Supplica al divino della madre

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

La notte scorsa Francesco si è svegliato poco prima di mezzanotte, è stato a lungo inconsolabile fino a quando è riuscito a farci capire che aveva mal di orecchie. L’ho prelevato io dal lettino: talvolta mi accetta, ma ci sono volte in cui solo l’abbraccio consolatorio della mamma lo calma, altrimenti serve molto più tempo. Il papà ci mette dieci volte a fare quello che la mamma compie in poco tempo. Mi è venuto in mente durante la lettura di un pezzo del poliedrico Marco Campedelli dedicato alla madre da poco scomparsa, un brano che mi ha toccato il cuore e mi ha commosso, soprattutto ripensando alle volte, purtroppo non poche, in cui in questi anni ho cercato le parole per rincuorare qualche allieva o allievo per la perdita della mamma. Il brano è stato pubblicato su Rocca a settembre.

“«È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio».

Inizia così Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini.
Un testo vertiginoso con accenti estremi del rapporto figlio-madre. Eppure nel finale c’è un verso, una supplica alla madre che sembra una freccia conficcata nel cuore di questa archetipica relazione:
«Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire».
Si direbbe una preghiera alla madre. In questo credo ci sia la scintilla divina della madre.
Pregare la madre come una divinità. Sappiamo, e la religione ne è in gran parte responsabile, di quanto il rapporto madre-figlio sia stato oggetto di proiezioni, simbiosi, sensi di colpa, sublimazioni. Mi ha sempre turbato quel “Totus tuus” sotto una gigantesca lettera M di papa Wojtyla, segno della sua ossessiva devozione mariana.
Forse nulla come questo rapporto ha dato tanto lavoro alla psicanalisi. Eppure in quella supplica del poeta c’è qualcosa di autentico: il riconoscimento della fonte divina della vita. Ti prego madre “di non voler morire”.
Perché se la fonte muore la terra si secca e appassisce. Ricordo bambino quando mia madre si ammalava, scendevo come in una botola segreta, come immerso in un liquido amniotico, finché non stesse meglio e così poter riemergere e tornare finalmente di nuovo nel meraviglioso caos della vita.
Pasolini in realtà non vivrà la morte della madre. Sarà la madre a dover subire il tragico lutto del figlio massacrato il 2 novembre del 1975.
Questo lutto è prefigurato nel film del regista friulano Il vangelo secondo Matteo, in cui ad interpretare la madre dolorosa sotto la croce sarà proprio Susanna Colussi-Pasolini, la madre del poeta. Ribaltata come un birillo dal dolore, sembra avere nelle pupille la morte del suo Pier Paolo più che del divino Nazareno. E i suoi occhi poi, riempiti di luce, brillano, mentre porta dei fiori di campo al sepolcro e si imbatte nell’angelo della risurrezione. Suo figlio, il poeta, è risorto!

È capitato anche a me di salutare mia mamma in questi giorni. Di sentire quanto fosse vera quella supplica del poeta, “ti supplico madre di non voler morire”.
In quella preghiera c’è il bambino che scende nella botola segreta. Ma questa volta la notte non passa. Si riemerge con l’ultima, estrema spinta dal grembo originario. Davanti alla morte della madre c’è sempre il bambino. Non l’uomo adulto con le sue rassicuranti riflessioni. C’è il liquido amniotico irrazionale che prima di abbandonarti sembra darti l’ultima possibilità di andare verso la morte o verso la vita. Lasciando a te la libertà di appassire o di germogliare.
Nella Bibbia sono scritte le parole del profeta Isaia (al capitolo 43): «Se dovessi attraversare le acque sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno, se dovrai attraversare il fuoco non ti scotterai»; sembrano quelle di una madre, o di chi si prende cura di qualcuno che ama. E chissà se noi abbiamo imparato questo da Dio, o se Dio abbia appreso questo guardando le madri, guardando le donne. Valda, mia madre, ci ha detto queste parole tutta la vita: non come una lezione di catechismo, ma come un modo di stare, di crescerci, di educarci insieme a nostro papà. «Sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo», continua ancora Isaia.
Sei degno di stima anche quando fai scelte che non capisco, sei prezioso ai miei occhi, anche quando non lo sei più per molti. E poi io ti amo, non perché sei importante, non perché sei invincibile, ma perché sei Tu. E più diventi te stesso e più ti amo. Perché solo allora potrò specchiarmi nei tuoi occhi senza confondermi. Sarò me stessa perché tu sarai te stesso.
Il salmo più corto della Bibbia, il 131, recita: «Io resto sereno e tranquillo come un bambino in braccio a sua madre». Li vediamo, i bambini e le bambine in braccio alle loro madri, anche quelli devastati dalla guerra in questi tempi. I bambini e le bambine di Gaza. Lì, in braccio alla madre, è il loro rifugio. Tutta la vita cerchiamo di stare in piedi da soli, di diventare adulti, di rielaborare quell’abbraccio non come un confine ma come una possibilità di inventarne di nuovi. Di diventare noi rifugio per altri.
Succede poi che, quando nostra madre invecchia, siamo noi a tenerla dentro le nostre braccia, a dirle fino alla fine “stai tranquilla mamma, stai tranquilla e serena, la notte non dura, la luce presto viene”.
Il Vangelo ci ha raccontato di una donna. Ecco come viene definita la Siro-fenicia (Mc 7,24-30): una donna, prima di ogni ruolo, prima che madre, donna. È una donna coraggiosa perché davanti a Gesù, che dentro la sua cultura, la sua educazione traccia un confine (“sono venuto solo per i figli, non per gli stranieri”, che in modo dispregiativo si chiamavano “cani”), questa donna gli insegna a sconfinare. Questa volta, sì, è proprio Gesù che accetta la lezione della donna. Anche mia figlia straniera, che sta morendo, ha diritto al pane, alla vita, alla dignità.  Non ci sono figli di serie A e figli di serie B, figli perfetti e figli imperfetti. «I figli sono figli, e basta…», come ha detto bene Eduardo De Filippo in Filumena Marturano.
La storia non si fa sui mausolei dei faraoni, sulle tombe dei generali, ma sulle ossa dei piccoli, degli ultimi, delle donne e degli uomini liberi e coraggiosi. Anche la Valda è stata una donna coraggiosa. Nel senso che aveva molto cuore (cor-cordis, come significa la parola). Ricordava quando i fascisti buttavano giù la porta di casa ai Molini di San Michele Extra (Verona) dove era nata, per catturare suo zio Nello, partigiano. Aveva imparato che si può resistere al male. Che anche in guerra si può scegliere da che parte stare (I bambini ci guardano, un film di Vittorio de Sica, ce lo ricorda). La mamma vedendo i bambini di Gaza diceva “avranno un rifugio dove ripararsi?”, come capitava a lei e ai suoi fratelli durante la Seconda guerra mondiale. Il Vangelo è una pagina aperta, da riscrivere ogni volta. Era capitato anche alla mamma di vivere l’abbandono del padre. Poi lui era tornato invecchiato, malato e chiedeva di esaudire un ultimo desiderio: essere accolto in casa. Morire a casa… E lei disse “vieni”. Tutti ricordiamo la parabola di quel padre che accoglie un figlio andato lontano. Ma non ce n’è una che racconta di un figlio, di una figlia, che ri-accoglie il padre. Forse intendeva questo Gesù, quando dice: “Non vi meravigliate, vedrete cose più grandi di queste”? Il Vangelo cioè può continuare a farci immaginare storie inedite, che sconfinano, che inventano cose che ora ancora non vediamo. Questo può capitare a tutti, a chi pensa di credere e a chi pensa di non credere. Perché il Vangelo, come diceva ancora Pasolini, è pienezza di umanità.
La mamma ci ha insegnato queste cose, ai suoi figli, ai suoi nipoti, ai suoi pronipoti. Ci ha insegnato la dolcezza della resistenza. Malata, era stata per tre anni (dai 17 ai 19) prima a Padova e poi a Malcesine per curarsi di Tbc. Il professore aveva chiamato lei e nostro papà, allora giovani “morosi”. “Vedo che vi volete bene so che volete sposarvi”, aveva detto serio, “ma come ho già detto a te, Valda, lo devo dire anche a Raffaele, non potrete avere bambini”. Loro si sposarono invece, e ogni figlio lo portarono puntualmente alla clinica, davanti agli occhi allibiti del professore: uno, due e tre, fino a che questi aveva detto: “Ho capito, Valda, hai fatto bene, ci siamo sbagliati noi”. Ecco, questo è un frammento della piccola, immensa resistenza delle donne…
Ora che il viaggio è compiuto rimane questa supplica al divino della madre, ora che la morte è arrivata, questa arcaica e rivoluzionaria preghiera si accende perché la madre, la vita, non voglia morire nei nostri occhi, nel tremore delle mani, nella corteccia dell’olmo e nelle primavere che verranno quando sarà di nuovo sciolta la neve: «Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…».

Tra De profundis e Mercoledì

Quando si parla di tradizioni il mio pensiero va sempre al 1° novembre: da bambino il pomeriggio (da poco diventato più breve con il cambio d’ora) lo passavo in visita ai cimiteri (Palmanova, Bagnaria e Campolonghetto di solito) e a qualche parente (di quelli che si vedevano meno) e la sera rosario in latino a casa dei nonni insieme a zii e cugini. I due ricordi più vividi sono le risate trattenute a stento per quella lingua oscura di cui non capivamo niente (in particolare il De Profundis) e il crepitio del fuoco che cucinava le castagne. Poi presto a casa perché il giorno dopo c’era scuola. Helloween non c’era, è arrivato molto dopo. Oggi però, da papà di una bimba che si vestirà da Mercoledì Addams e di un bimbo che sarà uno scheletro, ci faccio i conti e la scelta che cerchiamo di portare avanti Sara ed io è quella di tenere insieme le due cose: l’elemento nuovo e la tradizione.
In questo post notturno voglio dare una colonna sonora a questo intento e mi affido ad un autore poco conosciuto ai più: Pédro Kouyaté. Lui è un griot, un poeta e cantore maliano con il ruolo di conservare la tradizione orale degli avi. Nel 2024 ha pubblicato l’album Following e a giugno 2025 ha rilasciato una bellissima intervista a Nadia Addezio di Confronti: vi si parla di memoria, tradizione, cultura, amore, blues, antropologia, nomi, morte, vita, bambini, esilio. Eccola.

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“Musicista, cantante, autore, compositore, attore, produttore, musicoterapista. Sono molteplici le anime e professioni che qualificano Pédro Kouyaté, classe 1972. Cresciuto in Mali, incarna la figura del griot – figura centrale nella cultura dell’Africa occidentale, custode della memoria collettiva e narratore musicale – e si forma nell’ambiente musicale della Symmetric Orchestra di Toumani Diabaté, leggenda della kora. Parallelamente, si laurea in socio-antropologia a Bamako, unendo l’approccio accademico alla sua vocazione artistica. Dopo un’importante collaborazione con il bluesman Boubacar Traoré, che lo porta a esibirsi in Africa, Europa e Stati Uniti, si stabilisce a Parigi nel 2006 e fonda il proprio gruppo, Pédro Kouyaté & Band.
Nella capitale francese si afferma come interprete e divulgatore della tradizione musicale africana, con esibizioni al Musée de la Musique della Philharmonie de Paris e collaborazioni con nomi del calibro di Archie Shepp e Jean Philippe Ryckiel. Negli ultimi anni, Kouyaté ha spinto la sua ricerca musicale verso nuove direzioni, mescolando sonorità tradizionali con elementi elettronici. Il suo nuovo progetto, Following, prodotto dall’etichetta discografica Quai Son Records, rappresenta un omaggio agli antenati e un’ulteriore tappa nella sua incessante esplorazione artistica.

Il cognome Kouyaté appartiene a un’antica stirpe di griot dell’epoca Mandinka. La sua discendenza ha segnato il suo destino di musicista e paroliere?
Quando si nasce in una famiglia griot, la madre fin dal concepimento è educata a portare in grembo il futuro nascituro con l’idea che quel neonato sarà un griot. Segue i consigli dei medici tradizionali, compie abluzioni rituali e parla alla luna. Ciò significa che sei preparato sin dal principio della tua vita alla tua funzione.

Lei ha collaborato con il leggendario Toumani Diabaté e la Symmetric Orchestra. Che impatto ha avuto sulla sua crescita artistica?
Toumani è l’equivalente dei grandi filosofi che hanno lavorato in modo empirico. Con lui puoi incrociare Martin Scorsese. Nel cortile di Toumani, puoi incontrare il musicista statunitense Taj Mahal. È stata una fortuna essere il suo compagno di viaggio. Toumani ha notato subito qualcosa in me: ha visto che il mio interesse era diverso da quello dei miei amici, che ero attratto dalla musica e dalla lettura. Toumani mi ha insegnato tutto, proprio come Michelangelo e Leonardo da Vinci trasmettevano il loro sapere ai loro allievi. Ci sono i grandi maestri e ci sono i discepoli, e io credo molto in questa relazione di subordinazione. Mi ha insegnato tutto sulla musica: come respirare, come sentirla. È stato la mia prima grande scuola, nonché il mio padre spirituale, poiché ero orfano di padre. Insomma, da lui ho imparato tutto. Indimenticabile.

Da questa esperienza, di fatto, è iniziata la sua carriera europea.
La mia carriera europea inizia con Boubacar Traoré, uno dei più grandi bluesman del Mali e del mondo. Mi aveva notato quando ero con Toumani. Mi ha preso sotto la sua ala e insieme abbiamo fatto sei volte il giro del mondo. Così, decisi di trasferirmi in Europa per imparare. Frequentai scuole di musica, studiai le origini del jazz. Imparare divenne quasi un’ossessione per me, una necessità vitale. Studiai i canti che venivano intonati nei campi di grano. Da lì provengono i Negro Spirituals. Da quell’esperienza di duro lavoro, le persone iniziarono a suonare musica, a cantare. È in quei momenti che il blues ha preso vita, ed è stato Boubacar Traoré a insegnarmelo. Con lui ho viaggiato per l’Italia, specialmente nel Nord, e ho avuto l’occasione di osservare come gli artisti che praticano musica tradizionale lavorano e provano. Ho scoperto il fado, i canti popolari italiani, la musica classica. Ho imparato moltissimo. È stata davvero una fortuna immensa.

La sua musica fonde tradizione ed elettronica, un ponte tra mondi ed epoche diverse. Da dove nasce questa spinta alla sperimentazione?
Perché per me la vita è mescolanza. È come il giorno, che si avvale della mattina, del pomeriggio e della notte. Ho quindi scelto di mantenere salde le mie radici e di offrire agli altri una cartolina del mio Paese. Non posso fare musica senza invitare gli altri a farne parte. Amo questa apertura. E poi vengo dal Mali, che è un Paese multietnico. Io stesso sono il frutto di un incrocio: mia madre era fulani, mio padre mandinka. Io sono “meticcio”.

Come integra la sua formazione in socio-antropologia nella sua musica?
Basta guardare il mio ultimo album: ho invitato persone come il trombettista franco-svizzero Erik Truffaz, il cantautore afroamericano Big Daddy Wilson, il musicista francese Arthur H. Il mio interesse si esprime, dunque, invitando persone di background musicali e culturali differenti a condividere il loro amore per la mia terra. L’Africa è amata, ma spesso noi africani crediamo che il resto del mondo ci consideri “esotici” quando non “inferiori”. La mia prospettiva, quindi, si basa sull’accoglienza di culture diverse. Grazie all’antropologia ho avuto un alibi e un’opportunità straordinaria per lasciare il mio Paese, conoscere altre persone e scoprire come vivono. Tuttavia, l’antropologia è anche una scelta, che si riduce nel voler avere l’incontro con l’altro.

Quali artisti hanno influenzato maggiormente il suo percorso?
Luciano Pavarotti, Miles Davis, Aretha Franklin, Ry Cooder, Ahmad Jamal, Yusef Lateef. Tutte persone che hanno avuto il coraggio di aprire nuove strade e che hanno aperto la musica al cambiamento. Il pianista e compositore Bill Evans, per esempio, ha inserito la musica classica nel jazz. Poi ancora: James Brown, Prince, fino ad arrivare a Michael Jackson e Thelonious Monk. Come per me, per questi artisti la musica tradizionale è stata alla base della loro creazione artistica.

Quando ha capito che blues e jazz sarebbero stati i capisaldi del suo linguaggio artistico?
Se penso alle mie origini, l’essere umano è sempre partito alla ricerca di migliori “risorse vitali”. Ciò dettato anche dalla peculiare posizione geografica in cui si trova il continente africano tutto. Il Mali, in particolare, si trova in una zona del pianeta dove l’acqua è scarsa e la siccità è una realtà. Tale penuria spinge a spostarsi e intraprendere un viaggio, che è l’esilio: una necessità per sopravvivere, più che una scelta. E cos’è questo se non il blues? Tu lasci il tuo Paese, ma il tuo Paese non abbandona te. L’esilio è universale. Siamo sempre stranieri in qualche parte del mondo che non sia casa nostra. E il blues non è mai lontano dalla storia dell’umanità.

Ci racconti il suo ultimo disco, Following, partendo dalla nona traccia, Sahara Blues.
Sahara Blues è un brano eseguito con Arthur H. dove affrontiamo i temi dell’ambiente e dell’ecologia, tematiche che toccano molto da vicino il Mali. Ma non solo: se il deserto è un luogo particolarmente ostile alla vita della fauna e della flora, oggi impera un “deserto umano” poiché il Mali è assediato dai jihadisti. Oggi nel Sahara ci sono povertà intellettuale e armi. Sahara Blues vuole essere un richiamo alla memoria culturale. Del resto la funzione del griot è ripetere e raccontare la Storia affinché non venga mai dimenticata. La storia, il passato, l’ecologia sono una chiave per comprendere le nostre terre e per mettere ordine, nelle nostre terre come nelle nostre menti.

Come è nato Following e cosa l’ha spinta a renderlo un omaggio agli antenati?
Ero in isolamento durante la pandemia da Covid-19 nella mia camera buia quando ho pensato: «Dove sono gli antenati? Cosa sta succedendo? Non abbiamo rispettato la vita e siamo stati colpiti in questo modo». Del resto, in tutti i libri sacri si parla di un tempo in cui gli uomini si perderanno. Se passeranno accanto all’amore senza riconoscerlo, se ignoreranno l’essenziale. Se il virtuale diventerà più importante del reale. E mi sono detto: «Wow! Ringrazio gli antenati per avercelo detto!». Quei messaggi sono rimasti nei canti che loro intonavano, quando subivano i colpi di frusta nei campi di grano, quando una persona resa schiava veniva portata via costretta ad abbandonare il suo villaggio e lavorare in campi che non erano i suoi. Pur non dimenticando mai da dove veniva. A quel tempi, venivano ripetute tutte le storie, le leggende, i nomi delle famiglie del villaggio di origine. Questo è rimasto vivo. E lì ho capito: Following significa “ciò che segue”. Questo disco vuole essere la continuazione dei nostri antenati e di ciò che viviamo oggi. L’urgenza di rendere omaggio agli antenati nasce dal fatto che io, come detto, sono un griot. I griot devono restituire, tramandare, recitare e perpetuare il passato, come si fa con i riti religiosi. Se una persona è virtuosa, sono i griot a doverlo raccontare. Sono la radiografia della società. Following è dedicato al Mali, ma anche a tutti i Paesi del mondo: non bisogna dimenticare la propria cultura, la propria famiglia, il nome di battesimo, il nome di famiglia. Perché anche il nome e cognome non sono casuali. Rispondendo alla prima domanda di questa intervista, o siamo attesi o abbiamo scelto di arrivare su questo pianeta. Non bisogna mai dimenticare il passato perché è tutto lì. Ogni popolo ha una storia. E la storia esiste per permetterci di risvegliarci e ritrovare il desiderio di vivere.

In Mabo, dedicata all’attore Mabô Kouyaté scomparso nel 2019, lei esplora il tema della morte. Qual è la sua visione?
Nel nostro Paese i defunti non muoiono per davvero: sono tra le nostre mura, scorrono nel nostro sangue, abitano nel nostro ventre, nei nostri sogni, nella nostra rabbia. Si muore due volte: la prima, quando si lascia questa vita; la seconda, quando l’ultima persona sulla Terra dimentica il tuo nome. I morti devono essere rispettati, perché dall’alto ci osservano.

A quali delle sue canzoni è più legato?
È difficile scegliere una sola canzone, come se avessi dieci figli e dovessi indicarne uno solo. Amo tutte le mie canzoni. Sa perché? Perché quando compongo, non impongo la mia volontà al cuore. È l’album che detta le sue regole. Non controllo il processo, non amo chi vuole controllare tutto. Bisogna lasciar andare, aspettare che la magia si crei da sola. Una volta che si stabilisce, è come una perla, una successione di armonie perfette. Amo ogni pezzo, ma vorrei che almeno le persone ricordassero il nome dell’album: Following.

C’è il rischio che l’eredità culturale dei griot vada perduta?
Non perderemo mai la cultura, non c’è alcun rischio. Questo perché esistono i griot, custodi della memoria collettiva, che ripetono e tramandano la cultura ogni giorno: nei matrimoni, persino durante le cerimonie funebri, i griot cantano. Finché ci sarà amore, ci saranno bambini. E finché ci saranno i bambini, ci saranno i griot. Tutto ruota intorno all’amore.”

Ogni nome una vita, ogni vita un mistero

Cimitero austro-ungarico di Palmanova (fonte)

Uno dei lavori che faccio a inizio anno con le prime riguarda il nome che ciascuno di noi porta. Riflettiamo sul significato, sul motivo per cui ci è stato dato, sul fatto se ci sentiamo rappresentati o meno da esso. E’, in fin dei conti, la prima cosa che riveliamo di noi nel momento in cui ci presentiamo a qualcuno. Nel mio lavoro è una delle prime cose che cerco di memorizzare, perché sentirisi chiamare per nome è anche un sentirsi visti, considerati, riconosciuti. Per dei genitori scegliere il nome è un momento importante ed emozionante: si comprano i libri sui nomi o si consultano i siti per conoscerne i significati. Nel rito del Battesimo è una delle prime cose che viene chiesta ai genitori. Nella Bibbia il cambio di nome indica un cambiamento di stato, di vita, di identità (cosa poi ripresa in alcuni ordini religiosi, soprattutto femminili). Il 21 marzo di ogni anno vengono letti tutti gli oltre mille nomi delle vittime innocenti di mafia. Sul nome riflette anche questo articolo di Anita Prati su SettimanaNews.

“Che cos’è un nome?
È dando nomi che l’Adam, creatura di terra e di sangue, può conoscere e riconoscere il mondo, è ricevendo il nome che l’indistinto del mondo emerge nella sua irripetibile singolarità.
Il nome discrimina, distingue, estrae dalla massa confusa, individua l’individuabile, ciò e chi è in sé non più discriminabile, separabile, divisibile. L’atto di nominazione sancisce visibilità ed esplicita legami: dare il nome conferisce statuto speciale al nominante e al nominato, ha a che fare con la domesticazione e si tiene sul crinale scosceso che da una parte racconta l’appartenenza e dall’altra l’usurpazione.
«C’è una rosa… e credo che mi abbia addomesticato…» – dice il Piccolo Principe alla volpe. Dal mondo vegetale emergono le piante, tra le piante i fiori, tra i fiori i fiori con le spine, tra i fiori con le spine le rose, tra le rose la mia rosa. Ma, ci avverte la poeta [Gertrud Stein, Rose is a rose is a rose is a rose in Sacred Emily, ndr], Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa. Nominare può sì dichiarare vicinanze, narrare appartenenze, sancire proprietà, ma il mare dell’essere si intride di sabbia quando lambisce la battigia del dicibile e più il nome si fa vicino alla cosa, più deve dichiarare l’impasse: la nominazione ha a che fare con il mistero – parola tremenda, in cui il verbo greco myo riecheggia onomatopeicamente il mugolio di chi, tenendo la bocca chiusa, non può o non deve parlare.
Il nome dice tutto, e non dice niente. Ci porta sulla soglia e ci lascia lì.
Un cimitero di montagna, abbandonato. Il cancello di ferro arrugginito cigola sui cardini. Sulle lapidi ingrigite le lettere si distinguono a fatica, a fatica compitiamo nudi nomi. Epigrammi incisi su stele funerarie di antiche civiltà, conservate nei magazzini polverosi dei musei, appoggiate alla bell’e meglio alle pareti di porticati e sale che attraversiamo con passo veloce. Liste onomastiche di regnanti o di generali in armi. Il sigillo dell’artigiano inciso sul bassorilievo, accanto al nome della madre o del padre che ha commissionato il monumento funebre più bello in ricordo del figlio tanto amato.
Il mistero della vita affidato ad un gesto, ad un segno, ad un nudo nome. Un monumento ed un nome. Yad vaShem. L’orrore di sei milioni di morti aperto nella carne della storia.
Quante morti, quanti morti.
Marzabotto. Gorla. Srebrenica. Kigali. I cimiteri militari con le loro croci bianche, perfettamente allineate in un grande prato verde. La scalinata di Redipuglia. Il Sacrario di Nervesa.
Nomi, solo nudi nomi, testimoni della labile inconsistenza di storie ormai trapassate e consunte, eppure garanti, nella morte, di ciò che è la Vita.
Lo scorso 30 luglio il Washington Post ha pubblicato i nomi dei bambini uccisi a Gaza. Non bastano otto ore per leggerli tutti, uno ad uno.
Nelle piazze e in luoghi significativi, sulla strada che porta alla pace, leggiamo ad alta voce i nomi di questi bambini e di queste bambine palestinesi, insieme ai nomi dei bambini ebrei uccisi il 7 ottobre. Ogni nome una vita, ogni vita un mistero che chiede alla nostra anima di mettersi in ginocchio.
È qualcosa che ha a che fare con il senso più profondo del sacro che ci sia dato sfiorare.”

Rosario Livatino

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Lo scorso anno scolastico, grazie alla proposta di due colleghe, ho accompagnato due classi a vedere una mostra sul giudice Rosario Livatino ospitata nei locali dell’Università di Udine. Il 21 settembre è corso il 35° anniversario dalla sua uccisione e sul sito Vivi, dedicato dall’associazione Libera alle vittime innocenti di mafia, ho trovato una pagina che ben racconta la sua storia.

“STD. Tre lettere puntate. Un acronimo misterioso che a lungo ha impegnato gli inquirenti che indagavano sulla tragica uccisione del giudice Rosario Livatino. Tre lettere che comparivano, con assiduità, in fondo alle pagine degli scritti e delle agende private del magistrato. Quando il rebus è stato risolto, è stato chiaro che in quelle tre lettere c’era tanto della personalità, del pensiero, della vita di questo giovane giudice ammazzato dalla Stidda a 38 anni e poi diventato il primo magistrato beato nella storia della Chiesa. STD, Sub Tutela Dei, nelle mani di Dio. Un’invocazione a Dio perché guidasse i suoi passi, le sue scelte, le sue decisioni. In definitiva, la sua stessa vita.
Una vita, quella di Livatino, iniziata il 3 di ottobre del 1952 a Canicattì, in provincia di Agrigento. Papà Vincenzo era un impiegato dell’esattoria comunale e Rosario era stato il frutto del suo amore per Rosalia Corbo. Una famiglia tranquilla, in cui Rosario crebbe ben educato, rispettoso, attento allo studio e ai suoi doveri.
Si diplomò al Liceo classico Ugo Foscolo di Canicattì, affiancando allo studio l’impegno nell’Azione Cattolica, per poi iscriversi, nel 1971, alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo.
Il binomio fede e diritto comincia, sin dagli anni dell’adolescenza e della prima gioventù, a caratterizzare la sua esistenza. Un binomio sul quale la sua riflessione continuerà a lungo, costituendo di certo uno dei tratti più significativi della sua elaborazione di uomo, di cristiano, di intellettuale e di professionista.
Conseguì la laurea cum laude nel 1975, non ancora ventitreenne, per poi ricoprire, vincitore di un concorso pubblico, il ruolo di vicedirettore in prova presso l’Ufficio del Registro, negli anni tra il 1977 e il 1979.

Le indagini sulla mafia agrigentina
Intanto però Rosario inseguiva un altro sogno, quello cioè di dedicarsi al diritto e alla giustizia. Spinto da questa sorta di vocazione laica, partecipò al concorso per l’ingresso in magistratura, uscendone tra i primi in graduatoria, sebbene giovanissimo. Così, nel 1978, divenuto magistrato, fu assegnato al Tribunale di Caltanissetta e poi, un anno dopo, a quello di Agrigento, come sostituto. Ad Agrigento rimase ininterrottamente in servizio come sostituto procuratore fino al 1989, prima di essere nominato giudice a latere.
Furono anni di lavoro intensissimo. Nonostante la sua giovane età, Rosario seppe misurarsi, con grande capacità e spiccata lucidità, con indagini assai difficili e delicate, che scavarono in profondità nelle pieghe delle relazioni ambigue e perverse tra mafia, imprenditoria e politica.
Come quando si occupò di alzare il velo sui finanziamenti regionali sulle cooperative giovanili di Porto Empedocle; o quando indagò su un enorme giro di fatture false o gonfiate per opere mai realizzate; o ancora quando si dedicò a una serie di indagini su alcuni eclatanti episodi di corruzione, dando il via a quella che sarebbe passata poi alla storia come la Tangentopoli siciliana e applicando, tra i primi in Italia, la misura della confisca dei beni ai mafiosi.
Il colpo più significativo fu probabilmente il lavoro investigativo che portò al maxiprocesso contro le cosche di Stidda di Agrigento, Canicattì, Campobello di Licata, Porto Empedocle, Siculiana e Ribera.
Per celebrare il processo, iniziato nel 1987, fu necessario utilizzare un’ex palestra adibita ad aula bunker. Alla fine, furono 40 le condanne ottenute. Un colpo durissimo alla mafia agrigentina, quella Stidda nata per contrapporsi a Cosa nostra e allo strapotere dei Corleonesi, che pretendevano di estendere il loro dominio anche nelle zone centro-meridionali della Sicilia.

La fede e il diritto
A un ruolo pubblico che, in funzione delle sue capacità professionali e dei suoi successi investigativi, lo rendeva via via più “esposto”, Rosario continuò per tutta la sua esistenza a preferire una condotta riservatissima, fatta di una vita familiare discreta, di una profonda fede cristiana, di valori etici che trasferiva con coerenza e fedeltà nel lavoro. È un’elaborazione intellettuale molto profonda quella che ha affidato ai suoi scritti e ad alcuni suoi interventi pubblici che ci aiutano a delineare con nettezza il suo pensiero e la sua visione del magistrato.
“L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività” (Rosario Livatino – intervento sul tema “Il ruolo del giudice nella società che cambia” – Canicattì, 7 aprile 1984).
Parole che lasciano trasparire con chiarezza il senso di profondo rigore morale di questo giovane magistrato, la sua visione etica della professione. Un’etica del dovere non disgiunta dalla consapevolezza del peso di quella responsabilità che porta chi è chiamato a giudicare e deve farlo con rispetto anche per chi è ritenuto colpevole. Valori, pensieri, riflessioni senz’altro frutto anche della sua profonda fede, del suo continuo interrogarsi, da laico, su quel binomio tra fede e diritto sul quale ci ha lasciato parole altrettanto chiare:
“Il compito (…) del magistrato è quello di decidere; (…): una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. (…) Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia” (Rosario Livatino – intervento sul tema “Fede e diritto” – Canicattì, 30 aprile 1986).

Il 21 settembre 1990

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Tra Canicattì e Agrigento ci sono poco meno di 40 chilometri. Ci si sposta lungo la Strada Statale 640 che collega Caltanissetta alla costa meridionale della Sicilia. Mezz’ora di strada che Rosario percorreva regolarmente per raggiungere il Tribunale. Lo fece anche la mattina del 21 settembre 1990. Senza scorta, a bordo della sua vecchia Ford Fiesta amaranto.
All’altezza a del viadotto Gasena – oggi intitolato a lui – la sua auto fu affiancata e speronata da un’altra vettura, da cui furono esplosi alcuni colpi di pistola. Rosario, benché già ferito ad una spalla, tentò una disperata fuga nei campi accanto alla strada. Ma fu inutile. Inseguito dai killer, fu ucciso senza pietà. Aveva appena 38 anni.
Sul luogo dell’omicidio giunsero poco dopo i colleghi del Tribunale di Agrigento. Da Palermo arrivarono il Procuratore Pietro Giammanco e l’aggiunto Giovanni Falcone. Da Marsala, il Procuratore Paolo Borsellino.
La morte di Rosario fece rumore. E provocò polemiche, anche molto aspre. I colleghi agrigentini Roberto Saieva e Fabio Salomone, pochi giorni dopo l’omicidio, denunciarono le condizioni difficili in cui i magistrati erano costretti a lavorare. I Procuratori di tutta la Sicilia minacciarono le dimissioni in blocco se lo Stato non avesse agito con immediatezza contro quel delitto efferato. Qualcuno parlò delle responsabilità dei superiori di Livatino, della loro inerzia. E poi quelle parole ambigue pronunciate il 10 maggio del 1991 dal Presidente della Repubblica Cossiga sul tabù dei “giudici ragazzini”: “non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza”. Parole rinnegate solo dodici anni più tardi, quando l’ormai ex Presidente chiarì che non si riferiva a Rosario Livatino, definendolo anzi un eroe e un santo.

La vicenda giudiziaria
La verità sulla morte del giudice Livatino è passata attraverso tre processi. Il primo, nell’immediatezza dei fatti, fu reso possibile dalle dichiarazioni di un agente di commercio di origini milanesi che passava sul viadotto Gesena per caso e che assistette all’omicidio. Pietro Nava decise coraggiosamente di testimoniare e le sue parole consentirono, già il 7 ottobre del 1990, l’arresto di due ragazzi di 23 anni, Paolo Amico e Domenico Pace. Furono presi nei pressi di Colonia, in Germania, dove ufficialmente facevano i pizzaioli. In realtà erano organici alla Stidda di Palma di Montechiaro. Nel novembre del ’91 furono condannati entrambi all’ergastolo come esecutori materiali del delitto.
La collaborazione di Gioacchino Schembri, anch’egli esponente della Stidda di Palma, consentì poi l’apertura di un nuovo processo, il Livatino bis, che portò all’arresto, nel 1993, degli altri membri del gruppo di fuoco: Gateano Puzzangaro (23 anni) Giovanni Avarello (28 anni) e Giuseppe Croce Benvenuto. I primi due furono condannati all’ergastolo. Benvenuto invece decise di collaborare, aprendo la strada al Livatino ter.
Il processo, iniziato nel 1997, si è basato sulle dichiarazioni di Benvenuto e di un altro “pentito”, Giovanni Calafato, che hanno indicato i mandanti dell’omicidio nei capi della Stidda di Canicattì e Palma: Antonio Gallea, Salvatore Calafato, Salvatore Parla e Giuseppe Montanti. Al termine del processo di primo grado, nel 1998, Gallea è stato condannato all’ergastolo. 24 anni per Calafato. Assoluzione per Parla e Montanti. Entrambi sono stati poi condannati all’ergastolo nel settembre del 1990 dalla Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta, che ha esteso all’ergastolo anche la condanna di Calafato. Sentenze poi confermate, tra il 2001 e il 2002, anche in Cassazione.

Memoria viva
Il 9 maggio del 1993, Giovanni Paolo II, nel suo memorabile discorso dalla Valle dei Templi di Agrigento, definì Rosario Livatino un “martire della giustizia e indirettamente della fede”. In quello stesso anno, il vescovo di Agrigento Carmelo Ferraro diede mandato di avviare il lavoro di raccolta delle testimonianze per la causa di beatificazione. Il 19 luglio 2011 è arrivata la firma del decreto per l’avvio del processo diocesano di beatificazione, che si è aperto ufficialmente il 21 settembre successivo. 45 persone hanno testimoniato sulla vita e la santità del giudice Livatino. Tra loro anche Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer. Il 6 settembre 2018, l’annuncio della chiusura del processo diocesano e l’invio in Vaticano, alla Congregazione per le cause dei santi, delle 4000 pagine di notizie e testimonianze raccolte.
È stato poi Papa Francesco, il 21 dicembre del 2020, ad autorizzare la Congregazione alla promulgazione del decreto riguardante il martirio, aprendo la strada alla beatificazione, avvenuta il 9 maggio 2021 nella Cattedrale di Agrigento. La memoria di Rosario Livatino si celebra il 29 ottobre, nel giorno in cui, trentaseienne, ricevette il sacramento della confermazione.
In un processo di memoria laica che rende viva la sua testimonianza di coraggio e impegno, a Rosario sono intitolati i Presidi di Libera a Sanremo, nel Basso Polesine, a Pomezia e a Mogoro, in provincia di Oristano. Portano il suo nome anche due case di accoglienza ad Andria e la Cooperativa Libera Terra di Naro, in provincia di Agrigento. A Rosarno, gli studenti dell’Istituto superiore Raffaele Piria producono un olio intitolato a lui.
Nel 1992, Nando dalla Chiesa ha pubblicato il suo “Il giudice ragazzino”, riprendendo polemicamente l’ambigua definizione del Presidente Cossiga. Nella sinossi si legge: “Alla vicenda del magistrato si intreccia la ricostruzione dei casi più clamorosi e delle polemiche più dirompenti che hanno contrapposto, nell’arco del decennio, mafia, società civile e istituzioni, troppo spesso nel segno di un attacco diretto all’attività di quei “giudici ragazzini” mandati a rappresentare lo Stato in prima linea” (Nando dalla Chiesa – Il giudice ragazzino. Storia di Rosario Livatino assassinato dalla mafia sotto il regime della corruzione, Einaudi 1992).Con lo stesso titolo, “Il giudice ragazzino”, la storia di Rosario è stata raccontata, nel 1994, anche nel film di Alessandro Robilant con Giulio Scarpati. Nel 2006, a sostegno della causa di beatificazione, è stato prodotto il documentario “La luce verticale”. Dieci anni più tardi, nel 2016, è uscito invece il documentario indipendente “Il giudice di Canicattì – Rosario Livatino, il coraggio e la tenacia” curato da Davide Lorenzano e con la voce narrante dello stesso Scarpati, che ha rivelato nuovi episodi di vita e immagini inedite di Rosario (visibile qui).
Tra tutto quanto ha scritto e ci ha lasciato in eredità, di lui, uomo di fede e di giustizia, resta in particolare una frase. Poche parole, che graffiano la coscienza e pesano come macigni: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili” (Rosario Livatino).”

Dopo 40 anni la voce di Giancarlo Siani dà ancora frutti

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Il 23 settembre di 40 anni fa la camorra metteva fine alla vita del giornalista Giancarlo Siani. La vicenda viene raccontata da un film molto ben riuscito: Fortapàsc. Guardarlo gratuitamente su Raiplay potrebbe essere un bel modo per onorarne la memoria. Dal sito LiberaInformazione recupero un articolo con le parole di Paolo Siani, fratello di Giancarlo.

“Era il 1985, avevo da poco terminato il mio turno in ospedale, faceva caldo, era stato un pomeriggio faticoso, ma alle 21,43 del 23 settembre del 1985 all’improvviso la mia vita cambia radicalmente.
Non sento più la fatica, nè il caldo, la mia vita si ferma bruscamente, accanto alla Mehari di mio fratello, Giancarlo, colpito a morte dalla mafia.
Da quel preciso momento inizia la mia nuova vita, difficile, dura, faticosa.
Ho imparato a convivere con il dolore, perché nulla guarisce una tale ferita, una ferita che non cicatrizza mai, resta sempre un pò sanguinante, e basta poco per farla riprendere a sanguinare copiosamente, una foto, un album di famiglia, un libro, una canzone che mi riportano indietro nei miei primi 30 anni, felici, con mio fratello e la mia famiglia.
Niente è stato più come prima.
Mai avrei immaginato quella sera che dopo 40 anni Giancarlo e i suoi articoli sarebbero stati ricordati in tante città, e in tanti modi, con docufilm, spettacoli teatrali, canzoni, libri, dibattiti.
Siamo riusciti attraverso una memoria attiva, fatta di ricordo e di impegno a costruire un ponte tra passato e futuro. Ascoltare le voci dei bambini di una scuola elementare di Oliveto Citra cantare un rap ispirato al libro di Lorenzo Marone, “un ragazzo normale”, e sentirli urlare con forza “Perché, perché, perché, era solo un ragazzo normale”, mi commuove ma nello stesso tempo mi fa comprendere che la storia di Giancarlo è viva e semina del bene.
È vero che da un’indagine di alcuni anni fa condotta nelle scuole della Campania i ragazzi mostravano di conoscere i nomi di tutti i personaggi delle fiction sulla camorra, e non quelli delle vittime.
Competere con le fiction di maggior successo di questi anni è un’impresa difficile.
Ma il lavoro dei familiari delle vittime innocenti, fatto di tanti  interventi nelle scuole, nelle piccole comunità darà i suoi frutti.
E infatti dopo 40 anni Giancarlo sarà ricordato nei prossimi giorni a Napoli, a Roma, a San Giorgio a Cremano, a Torre Annunziata, a Quarto, a Pomigliano d’Arco, a Castellamare, a San Giuseppe Vesuviano, a Milano, Torino, Ravenna, Latina e a Bruxelles al parlamento europeo. Ma sono certo che tanti insegnanti in tante parti d’Italia il 23 settembre parleranno di lui ai loro alunni.
Un ponte tra passato, fatto di morte e sofferenza e futuro che ci auguriamo felice e libero dalle mafie. In fondo dipende solo da noi, dalle nostre scelte, dai nostri comportamenti.
Grazie a tutti coloro che con noi hanno seminato ogni giorno in questi lunghi quaranta anni, e a tutti coloro, donne e uomini di buona volontà, che continueranno a farlo.
Siete la nostra speranza. E vedrete che prima o poi cadranno nell’oblio i nomi dei mafiosi ma non quelli delle nostre vittime.
Siamo certi che i semi di speranza sparsi in questi anni in tanti luoghi, continueranno a germogliare e lo faranno ogni volta che qualcuno sceglierà di ribellarsi al silenzio, di denunciare, di raccontare ciò che vede senza piegarsi al ricatto o alla violenza, che resterà con la schiena dritta e scriverà una notizia pericolosa, ma vera. Accadrà, dovrà accadere, dobbiamo farcela.
Chi pensa ancora oggi di far tacere un giornalista che racconta la verità non sa che quella voce continuerà a essere viva attraverso le nostre voci e non si spegnerà.
Giancarlo diventi sempre di più il seme che genera un futuro migliore, più giusto, più umano, più felice.
È il 2025, settembre, fa caldo, ho terminato il mio turno in ospedale, e mi preparo a parlare ancora di Giancarlo.”
Fonte: La Repubblica/Napoli, 16/09/2025

Gemma n° 2553

“Per la gemma di quest’anno ho deciso di portare un anello che mi è stato regalato da mia zia. Lei e mia sorella ne hanno uno uguale. Noi tre siamo cresciute praticamente insieme, e mia zia ha scelto di donarci questo anello come simbolo del nostro legame. Sono molto affezionata a questo anello; non lo tolgo mai ed è sempre con me” (F. classe quarta).

Gemma n° 2547

“Come gemma ho deciso di portare qualcosa di molto personale ovvero un quaderno con dei francobolli. Questo libretto me l’ha regalato mio nonno prima di andarsene e, come a me, l’ha regalato anche a mio fratello e ai miei quattro cugini. Ognuno ha attaccati diversi francobolli in base ai propri interessi, ad esempio io ho le farfalle.
È molto importante per me perché è l’ultimo ricordo che ho prima che venisse ricoverato in ospedale e prima di andarsene. Mio nonno non era un uomo di molte parole e all’apparenza sembrava un po’ scorbutico ma in realtà era molto buono e cercava in tutti i modi di prendersi cura dei suoi nipoti inclusa me. Di lui mi piaceva che a volte mi raccontava le sue storie di quando era giovane e io mi mettevo lì ad ascoltarlo. Nonostante adesso non ci sia più, la casa, dove adesso vive mia nonna, mi ricorderà sempre le cene e i momenti passati in famiglia assieme a lui. Adesso ho davvero la consapevolezza di dire che i nonni sono la nostra più grande fortuna ed è importante goderseli perché non saranno sempre con noi. Io adesso ho le mie due nonne che sono le mie rocce e sarò sempre grata per quello che mi hanno dato sin da piccola”.
(C. classe quinta).

Gemma n° 2310

“Questa volta come gemma ho deciso di portare questo anello perché ha un significato molto importante per me. Era l’anello che sempre portava, prima di lasciarci, mia nonna materna. Ogni volta che mi accarezzava il viso sentivo il calore della sua mano e il “freddo” del suo anello. Molti mi dicono che assomiglio molto a mia nonna, per il carattere, il sorriso e i modi di fare. Portando questo anello al dito sento, nonostante ci abbia lasciato già da un po’, di portarla con me tutti i giorni e di farla continuare a vivere tra noi” (M. classe seconda).

Gemma n° 2295

“Ho scelto di portare come gemma questo braccialetto in quanto è il primo regalo che mi ha fatto il mio ragazzo e lo ricollego a momenti di serenità e felicità” (B. classe terza).

Gemma n° 2269

“Ho deciso di portare questa canzone perché è molto importante per me. Mi ricorda infatti il periodo di aprile-maggio 2016, quando mia nonna è venuta a mancare. Mia madre metteva sempre questa canzone, che rappresenta ora un periodo brutto della mia vita. Ero molto legata a mia nonna e perderla quando ero ancora piccola è stato motivo di grande tristezza. Nonostante questo la canzone mi ricorda anche il forte legame che avevo con lei e quindi, tristezza a parte, ogni volta che l’ascolto mi tornano in mente bei momenti” (M. classe seconda).

Gemma n° 2192

“Ho deciso di portare un anello che mi portò mia nonna tempo fa dall’Egitto. Per me ha un grande valore affettivo anche se non di valore; lo vedo come un portafortuna. È rappresentativo del luogo che lei visitò e che anche io spero di vedere tra poco” (E. classe terza)

Gemma n° 2178

“Ho scelto di portare come gemma questo portachiavi che mi ha regalato il mio migliore amico una volta tornato da New York. Ha scelto di portarmelo non con la “A” ma con la lettera “G”  l’iniziale del nome con cui mi soprannomina sempre. Non ho portato questo portachiavi per l’oggetto in sé, che è sì un bellissimo regalo, ma per la persona che me lo ha regalato, appunto, il mio migliore amico, che anche oltremare si è ricordato di me. Con questo mi collego al motivo per cui ho portato quest’oggetto ovvero l’amicizia tra maschio e femmina; secondo me è importante avere un migliore amico maschio che a volte la pensa diversamente, che guarda le cose da un altro punto di vista e che certe volte, anche se non lo dimostra, potrebbe tenere a te più di quanto tu lo pensi” (A. classe prima).

Gemma n° 2175

“Era lo scorso inverno e stavo tornando a casa da una passeggiata. Ad un tratto un’anziana signora mi fermò e iniziò a farmi alcuni complimenti sul mio aspetto. Ero molto sorpresa perché non mi era mai capitato che uno sconosciuto mi fermasse per farmi un complimento, specialmente nel paese poco abitato dove vivo io. Mentre la ringraziavo ed ero sul punto di riprendere il cammino verso casa, estrasse una mano dal suo cappotto dandomi un braccialetto che teneva in mano. A quel punto le chiesi perché me lo stesse dando e lei mi rispose che ce l’aveva da tanto tempo, quindi me lo donava volentieri, aggiungendo il fatto che sarebbe stato più bello indossato da una ragazzina. Dopo questo accettai di tenere il braccialetto e la signora se ne andò salutandomi con un sorriso. Da quel giorno conservo il braccialetto come un tenero ricordo” (G. classe prima).

Gemma n° 2084

“Come gemma quest’anno ho deciso di portare questo peluche a forma di orca, che si trova in camera mia sopra la libreria; agli occhi degli altri probabilmente potrà sembrare una cosa stupida o infantile ma per me ha un significato importante.
Questo oggetto l’ho ricevuto durante l’ultima sera che ho passato con i miei amici di R. prima di trasferirmi qui in Friuli.
Quella sera c’erano le giostre ma io ero comunque abbastanza triste perché il giorno dopo sarei partita e non li avrei più rivisti per un bel po’ di tempo, e sapevo che sarebbe stato difficile per me allontanarmi da loro visto che erano persone a cui volevo bene e con cui uscivo molto frequentemente.

Verso fine serata, quando era quasi arrivato il momento di tornare a casa, mi misi a piangere. Un mio amico di nome G., ad un certo punto, si allontanò dal gruppo e per risollevarmi un po’ il morale andò ad uno stand, quello in cui devi prendere i cigni con l’asta. E’ stato lì per una mezz’ora e alla fine ha vinto questo peluche e me l’ha regalato, poi ognuno dei miei amici ha scritto la sua iniziale sull’etichetta. Per questo motivo il pupazzo è molto importante per me, perché è un bellissimo regalo che mi hanno fatto i miei amici e ogni volta che lo vedo penso a loro” (R. classe quarta).

Gemma n° 2082

“Ho portato un piccolo souvenir visto che di recente sono stato a Milano con la mia famiglia e abbiamo passato dei bei momenti visitando la città e il centro” (F. classe terza).

Gemma n° 2081

“Ho scelto come gemma un braccialetto molto importante con un charm che mi hanno regalato alla mia Cresima l’anno scorso. Il braccialetto me lo hanno regalato dei miei parenti a cui sono molto legata, mentre il charm mio zio. Sono molto affezionata al charm perché è uguale e lo condivido con mia sorella. In questo gioiello c’è scritta una frase molto bella e importante per le sorelle e i fratelli: you don’t always see them, but they are always there. Trovo che sia una bellissima frase e ci sono molto legata” (G. classe terza).

Gemma n° 2037

“Quest’anno come gemma ho deciso di portare una delle mie tante cuffie di nuoto, la più importante. Questa sta a significare un percorso che ho intrapreso nell’estate del 2020, un camp fatto con dei personaggi molto famosi del nuoto. La cuffia mi è stata regalata per una sponsorizzazione e per me ha tanto valore anche perché è stata la prima cuffia che mi hanno dato dopo tre mesi in cui non ho potuto nuotare a causa della pandemia. Ancora oggi la conservo vicino alle mie medaglie e ai miei attestati” (A. classe seconda).

Gemma n° 2036

“Ho scelto di portare questa collana perchè me l’ha regalata la mia bisnonna tempo fa. Mi piace molto indossarla perchè me la ricordo mentre sceglieva questa collana per me e un’altra per mio fratello. Mi manca molto anche se so che una parte di lei mi sorveglia sempre” (S. classe seconda).

Gemma n° 2031

“Come gemma ho portato questa, una collana che metto sempre da quando l’ho presa a Londra quest’estate. Sono stata due settimane in vacanza studio; lì ho conosciuto un’amica che è diventata molto importante per me. A Greenwich, al mercatino dell’usato, abbiamo trovato una bancarella con tutti i gioielli a un euro e abbiamo preso insieme questa collana con la croce e i brillantini un po’ trash. La metto ogni giorno e per me è molto importante” (S. classe terza)

Gemma n° 2025

“La mia gemma è una canzone di Billy Idol, Rebel Yell. I miei genitori mi hanno sempre detto che è stata una delle prime canzoni che ascoltavo. L’ho sempre ascoltata con mio padre e quindi ad essa sono collegati dei bei ricordi”. (V. classe terza)