi avevano, rispettivamente, rifiutato di registrare matrimoni civili omosessuali e di fornire consulenza a coppie omosessuali. Un terzo ricorso respinto riguardava un’infermiera che era stata obbligata a togliersi un crocifisso dal collo in quanto avrebbe potuto ferire i suoi pazienti. La Corte, in questi casi, ha rilevato che i ricorrenti avevano rifiutato di svolgere attività che erano essenziali nel contesto della loro professione. In sintesi, ci dice la sentenza, il diritto alla libertà di religione o di credo dev’essere protetto dalla discriminazione ma può essere limitato allo scopo di proteggere i diritti di altre persone. Un equilibrio sottile, ma indispensabile da mantenere e rispettare.”

Ignoranti di tutto il mondo

Eccone un’altra. Un’altra di quelle cose che leggo la mattina e poi mi ritrovo in altro modo nel pomeriggio… Sto leggendo il bel libro di Fabio Geda “Nel mare ci sono i coccodrilli”. A pag. 24 scrive

“A questo tengo molto Fabio.

A cosa?

Al fatto di dire che afghani e talebani sono diversi. Desidero che la gente lo sappia. Sai di quante nazionalità erano, quelli che hanno ucciso il mio maestro?

No. Di quante?

Erano venti, queli arrivati con la jeep, giusto? Be’ non saranno stati di venti nazionalità diverse, ma quasi. Alcuni non riuscivano nemmeno a comunicare tra loro. Pakistan, Senegal, Marocco, Egitto. Tanti pensano che i talebani sino afghani, Fabio, ma non è così. Ci sono anche afghani tra di loro, ovvio, ma non solo: sono ignoranti, ignoranti di tutto il mondo che impediscono ai bambini di studiare perché temono che possano capire che non fanno ciò che fanno nel nome di Dio, ma per i loro affari.”

Oggi pomeriggio arriva a casa e su twitter leggo il titolo di un articolo che mi attira. Tratta di globalizzazione e Africa, è di Chiara Zappa ed è preso da Avvenire. Evidenzio in grassetto il tratto in comune con il libro di Geda.

breve storia africa.jpg“Il Mali ostaggio dei fondamentalisti, la Nigeria dei kamikaze nelle chiese, ma anche il Maghreb, dove l’ascesa dei gruppi salafiti – dall’Egitto alla Tunisia alla Libia – sta raffreddando le speranze seguite alle primavere arabe: l’Africa è la nuova frontiera dello scontro di civiltà? Per Catherine Coquery-Vidrovitch, nota africanista professore emerito all’Università Paris-VII, il quadro non è questo. Anzi, «ci sono ben altri fronti su cui il continente, oggi, si sta davvero dimostrando protagonista ». Un esempio? «Mentre tutto il mondo soffre i contraccolpi della crisi economica, l’Africa fa registrare una crescita senza precedenti». La studiosa francese invita a ribaltare la prospettiva. E lo fa, lei per prima, nel suo libro Breve storia dell’Africa, da poco uscito per Il Mulino (pp. 170, euro 14). In cui, ripercorrendo le tappe salienti di un passato antichissimo («gli antenati degli uomini hanno fatto la loro comparsa in Africa parecchi milioni di anni fa», ricorda), fa notare come il continente rappresenti «una straordinaria terra di sintesi» che «non ha mai vissuto, contrariamente a quanto hanno creduto e raccontato gli europei, nell’isolamento». Non c’è da stupirsi, dunque, che tutti i grandi fenomeni di portata globale – in questo caso l’acuirsi di tensioni che strumentalizzano la sensibilità religiosa – si riverberino nelle dinamiche interne all’Africa.

Ma le immagini di violenza che ci arrivano dal Sahel o dalla Nigeria non la preoccupano?

Naturalmente si tratta di fenomeni gravi, eppure dobbiamo ricordare che l’islam, a sud del Sahara, è in maggioranza molto tollerante. Le forme religiose estremiste sono minoritarie, anche se sono quelle che fanno più rumore. In Mali, i jihadisti che stanno seminando il terrore vengono dalla Libia, mentre in vari contesti, in primo luogo la Nigeria, i conflitti in corso hanno ben altre ragioni – terre contese, scontri per le risorse, su una base di povertà e mancanza di prospettive – e non possono affatto essere ridotti a tensioni religiose.

Dunque non vede una rinascita dell’islam militante?

Non dimentichiamo che il fondamentalismo non è appannaggio dei musulmani, ma, per esempio nella Nigeria meridionale e sulla costa occidentale del continente, interessa anche le sette ultrareligiose cristiane evangeliche e pentecostali. L’estremismo e il ricorso al soprannaturale per giustificare la violenza riguardano musulmani, cristiani e anche animisti: non siamo di fronte a scontri di civiltà, ma a scontri per lo sviluppo.

A proposito di sviluppo, lei enfatizza l’attuale boom economico in Africa: quali sono le potenzialità e i limiti di questo fenomeno?

Le potenzialità sono enormi. Il continente possiede riserve importanti di tutte le risorse più preziose: diamanti, oro, uranio e soprattutto petrolio, il che la rende una terra strategica, con tutti i vantaggi, e i rischi, del caso. L’Africa, in particolare quella subsahariana, rappresenta l’unica regione che, mentre il resto del mondo è in crisi, continua a fare registrare una rapida crescita del Pil (con il record di sei dei Paesi a sviluppo più rapido degli ultimi dieci anni, ndr). Certo, questi dati dipendono anche dal fatto che il punto di partenza, a livello di sviluppo economico e industriale, era molto basso. Senza contare alcune contraddizioni: in certi Stati resistono élite corrotte e inadeguate che impediscono che i benefici della crescita ricadano sulla maggioranza della popolazione. Si creano così forti diseguaglianze sociali. C’è uno scollamento tra i progressi di una società civile vivace e una democratizzazione lenta. Eppure, negli ultimi anni assistiamo all’ascesa di una nuova, rilevante classe media.

Oltre 300 milioni di persone, secondo la Banca africana di sviluppo: qual è il ruolo di questa classe media?

Notevole. Si tratta di un processo accelerato negli ultimi vent’anni. Se nel periodo coloniale solo una piccola maggioranza frequentava la scuola, già negli anni Novanta lo scenario si era rivoluzionato, e l’istruzione ha portato con sé un’importante diversificazione e modernizzazione delle attività professionali. Oggi, soprattutto nelle città, esiste una fascia sociale fatta di funzionari statali, insegnanti, imprenditori, operatori dei servizi, che si sono moltiplicati grazie all’arrivo delle grandi società multinazionali, che hanno aperto sul continente le loro filiali e vi hanno riversato i propri capitali. La nuova borghesia africana rappresenta un mercato molto appetibile, in prospettiva il più grande mercato al mondo.

Le conseguenze dell’urbanizzazione sono solo economiche?

Non solo. Se è vero che in Africa l’urbanizzazione è stata tardiva, oggi ci sono città che sono passate in dieci anni da qualche migliaio a qualche milione di abitanti. Pensiamo a Libreville, in Gabon, al Sudafrica, al Senegal, o anche a un Paese come il Ruanda, fino a pochi anni fa quasi esclusivamente rurale. A livello continentale, la popolazione delle città è pari o addirittura superiore a quella delle campagne. E le città costituiscono non solo contesti con maggiori opportunità formative, sanitarie e professionali, ma anche i centri della coscienza e dell’attivismo politico. Le classi medie urbane sono sempre meno disposte a supportare i regimi dittatoriali del passato.

Che ne pensa dell’esplosione delle nuove tecnologie della comunicazione?

È un fenomeno estremamente importante. Oggi, in Africa, praticamente tutti hanno un cellulare, gli internet point si sono moltiplicati: la comunicazione e l’informazione sono chiavi per lo sviluppo e per la crescita della coscienza sociale e politica. Gli intellettuali africani sono sempre più permeabili agli apporti dell’estero, e anche la gente comune ha aperto i propri orizzonti. Abbiamo visto il ruolo dei social network nelle rivoluzioni nordafricane: ebbene, anche a sud del Sahara il cambiamento sta arrivando.”

Di che scegliere

Su Avvenire Lorenzo Fazzini commenta un libro di Pascal Morand sul rapporto tra lusso e religioni. Sotto lo pubblico per intero, ma lo faccio precedere da un passo preso dal libro “Fuori dal tempio” di Pierluigi Di Piazza in cui vengono riportate le parole di pre Toni Beline.

Il 18 ottobre 1975, fra le tante persone presenti quando sono stato ordinato prete, c’era anche don Antonio Bellina, allora parroco di una zona della montagna; dotato di intelligenza viva, di rara capacità di espressione orale e scritta, uomo e prete libero e critico. Venni a sapere della sua presenza perché ricevetti da lui una lettera, datata 19 ottobre, poi diventata pubblica, nella quale rifletteva sull’essere prete, concludendo provocatoriamente: «Hai tre strade da scegliere. La prima è quella della verità. Presentandoti come sei, devi dare una mano al popolo a liberarsi da tutte le catene che lo tengono prigioniero. Devi farlo crescere nella libertà, camminando davanti a lui verso la terra promessa. Se scegli questa strada, ti troverai contro immancabilmente il vescovo, i preti, i politici, i padroni, i bigotti, forse anche i tuoi amici. Avrai solo il conforto di Cristo e quello della tua coscienza. Puoi scegliere la seconda, che è quella della gran parte dei preti: non mettersi contro nessuno, fare funzioni religiose, dottrina, avvicinare coloro che sono ritenuti “poveracci’, dare ragione a tutti e non coinvolgersi con nessuno. Lasciare che la povera gente vada per la sua strada, soffra e muoia. Poi ti chiameranno per il funerale. Se scegli di non essere né pepe né sale, non avrai contro nessuno, farai solo pena. La terza strada l’hanno scelta in molti. Fregarsene della gente e mettersi dalla parte dei potenti. Avrai soldi, amici, ti faranno monsignore, potrai mettere da parte anche qualche soldo. Avrai il potere di trovarti molto bene in questo mondo. Avrai solo qualche imbarazzo a rispondere a Colui che ti aveva inviato a fare tutto tranne queste porcherie. Come vedi, hai di che scegliere”.

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Ecco il pezzo di Avvenire.

“Per un Gesù che loda la donna che spreca un vaso di olio profumato per fargli onore, vanno rammentati quei Padri della Chiesa durissimi sulla ricchezza ostentata: «Il tempo dei cristiani è un tempo di ferro e non d’oro» (Tertulliano); «Il superfluo del ricco è il necessario del povero» (san Girolamo). E se per l’islam i giardini dell’Eden sono – scrive il Corano – popolati di persone «con braccialetti d’oro, vestiti di abiti di seta», è pur vero che nella umma islamica vi sono correnti, come il wahabismo, dove ogni superfluo viene contestato. In Oriente il buddismo non è così ostile al lusso dell’esistenza, come si potrebbe pensare. Mentre l’induismo prevede, tra gli obiettivi degli adepti, proprio il piacere della persona. Insomma, chi l’ha detto che il credere faccia a pugni con l’essere bon viveur, o meglio con il lusso e la ricchezza? Pascal Morand, docente di economia all’Escp Europe, si è preso la briga di confrontare i principi di 8 diverse confessioni religiose con la pratica di quella che lui stesso definisce «ciò che oltrepassa l’uso» corrente delle cose, ovvero il lusso. Con una premessa del romanziere Marcel Proust, secondo cui il primo lusso dell’uomo è nientemeno che il tempo: «Se il tempo non è sinonimo di piacere, l’assenza di tempo è sicuramente fonte di dispiacere». Ma dunque come si rapportano secondo Morand i diversi credo con l’ostentazione della ricchezza? (en passant: la sua ricerca Les religions et le luxe. L’éthique de la richesse d’Orient en Occident, Editions du Regard, pp. 244, euro 22, è stata cofinanziata dalla Fondazione Pierre Bergé di Yves Saint Laurent: per cui, un tantino di precauzione nel trattarne i risultati è auspicabile…).

In sostanza il ricercatore transalpino trova più ambiguità e compromessi tra credere e lusso che non intemerate e scomuniche. Il caso cattolicesimo è quello che pone più problemi: se, come si diceva, i Padri della Chiesa (che accomunano del resto le diverse confessioni cristiane) erano molto duri su chi si lascia andare al superfluo, è proprio sant’Agostino a sancire la linea rigorista che andrà per la maggiore nella Chiesa: «Possedere il superfluo è possedere le cose altrui», scrisse il celebre teologo di Ippona. Figurarsi mostrarle e farne oggetto di esibizione! Epperò è il pensiero medievale che apre – secondo Morand – una possibilità di compresenza tra fede e lusso: la polarità interna al monachesimo cistercense e a quello di Cluny è paradigmatica: «Da un lato chiese bianche e solo funzionali, dall’altro il gusto dei vasti edifici, quello che si può chiamare “lusso per Dio”». È poi il barocco a consacrare la legittimità di un lusso divino che «rappresenta e provoca i movimenti dell’anima donando libero corso all’immagine, all’emozione e alla sensualità». Morand indaga poi altri due “territori” cristiani: il protestantesimo, con le sue varianti calviniste e anglicana, e l’ortodossia. In terra ortodossa è da segnalare che, con l’ascesa degli imperatori macedoni a Costantinopoli, «le arti sontuose divennero più che mai indispensabili all’esercizio del potere imperiale e alla gloria di Dio». E infatti sono numerosi i racconti di pellegrini russi e latini che, passando per la “seconda Roma”, riferiscono di «reliquie e icone coperte d’oro, pietre preziose e perle accumulate nei santuari». Insomma, visto che l’ortodossia «accorda meno importanza all’enunciato della morale rispetto al suo omologo occidentale» (il cattolicesimo, ndr) ecco che «l’aspirazione alla ricchezza e il desiderio del lusso ostentato sono un marchio di fabbrica della tradizione bizantina». Se si passa alle altre due religioni del Libro, Morand vede anche nell’ebraismo e nell’islam spiragli consistenti per far convivere lusso e fede. Arrivando a citare, nell’analisi dell’ebraismo, il noto economista Jacques Attali. Per il quale «nell’ebraismo è auspicabile essere ricchi, mentre per i cristiani è raccomandato di essere poveri. Per gli ebrei la ricchezza è un modo per servire meglio Dio; per i cristiani essa non può che nuocere alla salvezza». Ma anche qui le differenze non mancano: il celebre scrittore viennese ebreo Stefan Zweig sosteneva che «la ricchezza non è che un grado intermedio, un modo di raggiungere uno scopo vero. La volontà reale dell’ebreo consiste nell’elevarsi spiritualmente e raggiungere un livello culturale superiore». Morand rintraccia nell’ebraismo anche correnti più rigoriste e anti-lusso, come la cabbala. In sintesi, però, la fede abramitica «non considera il lusso che deriva dalla ricchezza un fattore di colpa. Ma è importante preservare l’ostentazione dell’eccesso».

E in Oriente? Qui si rintracciano le conclusioni più curiose del lavoro di Morand. Si scopre che l’induismo ha un rapporto ambiguo con il lusso: da un lato il maharadjah, figura contemplata nella società induista, è decisamente associato al benessere; dall’altro nella scala sociale della dea Shiva compare anche la figura dell’asceta. «L’induismo rivendica esplicitamente il piacere sensuale, dal momento che il kama, cioè il desiderio – nella sua valenza di soddisfazione carnale e voluttà –, è uno dei quattro obiettivi dell’uomo». E non si pensi che l’assenza del desiderio, che è il fondamento del pensiero buddista, contempli l’esclusione del denaro e della sua rappresentazione sociale. «È erroneo pensare un comportamento opposto e univoco del buddismo verso il lusso: bisogna distinguere tra quel che è auspicato e incoraggiato e quanto tollerato e permesso. La vita dei “laici” non obbedisce alle stesse esigenze di quella monastica». Così, il buddismo nascente che si confrontava con l’induismo «doveva costruire santuari, reliquiari monumentali e monasteri, acquisendo così un vantaggio sul brahmanismo che quest’ultimo non recuperò mai più». E anche la vita monastica dei bonzi ha subito derive lussuose non infrequenti: «Sono plausibili le lamentazioni periodiche su alcuni monasteri buddhisti infiltrati da uomini e donne interessate solo da una vita confortevole. La tendenza dei monasteri a una vita lussuosa è particolarmente ben dimostrata dall’estensione delle loro proprietà e porta a regolari domande di purificazione». Insomma, tra i discepoli di Buddha, scrive Morand, «se è preferibile evitare il lusso e la voluttà, questi comunque non devono essere banditi».

Infine una noterella sul confucianesimo. Qui si apre indirettamente il capitolo Cina, dove il pensiero di Confucio ha plasmato una società oggi diventata una tumultuosa potenza economica. Le due cose sono collegate? Secondo Max Weber il confucianesimo era un ostacolo allo sviluppo economico. Ma ora che il Dragone è la patria di 150 milioni di nuovi ricchi, tale assioma non vale più. E infatti secondo Morand «per il confucianesimo la ricchezza ha diritto di cittadinanza, è un fatto di cui è possibile beneficiare senza problema perché è qualcosa di realmente sceso dal cielo».”

Sette settimane: quasi due mesi?

L’altroieri avevo una riunione con alcuni colleghi. Una di loro mi ha raccontato di un articolonumero7.jpg di Repubblica che mi ha fatto sorridere. Il riferimento era la frase del generale israeliano Eyal Eisenberg sulla durata della battaglia nella striscia di Gaza: “Un periodo di combattimento di sette settimane”. L’articolo di Repubblica afferma che la battaglia durerà quasi due mesi. Ecco in poche righe un esemplificazione delle ragioni secondo cui è importante conoscere le religioni e la cultura religiosa. Sette settimane non sono semplicemente meno di due mesi. Posto qui sotto un articolo di Marco Mostallino pubblicato su Lettera43 (di cui non capisco il punto di vista secondo il quale Levitico e Deuteronomio siano testi ignorati dai cristiani: personalmente ho fatto pure un esame su di essi…).

“Il 50esimo giorno nella Bibbia è quello del giubileo, della festa, della vittoria. Arriva dopo «sette settimane» di sacrifici e patimenti: esattamente il tempo che il comandante delle truppe israeliane sul confine di Gaza, il general Eyal Eisenberg, ha annunciato come possibile durata dell’offensiva di terra contro Hamas. Certo, la previsione di 49 giorni di conflitto è basata anche su fattori militari e geografici, sulla stima della possibile resistenza delle truppe nemiche e sull’efficienza delle proprie. Ma la coincidenza con i testi religiosi è troppo netta e precisa per essere casuale: i riferimenti alle sacre scritture ebraiche e alla cabala non sono rari nella strategia delle Forza armate israeliane.

Nel Levitico, uno dei libri della Bibbia trascurati dai cristiani, ma preziosi per gli ebrei, si legge che la preparazione all’anno giubilare dura «sette settimane di anni», ovvero 49 anni, mentre il 50esimo sarà l’anno della festa. Il testo parla di «settimane di anni»; lo stato maggiore israeliano, invece, intende le settimane come noi le conosciamo, eppure il riferimento è evidente e voluto. I versetti 8-10 del capitolo 25 recitano: «Dichiarate santo il 50esimo anno e proclamate la liberazione nel Paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia». Per i credenti, per gli antichi ebrei privati della terra promessa, è questo il volere di Dio: la conquista o riconquista della patria, la «liberazione del Paese». Non stupirebbe sentir parlare i generali israeliani di un’offensiva militare messa in campo al fine di permettere ai propri cittadini di «tornare nella loro proprietà», la terra che a giudizio di Israele i palestinesi occupano illegalmente. Si tratta dei concetti del Levitico, il momento centrale della festa religiosa, e coincidono con i piani di battaglia del moderno esercito di Gerusalemme.

Anche nel Deuteronomio, un altro dei testi biblici ignorati dai cristiani, si legge (capitolo 16) la seguente prescrizione: «Conterai sette settimane; da quando si metterà la falce nella messe comincerai a contare sette settimane: poi celebrerai la festa delle settimane per il Signore tuo Dio, offrendo nella misura della tua generosità e in ragione di ciò in cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto». Ritornano, quindi, le sette settimane di fatica, di sofferenza, per celebrare al 50esimo giorno il raccolto, la vittoria, la lode a Dio che «non dimentica il suo popolo».

Il numero sette, d’altronde, è ricorrente e importante nella Bibbia: dai sette giorni della creazione fino al dettato evangelico di «perdonare 70 volte sette», le scritture sacre sono piene di eventi e precetti importanti sottolineati con questo numero. Così come le campagne militari delle forze armate israeliane: nel 1967 le truppe di Tel Aviv combatterono e vinsero la Guerra dei sei giorni, programmata a tavolino per questa durata precisa, così da sorprendere i comandanti di Siria ed Egitto, ma anche per ricalcare lo schema della Creazione biblica, dove per sei giorni Dio costruisce un mondo, per poi potere riposare e gioire nel settimo giorno. Potenza della fede o delle armi? Oppure, ancora, si tratta di richiami magici di una religione che convive con l’esoterismo, separata da una frontiera assai incerta e penetrabile? Al di là di quella che possa essere la durata reale della guerra con Hamas, quando comunica agli israeliani di prepararsi a «sette settimane di combattimento», il generale usa un linguaggio simbolico ben compreso nel proprio senso profondo dalla popolazione civile. Credenti o non credenti, i cittadini del moderno Stato di Israele sono cresciuti dentro la cultura ebraica e ne colgono e utilizzano simboli e riferimenti: così sanno che, almeno negli intenti, si tratta di una guerra che potrebbe essere in qualche modo decisiva.

Sette è un numero considerato perfetto, sacro ma anche magico, potente ed esoterico, nato dalla somma o fusione dell’elemento umano (numero quattro) dell’esistenza e di quello divino (il tre). È un numero che ha tra i propri molteplici significatici cabalistici quello della «forza»: la forza umana delle armi insieme con l’aiuto di Dio possono condurre le forze armate israeliane a una vittoria altrimenti impossibile, almeno nell’auspicio dei generali che scelgono le strategie militari. Del resto, i militari di ogni epoca e ogni parte del mondo sono stati spesso legati alla scaramanzia.

Lo stato maggiore israeliano aggiunge alla tradizione l’appello al divino, anche nelle parole. Così i poderosi carri armati prodotti in Israele sono chiamati «Merkavà», un termine che nella Bibbia indica il carro di fuoco che il profeta Ezechiele vede correre nel cielo lanciando saette e fiamme.

Ezechiele, poi, viveva, insieme con il suo popolo, negli anni dell’esilio di Babilonia, in attesa di tornare alla terra promessa, la Palestina dove oggi israeliani e Hamas si scambiano missili e bombe.

Insomma, gli alti comandi israeliani vedono l’attuale campagna militare come una prosecuzione della «guerra santa» che l’antico popolo ebraico dovette combattere contro i «malvagi» Filistei (in arabo moderno i palestinesi sono chiamati «filistin») e contro Amalek, dal nome delle genti che abitavano la Palestina biblica, diventato pian piano sinonimo di male assoluto, di demonio.

Curiosamente, infine, anche la postura dei comandanti dei carri armati israeliani, ritti con il busto fuori dalla torretta blindata, richiama la posizione di Mosè il quale, durante la guerra contro Amalek, su una collina, dritto in piedi, tiene alte le braccia al cielo per chiedere l’aiuto divino: e, racconta la Bibbia, quando Mosè teneva le braccia alte, gli ebrei avevano la meglio in combattimento, per poi rischiare di essere sopraffatti se il loro capo, stanco, lasciava cadere le braccia lungo i fianchi per riposare. La storia è ricca di simili esempi: le sette settimane dell’esercito israeliano a Gaza sono una sorta di amuleto, come la scritta in hoc signo vinces che l’imperatore romano Costantino fece apporre, insieme con la croce, nelle bandiere del suo esercito che a ponte Milvio avrebbe poi sconfitto Massenzio. E come il gioco del solitario con le carte cui Napoleone, uno dei più grandi strateghi della storia, pare si affidasse prima di ogni battaglia per cercare il contatto con quelle forze occulte, divine o naturali, che potevano guidarlo alla vittoria sul campo militare.”

Europa laica?

Venerdì scorso ho pubblicato un post su una sentenza emessa da un tribunale tedesco quest’estate. L’argomento in questione era la circoncisione. Condivido ora, sulla stessa questione un articolo del sociologo dell’università di Padova Stefano Allievi. La fonte è la rivista Popoli.

“Dopo i veli e i crocifissi, toccherà ai prepuzi diventare oggetto di dibattito culturale, di 49 Guido Reni - la circoncisione.jpgconfronto politico, di iniziativa legislativa? La polemica religiosa estiva di quest’anno è emersa in Germania. Una sentenza del tribunale di Colonia – relativa a un bambino musulmano di quattro anni che aveva dovuto patire fastidiose complicazioni a seguito di una circoncisione – ha di fatto definito reato la circoncisione per motivi religiosi, in quanto «lesiva dell’integrità fisica» della persona. Una decisione che ha allarmato i musulmani, ma ancora di più gli ebrei – che condividono con i musulmani identica pratica -, il cui peso, in Germania, anche se numericamente inferiore, è per ovvie ragioni storiche culturalmente molto superiore. Ed è stato a causa delle durissime proteste ebraiche – la Conferenza europea dei rabbini ha addirittura definito la decisione «il peggior attacco agli ebrei dal tempo dell’Olocausto» – che il caso ha innescato una polemica pubblica di rilievo. Nella sua iniziativa di protesta, la comunità ebraica tedesca ha incassato l’appoggio – oltre ovviamente dei musulmani – anche della Chiesa evangelica e della Chiesa cattolica tedesca. Per ragioni che non sono di mera solidarietà, come vedremo, ma di principo.

Il Parlamento tedesco, per la verità, si è affrettato a votare a larga maggioranza una risoluzione favorevole alla circoncisione. Ma un sondaggio rivela che quasi la metà della popolazione (45%) sarebbe contraria, in nome della libertà di scelta in età adulta del bambino. Principio apparentemente ragionevole, il cui riferimento sono i diritti dell’individuo. Ma che, estensivamente applicato, potrebbe portare davvero molto lontano: ovvero ben al di là delle scelte e delle problematiche religiose, andando a implicare (e vietare?) ogni pratica educativa, religiosa o meno.

Il vantaggio di questa polemica, se così possiamo dire, è che non vale per una singola comunità religiosa. Si fosse trattato di un’usanza solo islamica, avremmo visto la stanca e ripetitiva prassi delle strumentalizzazioni politiche e degli schieramenti su posizione avverse. Ma il fatto che sia condivisa da ebrei e musulmani (come del resto la questione della macellazione rituale, ciclicamente rimessa in questione in vari Paesi, talvolta da partiti islamofobi ignari che riguardi anche gli ebrei), e praticata da molti altri per motivi igienici, come accade negli Usa (secondo alcuni studi, la maggioranza dei maschi americani è circoncisa, e molti ospedali la offrono come prestazione standard), aiuta a far andare la polemica dritta verso snodi teorici fondamentali che toccano i principi fondativi delle società pluralistiche. Ci sono certo aspetti pratici che toccano la questione: come ad esempio chi sia il soggetto autorizzato a praticarla (rabbini e imam o solo medici?) e il luogo in cui ciò è consentito (solo l’ospedale o anche una casa privata o un locale religioso?). Ma fin qui siamo nel novero delle technicalities, facilmente risolvibili. Ricordiamo che su questi aspetti ci sono state accuse e processi anche in Italia, a proposito di imam che avevano operato maldestramente provocando infezioni e lesioni a un bambino.

È chiaro invece che la questione cruciale è di principio, ed è grande come i fondamenti stessi del vivere in comune, dei principi fondativi della società, e del riconoscimento, tra le altre libertà, della libertà educativa e religiosa. Quali sono i limiti della libertà di religione? Può essa includere pratiche contrarie alla legge? No, evidentemente. Ma quali limiti può porre la legge, e in base a quali principi? Un primo limite è certamente l’integrità della persona fisica. Nessuno, nei Paesi occidentali, lo mette in questione. Tanto è vero che sulla base di questo criterio si è bandita ogni tolleranza di fronte all’escissione e all’infibulazione. Ma come si definisce questa integrità? Il limite è estendibile anche a pratiche, come la circoncisione maschile (ma potrebbe essere anche l’imposizione di un orecchino o di un tatuaggio), che non provocano un danno all’individuo, ma semmai ne sanciscono una diversità? Ancora, dove porre il limite alla libertà personale, inclusa quella degli educatori e dei genitori? Perché un’interpretazione estensiva del principio dell’intangibilità della persona, non solo sul piano fisico, potrebbe portare a vietare, sulla base di questi presupposti, anche il battesimo o qualunque altra pratica che attribuisca al soggetto minorenne uno status particolare o un’etichetta sociale: dal portare simboli religiosi, all’imporre un determinato codice vestiario, anche non religiosamente motivato.

Così facendo il rischio è che emerga un’idea di società che – come nella legge francese introdotta per combattere il velo islamico nella scuola pubblica – espunge i simboli religiosi dalla sfera pubblica, ma non tutti gli altri simboli (politici, culturali o di moda). Una società e una legislazione che, in pratica, decidono sulla base di un criterio ideologico, o meramente di potere, ciò che è consentito e ciò che non lo è. Sarebbe un paradosso, in società che sono sempre più plurali, e quindi contengono al loro interno diversità sempre maggiori. È sulla base di questi interrogativi che la sentenza di Colonia esce dal folklore per diventare un possibile segnale di dove stanno andando le società europee. E apre una discussione, anziché chiuderla. Sulle religioni, ma anche sull’idea di laicità che stiamo costruendo: una laicità aperta e includente, o al contrario, come sembra adombrare la sentenza di Colonia, una laicità esclusivista e, di fondo, ideologica?”

Sorridere

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Sono un po’ musone. Me lo dicono diversi colleghi, quando, la mattina, mi vedono in portineria. Non me lo dicono gli studenti; ma devo ammettere che la mia espressione in classe è diversa, più serena e spesso sorridente. Il fatto è che quando mi concentro sulle cose da fare e mi organizzo mentalmente assumo l’aria corrucciata. In fondo a questo pezzo Enzo Bianchi dice: “Per togliersi il muso, bisogna imparare a vivere senza strategie. Bisogna ritrovare lo stupore e l’ascolto, altrimenti ci si ammala.” Ci provo, anche perchè lui mi dà due anni di tempo…

Il pezzo è una simpatica intervista sul sorriso a Bianchi e a Moni Ovadia pubblicata da Maurizio Crosetti su La Repubblica.

In cosa consiste, secondo voi, “la sapienza del sorriso”?

M.O.: «All’inizio dell’avventura del monoteismo ebraico, c’è un’annunciazione che precede di 1.500 anni quella cristiana. Abramo, circonciso e centenario, è in comunicazione col divino e apprende che sua moglie Sara, novantenne e sterile, gli darà un figlio. Per tutta reazione, Abramo si scompiscia dalle risate, è ovvio che non ci crede, mentre il riso di Sara è più vergognoso ma non meno scettico. Nove mesi dopo, il Santo Benedetto si presenta per annunciare che il nascituro si chiamerà Isacco, nome che in italiano dice poco ma in ebraico è il futuro del verbo ridere. Eccolo, il figlio per quei due che tanto risero nel momento dell’annunciazione. L’identità ebraica è uno scoppio di risa, come l’aprirsi all’utopia, al cortocircuito tra senso e controsenso. Magari, la risata ebraica comincia con Caino che chiede “Sono forse io il custode di mio fratello?”, dopo averlo ucciso. Ma Dio raccoglie la provocazione, dicendo “nessuno tocchi Caino”».

E.B.: «Noi cristiani siamo sempre sorpresi per come gli ebrei, leggendo la Bibbia, siano capaci di humour e sorriso. Il Nuovo Testamento non dice mai che Gesù rise o sorrise, eppure ricordo che Pasolini nel “Vangelo secondo Matteo” fa aprire un gran sorriso sul volto di Gesù nel momento dell’entrata in Gerusalemme, al cospetto dei bambini. Quando vidi quell’immagine fu come una rivelazione. I cristiani, a differenza degli ebrei, non sono capaci di sorridere di Dio e neppure di litigarci. Gli unici a sorriderne sono i cosiddetti “santi folli”, soprattutto nella tradizione ortodossa, personaggi che oggi chiameremmo disturbati. Predicatori nudi, col fiasco in mano, capaci di sputare sulle candele per spegnerle o di abbracciare le mura dei postriboli: provocatori, dissacratori del potere. Alcuni, addirittura modelli di virtù. Meglio loro di un certo sorriso stereotipato da immaginetta, da paccottiglia religiosa».

Il Dio della Bibbia è spesso truce e vendicatore, altro che sorrisi. Perché?

M.O.: «Si tratta di un grosso equivoco, frutto di letture errate e traduzioni approssimative. La famosa vendicatività di Dio, altro non è che l’estremo tentativo di mettere l’uomo di fronte al suo destino. Non una minaccia, semmai un grido di richiamo. Qualche volta sembra addirittura che Dio alzi le mani e si arrenda davanti a certe beghe umane, quando lo tirano in mezzo come giudice e lui ride con misericordia, non certo con cattiveria. Può forse Dio essere cattivo?».

E.B.: «Nell’Antico Testamento esistono forti immagini di collera divina, la proverbiale ira di Dio. Non sappiamo sopportarla, però dovremmo capire che quel linguaggio rivela la passione di Dio, la sua emotività. Dio sa indignarsi, è un appassionato del bene. Ma quando promette a Noè che non manderà un altro diluvio, e anzi guarderà l’arcobaleno come un arco deposto tra le nubi, come non immaginare il suo sorriso? Chi, tra noi, può osservare la fine della tempesta e il ritorno del sereno senza sorridere? Finché l’uomo è qui, sulla Terra, Dio non può castigarlo, altrimenti gli toglierebbe la libertà. Siamo noi a sbagliare strada, quando accade. E nessuno viene spedito all’inferno con nome e cognome, mentre ci sono uomini che vengono mandati in paradiso, i santi».

Il sorriso è spesso scambiato per debolezza, quasi un pregiudizio riduttivo. Come se fosse una forma di carineria. Non è profondamente ingiusto, questo?

M.O.: «E’ come l’equivoco opposto, cioè confondere serietà e seriosità. Oppure, non sorridere ma irridere o deridere. Esistono fragili confini. C’è chi ride per offendere, per sottolineare un difetto fisico o una mancanza di carattere, c’è chi irride le donne o i poveri. E c’è il sorriso ipocrita, falso. Come non sorridere, invece, pieni di luce, di fronte a certi comportamenti geniali dei bambini? La risata ebraica è di altra natura, spesso nasce dalla tragedia, è un bagliore di luce che spiazza. Ma è sempre leggerezza e salute, non pesantezza e malattia. Non fa forse ridere che il popolo eletto fosse composto dagli ultimi tra gli ultimi, e guidato da un profeta balbuziente come Mosè? Per questo Dio gli mise accanto Aronne, che invece aveva la lingua sciolta: erano come i due carabinieri».

E.B.: «Il sorriso non è mai debole. Per sorridere occorre una grande padronanza di cuore, bisogna esercitarsi molto. E’ facile irridere o deridere, ha ragione il mio amico Moni, oppure sfoderare un mezzo sorrisino di superiorità. Ma il vero sorriso è accoglienza, è apertura del volto all’altro: si muovono tutti i muscoli del viso, e si aprono di più gli occhi. Il vero sorriso parla senza bisogno di parole, anzi le precede, altrimenti è solo egoismo e freddezza. Il linguaggio del sorriso è il più carnale, il più corporeo: nessuno può dire buongiorno facendo il muso. Purtroppo si è scambiata la bontà col buonismo, ed è diabolico, è come spogliare l’uomo delle sue più profonde capacità. Lo stesso trattamento riservato alla mitezza. Io penso che la vera crisi non sia la mancanza di fede in Dio, ma negli altri. Fede e fiducia sono la stessa parola, nella Bibbia. E gli altri si accolgono sorridendo».

Qual è il vostro personale rapporto con il sorriso?

M.O.: «Io, come autore e attore, ne faccio collezione. Ho il privilegio di incontrare tanta gente, e quando sorrido è come se aprissi loro la porta. Non mando indietro mai nessuno. Capisco com’è andato lo spettacolo dal sorriso del pubblico. Ricordo quando mi innamorai di mia moglie, tre anni prima di fidanzarmi: all’inizio, lei mi guardava come un carciofo. Poi la rividi, appunto tre anni dopo, a una festa, e la guardai sorridendo. Lei un giorno mi ha detto: nessuno, né prima né dopo quella volta, mi ha mai sorriso come te».

E.B.: «Io sorrido molto volentieri, e allo stesso modo mi piace ridere. Non di storielle o barzellette che non so raccontare, ma del piacere del ricordo con gli amici, della sorpresa del passato. Mi hanno educato così da piccolo. Rammento mia madre ormai morente, io avevo otto anni e lei mi ripeteva “Enzo, sorridi”. Non lo dimenticherò mai. Però devo ammettere di essere anche molto tentato dalla collera, specialmente di fronte alla menzogna e all’ingiustizia: in quel casi, la mia faccia può diventare assai dura. E se nella Bibbia non si parla mai del sorriso di Gesù, si dice invece che “indurì il suo volto” verso Gerusalemme, quando vide i nemici all’orizzonte ma decise ugualmente di proseguire».

Siamo sempre più musoni, viviamo di mugugni, insoddisfazioni e lamenti continui. Un sorriso può guarirci?

M.O.: «Gli ebrei sanno sorridere di se stessi anche sull’orlo dell’abisso. Qui, però, c’è poco da ridere, tutto è competizione, individualismo e mercato. Non viviamo, sopravviviamo. Si corre come criceti nella ruota, il sorriso è imploso in una smorfia oppure si è plastificato. Senza poi dimenticare quella perversione che è il lifting: c’è gente imbalsamata in vita, almeno i faraoni aspettavano di essere morti”.

E.B.: «Per togliersi il muso, bisogna imparare a vivere senza strategie. Bisogna ritrovare lo stupore e l’ascolto, altrimenti ci si ammala. La faccia si deforma, e dopo i quarant’anni non c’è più niente da fare, la bocca diventa una lamentosa U capovolta. E dopo i quarant’anni, come dicono i saggi, ognuno ha la faccia che si merita».

Primavera o autunno?

proteste-islam-kabul-300x225.jpgDa Il sussidiario prendo un interessante articolo su primavera araba / autunno arabo di Luca Gino Castellin.

Dopo il drammatico attacco di Bengasi, in cui sono stati uccisi l’ambasciatore americano Christopher Stevens e altri tre membri del corpo diplomatico statunitense, tutti i media internazionali hanno raccontato il dilagare delle proteste dal Nord Africa fino al Sud-Est del Pacifico, attraverso il Medio Oriente e l’Asia Centrale, titolando con voce unanime “rivolta contro l’Occidente”. Questa scelta è sicuramente giusta, ma non aiuta a cogliere fino in fondo le conseguenze dei tumultuosi disordini in molti Paesi islamici. Indirizzate contro i simboli e le istituzioni della nostra civiltà, le violente manifestazioni di questi giorni sono anche una rivolta contro il mondo arabo.

Soprattutto, sono un atto di sfida a quella “primavera araba” che sembrava aver indirizzato – pur tra molte ambiguità e contraddizioni – i vari popoli della regione verso un presente e un futuro di speranza. Pertanto, a preoccuparsi di ciò che sta avvenendo dall’altra parte del Mediterraneo non dovrebbero essere soltanto gli Stati Uniti d’America, ma anche tutti i governi democraticamente eletti in questi due anni.

Gli Stati Uniti devono fronteggiare un nemico assai noto: il carsico antiamericanismo che pervade il mondo islamico. E devono farlo per difendere l’ingente capitale diplomatico investito nel supporto al lento e difficile processo di transizione in atto nella regione. La responsabilità di quanto è successo non risiede – come, invece, ha sostenuto Mitt Romney in maniera assai cinica (tanto da essere apertamente richiamato da altri esponenti del Grand Old Party) – nelle linee di politica estera dell’Amministrazione Obama verso il Medio Oriente. Le accuse del candidato repubblicano alla Casa Bianca rappresentano semmai una strumentalizzazione politica molto provinciale, che mette in mostra un grave deficit (forse, il principale) della sua piattaforma elettorale. D’altronde, la politica muscolare di George W. Bush non ha ottenuto maggiori risultati, piuttosto ha contribuito ad alimentare l’odio verso l’Occidente. Dopo una scellerata guerra preventiva contro il regime di Saddam Hussein, l’Iraq si trova infatti nuovamente in pericolo di fronte alla deriva autoritaria del Primo Ministro sciita Nouri al-Maliki. La strategia di Obama, a cui forse è possibile imputare un eccessivo ottimismo, costituisce invece una novità interessante e da non archiviare al primo vero ostacolo. L’aver scommesso sul desiderio di giustizia e di libertà dei popoli della regione (o di alcune loro componenti, anche minoritarie) è stato un rischio grande, ma che andava corso. E che, al tempo stesso, deve essere sostenuto.

Ma sono i Paesi della regione – tra cui soprattutto Libia ed Egitto – a dover prestare particolare attenzione ai tumulti in corso. La vittoria della coalizione liberale nell’ex regno di Gheddafi non ha infatti allontanato il grave problema che attanaglia il suo nuovo governo: ossia l’incapacità di acquisire ed esercitare il monopolio legittimo della forza nel Paese. Senza un pieno controllo del territorio, infatti, la presenza di sacche di resistenza fedeli al regime precedente e di formazioni terroristiche qaediste non potrà che diventare un male endemico della nuova Libia. E ciò potrebbe costituire un pericolo anche per l’Europa e in particolare per l’Italia. Finché le forze di sicurezza del governo di Tripoli non saranno in grado di garantire l’ordine interno, il nostro Continente va incontro a due grandi incognite: da un lato, quella riguardante le dinamiche migratorie illegali; dall’altro, quella relativa alla sicurezza e al pieno rispetto dei contratti economici in atto con la Libia.

Anche in Egitto le manifestazioni di questi giorni non devono essere sottovalutate. Il Paese – dopo la decisione della Corte Suprema dello scorso giugno – è ancora senza un Parlamento. E il presidente Mohamed Morsi, seppur rafforzato dal consenso elettorale e dai pieni poteri, deve evitare di lasciarsi travolgere dalle violenze salafite. Morsi può dimostrare la saldezza della propria leadership soltanto rifuggendo dalla comoda – ma, al tempo stesso, illusoria – acquiescenza verso qualsiasi deriva islamista. Anche per i Fratelli Musulmani – un movimento magmatico e con diverse anime al suo interno – c’è sempre il rischio di essere sorpassati sulle ali estreme da altre formazioni. Quella di fronte a Morsi è una scelta importante, dove il presidente deve saper agir con equilibrio. Da una parte, egli non può mostrarsi troppo indulgente verso i disordini di questi giorni. Gli islamisti, infatti, possono trasformarsi in un serio problema anche per Morsi, soprattutto perché rischiano di rendere sempre più incerta quella continuità della politica estera che aveva reso il governo del Cairo un alleato pragmatico sia per l’Occidente, sia per Israele. I recenti attacchi al Quartier generale dell’esercito egiziano nel Nord del Sinai evidenziano le grandi difficoltà a cui le forze di sicurezza del Paese si trovano di fronte per garantire il controllo di questa delicata e nevralgica zona di confine con lo Stato ebraico. Dall’altra parte, il presidente egiziano non può nemmeno apparire eccessivamente duro con sollevazioni più o meno spontanee, che hanno avuto come causa scatenante l’offesa al profeta Maometto. In un momento di transizione così delicato, infatti, la possibilità di essere soggetto al ricatto da parte di una minoranza islamista per motivi religiosi e ideologici costituisce un grave rischio, che può riversare sulle istituzioni politiche molto discredito e indebolirle sensibilmente. L’esigenza di ordine e sicurezza, intrecciata a quella di minore corruzione e maggiore giustizia, è un elemento essenziale nella società egiziana del dopo Mubarak, che il ceto politico egiziano si trova a dover gestire in un clima sociale assai teso ed esplosivo.

Che cosa può insegnare allora la furia islamista di questi giorni? L’attacco è una sfida non solo per l’Occidente, ma anche e soprattutto per il mondo arabo. La “primavera arab”» è stata – e ancora rimane – un fattore positivo e un’opportunità di cambiamento. Archiviarla alla prima difficoltà, per rivolgersi al triste orizzonte di un crepuscolare “autunno arabo”, è soltanto segno di cinismo (speculare all’iniziale idealismo di alcuni osservatori poco disincantati). Ciò che occorre invece è un sano realismo, come quello testimoniato da Benedetto XVI nel suo viaggio in Libano. Mentre la maggior parte degli esperti si improvvisava novella Cassandra e i governi di tutto il mondo erano pressoché impotenti di fronte agli avvenimenti, il Santo Padre incontrava il popolo della terra dei cedri – un popolo non solo segnato da anni di guerra civile, ma anche e paradossalmente modello di convivenza tra cristiani e musulmani – per affermare con intelligenza e fermezza le ragioni profonde della convivenza e della pace. Il Papa è ben consapevole che nel cuore di ogni uomo alberga un desiderio di bellezza, verità e giustizia che nessun film può sopprimere. Ma, come l’esperienza del Meeting Cairo dimostra, per rispondere a quelle esigenze insaziabili occorre un incontro e un’educazione. Senza fragili illusioni, è proprio ciò di cui il Medio Oriente ha bisogno oggi.

Verso la fine delle religioni?

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Articolo tosto, che fa pensare, da leggere con calma, in silenzio, senza distrazioni… E’ di Marialuisa Damini e Marco Dal Corso su Cem mondialità.

«I rischi non si corrono solo percorrendo le vecchie strade. Oggi non mi interessa più insegnare quello che so e neppure dare conto di quello che non so. Oggi vivo un nuovo amore: desidero insegnare i miei sogni. “Dio vuole. L’uomo sogna. L’opera nasce”, così ha scritto Fernando Pessoa. Mi permetto, quindi, con il permesso del poeta, di alterare il primo versetto del Vangelo di Giovanni: “In principio era il sogno…”. Tutto nasce dal sogno. Se si crede ai racconti biblici della creazione, Dio inizialmente ha sognato e solo dopo ha creato. Ha creato perché era infelice. Tutto quello che Dio compie è stato fatto perché il sogno divenisse realtà. La creazione, infatti, iniziò dalla fine, da quello che non esisteva, il sogno che Dio ha sognato: il paradiso. […] In uno delle sue poesie, Cecilia Meireles ha scritto: “Se ti chiederanno chi era colei che voleva insegnare alle spiagge e ai ghiacciai la primavera…”. Sulle spiagge e sui ghiacciai non esiste la primavera. Sulle spiagge e sui ghiacciai la primavera esiste solamente come sogno. Lì la primavera è appena una speranza». (Rubem Alves).

«Ricordo i versi di Chico (Buarque, uno dei grandi interpreti della musica popolare brasiliana – n.d.t.): “La saudade è il contrario del parto. È preparare la camera per il figlio che è già morto”. Possiamo chiederci: “Qual è la madre che ama di più? Quella che prepara la camera per il figlio che arriva domani o quella che prepara la camera per il figlio che non verrà mai più?” Aggiungo: sono un costruttore di altari sulla riva dell’abisso. Costruisco i miei altari con poesia e bellezza. Le luci che accendo sui miei altari illuminano il mio volto e scaldano il mio corpo. Ma l’abisso continua scuro e silenzioso…». (Rubem Alves)

L’imbrunire delle religioni

Mentre, come da tempo vanno dicendo i sociologi, stiamo assistendo al «ritorno di Dio» dopo la stagione della «sua (pronosticata) morte», sembra altrettanto confermato che questo non significhi necessariamente che le religioni godano di buona salute. Al contrario, esse, soprattutto quelle storiche, sembrano vivere un periodo di grande crisi: di appartenenza (il cristianesimo occidentale), di irrigidimento (l’islam), di rilevanza politica (ebraismo)… Possiamo chiederci, allora: stiamo assistendo, forse, all’imbrunire delle religioni? È la fine della religione o piuttosto delle forme storiche che fin qui (e non da sempre) hanno veicolato, tradotto, e spesso anche tradito, la ricerca religiosa degli esseri umani?

Per poter almeno abbozzare una risposta occorre, prima di tutto, impostare bene la domanda, capire, ad esempio, la vera ragione di tale crisi. Quella attuale, infatti, non è una crisi che si deve principalmente al processo di secolarizzazione o alla perdita di valori o ancora alla diffusione del materialismo e dell’edonismo imperante. Questi sono argomenti usati normalmente come interpretazione colpevolizzante da parte delle istituzioni religiose ufficiali. Comprensibile reazione davanti alla crisi, ai numeri, al deficit di appartenenza, ma spesso fuorviante. Neppure gli scandali e la mancanza di testimonianza da parte dei rappresentanti delle religioni ci sembra spieghi veramente la crisi delle stesse. Quello che serve capire e avere il coraggio di osservare è l’esplosione, piuttosto, di una nuova situazione culturale, i cui prodromi, certo, sono stati la rivoluzione scientifica, l’illuminismo e la cosiddetta rivoluzione industriale. I sintomi, oggi, della crisi delle religioni per come le abbiamo storicamente conosciute sono un certo agnosticismo, la perdita di un’ingenuità epistemologica, un senso critico e disincantato anche nei loro confronti, l’abbandono dell’idea di «un’unica religione vera» così come di una morale rivelata in modo eteronomo.

L’alba delle religioni

Anche così, occorre ricordare, non siamo davanti alla fine del mondo. Casomai, quello a cui assistiamo, che forse solo avvertiamo, è la fine di un mondo. Molte cose stanno «morendo» ed è inevitabile che muoiano. Oltretutto, occorre forse aiutarle a «morire bene»: c’è un’ars moriendi che è morire dando la vita per gli altri, cercando la luce di un nuovo giorno. Occorre aiutare, mentre muore il vecchio, a far nascere un nuovo mondo.

Alle religioni della nuova epoca è chiesto, quindi, di re-interpretare e ri-convertire tutto il loro patrimonio simbolico creato in altra epoca, davanti ad altre domande. Non sarà facile e il tempo prossimo venturo è quello del «transito»: da un sistema assiologico ad un altro, da una grammatica religiosa ad un’altra, da un codice teologico ad uno nuovo. I teologi latinoamericani e quelli del Sud del mondo in generale parlano di una nuova proposta teologica, di un nuovo paradigma che tentano di descrivere così: da un modello dove le religioni si sono proposte come le depositarie della ricerca spirituale dell’uomo ad un modello, tutto da costruire, post-religioso (dove religioso corrisponde a «religione» nella forma storica che abbiamo conosciuto). Dove cioè la ricerca del senso spirituale, trascendente, ma anche esistenziale, di questa cosa che chiamiamo vita non è monopolio delle religioni ma appartiene alle differenti ricerche ed inquietudini umane. C’è molto di religioso anche fuori dalle religioni (e dalle Chiese!). E si può essere «spirituali» anche oltre le religioni.

Se fin qui il quadro interpretativo è sufficientemente chiaro, la proposta di ricerca che possiamo sviluppare è quella di indagare e provare a descrivere l’imbrunire e l’alba delle diverse tradizioni religiose che conosciamo. La parole di Rubem Alves che ci hanno aiutato a dire questa dialettica tra alba e tramonto, tra vecchio che muore e nuovo che nasce, ci servirà da punto di riferimento. Sono aforismi, analogie, metafore che si prestano a dire quello che facciamo fatica a riconoscere con le deduzioni logiche, scientifiche, pronunciamenti ufficiali. La poesia ci serve per quello che la prosa non sa dire. Ci aiuta, inoltre, ad abitare la transizione: non dobbiamo difendere un’identità già data, ma neppure fuggire le responsabilità del presente. Lo spirito di crociata ma anche la fuga mundi (per rimanere in immagini della cristianità) sono tentazioni delle religioni di ieri e di oggi. Occorre, invece, ricordare alle tradizioni religiose che esse sono: trama di simboli, rete di desideri, confessione dell’attesa, orizzonte degli orizzonti, il tentativo più fantastico e pretenzioso di transustanziare la natura (Rubem Alves).