L’amore sopra ogni cosa

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Nella rubrica Ădāmà su Jesus di maggio 2014, Gabriella Caramore scrive:
“Perché le religioni, mi chiedevo il mese scorso in Ădāmà, se il mondo sembra procedere, per lo più, senza bisogno di riferirsi a un Dio, o a una sapienza codificata, o a grandi figure spirituali, e sembra non avere sete d’altro che di sé stesso, e del proprio inoltrarsi convulso e inconsapevole verso la catastrofe? Una prima risposta la rinvenivo nel fatto che ciò che ha dato vita alle grandi tradizioni religiose è la stessa sete di conoscenza che ha dato origine al sapere filosofico, scientifico, morale, politico di tutta la storia dell’umanità.
Ma vi è un’altra “spinta” che ha contribuito al sorgere delle religioni, alle loro scritture, alle loro storie, alle loro aggregazioni: quella di alleviare le sofferenze di uomini e donne, di dare un senso al dolore, quando non lo si possa estinguere del tutto, quella di contenere le forze distruttive che abitano il cuore dell’uomo. In una parola, il tentativo di fare comunità, di creare società, di costruire convivenza.
Quando a Gesù viene chiesto – come si racconta nei Vangeli sinottici – quale sia il comandamento più grande, in una sintesi geniale accosta due versetti della Bibbia ebraica, e risponde che, alla fine, vi è un solo comandamento: quello di amare l’unico Dio e di amare chiunque ci si presenti come prossimo. Se ci si china sul prossimo con amore, si ama anche Dio. E se si ama Dio, questo amore si manifesta nella cura del prossimo. Ma se noi allarghiamo lo sguardo al di fuori dell’orizzonte giudaico e cristiano, troviamo affermazioni analoghe in tutte – ma davvero tutte – le altre sapienze: nei grandi poemi indiani e nei discorsi del Buddha, nei pensieri di Confucio e nelle massime del Dao, nel jainismo e nello zoroastrismo, nella sapienza latina e nei discorsi del profeta Muhammad. Questo, in definitiva, il “programma” di ogni religione, che sfocia fino al grande mare della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “Ciò che tu non vuoi che ti venga fatto, non farlo a nessun altro”.”

Un orizzonte nuovo

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Capita spesso in classe di parlare dei social a vari livelli, a seconda delle classi. Ecco, questo articolo, preso dal sito di Giovanni Grandi, ricercatore in filosofia morale, è per le classi più esperte, ma con un po’ di concentrazione è utile a tutti 🙂

“Non occorre trovarsi ad un incontro con il Papa: basta essere ad uno spettacolo di fine anno alla scuola dell’infanzia – l’asilo, per la mia generazione – per vedersi levare immancabilmente una selva di schermi tra telecamere (sempre meno) tablet e smartphone (sempre più). Impossibile vedere oltre. Che alle volte è più semplice guardare la scena dallo schermo del tablet di chi sta due file più avanti. Provavo a sorridere a proposito della funzione dello “schermo”, che originariamente è quella di proteggere, di riparare, di mettersi in mezzo ma proprio per creare distanza. Oppure per impedire dispersioni, specialmente – e non senza umorismo – nel caso dei “cavi schermati” che impieghiamo nelle telecomunicazioni. Questo significa “schermare”. È allora paradossale la funzione dello schermo delle nostre appendici tecnologiche: si mette di mezzo tra noi e quel che ci sta di fronte non più per proteggere e custodire, ma per esporre e diffondere esponenzialmente.
Alessandra de Paola (@amedepaola) da twitter suggeriva che si tratta di un’eco della nostra solitudine: «Se qualcosa non sta sulla tua timeline esiste solo per te: è la foto di quanto ci sentiamo soli e abbiamo bisogno di comunicare».
È interessante l’idea per cui oggi rischia di esistere solo quello che riusciamo ad esibire, a mostrare, anche dei nostri vissuti. Alle radici di questa deriva non vedo però il demone della tecnologia, ma forse qualcosa di meno appariscente su cui varrebbe la pena di sostare.
Il raccontare e il raccontarsi è un elemento strutturale della nostra umanità. È nella narrazione che si creano relazioni, che si strutturano eredità e tradizioni. Se la cultura semita puntava sull’ascolto, la cultura greca ha fin da principio fatto leva sulla visione: dalla prima abbiamo ereditato l’opzione preferenziale per la scrittura, dalla seconda quella per la monumentalità. In entrambi i casi però quel che veniva trasmesso non era la riproduzione immediata del reale. La Sacra Scrittura non è una cronaca di eventi, neppure quando fa riferimento a fatti attestabili secondo i moderni criteri storiografici. Neanche i monumenti greci, con le loro storiografie visuali volevano essere una riproduzione pedissequa del reale. I media antichi non erano semplicemente cronache: erano narrazioni in cui il cuore era costituto da un tassello di sapienza. Come dire: attraverso questi eventi, rielaborando queste esperienze, abbiamo compreso che…
Quello che mi colpisce di molte nostre narrazioni contemporanee è che somigliano sempre di più a delle telecronache, in cui il messaggio di fondo rischia di essere semplicemente “io c’ero”, “io sono qui” (I’m at…) o “guardate che bello”. Nulla di discutibile nel realizzare un’istantanea, il punto non è questo.
Il punto è se, nel tempo, ho modo di ritornare su quell’esperienza che ho avvertito la necessità o di condividere in diretta, per estrarne un tassello di sapienza, di maggiore comprensione della vita. Il punto è se dietro all’evento c’è una scoperta, che a sua volta vale la pena di condividere, di far circolare. Quel che mi lascia perplesso nelle nostre narrazioni è l’inflazione di eventi e la deflazione delle scoperte di sapienza. Se impieghiamo tutto il nostro tempo a far rimbalzare in diretta telecronache di eventi, quanta attenzione ci rimane per sostare sui vissuti e perlustrarli con pazienza, alla scoperta di profondità meno appariscenti, di significati e lezioni stimolanti per maturare in umanità?
Potrebbe essere allora interessante mettersi alla prova: tra gli eventi di cui ho riferito e che ho esibito nella mia timeline (specialmente sui social) della scorsa settimana, ce n’è almeno uno che oggi posso raccontare nuovamente, perché non ha il gusto stantio della cosa passata ma quello frizzante di un orizzonte nuovo che ho scoperto?
Riabilitare (o quantomeno sostenere) la capacità narrativa come rielaborazione del messaggio dei vissuti potrebbe essere una sfida interessante. Perché non pensare qualche workshop in questo senso, specialmente lì dove si lavora sulla valorizzazione dei social media e degli strumenti di interazione che oggi abbiamo a disposizione?
Gran cosa se il social fosse un amplificatore di human wisdom…”