La morte di Benedetto XVI

Scrivo oggi, quindi non è più una notizia. Da mesi non guardo la TV (l’antenna non funziona e l’interesse per ripararla è molto basso) e mi informo tramite podcast e versione web dei giornali. Il tempo è poco, quindi non ho letto molto. Sono rimasto colpito per i tanti titoli acchiappa clic, i clickbait, e le tante esternazioni scomposte e sguaiate. Allora ho deciso di raccogliere qui, in unico post, due articoli (non divulgativi) di Avvenire e il testo integrale dell’omelia di Papa Francesco alle esequie di ieri.

L’eloquenza delle mani
di Pierangelo Sequeri
Non è il fantasma di un grande teologo che rimane sospeso sul nostro capo, quasi per prendersi la rivincita su di noi, come ha sospirato qualche incauto commentatore (magari di alto bordo ecclesiastico, ma di piccola statura ecclesiale). È la bianca figura di un grande teologo donato al ministero petrino, quella che rimane. Un ministero che il teologo Joseph Ratzinger ha personalmente onorato in favore della Chiesa per tutto il tempo della consegna ricevuta dal Signore. E che ha personalmente restituito alla Chiesa, nel tempo in cui il Signore l’ha ispirato a riconsegnarlo per il bene della Chiesa.
Misteriosa la consegna, non meno misterioso il congedo: lo Spirito di Dio sa quello che fa. Oseremo noi intrometterci, nella nostra sentenziosa estraneità, nel rapporto speciale fra il Signore e Pietro, che in ogni Papa si rinnova? Ora, «l’umile servitore della vigna del Signore» ha consegnato anche il suo spirito. E proprio di qui, giustamente, il papa Francesco, ha invitato ad aprire il cuore di tutti, nella meditazione evangelica e nella preghiera riconoscente. Come il Signore, la vita di quest’uomo di Dio fu «un continuo consegnarsi nelle mani del Padre». Non ci sono retroscena da evocare, più incisivi di questo. Non ci sono paragoni da eccitare, più pregnanti di questo.
«Dedizione grata di servizio al Signore e al suo Popolo che nasce dall’aver accolto un dono totalmente gratuito: “Tu mi appartieni… tu appartieni a loro”, sussurra il Signore». Questo è forse il passaggio più commovente – e commosso – dell’intensa omelia di Francesco nella Messa esequiale in piazza San Pietro.
L’immagine-chiave è quella delle mani. Francesco cita l’omelia pronunciata da Benedetto XVI nella Messa crismale del 2006, iscrivendo nell’immagine delle mani il suo speciale legame con il Signore: «Tu stai sotto la protezione delle mie mani, sotto la protezione del mio cuore. Rimani nel cavo delle mie mani e dammi le tue». L’eloquenza delle mani di Benedetto XVI è di dominio pubblico. Il suo modo di aprire e stringere le dita, con le braccia protese davanti a sé, così teneramente infantile, rimarrà nei nostri occhi. E chi l’ha conosciuto da vicino riconosce nella sua personale stretta di mano, che stringeva senza stringere, un delicato passaggio di benedizione e di rispetto, più che un saluto.
La benedizione della mano era il tocco leggero della dedizione del cuore. « Fecondità invisibile e inafferrabile – prosegue Francesco, citando 2Tim 1,12 – che nasce dal sapere in quali mani si è posta la fiducia». La dedizione, che mai si inorgoglisce del dono, rifiuta di requisirlo come privilegio personale e di convertirlo in prebenda clientelare. Una simile limpidezza interiore del cuore, unita al tratto di uno spirito gentile – commenta Francesco – espone alla stanchezza dell’intercessione, al logoramento dell’unzione: mette alla prova di una bontà che deve lottare con la malizia, e di una fraternità ferita dalla mancanza di dignità. La prova non fu risparmiata al Signore. Non verrà risparmiata ai suoi Discepoli. Pietro per primo. Il Signore provvede, generando la mitezza capace di capire, accogliere, sperare e affidarsi al di là delle incomprensioni.
E lo Spirito della ricerca appassionata e della gioiosa bellezza del Vangelo, ispira ogni volta la decisione opportuna, procura ogni volta la consolazione necessaria. Dovremo congedarci il più rapidamente possibile dall’aneddotica delle immagini di scena e delle indiscrezioni di retroscena. E incominciare a leggere e a rileggere il prodigioso lascito di testi nei quali il teologo Joseph Ratzinger ha finemente cesellato, in favore della fede e della testimonianza, la sapienza nella quale egli ha saputo filtrare come illuminazione e restituire in benedizione la sua lotta con l’Angelo. La profondità e la potenza della sua passione per l’intelligenza che orienta la fede ha occupato interamente anche il ministero del pontefice Benedetto XVI.
È questa la speciale qualità della sua eredità, destinata a durare nel tempo, come il tesoro dello scriba che si fa discepolo del regno di Dio: dal quale trarre con grata ammirazione cose antiche e cose nuove (Mt 13, 52). « Deus caritas est», ha scritto papa Benedetto. « L’amore non si perde», ha concluso papa Francesco. Nostro, rimane il lieto compito di essere «profumo della gratitudine e unguento della speranza», che conferma la preziosa eredità ricevuta. E così sia, « Benedetto, fedele amico dello Sposo».

Omelia di Papa Francesco
«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Sono le ultime parole che il Signore pronunciò sulla croce; il suo ultimo sospiro – potremmo dire –, capace di confermare ciò che caratterizzò tutta la sua vita: un continuo consegnarsi nelle mani del Padre suo. Mani di perdono e di compassione, di guarigione e di misericordia, mani di unzione e benedizione, che lo spinsero a consegnarsi anche nelle mani dei suoi fratelli. Il Signore, aperto alle storie che incontrava lungo il cammino, si lasciò cesellare dalla volontà di Dio, prendendo sulle spalle tutte le conseguenze e le difficoltà del Vangelo fino a vedere le sue mani piagate per amore: «Guarda le mie mani», disse a Tommaso (Gv 20,27), e lo dice ad ognuno di noi: “Guarda le mie mani”. Mani piagate che vanno incontro e non cessano di offrirsi, affinché conosciamo l’amore che Dio ha per noi e crediamo in esso (cfr 1 Gv 4,16). [1]
«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» è l’invito e il programma di vita che ispira e vuole modellare come un vasaio (cfr Is 29,16) il cuore del pastore, fino a che palpitino in esso i medesimi sentimenti di Cristo Gesù (cfr Fil 2,5). Dedizione grata di servizio al Signore e al suo Popolo che nasce dall’aver accolto un dono totalmente gratuito: “Tu mi appartieni… tu appartieni a loro”, sussurra il Signore; “tu stai sotto la protezione delle mie mani, sotto la protezione del mio cuore. Rimani nel cavo delle mie mani e dammi le tue”. [2] È la condiscendenza di Dio e la sua vicinanza capace di porsi nelle mani fragili dei suoi discepoli per nutrire il suo popolo e dire con Lui: prendete e mangiate, prendete e bevete, questo è il mio corpo, corpo che si offre per voi (cfr Lc 22,19). La synkatabasis totale di Dio.
Dedizione orante, che si plasma e si affina silenziosamente tra i crocevia e le contraddizioni che il pastore deve affrontare (cfr 1 Pt 1,6-7) e l’invito fiducioso a pascere il gregge (cfr Gv 21,17). Come il Maestro, porta sulle spalle la stanchezza dell’intercessione e il logoramento dell’unzione per il suo popolo, specialmente là dove la bontà deve lottare e i fratelli vedono minacciata la loro dignità (cfr Eb 5,7-9). In questo incontro di intercessione il Signore va generando la mitezza capace di capire, accogliere, sperare e scommettere al di là delle incomprensioni che ciò può suscitare. Fecondità invisibile e inafferrabile, che nasce dal sapere in quali mani si è posta la fiducia (cfr 2 Tim 1,12). Fiducia orante e adoratrice, capace di interpretare le azioni del pastore e adattare il suo cuore e le sue decisioni ai tempi di Dio (cfr Gv 21,18): «Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza». [3]
E anche dedizione sostenuta dalla consolazione dello Spirito, che sempre lo precede nella missione: nella ricerca appassionata di comunicare la bellezza e la gioia del Vangelo (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate 57), nella testimonianza feconda di coloro che, come Maria, rimangono in molti modi ai piedi della croce, in quella pace dolorosa ma robusta che non aggredisce né assoggetta; e nella speranza ostinata ma paziente che il Signore compirà la sua promessa, come aveva promesso ai nostri padri e alla sua discendenza per sempre (cfr Lc 1,54-55).
Anche noi, saldamente legati alle ultime parole del Signore e alla testimonianza che marcò la sua vita, vogliamo, come comunità ecclesiale, seguire le sue orme e affidare il nostro fratello alle mani del Padre: che queste mani di misericordia trovino la sua lampada accesa con l’olio del Vangelo, che egli ha sparso e testimoniato durante la sua vita (cfr Mt 25,6-7).
San Gregorio Magno, al termine della Regola pastorale, invitava ed esortava un amico a offrirgli questa compagnia spirituale: «In mezzo alle tempeste della mia vita, mi conforta la fiducia che tu mi terrai a galla sulla tavola delle tue preghiere, e che, se il peso delle mie colpe mi abbatte e mi umilia, tu mi presterai l’aiuto dei tuoi meriti per sollevarmi». È la consapevolezza del Pastore che non può portare da solo quello che, in realtà, mai potrebbe sostenere da solo e, perciò, sa abbandonarsi alla preghiera e alla cura del popolo che gli è stato affidato. [4] È il Popolo fedele di Dio che, riunito, accompagna e affida la vita di chi è stato suo pastore. Come le donne del Vangelo al sepolcro, siamo qui con il profumo della gratitudine e l’unguento della speranza per dimostrargli, ancora una volta, l’amore che non si perde; vogliamo farlo con la stessa unzione, sapienza, delicatezza e dedizione che egli ha saputo elargire nel corso degli anni. Vogliamo dire insieme: “Padre, nelle tue mani consegniamo il suo spirito”.
Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce!
[1] Cfr Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, 1.
[2] Cfr Id., Omelia nella Messa Crismale, 13 aprile 2006.
[3] Id., Omelia nella Messa di inizio del pontificato, 24 aprile 2005.
[4] Cfr ibid.

Libertà, scienza, ragione «debole»: Ratzinger al cuore del secolarismo
di Vittorio Possenti
Con la scomparsa di Benedetto XVI idee e ricordi emergono dallo scrigno della memoria, evocando il lungo dialogo (a distanza e talvolta di persona), iniziato prima del 1980, che ebbi con il cardinale Joseph Ratzinger. Sul piano teologico e sapienziale Benedetto è stato un grande Maestro di scrittura e di parola, il cui insegnamento nella comunicazione della fede non tramonterà. Oggi sento la responsabilità di condensare in breve spazio un discorso immenso concernente il lascito teologico e intellettuale del Papa emerito: quale eredità per la Chiesa che verrà!
Uno dei massimi compiti di Ratzinger fu di porre costantemente in dialogo fede e ragione perché si riconoscessero e potessero compiere almeno in parte un cammino comune. È la prospettiva dell’enciclica Fides et ratio, promulgata da Giovanni Paolo II (1998) e preparata da una commissione presieduta da Ratzinger stesso. La Fides et ratio sembra oggi, dopo qualche attenzione iniziale, un documento dimenticato. La restrizione della ragione umana entro i limiti dello scientismo e del libertismo, e gli eccessi della ragione debole hanno contribuito a metterla da parte.
In merito, ficcanti sono le diagnosi di Ratzinger a Subiaco (1° aprile 2005), in cui egli descrive acutamente la cultura illuminista: «Fa parte della sua natura, in quanto cultura di una ragione che ha finalmente completa coscienza di sé stessa, vantare una pretesa universale e concepirsi come compiuta in sé stessa, non bisognosa di alcun completamento attraverso altri fattori culturali». È come se tale cultura dicesse: abbiamo la ragione, la scienza e la tecnica dalla nostra e questo costituisce il massimo, né vi è bisogno di altri apporti. Ratzinger solleva poi la questione se le «moderne filosofie illuministe, complessivamente considerate, si possano ritenere l’ultima parola della ragione comune a tutti gli uomini. Queste filosofie sono caratterizzate dal fatto che sono positivistiche, e perciò antimetafisiche, tanto che alla fine Dio non può avere in esse alcun posto. Esse sono basate su una autolimitazione della ragione positiva, che è adeguata all’ambito tecnico, ma che, laddove viene generalizzata, comporta invece una mutilazione dell’uomo».
La quaestio de veritate, coniugare fede e ragione in modo che entrambe dialoghino e si innalzino, fu segno distintivo della teologia di Ratzinger, dove non ha parte la ratio a una sola dimensione che soffoca lo slancio naturale della mente verso il vero, nel cui ambito rientrava per lui, come per Paolo VI e Giovanni Paolo II, la verità sull’uomo. Il primo annunciava l’hominem integrum e l’altro racchiudeva in una nitida formula la missione della Chiesa: «La verità che dobbiamo all’uomo è soprattutto una verità sull’uomo».
Nel campo teologico-politico, in una solida vasta consapevolezza del ruolo globale della Chiesa universale, fu primario per Ratzinger-Benedetto XVI il Problema Europa cui dedicò un’attenzione partecipe e critica, ben avvertendo la crisi spirituale e la devastazione della secolarizzazione. Molti grandi discorsi di Benedetto (Parigi, Londra, Berlino, Ratisbona, etc.) toccano questi nuclei, in cui emergono i temi dei diritti e doveri umani e della libertà. I diritti sono finalizzati solo alla libertà di scelta dell’io isolato e non inserito entro la società? Esistono diritti primari che non siano diritti di libertà? Il discorso di Subiaco, ma anche quello all’Onu (2008), hanno richiamato l’indebita preminenza dei soli diritti di libertà nelle culture illuministiche: «Questa cultura illuminista sostanzialmente è definita dai diritti di libertà; essa parte dalla libertà come un valore fondamentale che misura tutto: la libertà della scelta religiosa, che include la neutralità religiosa dello Stato; la libertà di esprimere la propria opinione, a condizione che non metta in dubbio proprio questo canone».
La concezione libertaria o libertista dei diritti ha impregnato profondamente di sé la cultura e i popoli occidentali, sino al punto che capi di Stato auspicano che il diritto all’aborto sia scritto a chiare lettere nella Carta europea. Se così dovesse accadere, il tradimento della Dichiarazione universale del 1948 sarebbe alle porte: l’occidentalismo libertario sta mettendo a serio rischio il tessuto stesso di tale Dichiarazione.
La questione da sollevare una volta di più non riguarda se occorra ampliare o restringere l’area della libertà, tema che rimane generico, ma come educare a un’idea di libertà più vera e ricca di quella che ne vede l’unica manifestazione nell’autodeterminazione e nel servizio alla libertà del singolo, che nega o comprime le relazioni sociali e il riconoscimento dell’altro. Ciò porta a lasciare da parte il compito dell’edificazione morale dell’uomo e del cittadino.
Ratzinger solleva la questione se le moderne filosofie antropocentriche e succubi del mito del progresso non abbiano perso il senso del limite umano, che in civiltà diverse da quella occidentale è invece rimasto come monito contro l’hybris. Negli antichi vi era reverentia e non superbia verso il divino, e si era consapevoli della propria finitudine. Oggi è diverso: l’ala marciante del pensiero occidentale profondamente secolaristico ha messo da parte il principio di realtà e procede guidato dalla volontà di potenza. Vuole costruire l’uomo nuovo non più con la rivoluzione politica ma con quella tecnologica. Non siamo perciò usciti dall’antropocentrismo moderno, che anzi si prolunga nella postmodernità in maniera estesa e con nuovi miti.
Chi offendiamo menzionando Dio anche in pubblico? Il secolarismo europeo accampa l’assunto che offenderemmo gli appartenenti alle altre religioni. Ratzinger osserva: «non è la menzione di Dio che offende gli appartenenti ad altre religioni, ma piuttosto il tentativo di costruire la comunità umana assolutamente senza Dio». La lezione teologico-politica di Benedetto XVI sulla presenza dei cristiani nella società secolarizzata punta sulla necessità di minoranze creative o profetiche. Il suo sguardo va, oltre che ai cristiani, verso i fedeli della religione ebraica. Si esprime in un invito discreto all’ebraismo, alle sue minoranze creative, a cooperare affinché la luce divina non scompaia dalla storia universale e il mondo non entri nel buio della mancanza di senso. Su questo nucleo è importante il suo Discorso alla Sinagoga di Roma, durante la visita del 17 gennaio del 2010. «Come insegna Mosè nello Shemà e Gesù riafferma nel Vangelo, tutti i comandamenti si riassumono nell’amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi… Con l’esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell’Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza». Il Papa si trovò in sintonia con il grande Rabbino di Londra Jonathan Sacks che, ponendo il problema della famiglia in dissoluzione, osservava con forza che gli europei sono troppo egoisti per avere figli, e che tale egoismo stava uccidendo l’Europa secolarizzata. La decostruzione della famiglia all’insegna del libertismo e del ricorso manipolante alle tecnologie è tuttora una piaga aperta.
Nel testamento spirituale del 29 agosto 2006, reso noto alla morte del Papa emerito, Benedetto si rivolge al popolo di Dio, esortando a rimanere saldi nella fede, a non farsi confondere da discorsi provenienti dalle scienze naturali e dalle scienze storiche che sembrano in contrasto con la fede ma che poi esse stesse abbandonano, lasciando viva la pretesa di ragionevolezza della fede. Benedetto, invitando a non perdere l’orizzonte secondo cui Cristo è la via, la verità, la vita, ricordava una bella frase di Tertulliano: «Cristo non ha detto di essere l’abitudine, bensì la verità».

Gemma n° 1964

“Uso l’oggetto che ho portato come segnalibro. E’ una cordicella trovata da mio nonno su un albero il giorno in cui mia madre ha saputo di essere incinta di me: lui ha pensato che fosse un segno del destino, un po’ perché io sono la sua prima nipote femmina e un po’ perché lui aveva la mentalità di un bambino e credeva in queste cose. La mamma ha deciso di regalarmelo per i miei 15 anni: infatti per l’ultimo compleanno ho ricevuto una busta con dentro questo, una foto insieme al nonno e un biglietto che non ho portato perché ci sono scritte delle cose troppo personali. E’ l’unica cosa materiale che mi rimane di lui: non c’è più da quasi dieci anni, ho pochissimi ricordi, in particolare quando l’ho visto nella bara o nel letto d’ospedale e quando se n’è andato perché in quel momento mi teneva in braccio e gli stavo dando il gelato. Nel biglietto c’è scritto che mi vorrà sempre bene, che gli mancherò; mi dispiace non avergli detto che anche io gli volevo bene”.

Sabato notte ho terminato il libro di Gemma Calabresi Milite, la moglie di Luigi Calabresi, ucciso nel 1972 e mi sono annotato questa frase: “Viviamo non sapendo mai quando sarà l’ultima volta di qualcosa, gli addii si consumano nell’inconsapevole indifferenza, nei giorni uguali ai giorni”. Mi risuonano in mente subito dopo la gemma di M. (classe seconda). Mi consola pensare che il filo del dialogo non si spezzi (un po’ come quella cordicella), che il rapporto con chi non c’è più continui, e che quindi lo spazio del rimpianto si trasformi in luogo di consolazione e di ricordi cari e in luce di speranza. Il titolo del libro è poi emblematico: La crepa e la luce.

Tempo di Quaresima

Giorgio Vasari, Vegliardi dell’Apocalisse, 1572-74, Santa Maria del Fiore, Firenze

All’inizio di questo tempo di Quaresima ero fuori casa e lontano dal computer. Per cui recupero oggi, attraverso i consigli di lettura di Gianfranco Ravasi pubblicati ieri su Il Sole 24 Ore e che ho reperito sul sito del Cortile dei Gentili.

“In una società così secolarizzata la Quaresima è una parola ignorata e forse ignota, se non nello stereotipo «faccia da quaresima». Nella storia della cultura occidentale è stato, però, un tempo ricco di simbolismi e di pratiche spirituali: si pensi solo al digiuno, un segno carico di significati anche caritativi, tipico pure di altre fedi (ad esempio, il Kippur ebraico e il Ramadan musulmano), da non equivocare con la dieta che ne è solo una scimmiottatura “laica”. Ma il cuore di questo arco temporale di quaranta giorni che è iniziato mercoledì scorso col rito delle Ceneri – vero e proprio schiaffo alla superficialità vana e vacua contemporanea – è la tensione verso la Pasqua. Abbiamo, così, voluto infilare una collana di testi – tra i tanti apparsi in questo periodo – che si proiettano idealmente verso una meta “pasquale”.
È la meta suprema della storia, configurata nella risurrezione di Cristo, che è l’irruzione dell’eterno nel tempo, del divino nel creaturale, dell’infinito nel relativo. In questa prospettiva l’opera più alta, vero e proprio vessillo non solo religioso ma anche artistico, è l’Apocalisse. Nella sterminata letteratura che l’ha commentata, ricreata, attualizzata e persino deformata facciamo emergere un testo lasciato in eredità da uno dei maggiori studiosi di quest’opera, il gesuita italo-argentino Ugo Vanni, scomparso a Roma a 89 anni lo scorso 27 settembre. Un discepolo, Luca Pedroli, ha edito la lettura integrale condotta dal suo maestro su quelle pagine sacre, adatte certo a palati forti, ma aliene dall’eccitazione oracolare o dalla vena catastrofica alla Apocalypse now in cui sono state compresse. L’opera, sottoposta a varie ermeneutiche millenaristiche, apocalittiche, esoteriche, storiche, allegoriche e così via, è collocata da Vanni in un grembo ecclesiale liturgico nel quale s’intrecciano e interagiscono, attraverso l’efficacia del rito, storia ed escatologia, presenza e attesa, il realismo amaro della persecuzione e la scenografica luminosa della nuova Gerusalemme futura. L’imponente commento di Vanni, preceduto da un volume a parte con un’introduzione generale e col testo tradotto e accompagnato dal greco a fronte, è una straordinaria guida per varcare l’orizzonte letterario e teologico di quest’opera dalla quale non si può uscire indenni.
Accanto a questo monumento esegetico collochiamo il mini-libretto di Harry O. Maier dell’università di Vancouver che punta, invece, a disegnare uno schizzo sull’attualità dell’Apocalisse, codice interpretativo del “tempo presente” e del “senso della fine” (o piuttosto del fine) della storia. Lo studioso canadese s’interroga: «L’Apocalisse può darci qualcosa in cui sperare che non sia solamente una morte inevitabile raggiunta dopo tante delusioni e sofferenze?». E la sua è una vivace risposta positiva, piena di ammiccamenti a varie vicende odierne.
Ma lo sguardo su quell’“oltre” può essere ben più acuto e capace di perforare la trama globale della storia alla ricerca di un filo dinamico segreto in tensione verso un Oltre trascendente. È ciò che ha fatto una teologa tedesca dell’Eberhard-Karls-Universität di Tubinga, Johanna Rahner, classe 1962, che porta il cognome di uno dei maggiori teologi del secolo scorso, Karl Rahner. La sua s’intitola esplicitamente Introduzione all’escatologia cristiana: eppure non esita a varcare le frontiere minate dei territori misteriosi fatti balenare da questa disciplina teologica. Intendiamo alludere a quelle domande che spesso si archiviano perché generano vertigini o rigetti: che cos’è la risurrezione del corpo e dell’anima? Che valore ha la scenografia del giudizio finale? Che senso ha per l’uomo contemporaneo smaliziato far balenare immagini paradisiache o infernali? L’idea di una stasi purgatoriale oltre la morte è una mitologia arcaica o può essere ricondotta a una prospettiva concettuale coerente? La reincarnazione è compatibile con un’escatologia cristiana? E più brutalmente: esiste una legittima ermeneutica dell’immaginario cristiano sull’oltrevita così da riconoscerne o negarne l’esistenza? Queste e tante altre questioni affiorano in pagine terse e vivaci che non esitano a citare, accanto ai teologi e filosofi paludati, anche la Arendt e Benjamin, Brecht e Camus, Darwin e Foucault, Klee e Keplero-Copernico-Newton-Galilei e così via.
Rimane, comunque, una certezza: quegli orizzonti estremi, sempre rimossi, ritornano a galla e ci assillano, credenti e no, perché «dove si perde la capacità di sperare nel futuro, anche quello oltre la morte, alla fine si perde ciò che è propriamente umano». Anche in questo caso, a lato dell’architettura ideale sontuosa della Rahner, poniamo un mini-testo, scritto da un teologo raffinato come Rosino Gibellini che in poche pagine riesce a raccogliere il succo di un’insonne ricerca di molti, rubricandolo sotto il titolo modesto ma accattivante di Meditazione sulle realtà ultime. In realtà si tratta di una sintesi della ricerca sul tema dell’escatologia nella riflessione teologica del secolo scorso, che è simile a un delta molto ramificato di questioni e che ha coinvolto i maggiori pensatori. Essi si sono confrontati sulla dialettica tra morte e vita in Dio, sull’immortalità dell’anima e la risurrezione dei morti (categorie apparentemente alternative), sulla preghiera per i defunti, una prassi tradizionale nella cristianità e così via.

Certo è che affacciarsi sull’eterno e sull’infinito con la nostra attrezzatura gnoseologica ancorata a linguaggi e strutture spazio-temporali è un’impresa ardua. È ciò che anche l’ebraismo ha sperimentato attraverso vari sguardi. Uno di questi è la celebrazione del sabato, Un momento di eternità, come recita il titolo di un saggio di Benjamin Gross, della nota Università israeliana di Bar-Ilan, scomparso nel 2015. La filigrana di rimandi biblici e giudaici, molto attraente, regge una riflessione che scopre del sabato non solo la sua dimensione storica, familiare, sociale, liturgica, etica ma proprio il suo essere segno di pienezza. Non spazio temporale vuoto, ma spina nel fianco delle divagazioni e distrazioni della nostra cultura, così che l’occhio dell’anima si protenda verso il futuro escatologico.
È «un assaggio di eternità», come lo definiva Abraham J. Heschel nel suo famoso Il Sabato (ultima edizione presso Garzanti nel 1999), tentativo felice di mostrarne «il significato per l’uomo moderno». Concludiamo, allora, questa nostra carrellata libraria stando sulla porta della Quaresima, tempo “pasquale” germinale, con una testimonianza del fisico Giuliano Toraldo di Francia rilasciata anni fa durante un congresso su Teilhard de Chardin: «Sono un agnostico, ma leggendo le opere di questo gesuita scienziato capisco il suo tentativo di trovare un senso all’avventura del mondo e alla nostra vita. Se Dio è il nome di questo senso, anch’io posso pregare: In te, Domine, speravi».

Ridere contro il “mal de panza”

gachet-dr-paul-003Un interessante pezzo, stimolante e arricchente, di Claudio Magris sul Corriere della Sera.
Messa pasquale ad Aurisina, in sloveno Nabrežina, piccolo vivace borgo sul Carso in provincia di Trieste. Il parroco, nella sua omelia, parla di resurrezione, quella di Gesù e quella interiore offerta ad ognuno, la rinascita spirituale che dovrebbe rinnovare la persona e darle gioia, come prescrive Gesù: «La vostra gioia sia piena». Ma se mi guardo intorno, se guardo voi — continua il parroco, sporgendosi un po’ dal pulpito — non vedo facce da resurrezione, ma piuttosto da calvario, tristanzuole e ingrugnite.
Il parroco ha ragione di pigliarsela con la musoneria delle nostre facce, più frustrate e diffidenti che aperte e gioiose. Egli sa bene che ci sono tante ragioni, personali e collettive, che gettano un’ombra su un viso e lo segnano di cicatrici spirituali — dolori, angosce, malattie, solitudini, difficoltà d’ogni genere. Non è certo con le sofferenze della sua gente che se la prende il parroco, perché sa che la fede è chiamata a lenire e a combattere le ferite del corpo e del cuore e forse talora nasce da quelle ferite. Ma quell’opaca acidità delle nostre facce non è solo espressione di dolore o di disagio. È l’acre risentimento di chi si rode per ciò che non ha anziché allietarsi di ciò che ha; di chi non si sente adeguatamente considerato; del vice-direttore non ancora promosso a direttore e più aspramente insoddisfatto, nonostante il suo più cospicuo stipendio, dell’impiegato a lui sottoposto; dello scrittore incattivito perché ha ricevuto un premio ma non un altro più importante; del partner che si sente incompreso e non si chiede, come non se lo chiede quasi nessuno di noi, se non è lui o lei a non comprendere l’altro. Il risentimento, hanno detto grandi filosofi, è talora una chiave della storia, individuale e generale.
Quel parroco sta inconsapevolmente e non a torto rivalutando la fisiognomica, spesso giustamente vituperata per certe sue implicazioni razziste. C’è una bocca acida — da mal de panza, si dice a Trieste — che non è sempre sofferta esperienza del dolore, bensì orgogliosa riluttanza a sentirsi compresi e appagati, a differenza di quel personaggio ricordato da Isaac Bashevis Singer nelle sue memorie d’infanzia, un povero diavolo sul cui volto «c’era sempre un’espressione di appagamento». Massimo il Confessore, teologo e martire cristiano del settimo secolo, diceva che la cupezza e la tristezza celano talvolta consapevole o inconsapevole rancore. Le grandi fedi religiose conoscono bene l’abisso del dolore, il sudore di sangue della disperazione, ma non si crogiolano in essi, bensì amano l’allegrezza: la serenità buddhista, la letizia francescana, il Veggente di Lublino, un santo ebraico-orientale, che amava un peccatore impenitente perché questi, nonostante ogni caduta, aveva conservata intatta la gioia.
La Messa è finita, andate in pace. Solo quando sei capace di ridere, diceva una scritta che avevo letto più di trent’anni fa sulla porta del duomo di Linz, hai veramente perdonato”.

Rewind: domenica

Caravaggio_-_Cena_in_Emmaus
Michelangelo Merisi da Caravaggio, Cena in Emmaus, 1601-1602, olio su tela, 139×195 cm, National Gallery, Londra

Infine, ecco la domenica.
Semplice è l’origine.
«Dio onnipotente, cerca / (sforzati), a furia d’insistere / – almeno – d’esistere». Così il poeta Giorgio Caproni scriveva in una delle sue poesie, e commentava in un’intervista: «Dio è il mistero di tutti i misteri, non si sa nulla di lui. È inafferrabile, ci vivifica e ci uccide. Eppure ricerco la sua presenza da anni».
Dove è questo Dio? Su quali strade? Su quella di Emmaus. Un santo contemporaneo ha detto infatti che tutte le strade del mondo sono diventate Emmaus (san Josemaría Escrivá, “Cristo presente nei cristiani”). Si riferisce, con intuizione folgorante, ad una delle pagine del Vangelo più belle, con la quale non a caso Luca (cap. 24) conclude il suo Vangelo e dà il “la” alla storia del cristianesimo così come sarà sempre.
Vi si narra la scena in cui due discepoli dopo la morte di Gesù se ne tornano, disperati, da Gerusalemme al loro paesino, Emmaus, con il cuore pesante dopo essersi illusi che Cristo fosse veramente il Salvatore.
La morte ha spazzato via tutto: l’ennesimo fuoco fatuo. Ora rimane solo il tempo della tristezza e il ritorno al grigiore di prima. Ma proprio su quella strada, Cristo risorto, senza essere riconosciuto dai loro occhi tristi, come uno qualsiasi si mette a camminare con loro e chiede perché sono così appesantiti. Li tira fuori da dove si trovano, dalla loro tristezza, non con l’evidenza schiacciante della resurrezione (si sente dare persino dell’ignorante perché non sa nulla di ciò che è successo a Gesù Cristo: mi è sempre piaciuto il gioco che fa con noi, la sua paziente ironia per farci arrivare da soli alla realtà, senza schiacciarci), ma con una chiacchierata pacata e forte di amico, sul far della sera, come quando nella Genesi si narra che Dio passeggiava con gli uomini al fresco della sera: è ricominciato tutto. Poi fa per andar via quando loro si fermano alla locanda per mangiare, non si impone, si fa desiderare, la sua delicatezza verso la nostra libertà mi appassiona e mi appassiona che l’unica vera preghiera che lo costringe a rimanere sia il nostro semplice desiderio che resti con noi.
E a tavola, mentre mangiano come amici, li sorprende e si fa riconoscere nello spezzare il pane, come per due volte Caravaggio ha raccontato nelle sue tele in età diverse della sua vita con un realismo che non è altro che il realismo del cristianesimo: il quotidiano trasfigurato dall’incarnazione di Cristo. In quel momento lo riconoscono e proprio in quel momento lui si sottrae alla loro vista.
Paradossalmente se ne va, rimanendo: proprio in quel pane.
Tutte le strade del mondo sono percorse da uomini e donne impegnati nelle loro battaglie quotidiane, con il volto tirato, presi dai loro pensieri, dalle loro lotte, dalle loro tristezze, dalle loro incertezze, dalla caduta quotidiana delle loro umanissime speranze. Magari hanno inseguito l’ennesima che li ha delusi e sono a caccia di un’altra o di qualcosa che lenisca la delusione, che possa dare senso al ripetersi dei giorni, rinnovandoli sempre, qualcosa per cui valga veramente la pena alzarsi la mattina. Su quelle strade qualcuno con uno sguardo diverso li raggiunge, è esattamente come loro, condivide le loro lotte e pensieri, ma ha una luce negli occhi. Si affianca con la normalità di chi sa essere amico, fa la stessa strada, lo stesso lavoro, condivide le stesse passioni, sogni e sconfitte. Non giudica, ma guarda gli occhi e chiede: perché sei triste? Sa ascoltare la tristezza del volto degli altri, che si sentono tranquilli a confidarsi lungo il cammino, perché finalmente hanno trovato qualcuno a cui possono affidare il peso del loro cuore: un amore tradito, una relazione familiare piena di dolore, un lavoro insopportabile, una condizione fisica critica, un pianto mai affiorato…
Hanno sperato per anni che tutto potesse cambiare, avevano creduto con tutto il loro slancio alla vita come promessa, ma niente: è stata un’illusione. Adesso si limitano a sopravvivere perché vivere fa troppo male, perché per vivere bisogna sperare e non ci sono più le forze, né la voglia di essere ancora delusi e si accontentano di piccolissimi noiosissimi rituali. Eppure l’amico che ascolta ha una luce che illumina proprio quella situazione, una luce che non gli appartiene e che non viene meno, proprio per questo non è triste, anche se porta sul viso gli stessi segni di stanchezza degli altri, perché la vita è dura anche per lui, proprio allo stesso modo. Parla di un modo di guardare il mondo pieno di passione e fuoco, come se avesse il potere di trovare la bellezza in ogni angolo, anche il più oscuro. Non pretende di cambiare il mondo, ma il modo di guardare il mondo: dice le cose con forza, senza lesinare sulla verità, ma lo fa con un tale affetto che non ci sente amari, ma amati. Ci libera dalla tristezza, perché è oltre la tristezza, che ben conosce perché l’ha attraversata, ma che ha disinnescato con una formula che ora ci intriga, ci seduce, ci attira, come una promessa. Il dialogo continua lungo il cammino, ed è fatto di giorni, di settimane, di mesi, stagioni e anni e di cose ordinarie. E quella luce non viene meno e illumina ogni età e stagione, ogni fatica e ogni gioia, ogni sconfitta e ogni desiderio.
Il mondo è lo stesso per tutti, ma per quell’amico il modo di guardarlo è sempre da innamorato. Come fa? Da dove trae origine questa forza ardente e appassionata? Come fa ad essere così pieno di eros? La curiosità e il calore sperimentati portano a chiedere di rimanere di più, di approfondire l’amicizia, di arrivare al segreto che guida quella vita, perché un segreto deve esserci se è così capace di far ardere il cuore e le speranze, in mezzo a tutte queste rovine. Si sta insieme, si cena insieme, si condividono non solo le lotte ma anche il riposo, un bicchiere di vino e il pane. E proprio in quella intimità d’amicizia, il vero dono che un cristiano deve fare al mondo, si fa strada la verità sconvolgente, quasi incredibile proprio per il suo essersi nascosta nella vita di tutti i giorni ed essere lì accessibile, a tavola, e non nei recessi e nelle altezze in cui gli uomini hanno cercato inutilmente Dio per secoli. No, ci dice Caravaggio, è qui, a tavola, con te e me.
Il segreto è che l’Emmanuele è Dio con noi, per questo l’amico non ha paura, perché lui ha scoperto che Dio è con lui, tutti i giorni, sino alla fine, è il Dio vicino, di strada e di tavola: parola e pane. Sentiamo le forze rinvigorirsi e le parole di prima non rimanere fuori di noi, ma entrare dentro di noi, anzi di più: farsi noi, trasformandoci in Parola e Pane per gli altri, per questo lui è sparito, ci sei tu, tocca a te. Così di corsa torniamo per strada a dirlo a tutti, la strada dell’andata, piena di tristezza, la ripercorriamo a ritroso con lena nuova, anche se è notte fonda, anche se siamo stanchi, perché adesso è cambiato tutto, c’è una ragione per camminare, anzi c’è una ragione per correre, c’è una ragione per alzarci ogni mattina. E la ragione è che Dio è mio e io sono suo, nelle 24 ore che ho disposizione, con tutto quello che ci sta dentro, perché l’unità di misura del Vangelo, fateci caso, è “ogni giorno”. Adesso siamo pieni di vita, come uno che ogni giorno s’innamora, perché questo innamoramento non dipende principalmente da noi, ma è dato, se lo vogliamo. Qualcosa ci fa rinascere dall’alto ogni giorno, ed è capace di far rinascere altri.
Non ci sono più strade anonime, c’è solo Emmaus: ogni strada umana, ogni lavoro umano, ogni amore umano, ogni tristezza umana è proprio il luogo dove Cristo cammina con noi, magari con il volto ordinario di un amico, di un’amica. E quell’amico o amica sei tu per gli altri, che cammini con loro (dopo aver camminato e mangiato con Lui), tu che ascolti le loro tristezze e riporti il cuore ad ardere (come Lui ha fatto con te), fino a metterli faccia a faccia con Cristo, in una catena senza fine. Quello è il momento in cui devi farti da parte, adesso tocca a lui. La Resurrezione non è una lezione, non è uno sfolgorare schiacciante, ma è una passeggiata accorata tra amici con parole vere, fino a trovare l’origine di ogni speranza nella Parola e nel Pane. E subito ripartire, perché è tutto troppo bello, tutto troppo grande, per restarsene paralizzati e tristi. Adesso è tutto nuovo. E tu e io sappiamo il segreto.
Niente è più erotico del cristianesimo, perché nessuno ama come Cristo e il cristianesimo è diventare un altro Cristo, lo stesso Cristo, tanto da poter dire con Paolo: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me».”

Rewind: sabato

Ecco il sabato
Sabato Santo, il giorno dell’attesa
Il Sabato Santo è il giorno più femminile dell’anno, perché è il giorno dell’attesa. Solo la donna sa cosa vuol dire attendere, perché porta in grembo la vita per nove mesi e la si dice per questo in dolce attesa.

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Annibale Carracci, 1600 ca., olio su tela, 121×146 cm, Ermitage

Attesa e attenzione hanno la stessa radice, per questo le donne sono attente ai dettagli sino a rischiare di perdersi in essi, perché ogni talento ha la sua ombra. Solo la donna sa cosa vuol dire tessere la vita, prendersene cura e donarla al mondo. Solo la donna conosce questo accadere in lei e ne stupisce nel corpo e nell’anima. Il Sabato Santo è infatti il giorno delle donne. Alle donne è affidato il compito di prendersi cura, cioè di ‘attendere’ al corpo di Cristo, prima che inizi il sabato ebraico: con i profumi e le essenze ne preparano la sepoltura provvisoria, in tutta fretta, in attesa di quella definitiva dopo l’obbligatorio riposo sabbatico. In qualche modo anticipano, inconsapevolmente, la risurrezione con quel gesto umanissimo della mirra e dell’aloe, che avevano funzione non solo di profumare ma di rallentare la corruzione del corpo. È proprio della donna dare la vita, è proprio della donna profumare e preservare dalla corruzione, è proprio della donna prendersi cura del corpo. Ed è a una donna che viene dato il lieto annuncio della risurrezione, della vita preservata dalla morte che si scopre sconfitta, quando credeva ormai di aver vinto la partita su un cadavere, che è il Corpo più vivo della storia umana. Le parole di Luca, apparentemente soltanto descrittive, svelano il motivo per cui alle donne per prime è dato l’annunzio, loro così attente a quel corpo perché in attesa di quel corpo: «Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento. Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato».
Il silenzio del sabato per gli uomini è sconfitta e disfatta. Tutto è finito. Per gli uomini che cercano sempre soluzioni efficaci ai problemi, la morte non ha soluzione: Cristo è stato un’illusione, non è la soluzione al problema, che differenza vuoi che facciano gli aromi e gli oli profumati (solo Nicodemo fa eccezione, proprio quello a cui nottetempo Gesù aveva spiegato che bisogna rinascere dall’alto). Per le donne c’è qualcosa di diverso, intuiscono che Cristo è come loro, che danno ai loro figli il loro sangue e il loro corpo, perché i figli abbiano la vita. Il punto per loro non è trovare la soluzione al problema, ma accompagnare chi ha il problema, non lasciarlo solo. Il chicco di grano muore a sé, come chi è in dolce attesa, per dare frutto: la donna questo lo sa nel corpo e quindi anche nell’anima, il suo dischiudersi è dolore che dà la vita. L’uomo invece vede la morte con freddo realismo: senza soluzione, e basta. Altro che risurrezione. Anche nella nostra vita molte cose devono morire (e noi moriremo), perché appartengono al mondo vecchio, mortalmente ferito dal peccato.
Ma su questo se ne innesta uno nuovo, inaugurato da Cristo, che fa risorgere la vita e la restituisce intatta, prendendosene cura come fa una donna incinta: il realismo del cristianesimo non ha nulla a che fare con le favole. Si muore realmente e con tutte le sofferenze del caso, ma si risorge altrettanto realmente, per intervento del Padre a cui la vita è affidata. Questa buona notizia, l’unica buona notizia nel naufragare continuo delle cose umane, è data a una donna, a Maria di Magdala, perché sono le donne che sanno dare la vita e sono loro che devono trasmettere agli uomini il messaggio che la vita è ricominciata. Sono loro ad attendere preparando aromi e oli, non sono in fuga, c’è ancora qualcosa da fare per il corpo di Cristo: preparano la loro umanissima ricetta di risurrezione.
Tutto questo avviene nel giardino del sepolcro, così come nel giardino la donna aveva mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male, decidendo che poteva essere lei a dare la vita in proprio, senza il consenso di Dio, e quindi avrebbe potuto anche non attendere la vita, non attendere alla vita. Nello stesso giardino tutto viene riparato: «Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio». Quella donna si era alzata prima dell’alba, probabilmente dopo ore insonni, ed era andata di fretta al sepolcro. Ecco perché il sabato è donna, perché la donna ha atteso trepidante tutto il sabato e quando può scatta in avanti, corre in fretta, come una molla compressa, per curare la vita, anche quella più ferita, si alza quando è ancora buio, per nutrire la vita, come le madri che allattano nel cuore della notte.
Non si cura del fatto che il sepolcro è chiuso da una pietra che non potrà mai spostare, a lei quello che interessa è stare il più vicino possibile al suo amore, essere lì presente, fisicamente. Proprio a lei, innamorata folle, allora viene concesso il privilegio di essere chiamata per nome («Maria!») dal risorto, e così riconoscerlo. Una nuova vita viene attesa dagli uomini, scegliendo il nome che ne inaugurerà l’inedito essere al mondo.
La nuova vita di Cristo risorto si mostra pronunciando il nome di Maria come nessuno lo ha mai pronunciato, con un tono tale che sentiamo risuonare tutta la meraviglia del nostro essere, che non solo è amato così come è, ma è voluto dall’eternità e per l’eternità proprio da chi non può morire più, perché è risorto una volta per tutte. Come quando lo sposo dice alla sposa nel Cantico dei Cantici: «Sei tutta bella», e quel ‘tutta’ non indica solo la totalità del corpo ma la totalità del tempo, bella in ogni tempo, passato presente e futuro. Lei che era andata a prestar cura a un corpo senza vita si ritrova a essere chiamata per nome, per prima, dalla Vita stessa, che non può più morire. E la sua vita rifiorisce, dall’alto. Lei ora sa che non può più appassire, grazie a quella Vita che pronuncia il suo nome come nessun amore umano potrà mai fare.
In quel giardino la donna che era in attesa, era in realtà la donna attesa. Lei che voleva in qualche modo ridare vita a quel corpo con i suoi profumi, rinasce dall’alto, a partire dal suo nome. Lei per prima viene a sapere la buona notizia, sin dentro al suo nome, perché piena di fede e di cure, che poi è lo stesso. Lei la prima a dare la notizia, la buona notizia, perché lei è la prima, vigile, scattante, ad aspettarla quella notizia per un intero trepidante malinconico sabato d’attesa.”

La notte ch’io passai con tanta pieta

Gauguin. GetsemaniQuanta vicinanza provo con questo articolo-meditazione di Alessandro D’Avenia sulla notte tra il giovedì e il venerdì santo. La fonte è Avvenire.
«Sono terribilmente infelice. Se credi che una preghiera possa essere efficace (non scherzo), prega per me e vigorosamente». Così scriveva Charles Baudelaire a sua madre il 18 ottobre del 1860, dall’inferno spirituale da cui cercò di uscire negli ultimi anni della sua vita. Ogni uomo ha la sua notte. Ed è proprio in quella notte che trova Dio, perché la notte lo lascia nudo e senza risorse di fronte all’insufficienza di tutto e di se stesso. Dalla ferita inguaribile della propria radicale solitudine emerge l’unica preghiera vera, perché è la vita stessa a farsi supplica: voglio essere da te salvato, perché io da solo, ora che mi conosco, non posso. Dante, nel suo viaggio, si perde nella selva oscura, nella notte tra il giovedì santo e il venerdì santo dell’anno giubilare.
A quella notte dedica i primi versi del poema, il ‘la’ notturno al suo percorso di salvezza. Secondo molti commentatori è proprio la notte tra il giovedì 24 marzo e il venerdì 25 marzo che vede coincidere (come quest’anno) venerdì di Passione e Annunciazione. A quella notte del 24 marzo Dante dedica un verso che in undici sillabe scolpisce tutte le nostre notti: «la notte ch’io passai con tanta pieta». La ‘pieta’ è la parola che Dante usa per indicare, con perfetta polisemia, da un lato la paura della tenebra e dall’altra proprio la misericordia che lo raggiunge in quella tenebra, perché Maria lo soccorre mandando Lucia, Beatrice, Virgilio a recuperarlo.
Non può che essere così se la luce del giorno che gli fa sperare salvezza è quella del venerdì 25 marzo, data in cui nella tradizione medievale Dio creò il mondo e lo ricreò poi con il fiat di Maria. La notte che ogni uomo e donna attraversano per trovare Dio, la notte che gli esperti di vita spirituale attribuiscono ai santi come passaggio dolorosissimo e necessario, in cui l’uomo si sente dannato dalle sue sole forze e trova in Dio la sua unica e radicale speranza di salvezza, come chi sta cercando l’aria sott’acqua dopo essere naufragato. Nel Vangelo, che è la forma di ogni storia umana, essendo Cristo il Dna di ogni vita, questa notte deve essere tutte le nostri notti ed è per questo che in questa notte Cristo cade per terra nella sua selva, dalla quale si vede Gerusalemme, tra i contorti rami degli alberi d’ulivo, che preannunciano il tormento del legno della Croce.
Cristo, solo e triste fino alla morte in questa sua notte, il senso di tutte le notti degli uomini, chiede compagnia ad altri uomini, tre in particolare che, gravati da sonno e paura, si addormentano: la solitudine di Cristo non è lenita da nessuno, nessun uomo può raggiungerlo neanche standogli a fianco. Cristo sperimenta su di sé le conseguenze del peccato, viene applicata alla sua natura divina l’assoluta estraneità della morte, come un veleno che egli beve volontariamente, così da renderlo inefficace, dopo averne subito tutte le conseguenze. Il sudore è di sangue, perché l’essere viene sradicato dalla sua identità immortale e si sente morire in vita, donandosi alla morte. In questa notte, Cristo si trova faccia a faccia con il Padre, e lo chiama come nessun ebreo ha mai fatto, a dimostrazione che lui è l’unigenito figlio del Padre: lo chiama col nomignolo affettuoso dei bambini: Abbà, Babbo, Papino. L’uomo-Dio ha paura, per questo tutti gli uomini possono avere paura di ciò che li fa morire, possono avere paura di morire come le ragazze dell’autobus spagnolo, come i cittadini di Bruxelles. Cristo non elimina la paura, ma ci permette di abitarla: l’invito più frequente di Dio quando entra nella storia è ‘non temere’.
Un non temere che non elimina il nostro tremare di fronte alle difficoltà della vita, alle cadute, agli errori, alla nostra radicale solitudine quando la vita ci frusta. Ma lui può dirci di non temere, perché ha parlato con Abbà: ho paura di morire, gli ha detto, ma non sia fatto quello che voglio io, ma quello che vuoi tu. Salvami tu, perché io non so come fare, mi fido di te, ora che tutto sto per perdere, i miei si sono addormentati e Gerusalemme brilla nella notte come il più terribile patibolo. Nelle tue mani mi rifugio. È la notte della ‘pietà’ che Pascal sperimentò proprio scoprendo che il sudore di sangue di Cristo lo riguardava: «Quelle gocce di sangue le ho versate per te» (Pensieri, VII, 533); è la notte che Dante paragona proprio a un naufrago che si aggrappa alla terra, e si volge a guardare l’acqua mortifera. È ogni notte questa, la notte di un amore che si frantuma, la notte di una perdita irreparabile, la notte di chi scopre che le cose si rovinano e non corrispondono mai al nostro desiderio di infinito…
Grazie a quella notte noi possiamo attraversare le nostre, perché solo nella nostra notte impariamo a dire Abbà, l’unico nome che ci salva dalla notte, che spezza la nostra solitudine e ci raggiunge proprio lì dove ci sentivamo irreparabilmente soli e perduti, perché solo quella supplica radicale ci porta dritti nel cuore della Misericordia. «Miserere di me, gridai a lui», urla Dante a chi era già lì, Virgilio, inviato da Maria che aveva prevenuto il suo urlo notturno, urlo che così si svela essere non una richiesta ma la risposta adeguata a un’azione preventiva del Padre-Abbà, che ci attira a sé, più che mai, nei nostri Getsemani.”

Le 12 tesi di Spong. 7

Pubblico la settima tesi di John Shelby Spong. Qui la cornice di inquadramento del suo lavoro e qui la fonte.

resurrezioneLa resurrezione è un’azione di Dio. (…). Pertanto, non può consistere in un resuscitare fisico all’interno della storia umana. (…).
È interessante notare che Paolo, il primo autore di uno scritto entrato a far parte del Nuovo Testamento, non descrive mai alcuna apparizione del Cristo risorto. Ci fornisce semplicemente una lista di quanti erano stati testimoni della resurrezione (1 Cor 15, 1-6, risalente all’anno 54). Nella lista include se stesso, con la differenza, dice, che quella era stata l’ultima apparizione. Gli esperti stimano che la conversione di Paolo avvenne non prima di un anno dopo la crocifissione né dopo sei. Fu un corpo fisicamente risorto quello che vide Paolo? (..). Di certo Luca non la pensava così. Descrive la conversione di Paolo, la sua percezione del Gesù risorto, come qualcosa derivante da una visione durante il cammino di Damasco, non come la percezione di un corpo fisico (At 9,11ss). (…).
I racconti di Pasqua del Nuovo Testamento, quando vengono esaminati nel loro insieme, non dimostrano nulla. Riguardo al momento della Pasqua, discordano in tutti gli aspetti significativi. (…). Ciò potrebbe significare che non esiste un momento oggettivo della resurrezione e che, di conseguenza, tutto quello di cui disponiamo sarebbero teorie soggettive. Ma potrebbe anche significare che quello che chiamiamo “resurrezione” sia stata un’esperienza così potente e trasformatrice da non poter essere espressa a parole e che quello che ci stanno indicando tali contraddizioni non è altro che l’esistenza di tentativi soggettivi di esprimere quella che è stata e sempre sarà l’esperienza di una meraviglia ineffabile.
Credo che la resurrezione di Gesù sia reale. Non credo che abbia nulla a che vedere con una tomba vuota né con un corpo che resuscita. È la visione di qualcuno che non è più legato ad alcuno dei limiti della nostra umanità. È il richiamo a una nuova coscienza, il richiamo a una nuova realtà, oltre il tempo e lo spazio. (…).”

Religioni, teismi, cristianesimo: quale futuro?

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Oggi pubblico del materiale su un tema complesso e affascinante: il futuro delle religioni. E’ indubbio che i cambiamenti negli ultimi anni siano stati notevoli e caratterizzati da un aspetto tipico della contemporaneità: la velocità. Le religioni, e in particolare i monoteismi, non vi sono abituate. Cosa ne sarà? Molti teologi, filosofi, pensatori, si stanno occupando dell’argomento. La rivista Adista ha pubblicato questo articolo a cui ha allegato un estratto di una riflessione composita del gesuita Roger Lenaers. La metto in coda all’articolo in pdf.

È un tema per molti aspetti ancora nuovo quello della crisi e del possibile superamento della religione, intesa come la forma storica concreta, dunque contingente e mutevole, che la spiritualità, cioè la dimensione profonda costitutiva dell’essere umano, ha rivestito a partire dall’età neolitica. Che le religioni così come le conosciamo siano destinate a morire non è in realtà un’idea largamente condivisa dai teologi, molti dei quali sottolineano al contrario segnali di indubbia vitalità del fenomeno religioso. […] la religione sembra mostrare una notevole effervescenza in metà del mondo e una profonda crisi nell’altra metà, benché le due metà si presentino spesso mescolate e non facilmente identificabili. Di certo, però, è impossibile negare che sia in atto in molti luoghi un’evoluzione verso una laicizzazione di dimensioni inedite e che la comprensione della religione – vista non più come un’opera divina, ma come una costruzione umana – ne risulti profondamente trasformata. Ma allora, se il ruolo tradizionale della religione è in crisi irreversibile, quali forme assumerà nel futuro l’insopprimibile dimensione spirituale dell’essere umano? Potrà esistere una religione senza dogmi, senza dottrina, senza gerarchie, senza la pretesa di possedere la verità assoluta? E che ne sarà in questo nuovo quadro della tradizione di Gesù? Riuscirà il cristianesimo a trasformare se stesso, rinnovandosi radicalmente in vista del futuro che lo attende?
È un compito, questo, a cui hanno già rivolto le proprie riflessioni teologi come il gesuita belga Roger Lenaers, con la sua proposta di riformulazione della fede nel linguaggio della modernità (v. Adista nn. 44/09, 26/12, 13/14), o il vescovo episcopaliano John Shelby Spong, con la sua rilettura post-teista del cristianesimo (oltre, cioè, il concetto di Dio come un essere onnipotente che dimora al di fuori e al di sopra di questo mondo e che da “lassù” interviene nelle questioni umane, v. Adista n. 94/10, 28/12, 35 e 39/13, 23/14). Riflessioni che, insieme a quelle di diversi altri autori (di alcune delle quali daremo conto sui prossimi numeri di Adista), figurano in un numero speciale (il 37/2015) della rivista di teologia Horizonte, pubblicata dalla Pontificia Università Cattolica di Minas Gerais, dedicato proprio al paradigma post-religionale. Un numero ricco di spunti e di suggestioni, di valutazioni anche molto distanti tra loro, ma, nella minore o maggiore radicalità dei contenuti, sostanzialmente animate da una convinzione di fondo: che, cioè, pur nella necessaria – dolorosa ma alla fine liberante – rinuncia al teismo, il messaggio originario della fede cristiana non perde comunque nulla di veramente essenziale. Anche in una visione moderna del mondo, che è una visione esplicitamente non-teista, resta inalterata, infatti, spiega Lenaers nel suo intervento, «la confessione di Dio come Creatore del cielo e della terra, inteso come Amore Assoluto, che nel corso dell’evoluzione cosmica si esprime e si rivela progressivamente, prima nella materia, poi nella vita, poi nella coscienza e quindi nell’intelligenza umana, e infine nell’amore totale e disinteressato di Gesù e in coloro in cui Gesù vive». Come pure resta invariata «la confessione di Gesù come la sua più perfetta auto-espressione» e «la comprensione dello Spirito come un’attività vivificante di questo Amore Assoluto». E ciò malgrado Lenaers non nasconda di certo di quale portata siano le conseguenze di una rilettura del messaggio cristiano nel linguaggio della modernità, esprimendo tutta la distanza che separa il quadro concettuale premoderno – secondo cui il nostro mondo sarebbe completamente dipendente dall’altro mondo e dalle sue prescrizioni – da quello “credente moderno”, in cui risulta impensabile che un potere esterno al mondo intervenga nei processi cosmici, in quanto esiste solo un mondo, il nostro, che è un mondo santo, in quanto autorivelazione progressiva dell’Amore Assoluto. Una prospettiva in base a cui Lenaers rilegge in modo nuovo le formulazioni premoderne della dottrina tradizionale relativamente al Credo, alla resurrezione, ai dogmi mariani, alle Sacre Scritture, ai dieci comandamenti, alla gerarchia, ai sacramenti, alla liturgia, alla preghiera di petizione.
Vi proponiano, in una nostra traduzione, alcuni stralci dell’intervento di Lenaers…”

Cristianesimo e modernità

Gemme n° 222

Ho scelto come gemma questa canzone non per la cantante ma per il video, che mi riporta a un periodo molto triste della mia vita; ci tengo molto alle amicizie e il bullismo è una bruttissima cosa”. Così G. (classe terza) ha presentato la sua gemma.
Nel testo, rivolto alle “cattive ragazze” si sente: “Come ti sentireste se ogni volta che vai a scuola c’è qualcuno che ti guarda male chiamandoti perdente… Cosa sai di me? Sai realmente cosa penso?… Forse qualcuno è stato maligno con te, allora pensi che sia giusto esserlo anche tu”. Dedico a G. queste parole che ho trovato in rete “Il bullismo spezza i rami più belli che un ragazzo o una ragazza possiede. Poi il tempo passa e nasce un fiore nuovo. Chi non si arrende vince sempre”.

Gemme n° 211

La mia gemma è un pezzo francese di musica elettronica, uno dei miei preferiti, anche perché si diversifica dagli altri: non serve solo per far ballare, trasmette emozioni e sensazioni, e cerca di raccontare una storia interpretabile personalmente. Per me è la storia della fenice: nasce, raggiunge l’apice, muore, e poi, verso la fine, rinasce… Mi dà felicità ed energia.” Questa la gemma di M. (classe quinta).
Propongo una citazione di Singer, tratta da “Io non mi affido agli uomini”: “Non si stancava mai di guardare sorgere il sole: rosso acceso, dorato, lavato nelle acque del grande mare. Il sole nascente gli ispirava sempre lo stesso pensiero: a differenza dell’astro celeste, il figlio dell’uomo non si rinnova mai e per questo è destinato alla morte. L’uomo ha ricordi, rimorsi e rancori che si accumulano dentro di lui come strati di polvere finché gli impediscono di ricevere la luce e la vita che discende dal cielo. Il creato, invece, si rinnova costantemente. Se il cielo si rannuvola, poi si rasserena. Il sole tramonta, ma ogni mattino rinasce. Le stelle o la luna non recano le tracce del tempo. La continuità del processo di creazione della natura non appare mai tanto ovvia come all’alba, quando cade la rugiada, gli uccellini cinguettano, il fiume s’infiamma, l’erba è umida e fresca. Felice è l’uomo che sa rinnovarsi insieme al creato.”

Cuore nel cuore

L’avevo cercata, all’interno delle riflessioni sul Giovedì, Venerdì e Sabato Santo, quella sulla mattina di Pasqua, ma non l’avevo trovata. “Strano” avevo pensato. E infatti c’era… Eccola qui, a completare il Triduo Pasquale.

Domenica di Pasqua
Pasqua: questo giorno, ogni giorno
riparare i viventiRiparare i viventi è il titolo di un bel romanzo scritto dalla bravissima Maylis de Kerengal che in questi giorni mi ha accompagnato. Mi sembra il titolo perfetto per questa domenica. La storia parla di un adolescente che, uscito con i suoi amici in una fredda notte in cerca dell’onda perfetta da cavalcare all’alba con i loro surf ruggenti, sulla strada del ritorno ha un incidente ed entra in coma irreversibile. I suoi genitori consentono l’espianto degli organi, anche se è il cuore il vero protagonista della storia. Il cuore che viene estratto dal petto del ragazzo va a riempire quello di una donna in attesa di un organo che la salvi grazie ad un trapianto. Ad un tratto la madre di Simon, il ragazzo morto, si chiede che accadrà al contenuto del cuore di suo figlio: «Che ne sarà dell’amore di Juliette una volta che il cuore di Simon ricomincerà a battere dentro un corpo sconosciuto, che ne sarà di tutto quel che riempiva quel cuore, dei suoi affetti lentamente stratificati dal primo giorno o trasmessi qua e là in uno slancio d’entusiasmo o in un accesso di collera, le sue amicizie e le sue avversioni, i suoi rancori, la sua veemenza, le sue passioni tristi e tenere? Che ne sarà delle scariche elettriche che gli sfondavano il cuore quando avanzava l’onda? Che ne sarà di quel cuore traboccante, pieno, troppo pieno?».
Che ne sarà del nostro cuore, con tutto quello che ha filtrato di amore e disamore in una vita? Ma non è forse questo il senso della grande promessa di Dio: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez. 36, 26-7)? Anche noi eravamo a rischio di vita, anzi eravamo già morti, il nostro cuore aveva subito troppi infarti, non riusciva più ad amare senza rischiare il colpo di grazia. E proprio per un colpo di grazia riceviamo un cuore nuovo, che viene trapiantato gradualmente nella nostra vita nella misura in cui lo vogliamo. L’uomo nuovo di cui parla Paolo nelle sue Lettere è un uomo dopo il trapianto. Rimane l’uomo vecchio, ma il trapianto irrora gradualmente ogni fibra trasformandola. In noi comincia ad abitare il battito di un Altro, che non muore. La vita di Dio che non può essere distrutta entra e gradualmente trapianta (ci innesta nella sua vita come si fa in botanica), purifica, trasforma, nella misura di quanto vogliamo. C’è tanto del cuore di Dio nella nostra vita quanto noi vogliamo ne venga trapiantato ogni giorno. Ad un certo punto della narrazione il medico che condurrà l’operazione di trapianto avverte la paziente perché si prepari: «Il cuore sarà qui fra trenta minuti, è splendido, è fatto per lei, vi intenderete alla perfezione. Claire sorride: ma aspetterà che sia qui prima di togliere il mio, vero?».
Il nostro rimarrà, proprio quello nostro, ma il centro di ogni pensiero, decisione, amore, caduta, tristezza, malinconia, il motore di ogni nostro amore e disamore, non verrà tolto, ma trasformato. La natura umana è riparata perché il perfetto uomo ha attraversato tutto l’umano, ha conosciuto tutto ciò che passa per il cuore dell’uomo e lo ha sentito come fosse suo, anche il peccato, non come atto ma nelle sue conseguenze (dalla tentazione, al dolore, alla morte). E quel cuore che ha cessato di battere sulla croce, quel cuore che ha dato tutto, tanto che, quando il soldato lo trafisse con la lancia, sputò sangue e acqua, il siero che si riversa nella sacca del pericardio quando dopo un infarto la parte densa del sangue si separa da quella più leggera, proprio quel cuore diventa nostro. Quel cuore in realtà non è vuoto, non è il cuore di un morto, inservibile per un trapianto.
È il cuore di un vivo, è il cuore del Vivente, è il cuore della Vita; il cuore che ci consente di avere passione per la vita e di patire per la vita; il cuore che ci concede il trasporto erotico per il creato e le creature e la capacità di patire per il creato e le creature. Il cuore di Dio, spiritualmente trapiantato in noi grazie al Battesimo e riparato dagli altri Sacramenti, batte fortissimo nel petto dei cristiani, che per questo ogni giorno, se vogliono risorgono. E quando quel cuore verrà pesato (amor meus pondus meum, il mio amore è il mio peso dice Agostino) alla fine della vita lo si troverà ‘pieno’ dell’amore di Dio stesso, perché cuoreera il suo in noi. Solo lui ripara i viventi e i morenti, perché il suo cuore non ha conosciuto la corruzione della morte, conosce solo la vita e ciò che dà la vita. Si dice che, dopo aver bruciato Giovanna D’Arco, i carnefici trovarono intatto il suo cuore in mezzo alla cenere. Quel cuore non poteva essere distrutto, perché la sua materia non apparteneva a questo mondo e il fuoco degli uomini non poteva consumarlo. Era il cuore di Giovanna o quello di Dio? Se è amore che vogliamo per vivere, è un cuore nuovo che vogliamo. Oggi è il giorno del trapianto.”

Il riposo di Dio

Terza e ultima tappa della riflessione sul triduo pasquale di Alessandro D’Avenia pubblicata una settimana fa su Avvenire. E’ la volta del Sabato Santo. Ancora la creazione e la materia, il silenzio e la contemplazione, il riposo e la nuova vita.

SABATO SANTO
Sabato Santo, oggi è l’uomo il riposo di Dio
riposoL’ultimo sabato di Cristo sulla terra conferma il primo sabato della storia: Dio riposa e contempla ciò che ha fatto. Nel sepolcro Dio riposa, dopo aver ricreato il mondo e l’uomo in lui, fatto e disfatto della materia del mondo e dell’uomo. Ha rinnovato dall’interno gli atomi, con la vera particella di Dio, l’Amore che non può essere isolato da nessun acceleratore perché è l’acceleratore di quelle particelle (Amor che move il Sole e l’altre stelle), non può essere ulteriormente diviso perché è l’elemento degli elementi, la sostanza di tutta la tavola periodica. Dio impadronendosi da dentro di ogni atomo di materia lo rende nuovo, ogni atomo adesso appartiene alla vita di Dio e non può più decadere: è salvo. Tutto è rinnovato dal di dentro oggettivamente, e lo sarà anche soggettivamente grazie a chi aderirà: «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo». Ma che gran lavoro è costato tutto questo: ci vuole un momento di silenzio e di riposo, uno di quei momenti in cui l’umanità si chiede: dov’è Dio? Ed è in quel silenzio: contempla che quanto è stato fatto è cosa definitivamente bella e buona. Quel corpo distrutto dalla violenza umana, senza apparenza né bellezza per attirare lo sguardo, ha in sé tutta la bellezza possibile, perché adesso la bellezza porta su di sé anche i segni dell’incompiutezza: dolore, solitudine, tristezza, malattia, ferita, sangue, abbandono… tutto è bello adesso, perché quel corpo distrutto contiene dentro di sé tutto ciò che è brutto al mondo, trasformato da dentro, cioè realmente. Se solo ci soffermassimo a considerare che cosa è significato per l’estetica (e quindi per la vita) aver reso bello un crocifisso, smetteremmo di staccarli per ragioni puramente estetiche.
Alcune cose continueranno a decadere come prima, perché la ferita inferta dal peccato all’uomo e al creato non è del tutto cancellata, e ciò che deve decadere continuerà a decadere, ma una creazione nuova comincia a ergersi, sottile, silenziosa, ma inarrestabile, da quel corpo distrutto coinvolgendo, insieme alle cose che in noi marciscono, chi a lui si volgerà. Quel corpo è il corpo di un morto, ma in Dio la morte è solo riposo: come si riposò dopo aver creato, adesso riposa dopo aver ri-creato. C’è un unico sabato, adesso, in cui Dio, guardando tutta la storia, vede il suo riposo nel giardino della nuova creazione. C’è un gran silenzio nel giardino, attorno a quel sepolcro. Eppure, proprio quando sembra che Dio riposi, egli opera più di ogni altro giorno, perché il suo guardare le cose, dopo averle fatte, in realtà è un modo umano di dire che nel guardarle è lui che le fa esistere, le conserva nell’essere e le fa essere belle. Il riposo di Dio è la restaurazione continua della bellezza, la ri-creazione inesausta della bellezza, tutto più bello di prima, come pallidamente dice quell’arte giapponese di riparare i vasi rotti iniettando vene d’oro dentro le crepe.
Nelle mani del Padre riposa il Figlio per tutto quel sabato, ma intanto quelle stesse mani operano su ogni elemento di quel corpo e quindi della realtà, rinnovandola da dentro. E questo vale per tutti i nostri sabati di dolore, attesa e prostrazione. «Nelle tue mani consegno il mio spirito», dice il Figlio al Padre. «Ecco io faccio nuove tutte le cose», risponde il Padre al Figlio, ricevendo nella sua vita incorruttibile la materia e lo spirito del Figlio e, attraverso di lui, quella di chi a lui si unirà, credendo in lui e lasciandolo entrare nella propria camera del cuore. E il Padre che vede nel segreto lo ricompenserà: con se stesso. Dio vide che ciò che aveva fatto per l’uomo era cosa buona-e-bellissima e lo sarebbe stato in ogni angolo della Terra in cui un uomo e una donna avessero accettato di far riposare Dio, perché ancora una volta era l’uomo la via di Dio: «Io salirò fino ai piedi della Croce, mi stringerò al Corpo freddo, al cadavere di Cristo, con il fuoco del mio amore, lo schioderò con i miei atti di riparazione e con le mie mortificazioni, lo avvolgerò nel lenzuolo nuovo della mia vita limpida, e lo seppellirò nel mio cuore di roccia viva, dal quale nessuno me lo potrà strappare, e lì, Signore, puoi riposare! Quand’anche tutto il mondo ti abbandoni e ti disprezzi, serviam! ti servirò, Signore!» (San Josemaría Escrivá, Via Crucis, XIV stazione).
Quando Dio sembra tacere nella nostra vita, quello è il momento in cui chiede di riposare proprio grazie alla nostra vita. Solo così sarà di nuovo creata, di nuovo bella, pur con tutta la sua fatica e, a volte sconsolata, sensazione di abbandono. La vita di un cristiano sulla terra è un sabato in cui far riposare Dio in noi, un tempo che intercorre tra il dire – qualsiasi cosa accada – «Padre nelle tue mani consegno la mia vita» e l’ascoltare la risposta «Ecco, io faccio nuove tutte le cose», anche le più oscure. E in noi Dio vedrà di aver fatto una cosa bellissima. E saremo il suo riposo.

Buio e luce

Seconda tappa della riflessione sul triduo pasquale di Alessandro D’Avenia pubblicata una settimana fa su Avvenire. E’ la volta del Venerdì Santo. La luce e il buio, la creazione e la materia, la vita e la morte, Nietzsche e Ungaretti: tutto a partire dalla Crocifissione di Poussin e dal volto di Cristo per finire sul volto dell’uomo.

poussinVENERDI’ SANTO
La roccia della morte si apre. C’è una parola che dà luce
«Non ho più abbastanza allegria né salute per impegnarmi in soggetti tristi. La Crocifissione mi ha fatto star male, ho provato molta pena, ma un Cristo portacroce finirebbe con l’uccidermi. Non potrei resistere ai pensieri penosi e seri di cui bisogna riempire lo spirito e il cuore per riuscire in soggetti di per sé così tristi e lugubri. Dunque risparmiatemi, per favore» così scrive Nicolas Poussin a Jacques Stella che gli ha commissionato una Salita al Calvario, dopo che aveva visto la sorprendente Crocifissione dipinta per De Thou, a cui l’artista aveva dedicato i mesi dal novembre 1645 al giugno 1646. Qualche settimana fa mi trovavo di fronte a questo quadro e ho visto, trasformati in forme e colori, il dolore di cui parla l’artista che è riuscito così a rappresentare l’eclissi della luce su una tela.
Si può dipingere il buio e con il buio?
Poussin riesce. Crea un buco nero artistico in cui si assiste all’implosione della luce, in una specie di anti-primo-giorno della creazione: la luce non fu. Il cielo dello sfondo precipita nell’assenza totale e le rocce del paesaggio sono macchie evanescenti: la materia è annichilita quanto il suo creatore. Con la parola “materia” i Romani indicavano il concretissimo legno degli alberi. La materia del creato è servita a forgiare lo strumento di tortura per il creatore.
A parte il movimento impressionante dei manti rossi che attraversano il quadro in una specie di “s” coricata, la scia di sangue della storia umana, sangue versato dalla violenza (i soldati), sangue dato per la vita (Maria, Giovanni, il ladro buono), tutte il resto è fatto da gradazioni di buio che inghiottono figure umane ridotte a fantasmi. Tutto è cacciato nella notte che si merita. Ai piedi della croce, sul piano medio, al centro, c’è un personaggio che si volge verso lo spettatore e gli chiede conto di ciò che sta accadendo e se c’entri qualcosa con quella tenebra che sta inghiottendo tutto.
Gli uomini sono in primo piano, con la loro violenza: soldati che si giocano a dadi le vesti del crocifisso, due di loro sono sorpresi da qualcosa che esce dal buio della terra in un movimento opposto alla tenebra celeste: dalla pietra di un sepolcro emerge un uomo contro il quale il soldato sguaina un pugnale. L’uomo, erompendo dalla fessura
della terra al centro dei due triangoli composti dalle figure ai due lati del quadro, fissa Cristo immerso nella tenebra, mentre lui in un manto bianco, unico punto di luce, è la primizia dei risorti di cui parla Matteo: «Gesù emesso un alto grido spirò… la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti resuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la resurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti» (Mt 27, 50-53).
La roccia della morte si apre come un bozzolo molle di crisalide, la morte che pietrifica col volto di Medusa, paralizzando il soffio di Dio (anima, da anemos, vento), è ammorbidita, la materia ha un sussulto, perché l’uomo-Dio si è sottoposto alla pietrificazione della morte e, spirando, l’ha resa di nuovo fluida e viva: Da dentro. Il suo corpo non conosce corruzione (questo vuol dire resuscitare: preservare dalla corruzione) e la Morte diventa più piccola della Vita, perché la Vita l’ha inghiottita dentro di sé, sperimentandone l’avvelenamento, ma strappandole il pungiglione e rendendo il veleno inefficace. Adesso si allarga una luce silenziosa in mezzo alle tenebre, in ogni cuore che si volga a guardare Colui che hanno trafitto che, subendo nella sua materia le conseguenze delle nostre tenebre, restaura la materia dell’uomo e gli restituisce la condizione di luce: «Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me», aveva detto.
Questo è il movimento centripeto e inconsapevole del quadro e del mondo e di tutti i suoi elementi, materiali e umani. Il centro di questo buco nero divino è la figura di Cristo: attorno a lui trionfa il non-colore della solitudine e del male, egli diventa un buco nero al contrario, inghiotte tutto il buio della storia per ridare luce a noi. Non fa forse questo la Parola? Dare luce alle cose e dare alla luce le cose. Attira tutto il buio a sé e ci restituisce la luce nella quale possiamo ri-conoscere (conoscerlo di nuovo e come nuovo) il nostro volto. Lo abbiamo noi questo volto? Convinceremmo Nietzsche che asseriva che avrebbe creduto al cristianesimo se avesse visto nei suoi seguaci “il volto dei risorti”? Potremo se ci volgeremo a lui riconoscendo tutta la nostra tenebra, perché sia soggettivamente e progressivamente rischiarata, perché la tenebra è inversamente proporzionale alla croce, come scopre il poeta, al cospetto delle macerie della città degli uomini devastata dalla guerra mondiale: «Vedo ora nella notte triste, imparo, / So che l’inferno s’apre sulla terra / Su misura di quanto / L’uomo si sottrae, folle, / Alla purezza della Tua passione» (G.Ungaretti, Mio fiume anche tu).

C’è del buono

crocifissione bianca 240

Non so se nei prossimi giorni aggiornerò il blog. In alcuni periodi dell’anno stacco un po’. Mi piace l’idea di lasciare questa breve riflessione-citazione-abbinamento per questi giorni che precedono e poi seguono la Pasqua.
Sam: «È come nelle grandi storie, padron Frodo, quelle che contano davvero, erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi sapere il finale, perché come poteva esserci un finale allegro, come poteva il mondo tornare com’era dopo che erano successe tante cose brutte; ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest’ombra, anche l’oscurità deve passare, arriverà un nuovo giorno, e quando il sole splenderà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, anche se eri troppo piccolo per capire il perché, ma credo, padron Frodo, di capire ora, adesso so: le persone di quelle storie avevano molte occasioni di tornare indietro e non l’hanno fatto; andavano avanti, perché loro erano aggrappati a qualcosa». Frodo: «Noi a cosa siamo aggrappati Sam?». Sam: «C’è del buono in questo mondo, padron Frodo: è giusto combattere per questo!»” (‘Il Signore degli anelli – Le due torri’).
Quella narrata da J. R. R. Tolkien è una storia inventata. Leggendo questo passo mi sono venute però alla mente le parole di una pensatrice che ha vissuto realmente e di cui ho scritto già diverse volte sul blog. Etty Hillesum, da perseguitata, afferma: “La barbarie nazista risveglia lo stesso tipo di barbarie in noi […]. Dobbiamo respingere quella barbarie da noi stessi, non dobbiamo coltivare l’odio interiormente perché, altrimenti, il mondo non riuscirà a fare un solo passo fuori dalla melma. Non che la nostra condotta contro il nuovo sistema debba essere ingenua e priva di principi, ma questa è un’altra faccenda. Combattere gli istinti malvagi che quella gente risveglia in noi è qualcosa di molo diverso da un ipotetico essere «oggettivi», dal vedere il cosiddetto «bene» nel nemico – fare questo è solo tergiversare e non ha niente a che fare con ciò che voglio dire. Ma si può essere veri militanti e agire con ricchezza di principi senza essere pieni di odio” (De nagelaten geschriften, tratto da Uno sguardo nuovo, Iacopini-Moser, pag. 29).

La natura di Gaudì

Un bell’articolo di Lluís Martínez Sistach su Gaudì pubblicato su Avvenire del 16 gennaio 2015.
gaudi-interior-sagrada-familiaLa Sagrada Família è un inno alla natura, è un canto alla luce e a tutto il creato che, secondo il libro della Genesi, seguì alla creazione della luce. La visione che Gaudí ha della natura e che plasma nella sua opera è molto vicina a quella di san Francesco d’Assisi. Pertanto, a ragione, si è parlato di un’ispirazione francescana nella sua opera, e di uno stile francescano nella sua vita, in particolare quanto a umiltà e povertà.
È ben noto che le strutture geometriche, nella cui creazione e uso Gaudí è geniale, si ispirano alla natura. «Il grande libro – affermava – sempre aperto e che conviene sforzarsi di leggere, è quello della natura. Gli altri libri sono tratti da questo e contengono gli errori e le interpretazioni degli uomini. Ci sono due grandi rivelazioni: una dottrinale, della morale e della religione (col termine “dottrina” Gaudí fa riferimento alla Sacra Scrittura), e l’altra, che ci guida attraverso i fatti, che è quella del grande libro della natura». «Ogni cosa proviene dal grande libro della natura – aggiungeva Gaudí –; le opere degli uomini sono già un libro stampato. Vedete quell’albero vicino al mio laboratorio? Lui è il mio maestro». Raramente in un autore degli inizi del XX secolo si possono trovare affermazioni simili così piene di amore e rispetto verso la natura. Gaudí, nel suo modo di amare e rispettare la natura, fu anche un innovatore.
Fu un vero apostolo dell’ecologia. Non è forse questa una delle caratteristiche che rende alla Sagrada Família un significato veramente universale, sia a oriente, Giappone in particolare, sia a occidente? Dove apprese il nostro architetto questo amore per la natura? Senza dubbio alcuno, dalla sua infanzia. Si è detto che l’infanzia è la patria di ogni persona per tutta la propria vita terrena. Per quanto riguarda Gaudí sappiamo che durante l’infanzia soffrì di reumatismi articolari, ragion per cui si trasferiva spesso a Riudoms, in una masseria di famiglia, in groppa a un asinello, perché il dolore gli impediva di camminare.
Lì, così come confessò a Joan Bergós, nel libro Gaudí, l’home i l’obra, «con i vasi di fiori, circondato da vigneti e uliveti, animato dal chiocciare delle galline, dai canti degli uccelli e dal ronzio degli insetti, e con le montagne di Prades a fare da sfondo, potei cogliere le più pure e gioiose immagini della natura. Questa natura che sempre mi è maestra». Dello spirito di osservazione del Gaudí bambino ci parla questa confessione fatta a Bergós: «A causa della mia malattia, dovetti astenermi spesso dal giocare con i miei compagni, cosa che favorì in me lo spirito di osservazione. Così, quando il maestro spiegò in una lezione che gli uccelli avevano ali per volare, osservai che “le galline della nostra fattoria hanno ali molto grandi e non sanno volare: le utilizzano per correre più velocemente”».
È stato scritto che il tempio da lui ideato costituisce un grande giardino in pietra, nel quale il regno minerale, vegetale e animale, perfino gli esseri più umili, come le tartarughe, danno il loro contributo all’opera e intonano un canto di lode al Creatore. Gaudí asseriva che, nell’edificare l’opera, si proponeva di plasmare con la pietra gli esseri viventi che individuava e ammirava nel prato del terreno su cui doveva sorgere la sua “cattedrale”. È ben nota la sua ammirazione per i colori. Gaudí credeva che la vita si esprimesse nei colori che non dovevano assolutamente mancare nella sua opera, perché sono espressione di vita ed esplosione di gioia. Questa visione gioiosa e riconoscente della natura è un elemento molto valido per il nostro dialogo con gli uomini di oggi e con la cultura attuale, fortemente segnata dall’ecologia. «Il colore è vita».
Come ammirerebbe Gaudí il modo in cui si è diffuso il colore nel mondo attuale! Gaudí era mediterraneo al cento per cento. E sapeva molto bene come la latitudine influisse sul sentimento della bellezza. Secondo Martinell, l’architetto spiegava ai suoi visitatori quanto segue: «Noi abitanti dei Paesi bagnati dal Mediterraneo sentiamo la bellezza con più intensità degli abitanti dei Paesi del Nord, ed essi stessi lo riconoscono. […] Abbiamo l’obbligo di infondere questo sentimento di vita nelle nostre opere, nel cui aspetto deve riflettersi il nostro modo di essere». Gaudí raccontò un aneddoto molto esplicativo del suo amore per la natura, secondo la testimonianza raccolta da Bergós riguardo la costruzione della Casa Vicens: «Quando andai a prendere le misure del terreno, questo era interamente coperto da fiorellini gialli; fiorellini che sono stati ripresi come motivo fondamentale delle piastrelle in ceramica. Trovai anche un esuberante margallón [palma], la cui forma delle foglie, come fuse nel ferro, formano le inferriate e la porta di ingresso».
Come è noto, nel Rosario monumentale della montagna di Montserrat, a Gaudí venne affidata la costruzionegaudì montserrat del primo mistero della Gloria: la risurrezione di Gesù. Anche qui, oltre alla simbologia cristiana, diede prova del suo amore verso gli esseri più umili della natura. Bergós lo racconta in questo modo: «Collocai il mistero della risurrezione in un angolo del percorso, facendo scavare in modo realista la roccia che si vede di fronte alla grotta funeraria, con in mezzo il sepolcro vuoto; alla sinistra del sarcofago, le sante donne ricevono l’annuncio dell’angelo su quanto è accaduto al Maestro. Quando lo spettatore si gira, contempla con emozione che Cristo rifulgente sembra elevarsi sull’alta rupe che vi è accanto. Le sculture collocate all’interno della grotta sono di Reart, e il Cristo, in bronzo dorato, è di Llimona. Adesso manca solo che siano piantati alcuni alberelli e siano coltivati gli ortaggi più umili, per suggerire l’idea dell’orto del buon giardiniere di cui parla il Vangelo e affinché il canto di molti uccelli accompagni la messa della mattina di Pasqua».
Nel suo capolavoro, Gaudí introdusse gli elementi della natura, affinché la creazione convergesse nella lode divina, e allo stesso tempo portò all’esterno della chiesa le pale d’altare, per mettere davanti agli uomini il mistero di Dio rivelato nella nascita, nella passione, nella morte e nella risurrezione di Gesù Cristo. Il nostro architetto fece ciò che possiamo definire uno dei compiti più importanti oggi: «Superare – come affermò Benedetto XVI – la scissione tra coscienza umana e coscienza cristiana, tra esistenza in questo mondo temporale e apertura alla vita eterna, tra la bellezza delle cose e Dio come bellezza. Non realizzò tutto questo con parole, ma con pietre, linee, superfici e vertici. In realtà, la bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza. La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo».”

Aspettando Patti Smith

Premessa: la prossima settimana nella scuola in cui insegno ci sarà un incontro con Patti Smith (abbiamo un indirizzo musicale). Oggi alle 12.00 una delle mie quinte mi ha chiesto: “Prof, ci permette di andare? Ci accompagna la prof. di tedesco!”.
E’ stato lì che ho deciso di mandare a monte la lezione sulla globalizzazione che avevo preparato e di cogliere l’occasione per leggere un mio breve post di due anni fa e soprattutto un articolo di Max Granieri del 2012 dal titolo “Patti Smith: la sgraziata forma del rock”. Lo riporto qui integralmente:

La mia missione è comunicare, svegliare la gente. E’ dare la mia energia e accogliere la loro. Siamo tutti coinvolti e io parteciperò emotivamente, in quanto lavoratrice, madre, artista, essere umano, con una voce. Abbiamo tutti una voce, abbiamo la responsabilità di esercitarla, di usarla”. E’ il manifesto musicale e politico di Patti Smith, poetessa del punk rock newyorkese, affisso nel film Dream of Life di Steven Sebring, edito da Feltrinelli. Le sue liriche sono segnate da un primordiale istinto alla sopravvivenza morale e civile.
Una mostra visitata a Liverpool qualche anno fa, dedicata alle influenze sociali del punk britannico nell’era di Margaret Thatcher (primo ministro inglese dal 1979 al 1990), fece traslalire di gioia. Pensai, allora: “Qualcosa di buono hanno combinato i punker…”. In realtà, fu Patti Smith a sdoganare il punk dal bluff dei Sex Pistols e dal snobismo dei primi Police, a vestirlo d’uno status intellettuale che lo avvicinasse al blues e al jazz. Merito dei suoi continui riferimenti letterali nei testi, quella poesia urlata in faccia ai potenti, voce di tutte le comunità ai margini, calpestate nei loro più elementari diritti. Lei incarna la protesta e la rabbia del punk, una voce sgraziata che grida nel deserto del mondo.
In “Dream of life”, Patti apre la porta di casa per fare entrare più gente possibile, incurante della presenza dello spettatore nelle sue stanze, dove canta e sogna, recitando a memoria versi di poeti. Canticchia un brano di Fabrizio De Andrè, “Amore che vieni Amore che vai”. Il filmato è privo di una storia. Ci si aspetta di vedere John Cale (produttore sapiente della Smith), un parallelismo con Jim Morrison, qualche riferimento alla collaborazione con Jeff Buckley (prestò la voce in Beneath The Southern Cross e suonò in Fireflies, canzoni dell’album Gone Again). Nulla di tutto ciò.
Il disordine regna nella sua abitazione, come nella visione del film. Patti Smith vuole un contatto immediato con chi la guarda, specie se parte di una nuova generazione, la sola capace di sollevare il mondo e cambiarlo. Lo fa intendere, citando Walt Whitman: “Giovane poeta che tra cent’anni vivrai, io scrivo per te. Sto pensando a te mentre osservo questo fiume, sto pensando a te, giovane poeta non ancora nato, mentre osservo il cielo”. Un riferimento importante è lo scrittore Allen Ginsber, esponente della Beat Generation, oltre a William Burroughs e Bob Dylan. Nell’album Peace & Noise, c’è Spell, versi in musica di un poema assai discusso di Ginsberg, “Howl” (L’urlo). Il brano chiude il dvd, con Patti Smith che cammina per le strade della città santa, Gerusalemme:
Il mondo è santo, l’anima è santa
La pelle è santa
Tutto è santo, tutti sono santi…
Ogni giorno è un’eternità
Ogni uomo è un angelo…
Il pazzo è santo, come tu, anima mia, lo sei
La poesia è santa, gli ascoltatori sono santi
San Pietro, San Allen, San Salomone, San Lucien,
San Kerouac, San Huncke, San Burroughs, San Cassidy
Santi gli sconosciuti dannati, i mendicanti dolenti
Santi gli orribili angeli della terra…
Appare insieme a Sam Shepard, suo vecchio amico, celebre drammaturgo e attore americano (coautore con Dylan di Brownsville Girl). Patti Smith siede su un piccolo baule del sedicesimo secolo. Dietro, una statua del bambino Gesù. Sul muro una foto di Gandhi e un santino più piccolo, l’immagine della Sacra Sindone. Simboli di un misticismo tangibile e familiare all’artista, visibile non solo nell’arredamento spartano. La poesia di Patti Smith è figlia dell’esperienza religiosa: c’è la dannazione, la catarsi e la redenzione, la tensione verso Cristo, Buddha e Arthur Rimbaud.

Prima di diventare un filmato (forse il modo migliore per definire il dvd), “Dream of life” è stato un disco. E’ il 1988, anno del ritorno sulle scene, dopo un lungo periodo di silenzio. Riesplode la rabbia di Horses, il suo primo album, ma in maniera più matura e controllata. Pesa ancora la morte del marito Fred Sonic Smith, del fratello Tod, la scomparsa di altri suoi collaboratori, il musicista Richard Sohl e il fotografo Robert Mapplethorpe, cui dedicherà una raccolta di poemi intitolata “The Coral Sea”. I primi minuti del dvd sono un elogio funebre a chi non c’è più nella sua vita. Lo aveva già fatto in Wave, album che commemora il marito, lui che riuscì a dare un’anima musicale alle sue parole. Gli insegnò a suonare la chitarra, il tempo di imparare pochi accordi, appena cinque. Per poi accompagnarlo fino al cancello del paradiso e cantargli in Frederik:
Hi hello
Wake from thy sleep
God has given your soul to keep
all of the power that burns in the flame
ignites the light in a single name…

Il messaggio del film (ostiniamoci a definirlo così) è comunque positivo: “fantastico essere vivi”. Lo dichiara la stessa Smith durante la presentazione alla stampa italiana del dvd, lo scorso febbraio, in una libreria a Roma. “Il film nasce dopo alcuni lutti in famiglia e tra amici. Dovevo andare avanti. Continuare a badare ai miei bambini. Creare. Comunicare alla gente”. “Il messaggio è che non importa quanto soffri, devi essere felice perché vivi e sopravvivi”. Una vera resurrezione, dopo un lungo Venerdì Santo.
C’è un album che testimonia la rinascita di Patti Smith: Easter (Pasqua). Insieme al successivo Wave, segna la fine di anni orribili, causati dalla morte e dal pessimismo delle precedenti produzioni, specie Radio Ethiopia.
Dischi che cantano un rinnovamento umano e spirituale fondato sul cristianesimo cattolico. Patti rimane affascinata da Giovanni Paolo I, dalle sue uscite pubbliche, dal suo sorriso, da un’affermazione attribuita al Pontefice: “Per me la musica è una riconciliazione con Dio”. Quell’espressione – racchiusa in una foto all’interno del disco “Wave” – scioglie il cuore di Patti Smith, figlia di una testimone di geova. Lei così confusa e lontana dal trascendente, senza più un marito da amare, ma con Gesù che si trasfigura in Albino Luciani.
A lui scrive, in una nota di copertina: “Caro Papa, è passato molto tempo da quando ci parlammo. Qui è come una triste bicicletta, passata da queste parti. Il mattino è la ruota, in qualche modo dobbiamo farla girare! E mentre gira, quando dobbiamo fermarla?”. E’ grata al Papa per quanto offerto nel suo breve pontificato, maliconica perché costretta a sopportare il vuoto di un’assenza, ancora una volta.
In “Easter” si sentono le campane suonare in segno di festa, quelle che scandiscono la domenica di resurrezione. E’ ormai lontano quel grido blasfemico cantato in Gloria (album Horses, cover di Van Morrison): “Gesù è morto per i peccati di qualcun altro, non per i miei. I miei peccati sono solo miei: mi appartengono”.
Jesus died for somebody’s sins, but not mine”

Nelle note di copertina, cita San Paolo apostolo: “I have fought a good fight, I have finished my course…” (2 Timoteo 4,7). La morte torna d’attualità nei testi di Patti Smith. Per risorgere, bisogna prima patire e morire. Passaggi obbligati, e lo scrive nel testo di “Easter”:
Recintando difendendo le lenzuola di carne
avvolgendo e legando e poi il riposo.
Secondi di attesa in attesa del dolore
lamentando, esalando. Passato attraverso la stranezza.
La morte è una danza. Un ballo.
Un guanto, un’estensione di totale abbandono nell’amore.
Privilege è la canzone simbolo del principio cristiano della sua resurrezione, ispirata al Salmo 22: Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare…
Patti Smith proclama la prima parte del salmo in modo solenne:
The Lord is my shepherd
I shall not want
He maketh me to lie down in green pastures
He leadeth me beside the still waters
He restoreth my soul
He leadeth me through the path of righteousness for His name’s sake
Yea, though I walk through the valley of the shadow of death,
I will fear no evil, for Thou art with me
Trasforma il palcoscenico in un’aula liturgica, da vera sacerdotessa del rock. Il brano trasuda speranza e liberazione e si conclude con la seconda parte del salmo 22:
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici;
cospargi di olio il mio capo.
Il mio calice trabocca.
Felicità e grazia mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
e abiterò nella casa del Signore
per lunghissimi anni.

Patti Smith continua a stare lì sopra, su ogni palco del mondo, con una gran voglia di combattere per sè e per gli altri. Alza la voce, prega, piange, sputa – nel senso letterale del termine! L’energia, la forza del suo messaggio si estende ai giovani. “Il rock è la voce artistica delle nuove generazioni” sentenzia in “Dream of Life”. “Che si sollevino le nuove generazioni. Sollevatevi, occupate le strade. Credete al cambiamento, il mondo è vostro” tuona in un comizio pubblico, durante una manifestazione anti militarista.
Una pasionaria, l’ultimo baluardo di un movimento musicale che ha regalato al mondo il sogno di un cambiamento radicale, d’una rivoluzione sociale che tarda a realizzarsi. In Memento Mori (album “Piece & Noice”), Patti Smith canta la caducità dell’uomo, la sua fine carnale. Canzone nata dalla visione di un teschio posto alla base di un crocifisso, esposto in una chiesa romana, con su scritto: “Ricordati che devi morire”. Nella tradizione monastica si ripeteva spesso per ricordare gli uni agli altri il senso della vita e l’apertura all’eternità, dopo la morte. Per Patti Smith una cosa non morirà mai, più dell’anima e del corpo: la poesia. Sopravviverà alle leggi del tempo e dello spazio, legando in terra ciò che è di lassù. Un modo punk di continuarsi nella posterità, lasciando traccia di sè ovunque, scrivendo.
Lei è una sognatrice. Con l’illusione del rock e la forza della poesia, il desiderio di Patti è una civiltà più giusta, rispettosa delle differenze, come è scritto nel libro del profeta Isaia (11,6):
Il lupo dimorerà insieme con l’agnello,
la pantera si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un fanciullo li guiderà.
Patti Smith ci sarà sempre, a ricordare ad ognuno che abbiamo il potere di cambiare il mondo. Il potere di sognare e di essere felici. Insieme.
Dove c’erano deserti
ho visto fontane
come crema le acque si ergevano
e noi passeggiavamo lì insieme
senza niente da deridere o criticare
e il leopardo e l’agnello
dormono insieme veramente vicini
Stavo sperando, nelle mie speranze,
di richiamare ciò che avevo trovato
Stavo sognando nei miei sogni… Dio sa
Una vista più pura
mentre mi abbandono al mio sonno
Ti affido i miei sogni
Il popolo ha il potere… Noi abbiamo il potere

Tra Joy Division, Stone Roses e James

Sul sito Arena dei rumori Max Granieri scrive un post in cui cita un evento di qualche anno fa e una prossima uscita musicale. Consiglio sia il pezzo che il video sottostante, decisamente commovente e creativo!
“14 aprile 2006. Sulla terza rete televisiva della BBC andava in onda “Manchester Passion” (la Passione di Cristo a Manchester). Era il Venerdì Santo e la rete di stato britannica realizzò un musical religioso con le canzoni più famose delle rock band di Manchester e non solo.
Tra i protagonisti di “Manchester Passion” (guardalo su YouTube) la talentuosa Denise Johnson nel ruolo della Vergine Maria, già Primal Scream nel celebre album “Screamadelica”; Tim Booth, leader e vocalist degli James, nei panni di Giuda. Fu un colpo di genio degli autori associare “Love Will Tear Us Apart” dei Joy Division alla scena biblica dell’Ultima Cena, “I Am The Resurrection” degli Stone Roses alla Resurrezione di Cristo o “Search For A Hero” dei M People a Maria che meditava su quel Figlio prossimo alla crocifissione.
Lo “spettacolo” includeva la processione di una croce per le vie della città. In diretta nazionale, la finzione teatrale si alternava alle testimonianze dei giovani in corteo che esaltavano la positività del sacrificio di Cristo crocifisso. La musica contemporanea mai è stata così vicina alla fede religiosa.
Una canzone di Tim Booth “Sit Down” è cantata da Gesù nel Getsemani nel momento in cui chiede ai discepoli di vegliare con lui. Un canto nell’ora più buia, mentre si attende il giorno dei giorni dove tutto si compirà. E si spera nella presenza di Dio perché bisogna affidarsi a Lui nel momento della prova: “A song from the darkest hour… Hope that God exists, I hope, I pray”. Nelle vesti di Giuda, Tim intona amaramente “Heaven Knows I’m Miserable Now” degli Smiths dopo aver tradito Gesù: “Il cielo adesso sa quanto sono miserabile”.
Tim Booth torna sulle scene con gli James per cantare la nascita della vita dopo la morte. Nel secondo singolo “Moving on” – tratto dall’album “La Petit Mort” in uscita il 2 giugno – il vocalist dei James riflette su cosa è accaduto (di buono) dopo la morte improvvisa di sua madre. Immaginando il brano incluso nella colonna sonora della Passione di Manchester, potrebbe evocare l’attesa silenziosa della resurrezione nel sabato santo…
L’idea del video che accompagna “Moving On” è spiegato nel blog della band: ”My Mother’s death was clearly a birth of some kind and that description caught Ainslie’s imagination”. La morte della madre per Tim ha significato la nascita di qualcosa; è l’intreccio tra morte e vita descritto dal regista Ainslie Henderson in un video tra i più belli degli ultimi anni.”

La passione della terra

Fusine_0045 fbRingrazio un mio studente per aver segnalato questo articolo di Vito Mancuso, comparso ieri su La Repubblica. Vi sono molte delle idee contenute anche nel libro “Il principio passione”.

“La nostra civiltà è malata, è in corso una via crucis del pianeta davanti ai nostri occhi distratti. L’aria delle nostre città, i nostri mari ormai quasi privi di pesci, l’acqua, le foreste, gli oceani, sono vittime di un’ideologia rapace e utilitaristica che considera la natura solo come un’inanimata risorsa da sfruttare e che alimenta la fiorente industria della fiction per la finzione necessaria a sedare le coscienze. I rifiuti prodotti dagli oltre 7 miliardi di esseri umani sono ormai superiori alle possibilità di smaltimento, e per alcuni di essi come le scorie nucleari lo smaltimento è praticamente impossibile. Che cosa avverrà quando nel 2025 la popolazione sarà di 8,1 miliardi? E quando nel 2050 giungerà a 9,6 miliardi? Una nuova guerra mondiale? Una serie permanente di inarrestabili conflitti locali?

Barbara Spinelli l’altro giorno ricordava Hans Jonas e la sua nuova formulazione dell’imperativo etico in senso ecologico. In un’intervista del 1992 a “Der Spiegel” Jonas segnalava il pericolo del “tragico fallimento della cultura superiore, la sua caduta in una nuova primitivizzazione”, intendendo con ciò “la povertà di massa, la morte di massa, l’uccisione di massa”. Da allora sono passati oltre vent’anni e questo declino verso la primitivizzazione e la massificazione è proseguito: lo vediamo nei costumi, nel gusto estetico, nella politica, nel linguaggio dove tutto diventa più grossolano e più violento. E più irrazionale.

Ai nostri giorni un terzo del cibo prodotto viene buttato via, sono 1,3 miliardi di tonnellate di cibo su scala annuale che finiscono tra i rifiuti, con l’uso scriteriato di acqua, energia e vita animale e vegetale che tutto questo comporta. E ciò a fronte del fatto che ogni giorno muoiono per fame 24.000 esseri umani, 8 milioni e mezzo all’anno. Basta questo per evidenziare la pericolosa malattia mentale di cui soffre la nostra società? Nutriamo la nostra anima con le manifestazioni di massa dell’effimero (sport di massa, musica di massa, cinema di massa…) pagandone i protagonisti con cifre esorbitanti, mentre miliardi di esseri umani vivono con meno di due dollari al giorno. Proprio nell’epoca del trionfo della scienza assistiamo a un tracollo della razionalità nel governo del mondo, con la conseguenza che a trionfare non è veramente la scienza, la quale è sempre ricerca e dubbio, ma è piuttosto la tecnica che ammanisce certezze e cattura le menti. Anche la modalità con cui nelle nostre società si conquista il consenso e si accede al potere è sempre più all’insegna dell’irrazionalità, perché vince chi sa suscitare emozioni forti mentre chi pratica l’onestà dell’analisi è inevitabilmente destinato alla sconfitta: se penso ai leader politici di quand’ero ragazzo (Moro, Zaccagnini, Berlinguer) vedo che per loro non vi sarebbe oggi nessuna chance.

Quando Francesco d’Assisi compose il suo testo più bello, il Cantico delle creature, la pagina più antica della letteratura italiana, era quasi cieco per una malattia agli occhi e soffriva per una serie di altri mali che da lì a un anno l’avrebbero condotto alla morte. Ciò non gli impedì di cantare la luce di frate sole e di frate focu e di celebrare le altre realtà naturali. Penso che guardando alla sua vita sia possibile capire le due principali malattie di cui soffriamo oggi: 1) una filosofia di vita opposta a quella di Francesco e analoga a quella del ricco mercante suo padre, cioè all’insegna dell’accumulo e del consumo, a cui si viene indotti fin da piccoli dalla potenza della pubblicità e dall’industria dell’intrattenimento che le gira attorno; 2) una filosofia della natura opposta a quella del Cantico delle creature che considera la materia come inerte e la vita come lotta, e da cui discende un atteggiamento predatorio verso il pianeta e il conseguente inquinamento. Dal canto suo la religione tradizionale dell’Occidente non è stata in grado di fronteggiare questi due mali, anzi vi ha persino contribuito a causa del suo antropocentrismo, per cui anche il cristianesimo si deve rinnovare, anzi direi convertire.

L’umanità, se vuole sopravvivere, deve cambiare la mentalità che guida le sue politiche economiche e che orienta il suo atteggiamento verso la natura. L’unica possibilità di una svolta è nella presa di coscienza che la Terra è un organismo che deve la sua origine e la sua esistenza alla logica dell’armonia relazionale. Il passaggio da una civiltà basata sulla lotta a una civiltà basata sulla cooperazione può avvenire solo se si comprende che è la stessa logica dell’evoluzione naturale a basarsi sulla cooperazione e si educano i nostri ragazzi in questa prospettiva. Occorre quindi superare la cupa filosofia della vita trasmessa dal darwinismo e comprendere che a guidare l’evoluzione non è soltanto la lotta ma prima ancora il rapporto di complementarietà e di armonia, visto che non esiste vita se non in relazione, non esiste bios se non come symbios, come simbiosi.

Dalla crisi ecologica ed etico-spirituale non si uscirà se non si risaneranno le idee che l’hanno prodotta. Occorre che l’urgenza ecologica trasformi la nostra visione della biologia e ci faccia prendere coscienza del legame che unisce tutte le cose, dell’interconnessione di ogni ente con il tutto, di ciò che la fisica chiama entanglement e che costituisce il paradigma ontologico più avanzato. Tutto ciò è traducibile in filosofia dicendo che la prima categoria dell’essere non è la sostanza ma è la relazione, all’insegna di una relazionalità globale che supera l’antropocentrismo e l’utilitarismo che ne discende.

Da Francesco d’Assisi malato e alla vigilia della morte nacque uno dei testi più sublimi della spiritualità di tutti i tempi. Dalla nostra civiltà, malata e così cieca da non riconoscere la sua malattia, può emergere ancora la possibilità di una svolta per non precipitare nell’abisso sempre più vicino? Penso che nessuno lo sappia ed è per questo che le tenebre del venerdì santo avvolgono le nostre esistenze e il nostro futuro, senza sapere se ci sarà data la luce di pasqua. Ma credere di sì è un dovere morale, oltre all’unica concreta possibilità che la svolta possa prodursi davvero.”

Francesco

Bergoglio.jpgHo atteso le ore piccole della notte per stendere sulla pagina bianca del pc le parole che cercano di dar voce a quello che ho sentito e pensato stasera in modo profondamente personale. Non sempre lascio spazio sul blog alle intime riflessioni, soprattutto ai miei pensieri di fede. Come tanti stasera ero davanti alla tv. Al nome Bergoglio la testa è andata alla lezione fatta in classe sui papabili, quando ho raccontato del conclave del 2005 per presentare questo cardinale argentino e quando ho detto il mio parere sulla difficoltà della sua elezione vista l’età. Pertanto in me c’è stata la sorpresa innanzitutto. Poi è venuto il momento del nome scelto: Francesco. E questa è stata la volta della meraviglia. E mi sono goduto gli attimi, fatti di tante istantanee.

Ho visto un papa non giovane ma fresco e semplice, inizialmente imbarazzato, quasi ingessato che ha salutato con un semplice “Fratelli e sorelle buonasera” e che poi si è sciolto; e ho notato che non ha indossato la mantelletta rossa.

Ho visto il primo papa provenire dal continente sudamericano, “sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo”, e ho visto in questo un segno di apertura alla chiesa universale.

Ho visto un papa, ma soprattutto un vescovo: e vi ho visto un segno di collegialità e vi ho vista esaudita la sete di un pastore da parte della gente.

Ho visto un papa che vuole essere in cammino insieme al suo popolo per percorre le strade della fratellanza e dell’amore.

Ho sentito un papa parlare di evangelizzazione e ho pensato che se ciò significa far innamorare la gente di Gesù Cristo il cammino sarà bello.

Ho visto un papa che ha chiesto, prima di benedire i fedeli, che i fedeli pregassero Dio per lui: “Adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore. Prima che il Vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica. La preghiera del popolo che chieda la benedizione per il suo vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me”. E l’ho visto chinarsi in silenzio.

Alla fine l’ho visto chiedere nuovamente il microfono perché non voleva andarsene senza salutare “Vi lascio, grazie tante dell’accoglienza, e a domani, a presto, ci vediamo presto, domani voglio andare a pregare la Madonna perché custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo”.

Ho ripensato al nome scelto, ho pensato ad Assisi e ho rivisto la chiesa di san Damiano, l’eremo delle carceri, la porziuncola…

Mi sono guardato dentro e vi ho letto la speranza, che per un credente significa resurrezione.

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