“Fin da piccola i miei genitori mi hanno fatto sentire la loro passione per il rock e qualche volta mi portavano ai concerti (ad esempio Vasco) o mi facevano vedere dvd di concerti. Quando gli AcDc sono venuti a Udine mi sono innamorata della chitarra di Angus Young e anche vedendo i filmati dei concerti ero sempre colpita dalle chitarre. Così, intorno ai 10-11 anni, mi hanno comprato una chitarra, una prima chitarra senza grosse prestazioni. A insegnarmi come tenerla in mano e le cose basiche come le note è stata la mamma; poi i miei si sono separati e ho dovuto imparare da sola piano piano. Poi un giorno la chitarra si è rotta e loro non hanno pensato di prendermene un’altra. Allora ho iniziato a mettere da parte i soldi e qualche mese fa ho preso questa e ho ripreso a suonare e a rivivere la mia passione più grande”.
Sembra il racconto di un mito della musica che parla della sua infanzia e di come sia iniziato tutto. Auguro a G. (classe prima) di continuare sia nella coltivazione di questa sua grande passione sia nella determinazione per raggiungere un suo obiettivo (in questo caso la una nuova chitarra). Nella voce rotta dall’emozione ho colto una grandissima forza.
La mia adolescenza ha avuto spesso come colonna sonora il metal, sparato al massimo del volume attraverso gli auricolari di un walkman della Sony che dovrei avere ancora in qualche cassetto dei ricordi.
Oltre alle due parti di Keeper of the seven keys dei tedeschi Helloween di Michael Kiske, uno degli album che ho ascoltato maggiormente è sicuramente Trash di Alice Cooper. Era sicuramente un altro modo di ascoltare musica: niente Spotify o Deezer o Amazon, niente streaming. L’unica possibilità di “piratare” qualcosa era l’amico che ti prestava un cd o un vinile o una cassetta e tu li masterizzavi o li riversavi restituendogli poi l’originale. Insomma, non grandissime sperimentazioni. Soprattutto, quando trovavi qualcosa che ti piaceva, chi viveva con te benediceva l’esistenza di cuffie e auricolari perché la ripetizione si faceva continua.
Ma torniamo ad Alice Cooper. Ogni anno propongo alle classi seconde un lavoro: portare una canzone sul tema del sacro, della fede, di Dio. Può essere anche di critica o di dubbio o di negazione, l’importante è che vengano toccati quei temi. Studentesse e studenti devono preparare una presentazione in cui introducono artista e canzone e spiegano il motivo della scelta. Quest’anno una studentessa ha proposto I am made of you. Penso che per comprendere il reale significato di questa canzone sia utile inquadrare brevissimamente il personaggio e dare un’occhiata ad alcune dichiarazioni di Alice Cooper, rilasciate in varie interviste.
Alice Cooper oggi ha 73 anni e il suo vero nome è Vincent Damon Furnier. Nel corso della sua lunga carriera è spesso stato protagonista di scene che hanno colpito gli spettatori dei suoi concerti: camicie insanguinate, pupazzi ghigliottinati, serpenti al collo, simboli fallici, immagini horror, mostri, seghe elettriche… Gli eccessi si sono poi spostati dal palcoscenico alla vita privata, con l’abuso di alcol e droga, al punto che la moglie lo abbandona: “Sheryl se n’era andata – era andata a Chicago e aveva detto ‘Non posso vederti così’. Ma la cocaina parlava molto più forte di lei. Alla fine, mi sono guardato allo specchio e sembrava il mio trucco, ma era il sangue che scendeva [dai miei occhi]. Forse avevo delle allucinazioni, non lo so. Ho buttato la droga nel water. L’ho chiamata e le ho detto: “È fatta, basta”. E lei dice: “Bene. Ma devi provarlo.” Uno degli accordi era che iniziassimo ad andare in chiesa. Sapevo chi era Gesù Cristo ma lo respingevo. Sapevo che dovevo arrivare ad un punto in cui avrei accettato Cristo e iniziato a vivere quella vita, o sarei morto. Ed è quello che mi ha davvero motivato. Sono arrivato al punto di dire: “Sono stanco di questa vita”. E alla fine capisci che è la scelta giusta quando il Signore ti apre gli occhi e improvvisamente ti rendi conto chi sei e chi è Lui” (fonte Metalitalia). Afferma ancora: “Amo considerarmi il vero figliol prodigo. Dio ha permesso che io facessi qualsiasi cosa per poi richiamarmi a sé. È come se mi avesse detto ‘Hai visto abbastanza, è ora di tornare a casa’. Ero un alcolista malato, autodistruttivo. Bevevo in continuazione, vomitavo sangue tutti i giorni. Poi ho ricominciato ad andare in chiesa. Le case, le macchine, le cose materiali non sono la risposta, c’è solo un grande nulla al di là di queste cose. Si dice che nel cuore c’è un buco a forma di Dio. Solo quando lo riempi sei soddisfatto ed è dove sono io adesso. Ed è per questo che io adesso sto bene” (fonte Il Manifesto). Sui primi anni della carriera dice: “Mi sono risparmiato una targa nel club dei 27 [artisti morti a 27 anni, vedi wikipedia] e di finire come gli amici con i quali negli anni ’70 a Los Angeles formavamo il nucleo originale degli Hollywood Vampires. Ci incontravamo in una sala del Rainbow Bar and Grill ed era puro spasso. C’erano John Lennon, John Belushi, Keith Moon, il più grande batterista della storia, che ogni sera veniva vestito diverso, una volta da Regina d’Inghilterra, un’altra da Hitler. Bevevo con Jim Morrison e Jimi Hendrix, tutti finiti tragicamente […] Non so fino a che punto sia stata una scelta. La verità è che non conoscevamo il limite fra libertà e autodistruzione. Passammo tutti dal guadagnare pochi dollari a sera a contratti milionari e nessuno di noi aveva un manuale di istruzione per gestire il ruolo di rockstar, la fama e i soldi. Era molto facile esagerare con alcol, droghe, donne, e in tanti si sono consumati. La generazione successiva ha imparato da loro a non morire. Steven Tyler, Mick Jagger, Rod Stewart, Iggy Pop e io abbiamo attraversato la giungla di eccessi e siamo sopravvissuti. La nostra sì, è stata una scelta […] Mi sono salvato con la fede e la spiritualità. Sono diventato discepolo di Cristo e ho cambiato stile di vita. Se c’è una cosa che Dio non ha detto è che io non potevo essere una rockstar. Mi ha creato rockstar e, visto che ci vuole eccellenti e non mediocri, lo faccio al meglio. Avere fede non significa mica stare tutto il giorno inginocchiati a pregare” (fonte Il Messaggero).
Fatto questo inquadramento, ecco che le parole della canzone non hanno bisogno di molti commenti. Riecheggiano immagini e parole dell’inizio della Bibbia, della Genesi, della creazione: “In principio ero solo un’ombra, in principio ero solo, in principio ero cieco, stavo vivendo in un mondo privo di luce. In principio c’era solo la notte. Ero distrutto, a pezzi e mi sentivo così freddo dentro. Poi ti ho chiamato dalle tenebre dove mi nascondo. Io sono creato da te… All’inizio eri una rivelazione, un fiume di salvezza e ora credo. Tutto ciò che volevo, tutto ciò che mi serviva era che qualcuno mi salvasse: stavo annegando, stavo morendo, ora sono libero. Io sono creato da te… Eccomi qui ora, adesso posso restare perché il tuo amore mi ha reso forte e per sempre tu sarai il cantante ed io sarò la canzone. Io sono creato da te…”
E questo essere la canzone di Dio si traduce anche nel suo impegno nei confronti di altri musicisti con problemi di dipendenze, un vivere la fede in modo attivo e concreto: “Studio molto la Bibbia, penso che la gente abbia un’idea sbagliata dei cristiani. Anche noi amiamo il rock. Oggi continuo a suonare dal vivo, sicuramente ho un altro sguardo su quello che ho fatto. Molte delle mie vecchie canzoni erano sicuramente eccessive, ma le mie hit, anche se erano provocatorie, sono del tutto accettabili. È facile bere birra, distruggere le camere d’albergo. Ma essere cristiano è una scelta dura. È questa la vera ribellione” (fonte Il Manifesto).
“Come gemma porterei tutta la musica perché per me è fondamentale, ma ho dovuto scegliere. Questo brano lo ascolto sempre con mio padre ed è il mio preferito”. Questa la gemma di E. (classe quarta). Non ho la minima intenzione di entrare nelle mille interpretazioni di Stairway to heaven. Resto sul testo e mi porto a casa le ultime parole perché ho sempre ascoltato questa canzone come un grido di speranza: “E, se ascolti davvero bene, alla fine la melodia verrà da te, quando tutti saremo uno ed uno sarà tutti, per essere una roccia e non per rotolare.” Il resto? Fuffa.
Mi ha fatto sorridere il motivo della gemma proposta da I. (classe quinta): “Ho portato il video di questa band perché è diventata una delle mie preferite: ho scoperto i Pvris a dicembre. Voglio fare loro pubblicità e visto che so che in questo modo il loro video finisce sul blog del prof, beh ho approfittato. Hanno uno stile molto particolare, anche se questa è una canzone più tendente al rock che all’elettronica. Anche i testi sono molto belli. Fateli conoscere così vengono in Italia e non sono costretta ad andare in Germani per ascoltare un loro concerto”. Gibran diceva che “Ragione e passione sono timone e vela della nostra anima navigante”. Le ho viste entrambe stamattina.
Iniziare una lezione con i Led Zeppelin? Fatto. Grazie ad A. (classe terza) che ha proposto “Rock and roll” nella versione live del 1973 al Madison Square Garden. “Ho scelto i Led Zeppelin perché sono il mio gruppo preferito, anche se non con questa canzone. In realtà la mia gemma è la musica; fin da piccola suono chitarra e pianoforte, uno sfogo per i momenti in cui sono tesa. Questo gruppo è fonte di ispirazione con i numerosi assoli di chitarra. Tra le tante passioni, fotografare e cucinare, suonare è la maggiore”. Una delle cose che mi piacciono di più della storia del rock è la ricchezza di aneddoti (spesso mischiati a vere e proprie leggende metropolitane). Ne riporto uno che riguarda due icone: «E’ la fine del 1969, negli Stati Uniti in un volo in partenza da Phoenix i due “capelloni” più famosi di quel momento, il biondo Robert Plant ed il moro Jim Morrison per fatalità del destino si ritrovano seduti uno di fianco all’altro. I due si guardano e ghignano, si riconoscono, nessuno dei due apre bocca. Dopo un po’ è Jim Morrison a rompere il ghiaccio chiedendo: “cosa fai nella vita?”, Plant: “sono un cantante” e Morrison nuovamente: “ah, interessante e che genere di musica fai?”, così Plant risponde: “mah, un rock nuovo, la mia band si chiama Led Zeppelin”. Jim Morrison: “mai sentita!” Plant a sua volta: “e tu cosa fai per guadagnarti da vivere?”, Morrison: “oh, io sono un poeta”, e Plant subito: “ah, anch’io una volta facevo il poeta, poi ho avuto successo!”» (fonte web)
Premessa: la prossima settimana nella scuola in cui insegno ci sarà un incontro con Patti Smith (abbiamo un indirizzo musicale). Oggi alle 12.00 una delle mie quinte mi ha chiesto: “Prof, ci permette di andare? Ci accompagna la prof. di tedesco!”. E’ stato lì che ho deciso di mandare a monte la lezione sulla globalizzazione che avevo preparato e di cogliere l’occasione per leggere un mio breve post di due anni fa e soprattutto un articolo di Max Granieri del 2012 dal titolo “Patti Smith: la sgraziata forma del rock”. Lo riporto qui integralmente:
“La mia missione è comunicare, svegliare la gente. E’ dare la mia energia e accogliere la loro. Siamo tutti coinvolti e io parteciperò emotivamente, in quanto lavoratrice, madre, artista, essere umano, con una voce. Abbiamo tutti una voce, abbiamo la responsabilità di esercitarla, di usarla”. E’ il manifesto musicale e politico di Patti Smith, poetessa del punk rock newyorkese, affisso nel film Dream of Life di Steven Sebring, edito da Feltrinelli. Le sue liriche sono segnate da un primordiale istinto alla sopravvivenza morale e civile. Una mostra visitata a Liverpool qualche anno fa, dedicata alle influenze sociali del punk britannico nell’era di Margaret Thatcher (primo ministro inglese dal 1979 al 1990), fece traslalire di gioia. Pensai, allora: “Qualcosa di buono hanno combinato i punker…”. In realtà, fu Patti Smith a sdoganare il punk dal bluff dei Sex Pistols e dal snobismo dei primi Police, a vestirlo d’uno status intellettuale che lo avvicinasse al blues e al jazz. Merito dei suoi continui riferimenti letterali nei testi, quella poesia urlata in faccia ai potenti, voce di tutte le comunità ai margini, calpestate nei loro più elementari diritti. Lei incarna la protesta e la rabbia del punk, una voce sgraziata che grida nel deserto del mondo. In “Dream of life”, Patti apre la porta di casa per fare entrare più gente possibile, incurante della presenza dello spettatore nelle sue stanze, dove canta e sogna, recitando a memoria versi di poeti. Canticchia un brano di Fabrizio De Andrè, “Amore che vieni Amore che vai”. Il filmato è privo di una storia. Ci si aspetta di vedere John Cale (produttore sapiente della Smith), un parallelismo con Jim Morrison, qualche riferimento alla collaborazione con Jeff Buckley (prestò la voce in Beneath The Southern Cross e suonò in Fireflies, canzoni dell’album Gone Again). Nulla di tutto ciò. Il disordine regna nella sua abitazione, come nella visione del film. Patti Smith vuole un contatto immediato con chi la guarda, specie se parte di una nuova generazione, la sola capace di sollevare il mondo e cambiarlo. Lo fa intendere, citando Walt Whitman: “Giovane poeta che tra cent’anni vivrai, io scrivo per te. Sto pensando a te mentre osservo questo fiume, sto pensando a te, giovane poeta non ancora nato, mentre osservo il cielo”. Un riferimento importante è lo scrittore Allen Ginsber, esponente della Beat Generation, oltre a William Burroughs e Bob Dylan. Nell’album Peace & Noise, c’è Spell, versi in musica di un poema assai discusso di Ginsberg, “Howl” (L’urlo). Il brano chiude il dvd, con Patti Smith che cammina per le strade della città santa, Gerusalemme: Il mondo è santo, l’anima è santa La pelle è santa Tutto è santo, tutti sono santi… Ogni giorno è un’eternità Ogni uomo è un angelo… Il pazzo è santo, come tu, anima mia, lo sei La poesia è santa, gli ascoltatori sono santi San Pietro, San Allen, San Salomone, San Lucien, San Kerouac, San Huncke, San Burroughs, San Cassidy Santi gli sconosciuti dannati, i mendicanti dolenti Santi gli orribili angeli della terra… Appare insieme a Sam Shepard, suo vecchio amico, celebre drammaturgo e attore americano (coautore con Dylan di Brownsville Girl). Patti Smith siede su un piccolo baule del sedicesimo secolo. Dietro, una statua del bambino Gesù. Sul muro una foto di Gandhi e un santino più piccolo, l’immagine della Sacra Sindone. Simboli di un misticismo tangibile e familiare all’artista, visibile non solo nell’arredamento spartano. La poesia di Patti Smith è figlia dell’esperienza religiosa: c’è la dannazione, la catarsi e la redenzione, la tensione verso Cristo, Buddha e Arthur Rimbaud.
Prima di diventare un filmato (forse il modo migliore per definire il dvd), “Dream of life” è stato un disco. E’ il 1988, anno del ritorno sulle scene, dopo un lungo periodo di silenzio. Riesplode la rabbia di Horses, il suo primo album, ma in maniera più matura e controllata. Pesa ancora la morte del marito Fred Sonic Smith, del fratello Tod, la scomparsa di altri suoi collaboratori, il musicista Richard Sohl e il fotografo Robert Mapplethorpe, cui dedicherà una raccolta di poemi intitolata “The Coral Sea”. I primi minuti del dvd sono un elogio funebre a chi non c’è più nella sua vita. Lo aveva già fatto in Wave, album che commemora il marito, lui che riuscì a dare un’anima musicale alle sue parole. Gli insegnò a suonare la chitarra, il tempo di imparare pochi accordi, appena cinque. Per poi accompagnarlo fino al cancello del paradiso e cantargli in Frederik: Hi hello Wake from thy sleep God has given your soul to keep all of the power that burns in the flame ignites the light in a single name…
Il messaggio del film (ostiniamoci a definirlo così) è comunque positivo: “fantastico essere vivi”. Lo dichiara la stessa Smith durante la presentazione alla stampa italiana del dvd, lo scorso febbraio, in una libreria a Roma. “Il film nasce dopo alcuni lutti in famiglia e tra amici. Dovevo andare avanti. Continuare a badare ai miei bambini. Creare. Comunicare alla gente”. “Il messaggio è che non importa quanto soffri, devi essere felice perché vivi e sopravvivi”. Una vera resurrezione, dopo un lungo Venerdì Santo. C’è un album che testimonia la rinascita di Patti Smith: Easter (Pasqua). Insieme al successivo Wave, segna la fine di anni orribili, causati dalla morte e dal pessimismo delle precedenti produzioni, specie Radio Ethiopia. Dischi che cantano un rinnovamento umano e spirituale fondato sul cristianesimo cattolico. Patti rimane affascinata da Giovanni Paolo I, dalle sue uscite pubbliche, dal suo sorriso, da un’affermazione attribuita al Pontefice: “Per me la musica è una riconciliazione con Dio”. Quell’espressione – racchiusa in una foto all’interno del disco “Wave” – scioglie il cuore di Patti Smith, figlia di una testimone di geova. Lei così confusa e lontana dal trascendente, senza più un marito da amare, ma con Gesù che si trasfigura in Albino Luciani. A lui scrive, in una nota di copertina: “Caro Papa, è passato molto tempo da quando ci parlammo. Qui è come una triste bicicletta, passata da queste parti. Il mattino è la ruota, in qualche modo dobbiamo farla girare! E mentre gira, quando dobbiamo fermarla?”. E’ grata al Papa per quanto offerto nel suo breve pontificato, maliconica perché costretta a sopportare il vuoto di un’assenza, ancora una volta. In “Easter” si sentono le campane suonare in segno di festa, quelle che scandiscono la domenica di resurrezione. E’ ormai lontano quel grido blasfemico cantato in Gloria (album Horses, cover di Van Morrison): “Gesù è morto per i peccati di qualcun altro, non per i miei. I miei peccati sono solo miei: mi appartengono”.
“Jesus died for somebody’s sins, but not mine”
Nelle note di copertina, cita San Paolo apostolo: “I have fought a good fight, I have finished my course…” (2 Timoteo 4,7). La morte torna d’attualità nei testi di Patti Smith. Per risorgere, bisogna prima patire e morire. Passaggi obbligati, e lo scrive nel testo di “Easter”: Recintando difendendo le lenzuola di carne avvolgendo e legando e poi il riposo. Secondi di attesa in attesa del dolore lamentando, esalando. Passato attraverso la stranezza. La morte è una danza. Un ballo. Un guanto, un’estensione di totale abbandono nell’amore. Privilege è la canzone simbolo del principio cristiano della sua resurrezione, ispirata al Salmo 22: Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare… Patti Smith proclama la prima parte del salmo in modo solenne: The Lord is my shepherd I shall not want He maketh me to lie down in green pastures He leadeth me beside the still waters He restoreth my soul He leadeth me through the path of righteousness for His name’s sake Yea, though I walk through the valley of the shadow of death, I will fear no evil, for Thou art with me Trasforma il palcoscenico in un’aula liturgica, da vera sacerdotessa del rock. Il brano trasuda speranza e liberazione e si conclude con la seconda parte del salmo 22: Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo. Il mio calice trabocca. Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni.
Patti Smith continua a stare lì sopra, su ogni palco del mondo, con una gran voglia di combattere per sè e per gli altri. Alza la voce, prega, piange, sputa – nel senso letterale del termine! L’energia, la forza del suo messaggio si estende ai giovani. “Il rock è la voce artistica delle nuove generazioni” sentenzia in “Dream of Life”. “Che si sollevino le nuove generazioni. Sollevatevi, occupate le strade. Credete al cambiamento, il mondo è vostro” tuona in un comizio pubblico, durante una manifestazione anti militarista. Una pasionaria, l’ultimo baluardo di un movimento musicale che ha regalato al mondo il sogno di un cambiamento radicale, d’una rivoluzione sociale che tarda a realizzarsi. In Memento Mori (album “Piece & Noice”), Patti Smith canta la caducità dell’uomo, la sua fine carnale. Canzone nata dalla visione di un teschio posto alla base di un crocifisso, esposto in una chiesa romana, con su scritto: “Ricordati che devi morire”. Nella tradizione monastica si ripeteva spesso per ricordare gli uni agli altri il senso della vita e l’apertura all’eternità, dopo la morte. Per Patti Smith una cosa non morirà mai, più dell’anima e del corpo: la poesia. Sopravviverà alle leggi del tempo e dello spazio, legando in terra ciò che è di lassù. Un modo punk di continuarsi nella posterità, lasciando traccia di sè ovunque, scrivendo. Lei è una sognatrice. Con l’illusione del rock e la forza della poesia, il desiderio di Patti è una civiltà più giusta, rispettosa delle differenze, come è scritto nel libro del profeta Isaia (11,6): Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. Patti Smith ci sarà sempre, a ricordare ad ognuno che abbiamo il potere di cambiare il mondo. Il potere di sognare e di essere felici. Insieme. Dove c’erano deserti ho visto fontane come crema le acque si ergevano e noi passeggiavamo lì insieme senza niente da deridere o criticare e il leopardo e l’agnello dormono insieme veramente vicini Stavo sperando, nelle mie speranze, di richiamare ciò che avevo trovato Stavo sognando nei miei sogni… Dio sa Una vista più pura mentre mi abbandono al mio sonno Ti affido i miei sogni Il popolo ha il potere… Noi abbiamo il potere
La gemma presentata da I. (classe quarta) ha avuto lo scopo di dichiarare il suo amore per la musica rock-hard rock e per la Germania. “Ho visto che mentre andava la canzone qualcuno annuiva: si può ascoltare bella musica anche in tedesco”.
Anche il mio gruppo preferito è tedesco, tuttavia canta in inglese: gli Helloween. E allora per restare solo sulla musica (di tedesco non so nulla…) allego questa…
Ho letto sul Corriere una bellissima storia scritta da Fabio Genovesi, che merita di essere condivisa completamente. Chi ama la musica non può fare a meno di arrivare fino in fondo.
“Se sei una bimba nata nel 1915, in un paesino lungo il Mississippi che si chiama Cotton Plant, è normale che i tuoi genitori siano raccoglitori di cotone, che siano molto religiosi e che in casa non giri mai un soldo. È molto meno normale, invece, se a sei anni dici addio al paese e parti per un lungo viaggio, che ti porterà a far nascere il rock’n’roll. Eppure è proprio questo che succede alla piccola Rosetta Tharpe, la notte che sua madre Katie decide di lasciare il marito e diventare un pastore evangelico itinerante. Katie si porta dietro sua figlia e suona il mandolino per le strade del Sud, cercando di convertire i passanti, accompagnata dalla bimba che è già «il piccolo miracolo che canta e suona la chitarra». Così Rosetta incontra il blues del Delta e il jazz di New Orleans, poi si stabilisce a Chicago e qua comincia a cantare in piedi su un pianoforte, perché è così piccola che altrimenti il pubblico non la vedrebbe.
A dieci anni è già polistrumentista e manda in delirio i fedeli, poi a diciannove su consiglio della mamma sposa un predicatore: la musica di Sister Rosetta attirerà le persone in chiesa, poi il marito le convertirà dal pulpito. Ma l’uomo è un violento e la sfrutta per arricchirsi, allora Rosetta prende la mamma e insieme scappano fino a New York, dove il suo talento viene notato al volo e la ragazza si ritrova a cantare nei night club più rinomati. Il Cotton Club, il Café Society, luoghi così diversi dalle chiese in cui è cresciuta, frequentati da avventori ben poco timorati di Dio e ragazze seminude che le ballano di fianco. Ma Rosetta non ha nemmeno il tempo di guardarsi intorno, perché il successo arriva a valanga. Nel 1938 la Decca pubblica i suoi primi dischi, brani clamorosi come This Train e Rock Me, inni a Gesù sostenuti però da una carica quasi aggressiva e un ritmo travolgente, che catturano anche chi non ha la minima propensione spirituale. E scandalizzano invece la comunità dei fedeli, che non la riconoscono più e cominciano a pensare che Sorella Rosetta non sia degna di esibirsi nella casa del Signore.
Nel 1944 Strange Things Happen Every Day, da molti considerato il primo disco di rock’n’roll, scala la Harlem Hit Parade, classifica speciale creata per tenere separate la musica nera e quella dei bianchi. Rosetta è una star, canta con Duke Ellington, Cab Calloway e Benny Goodman, ma non dimentica la sua missione, ci mette tutta la passione e alla fine riesce a vincere le diffidenze dei fedeli, continuando a esibirsi anche nelle chiese: Sorella Rosetta canta per il Cielo, e non c’è nessuna differenza se il suo canto si leva da un altare o da un fumoso locale notturno. Gira la nazione a bordo di un autobus col suo nome scritto sulla fiancata, prototipo dei leggendari «Tour Bus» che nella mitologia rock dei decenni a venire saranno scenario di eccessi e bagordi inimmaginabili. Ma a Rosetta il bus serve per motivi meno piacevoli: nell’America del dopoguerra non è facile trovare alberghi che accettino clienti di colore, quindi conviene viaggiare con un mezzo su cui si può dormire comodi.
Nel suo continuo vagare, un giorno Rosetta scopre Marie Knight, contralto formidabile, e insieme cominciano a duettare in giro per l’America. Sono due donne coraggiose, formano una coppia che non è solo artistica, e sono decise a viaggiare e cantare per sempre. O almeno fino a una notte del 1950, in cui la madre di Marie e due figli piccoli muoiono in un incendio, la Knight è distrutta e sparisce, e Rosetta torna di nuovo sola. A gestire un successo sempre più grande.
Negli anni Quaranta e Cinquanta è una stella assoluta, e tra gli ammiratori catturati dal suo modo aggressivo di suonare, noncurante dell’etichetta e delle buone maniere, ci sono ragazzi di belle speranze come Elvis Presley, Jerry Lee Lewis, Chuck Berry, Johnny Cash e Little Richard, che la citeranno sempre tra le loro maggiori influenze. Ma Rosetta non è ancora pronta a cedere il passo, e nel 1951 annuncia che si sposerà, al gigantesco Griffith Stadium di Washington DC, e canterà in abito nuziale. I 25 mila biglietti vanno subito esauriti, e la Decca stamperà un disco-documento dell’evento. Tutto perfetto insomma, manca solo un dettaglio: lo sposo. Che si troverà a pochi giorni dal matrimonio.
Sarà proprio l’arrivo del rock’n’roll a rubarle l’attenzione del pubblico. Che adesso vuole impazzire per cantanti giovani, vuole bei ragazzi maledetti che i genitori non approvano, mica una signora sui cinquanta che canta di non bere e non fumare se speriamo di salire sul treno diretto alla Gloria. E quindi la fama cala, le serate pure, e Rosetta si trasferisce a Philadelphia con marito e mamma, per quella che sembra la fine della sua lunga avventura itinerante. Ma non è così. In Inghilterra scoppia la mania del blues, l’Europa celebra i maestri del genere e Rosetta è chiamata a suonare nel Vecchio Continente, per influenzare un’altra generazione di musicisti. Stregherà Ginger Baker, futuro batterista dei Cream, e nel 1964 il pubblico televisivo inglese resta sbalordito quando, sotto una pioggia incessante, questa signora sovrappeso con cappottone color panna e capelli bianchi sale sul palco, saluta cortese e poi imbraccia una clamorosa Gibson Les Paul, la stessa chitarra che sarà compagna fissa di musicisti come l’oscuro Tony Iommi dei Black Sabbath e Angus Young, l’adolescente indemoniato degli Ac/Dc. La signora aggredisce lo strumento, alza le mani al cielo e poi torna a picchiare sulle corde come se fosse il giorno del Giudizio. E Bob Dylan ricorda: «Sublime, splendida, una grande forza della Natura… Sono sicuro che tanti ragazzi inglesi hanno preso in mano una chitarra dopo averla vista suonare quella sera».
Ma gli anni passano, sua madre Katie muore e Rosetta cade in depressione. I soldi finiscono, e il diabete le farà perdere una gamba. Lei non si arrende e dichiara: «Tornerò a suonare. Non vi dico quando, ma tornerò». E invece no. Nel 1973 Sister Rosetta muore. Al funerale solo gli amici più stretti, e l’arrivo inatteso della vecchia compagna Marie Knight, che prima dell’ultimo viaggio la trucca e la pettina come la regina che è. La sua tomba a Philadelphia rimane a lungo anonima, perché il marito non vuole pagare per una lapide. Che verrà eretta solo nel 2008, coi soldi di un concerto appositamente organizzato. Sopra si legge «Sorella Rosetta, leggenda della musica gospel. Cantava fino a farti piangere e poi cantava fino a farti ballare di gioia». Nel frattempo il rock è nato, è cresciuto e ha conquistato il mondo. Accompagna la ribellione giovanile e scandalizza bigotti e benpensanti, che lo accusano di inneggiare alle droghe, alla violenza e pure al satanismo. E sembra così strano che tra i suoi genitori ci sia una gentile signora di colore, Sorella Rosetta, vissuta per cantare le lodi di Gesù. Ma come ricorda uno dei suoi successi, Strange Things Happen Every Day: ogni giorno capitano cose strane. E una cosa strana, e favolosa, è stata l’avventura di Sister Rosetta Tharpe.”