Gemma n° 2247

“Ciao piccola G.,
finalmente sei maggiorenne, non è proprio come te lo eri immaginato ma infondo non è così male.
Da dove cominciare? Ci sarebbero tante cose da dirti. Non abito più a Roma, inaspettato vero? sì anche per me, so che ami tanto quella città  ma non hai potuto farci nulla e ti sei dovuta trasferire a Udine, sempre meglio di tutte le precedenti proposte di papà. La Germania, la Svizzera, l’Austria, l’Ungheria, la Romania anche se per quest’ultima non vale. Ci andrò questa estate, non in vacanza come al solito, bizzarro anche questo? Ricordo come piangevi perché non volevi trasferirti lì ma crescendo hai capito di dover dare un’opportunità anche a quel luogo. In fondo hai pure una casetta carina, eh sì non dobbiamo più dormire sui divani dei vari parenti. Hai trovato lì anche persone con cui ti diverti e con cui hai vissuto tante avventure. Adesso hai anche un piccolo cane, beh oddio ha 4 anni e mezzo e pesa 7kg quindi tanto piccolo non è, si chiama Ivy e nonostante tutti dicessero che ti saresti stufata è diventata letteralmente tua figlia. In primavera facciamo lunghe scampagnate con la bici e lei ovviamente è nel cestino. So che non è un periodo felice per te ma purtroppo andrà peggio. Cadrai tante volte e ti sembreranno senza uscita ma, a volte da sola, a volte con l’aiuto di alcune persone che ti hanno voluto bene, sei riuscita a superarle. Finalmente ho fatto la richiesta per la cittadinanza, specialmente per te in modo che nessuno possa più dire che non sei italiana. Ho iniziato scuola guida, sta andando benino. Ho deciso di fare l’università, contro ogni pronostico e contro l’opinione di tutti, imparando anche dallo sbaglio nella scelta del liceo. Certe cose non sono mai cambiate, il tuo amore per la neve, il mare, le passeggiate nella natura, fare gite, escursioni, visitare luoghi, i lamponi raccolti dall’orto della nonna. Purtroppo non si è mai instaurato quel rapporto che avresti voluto con i nonni, un po’ con tutti i parenti data la lontananza. La cosa più bella dopo l’arrivo di Ivy è stata sicuramente l’incontro di una persona speciale, il nostro rapporto non è perfetto come tutti i rapporti, però ho finalmente trovato una persona uguale a me che mi capisce.
Ti riscriverò tra qualche hanno per vedere come saranno cambiate le cose.”
(G. classe quinta).

Gemma n° 2210

“Nel video motivazionale che io e il mio compagno D. abbiamo deciso di portare come gemma, vediamo un omino apparentemente insoddisfatto della sua vita, prigioniero delle sue stesse cattive abitudini. Questo omino viene posto davanti a una scelta, prendere la pillola blu o la pillola rossa. La pillola blu rappresenta il bene e il successo, mentre la pillola rossa rappresenta la miseria e la mediocrità. Scegliendo la pillola blu, l’omino sarebbe in grado di cambiare la sua vita seguendo gli esempi di tutte le persone che vengono rappresentate durante il video, arrivando a sentirsi soddisfatto della vita che sta vivendo e orgoglioso degli obiettivi che ha raggiunto o che sta raggiungendo. Scegliendo la pillola rossa invece, l’omino continuerebbe a vivere la vita insoddisfatta che fin a questo momento aveva vissuto, permettendo alle cattive abitudini e ai propri vizi di prendere il controllo della sua vita, rendendolo triste e insoddisfatto.
A febbraio del 2022, io e il mio amico D. abbiamo deciso di intraprendere un percorso insieme in palestra, che durante il passare del tempo si è rivelata essere una nostra passione, nonché ormai una nostra attività quotidiana. Parlando e confrontandoci, ci siamo resi conto di esserci sentiti entrambi come l’omino all’inizio del video, ma ci siamo resi conto anche di quanto siamo migliorati entrambi grazie all’aiuto dell’altro. Ogni giorno cerchiamo di spronare l’altro a migliorare ed è anche per questo che ci siamo sentiti rappresentati da questo video, ogni giorno ci sentiamo come se dovessimo prendere una decisione importante, prendere la pillola blu e dare il meglio di noi stessi per poter migliorare, oppure prendere la pillola rossa e continuare a essere le persone che siamo ogni giorno.”
(V. e D. classe quarta).

La domanda e la risposta

Scrivo sul blog, forse metterò qualcosa su Instagram e Twitter, di certo non su Facebook, social in cui resto solo per informarmi o mantenere relazioni altrimenti destinate a perdersi (non mi meraviglio che i ragazzi non lo frequentino: lo conoscono). Pubblicherò il solito “Nuovo post sul mio blog”…
Stamattina, insieme a delle colleghe, ero per strada e in piazza in mezzo a loro. Passo buona parte della mia giornata in mezzo a loro, in presenza fisica o mentale (anche se non li vedo, li penso, penso a quello che scrivono, raccontano, esprimono…). Li sento discutere, parlare, chiedere; li vedo ascoltare, appassionarsi, interrogarsi.
“Prof, cosa dovremmo fare domani?” mi hanno chiesto ieri in una classe prima. “Non vi dirò cosa dovete fare. Parlatene a casa, discutetene con i genitori, con fratelli, sorelle, conoscenti, fatevi un’opinione e la scelta arriverà”. Stamattina alcuni erano in piazza, alcuni erano in classe. Bravi! Bravi questi e bravi quelli se la scelta è ponderata, se si sono informati prima di scegliere e decidere: non siete rimasti a casa. In piazza c’era sicuramente chi rideva e chi era lì senza sapere perché; ma tanti, tantissimi, erano lì consapevolmente, consci della loro presenza, in ascolto di chi prendeva la parola (applaudivano, annuivano, negavano: ascoltavano). Non hanno bisogno del cinismo mascherato di realismo di adulti delusi. Se non ci credono loro, chi ci deve credere? Sono a chiedere a chi ha il potere di farlo di prendere delle decisioni! Sono a chiedere a chi ha paura di fare scelte impopolari perché corre il rischio di non essere rieletto, di fare scelte impopolari. E sono a chiedere a noi adulti di stare dalla loro parte perché ci conoscono troppo bene e sanno che li guarderemmo dalle finestre liquidandoli con un “eh, son ragazzi… anche io alla tua età…”. Invece no, noi adulti, sappiamo perfino sorprenderli! Già! Sappiamo fare di peggio: non li compatiamo con un benevolo sorriso, ma li attacchiamo! Scriviamo sui social che devono vergognarsi, che non sanno perché son lì, che vogliono solo fare vacanza, che non sono coerenti. Siamo adulti tristi. E’ lì che va cercata la risposta alla domanda “Perché non abbiamo fatto niente quando potevamo fare qualcosa?”.

Additare ciò che è nascosto

Sabato 2 febbraio, all’interno di Contromafie organizzato a Trieste da Libera, ho partecipato al gruppo di lavoro “Dalla Mala del Brenta alle mafie di oggi nel Nord-est: dalla percezione alla realtà”. Non sono passati neanche 20 giorni ed ecco che, stamattina, mentre andavo al lavoro e ascoltavo il radiogiornale, mi sono imbattuto in una notizia dell’ultima ora che annunciava un blitz anticamorristico tra Veneto e Campania. Ecco la notizia pubblicata poi su La Nuova Venezia.

Torno però al 2 febbraio per fare un resoconto del primo intervento. A guidare i lavori è stato Lorenzo Frigerio, coordinatore di Liberainformazione. Ha presentato il seminario, utile a dare voce al territorio del Nordest: gli Stati Generali di Libera avvengono generalmente ogni 3-4 anni e gli ultimi si sono tenuti proprio nel 2018 a Roma. Perché usare questo strumento qui ora? Ci si è accorti che quest’angolo del Paese non era stato ben illuminato. Il 21 marzo la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie si terrà a Padova ed è emersa la necessità di fare il punto della situazione. “Non ci sono state grandi operazioni di contrasto alle mafie che abbiano determinato nell’opinione pubblica una particolare attenzione o una levata di scudi come può essere stato” in Lombardia, Piemonte o Emilia Romagna. “Questo non significa che l’attività di contrasto alle mafie in questi territori non sia stata fatta, diciamo che non c’è stata la rilevanza, anche mediatica, dei fatti”. L’intento è anche quello di dare spazio alla profondità di un’analisi che spesso sui giornali non viene resa e che le testate nazionali non rilanciano quando anche ci sono degli approfondimenti di valore fatti su questo territorio, tanto in termini giornalistici quanto in attività di contrasto.

La parola è quindi passata a Fabiana Martini, coordinatrice per il Friuli Venezia Giulia di Articolo 21. Ecco il suo intervento:
“Articolo 21 è un’associazione fatta non soltanto da giornalisti ma anche da esponenti del mondo della cultura, dello spettacolo, da giuristi, economisti, chiunque in qualche modo condivida l’obiettivo dell’associazione, che è quello di promuovere il principio della libertà d’espressione, quindi il principio contenuto proprio nell’art. 21 della nostra Costituzione. Infatti il sottotitolo dell’associazione è “il dovere di informare, il diritto ad essere informati”. Articolo 21 è nata quasi diciassette anni fa, il 27 febbraio 2002, un po’ a seguito del cosiddetto “editto bulgaro” emanato nei confronti di Biagi, Santoro e Luttazzi. Molte poi sono state le iniziative promosse attraverso il sito internet e attraverso azioni e prese di posizione o adesioni a iniziative promosse da altri sui territori per denunciare anche episodi di censura, di intimidazione, di mobbing subiti da singole persone, da associazioni, sia nel nostro paese che all’estero. Articolo 21 nasce anche con lo spirito di essere rete delle reti, mettere in connessione varie esperienze associative: un esempio è la collaborazione con Libera. Non è quindi un’associazione nata a difesa della categoria giornalistica, ma a difesa della democrazia, nella convinzione che senza informazione e senza libertà di stampa non c’è vera democrazia: l’informazione dovrebbe fornire gli strumenti per poter scegliere da che parte stare. Il dato inquietante è il fatto che un sacco di gente ha scelto la neutralità, continua a scegliere di non stare da nessuna parte e questo non va bene in una democrazia in cui si è chiamati, attraverso il voto e attraverso le scelte quotidiane, a schierarsi, a stare da una parte o dall’altra. “In una democrazia il diritto a un’informazione libera, autonoma e indipendente, è un diritto fondamentale, al pari della libertà d’espressione” scrive il giornalista Paolo Borrometi nel libro “Un morto ogni tanto”. Paolo è il presidente nazionale di Articolo 21 e collaboratore di Libera. In questo libro parla della sua battaglia contro quella che lui definisce la mafia invisibile, quella della Sicilia sud orientale, quasi sempre sottovalutata, ma, a detta di Paolo, riconoscibile già molti anni fa se solo la si fosse voluta vedere. A differenza di altri, Borrometi non ha chiuso gli occhi e da anni denuncia sul suo sito indipendente gli intrecci tra mafia e politica e gli affari sporchi che fioriscono all’ombra di quelli legali; un lavoro che lo costringe da anni a vivere sotto scorta in seguito ad un’aggressione subita nell’aprile del 2014 che lo ha lasciato menomato fisicamente. Ha continuato a ricevere intimidazioni e minacce di morte, l’ultima poche settimane fa. Ho voluto citare la vicenda di Paolo per mostrare quello che dovrebbe fare il giornalismo: far vedere ciò che è opaco, diffondere ciò che qualcuno non vuole che si sappia, “additare ciò che è nascosto” come sostiene Verbitsky, provare a essere un antidoto alle rimozioni collettive e ai depistaggi, ma anche uno strumento contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, gli errori del governo. Articolo 21 cerca di essere tutto questo sia a livello nazionale che a livello locale, promuovendo sul territorio dei presidi. Quello del Friuli Venezia Giulia è nato nel maggio del 2017. Per la formazione ci siamo concentrati su tre tematiche: i migranti, la violenza contro le donne, l’hate speech.
In merito alla libertà di stampa ricordo l’iniziativa di qualche mese fa a sostegno delle due testate giornalistiche de Il Manifesto e Avvenire che sono state censurate dal Comune di Monfalcone che ha deciso di ritirarle dalla pubblica lettura in biblioteca, interrompendo gli abbonamenti. Nonostante ci sia stata poi la sottoscrizione promossa da alcuni cittadini per riattivare gli abbonamenti, i due giornali sono stati confinati prima in una casa di riposo, con la scusa che vengono letti solo dagli anziani, e poi presso l’Ufficio Relazioni con il Pubblico, quindi in un luogo differente da quello in cui le persone vanno a leggere i giornali. Abbiamo promosso un incontro molto partecipato, benché in un pomeriggio feriale, in una sala parrocchiale; avevamo chiesto una sala al Comune di Monfalcone invitando anche la sindaca, ma ella ha ritenuto di non partecipare e di non concedere la sala. Erano presenti più di 100 persone e hanno presenziato il direttore di Avvenire Marco Tarquinio e la direttrice de Il Manifesto Norma Rangeri e abbiamo sviluppato un dibattito insieme al presidente dell’ordine, a Paolo Borrometi, al Presidente del Sindacato e anche col direttore del Primorski dnevnik, quotidiano degli sloveni d’Italia.
Un sostegno molto forte è stato dato poi alla mostra sulle leggi razziali promossa dal Liceo Petrarca di Trieste, e organizzata in occasione degli 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali che è avvenuta proprio qui, in Piazza Unità, e rispetto alla quale c’era stato un tentativo di censura da parte dell’Amministrazione comunale, poi rientrato in seguito alla presa di posizione e alla mobilitazione della città e non solo della città.
Si sono fatti e si fanno anche degli interventi nelle scuole proprio in merito all’art. 21 della Costituzione, per una sua rilettura e attualizzazione.”



La tentazione del potere

Vangelo di ieri, prima domenica di Quaresima. L’episodio è quello delle tentazioni (chi lo conosce può saltare tutta la parte in corsivo):
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».
Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano. (Mt 4,1-11)
Desidero pubblicare ora tre rese cinematografiche di una delle più grandi tentazioni per l’uomo contemporaneo, quella del potere, che poi ritengo essere essenziale: il desiderio dell’uomo di essere dio, di farsi divinità esercitando la forza per i propri fini personali.
Il primo episodio è tratto dal film Jesus, miniserie televisiva diretta da Roger Young nel 1999. In rete ho trovato solo la versione in inglese, ma è sufficiente notare quante volte venga ripetuto il termine “power” e poi la sequenza tra il minuto 3.50 e 4.30 circa, per rendersi conto di quanto il tema del potere sia centrale.


In maniera diversa viene trattato l’argomento in una delle sequenze finali di “L’avvocato del diavolo”. Qui il riferimento non è più il Vangelo, anche se il protagonista è senza dubbio di origini religiose. Al Pacino incarna il diavolo e si può assistere a uno dei suoi più grandi monologhi in cui accusa Dio di essere un moralista, un sadico, un padrone assenteista, un guardone giocherellone, causa del senso di colpa dell’uomo, mentre definisce se stesso come un fanatico dell’uomo e l’ultimo degli umanisti, con il XX secolo che lo fa essere all’apice dell’esistenza.


Infine, per sorridere un po’, una breve sequenza tratta da “Una settimana da Dio”. Il protagonista Bruce (Jim Carrey) ha appena ricevuto da Dio (Morgan Freeman) la possibilità di prendere il suo posto per una settimana; al di là di quello che succede in questa brevissima sequenza di un minuto, voglio porre l’attenzione sulla musica scelta per accompagnare i trucchetti di Bruce. Si tratta del brano della band tedesca Snap dal titolo “The power”…

Raffiche di bora

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Una riflessione di Giovanni Grandi, professore associato di Filosofia Morale presso l’Università degli Studi di Padova. Molti gli interrogativi che è in grado di sollevare.

Nelle giornate invernali di maltempo, specie se sferzate dalla Bora, il Carso riesce a farsi interprete di quell’angoscia che qualcuno più di altri si porta dentro. Le raffiche che alternano sibili e ululati sembrano inseguitori che non danno tregua, come certi pensieri opprimenti che incalzano di continuo togliendo il fiato. I boschi mezzi spogli, le latifoglie nude e scheletriche – che pure rifioriranno, ma non lo danno a vedere – si fanno specchio di ogni sentimento di resa. A uno di quegli alberi, una ventina di anni fa, era appesa una persona. E quello era il mio primo intervento di ricerca disperso, appena entrato in organico del Soccorso Alpino.

Nei frangenti dell’aiuto rischioso – come l’ha chiamato Spiro Dalla Porta Xydias – prima o poi si scopre che c’è anche lo spazio per i rinvenimenti più inquietanti e drammatici: cerchi di correre per portare in salvo una vita, ma questa nel frattempo cercava e ha trovato la morte. Quell’esperienza mi è tornata ancora una volta in mente in queste ore di interrogativi sulla vicenda di Dj Fabo.

Quando una persona sceglie di morire in un luogo poco raggiungibile, dopo il ritrovamento può capitare che ci voglia del tempo prima di poter rimuovere la salma: occorre attendere il medico legale e le autorizzazioni necessarie a procedere. Quel tempo – che in qualche circostanza può essere anche di alcune ore – è densissimo, e ciascuno prova letteralmente a ingannarlo come può, perché è un tempo carico di angoscia. C’è chi pronuncia tra le labbra una preghiera, chi si allontana un po’, chi si concentra sulle procedure, chi prova a sdrammatizzare con una battuta, chi guarda senza dire nulla, mentre il nodo alla gola se lo sente addosso.

Dinanzi a chi ha scelto la morte – molto più che non dinanzi a chi “semplicemente” è morto – ciascuno è come se si sentisse obbligato a dire perché vive, con la parola o con le movenze. In quei frangenti, e da cenni minimi, intuiamo che c’è chi vive lottando con l’Assoluto, chi cercando il distacco da dolore e inquietudini, chi vive per far funzionare il mondo, chi per renderlo meno serioso… Come pure c’è chi quella domanda sul senso del vivere non riesce a deglutirla e d’altra parte neppure a evitarla, sentendola aleggiare in un silenzio interiore scomodo, importuno, non risolvibile distraendosi un po’.

La morte scelta, per chi la accosta in prima persona, si trasforma in uno specchio, in cui ognuno vede svelato (e tende a rivelare) quel che dà consistenza alla propria – improvvisamente non più ovvia – scelta di vivere. È con questo personalissimo “tesoro nascosto” di motivazioni ed energie – e non con un più o meno fornito arsenale di valori astratti – che ciascuno poi si presenta agli appuntamenti faticosi dell’esistenza. Che non sono unicamente le situazioni limite, ma tutte quelle in cui rimanere lì dove si è chiede delle risorse spirituali capaci di bilanciare la fatica e lo star male per i pesi che gravano sulle spalle.

Forse è vero che ad ogni cambio di passo nella vita la decisione è se rimanere o andarsene. L’evangelista Giovanni ce lo ha mostrato anche nella storia dei discepoli di Gesù di Nàzaret, spaventati dalla durezza delle prospettive di passione e sollecitati dal maestro a misurarsi con la loro verità interiore proprio con questa domanda: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67).

Quel paio di scarpe da tennis un po’ infangate, sospese nel vuoto all’altezza degli occhi, mi interrogano ancora dopo vent’anni, e continuano a farlo non a proposito della mia libertà di andarmene – come avrei preferito allora, in quel bosco – ma della mia capacità di restare – ovunque la vita mi chieda fedeltà. L’effetto specchio, quando il contatto con la morte scelta è diretto, protegge dal farsi giudici del dramma di un’altra persona, ma allo stesso tempo espone implacabilmente all’autoanalisi. È una lezione doppia, in un’unica tessitura, che non si dimentica.

Oggi avverto con forza che anche quando discutiamo di vicende a noi distanti esistenzialmente, l’interrogativo sulla capacità di rimanere e di assorbire gli urti della vita non può essere distorto in una valutazione sulla resistenza altrui.

Non può però nemmeno esaurirsi nel dibattere della ridefinizione dei margini legislativi per andarsene.

Quell’interrogativo va onorato per quel che propriamente ci sollecita a saggiare: per che cosa scegliamo di vivere? Quanto questo “tesoro nascosto” nutre la nostra capacità di restare? Crediamo che la nostra fedeltà alle situazioni faticose – almeno fino a un certo punto – sia un bene di umanità per tutti? Abbiamo qualche possibilità per rinforzarci interiormente?

Come ogni morte scelta, anche il suicidio assistito di Fabiano Antoniani inevitabilmente ci sta provocando, ci scuote dalla nostra routine, ci mette allo specchio. Ma sapremo non disgiungere la riflessione legislativa sulla libertà di andarsene da quella esistenziale sulla (nostra, personale) capacità di restare? Credo che solo conservando intatta questa “figura di coppia” potremo evitare che la giusta riflessione sulle situazioni limite non alimenti sottotraccia una cultura ordinaria del sottrarsi e l’illusione che felicità faccia rima con facilità.

Come insegnava Maritain, l’umano si gioca più di quanto immaginiamo sulla accortezza del distinguere per unire: vale forse la pena di ricordarlo meditando e discutendo con altri dei fatti di questi giorni”.

Conoscere per scegliere

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Carlo Alberto Redi è “professore ordinario di Zoologia presso l’università di Pavia e professore a contratto presso l’Istituto Universitario di Studi Superiori. Accademico dei Lincei e socio onorario della società genetica del Cile” (fonte wikipedia). In un breve articolo comparso su La Lettura del 22 gennaio si interroga sul rapporto tra biologia ed etica. Inizia così: “Il Dna è divenuto l’icona della nostra era: dopo il secolo della chimica (Ottocento) e della fisica (Novecento), siamo ora nel millennio delle scienze della vita…”. Molte sono le discipline coinvolte dai cambiamenti e dalla scoperte in ambito biologico, argomenta: “dalla filosofia all’antropologia, dall’economia alla giurisprudenza”. Inizio e fine vita, brevetti sul vivente, esperimenti sulle cellule… sono tutte questioni biopolitiche e “gli avanzamenti del sapere lasciano intravedere applicazioni in grado di trasformare la stessa percezione di che cosa sia oggi «umano». Paure e aspettative si mischiano in continuazione, tra desiderio di progresso e timore di cosa esso ci possa riservare.
La via suggerita da Redi è quella della conoscenza. Scrive ancora: “Informarsi sui progressi della biologia diviene parte integrante della nostra cultura”. Certo non è semplice e neppure immediato, ma è necessario se si vuole essere “cittadini capaci di scegliere, in autonomia, che cosa si ritiene lecito applicare delle tante innovazioni prodotte dalla ricerca biologica”. Questa, secondo lo studioso lombardo, la via per giungere ad un “armonioso vivere sociale” in cui sono combattute le ingiustizie e si promuove “la fioritura di nuovi diritti civili”, nella direzione di una “cittadinanza scientifica”, ancora lontana da venire. Certo ci sarà qualcuno che si interrogherà se la ricerca non vada regolata ex ante piuttosto che ex post, soprattutto da parte di chi ha il potere di farlo; ed è proprio qui che si focalizza la giustificata preoccupazione di Redi: “vi è una generale ignoranza del sapere biologico da parte della classe dirigente (decisori politici, magistrati, operatori dei media)”.
Che ruolo possono avere in tutto questo studiosi e accademici? Ecco la conclusione del professore: “Ai biologi il compito di partecipare con il proprio sapere alla necessaria comune riflessione con i filosofi per indirizzare l’elaborazione delle norme da parte degli uomini del diritto”.

Gemme n° 494

Amo questo film: penso che attraverso la risata insegni tantissime cose. L’ho rivisto spesso e molti aspetti non riesco ancora a comprenderli bene. Una delle cose che mi ha trasmesso è l’importanza di cercare di cambiare fino a quando non si trova la propria strada. Penso che cambiare sia bellissimo e porti sempre a qualcosa di buono. E poi, quando abbiamo trovato la soluzione, non è detto che sia quella definitiva: possono arrivare vicende che rimettono in discussione tutto. E penso che ciò sia il bello e il brutto della vita.” Con queste parole L. (classe terza) ha presentato la sua gemma.
La scrittrice statunitense Elizabeth Gilbert (quella di Mangia, prega, ama, per capirci) ha scritto: “Se sei abbastanza coraggioso da lasciarti dietro tutto ciò che è familiare e confortevole, e che può essere qualunque cosa, dalla tua casa ai vecchi rancori, e partire per un viaggio alla ricerca della verità, sia esteriore che interiore; se sei veramente intenzionato a considerare tutto quello che ti capita durante questo viaggio come un indizio; se accetti tutti quelli che incontri, strada facendo, come insegnanti; e se sei preparato soprattutto ad accettare alcune realtà di te stesso veramente scomode, allora la verità non ti sarà preclusa”.

Gemme n° 478

Fin dalla prima volta che l’ho ascoltata, il testo di questa canzone mi ha colpito: «fabbricare quello che verrà con materiali fragili e preziosi senza sapere come si fa». A volte penso al futuro e non riesco a immaginarlo, ma penso che siamo noi a costruirlo, abbiamo in mano il materiale per farlo, possiamo deciderlo noi, è una nostra scelta. Poi penso anche che le due ragazze che si amano sia un messaggio di uguaglianza: «il loro non era un amore poi tanto diverso».” Così E. (classe terza) ha presentato la propria gemma.
E’ una canzone che mi piace molto, questa delle Luci. Penso sia venata di una malinconia aperta comunque alla speranza, al futuro e al domani. «Forse si trattava di accettare la vita come una festa, come ha visto in certi posti dell’Africa. Forse si tratta di affrontare quello che verrà come una bellissima odissea di cui nessuno si ricorderà. Forse si trattava di dimenticare tutto come in un dopo guerra e di mettersi a ballare fuori dai bar come ha visto in certi posti della Ex-Jugoslavia».

Gemme n° 465

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«Ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che incontri qualcuno al quale tu possa piacere così come sei! Quindi vivi, fai quello che ti dice il cuore, la vita è come un opera di teatro, che non ha prove iniziali: canta, balla, ridi e vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che l’opera finisca senza applausi…». Ho letto questa frase di Charlie Chaplin qualche tempo fa, quando lo abbiamo affrontato in francese. Penso siano delle belle parole sul futuro e su come affrontare la vita. Le trovo adatte a noi ragazzi dell’ultimo anno e le utilizzo per augurare a ognuno di trovare la propria strada e di fare le scelte più giuste”. Questa è stata la gemma di N. (classe quinta).
Trovo queste parole molto in sintonia con quelle, molto famose, di madre Teresa:
Non aspettare di finire l’università, di innamorarti, di trovare lavoro, di sposarti, di avere figli, di vederli sistemati, di perdere quei dieci chili, che arrivi il venerdì sera o la domenica mattina, la primavera, l’estate, l’autunno o l’inverno. Non c’è momento migliore di questo per essere felice. La felicità è un percorso, non una destinazione. Lavora come se non avessi bisogno di denaro, ama come se non ti avessero mai ferito e balla, come se non ti vedesse nessuno. Ricordati che la pelle avvizzisce, i capelli diventano bianchi e i giorni diventano anni. Ma l’importante non cambia: la tua forza e la tua convinzione non hanno età. Il tuo spirito è il piumino che tira via qualsiasi ragnatela. Dietro ogni traguardo c’è una nuova partenza. Dietro ogni risultato c’è un’altra sfida. Finché sei vivo, sentiti vivo. Vai avanti, anche quando tutti si aspettano che lasci perdere.”

Gemme n° 464

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La mia gemma sembra una bolletta, ma non lo è: in realtà si tratta di un traguardo per me molto importante. Ho partecipato ad un concorso per fare volontariato in Congo. Mi hanno presa, partirò a fine luglio e starò via un mese in un ospedale pediatrico che ospita bimbi affetti da sla, aids, malaria o diversamente abili. Sono ospitati circa 800 bambini. Non so ancora bene di preciso cosa dovrò fare, probabilmente un po’ di animazione o insegnamento di grammatica basilare francese. Per me è un sogno che si avvera, sono molto contenta ed emozionata per le incognite che mi aspettano. L’idea del volontariato è qualcosa che noi tutti dovremmo perseguire nel nostro piccolo.” Questa è stata la gemma di M. (classe quinta).
Questa gemma mi è risuonata nel cuore durante questo fine settimana in cui si è celebrato a Roma il Giubileo dei Ragazzi. Riporto un brevissimo passo delle parole del papa: “… solo con scelte coraggiose e forti si realizzano i sogni più grandi, quelli per cui vale la pena di spendere la vita. Non accontentatevi della mediocrità, di “vivacchiare” stando comodi e seduti; non fidatevi di chi vi distrae dalla vera ricchezza, che siete voi, dicendovi che la vita è bella solo se si hanno molte cose; diffidate di chi vuol farvi credere che valete quando vi mascherate da forti, come gli eroi dei film, o quando portate abiti all’ultima moda. La vostra felicità non ha prezzo e non si commercia; non è una “app” che si scarica sul telefonino: nemmeno la versione più aggiornata potrà aiutarvi a diventare liberi e grandi nell’amore”.

Gemme n° 422

A volte mi riconosco in Novecento e credo che l’età in cui siamo sia critica, non siamo né bambini né adulti. Penso che quella scaletta di Novecento, per noi, possa fungere da slancio: il mondo avanti è infinito con miliardi di scelte, sotto c’è l’oceano in cui rischiamo di affondare, dietro c’è la nave, il nostro guscio in cui abbiamo vissuto a lungo. Guardando avanti abbiamo paura per quello che potrebbe esserci e temiamo di essere l’ultima ruota del carro. Queste sensazioni ed emozioni le provo, anche se cerco di soffocarle perché magari non è ancora il momento di preoccuparsi; tuttavia le scelte che devo fare mi fanno già pensare, mi fanno paura”. Questa è stata la gemma di C. (classe seconda).
Nella canzone “E’ necessario” i Tiromancino cantano: “Io so che non è facile riuscire a proiettarsi nel futuro immaginando come sarà la vita andando avanti; le scelte che farò saranno sempre più importanti dei dubbi che ho che oggi sono ancora tanti”. Da un lato ci sono sicuramente la paura e il timore, ma dall’altra c’è anche la possibilità di mettersi in gioco, di sentirsi padroni della nostra vita, registi e non attori o spettatori dell’esistenza.

Gemme n° 280

Ho portato come gemma l’episodio finale della mia serie preferita di questa estate; l’ho trovata fantastica perché non superficiale. Due poliziotti indagano su degli omicidi a sfondo satanico. La cosa bella è che secondo me emergono tematiche importanti come il conflitto tra bene e male, o quello tra vita e morte, l’amore. In questo dialogo finale, secondo me, emergono…”. Questa la gemma di F. (classe quinta).
Questa citazione di Oscar Wilde, secondo me, ben si adatta alla scena del film: “Bene e male, peccato e innocenza, attraversano il mondo tenendosi per mano. Chiudere gli occhi di fronte a metà della vita per vivere in tranquillità è come accecarsi per camminare con maggior sicurezza in una landa disseminata di burroni e precipizi”.

Le 12 tesi di Spong. 9

Pubblico la nona tesi di John Shelby Spong. Qui la cornice di inquadramento del suo lavoro e qui la fonte.

Non c’è alcun criterio eterno e rivelato, raccolto nella Scrittura o in tavole di pietra, che debba sempre reggere il nostro agire etico.
È Dio che ha redatto i Dieci Comandamenti? Naturalmente no. (…). Un dato interessante della storia biblica è che i Dieci Comandamenti non erano al principio leggi con validità universale. Erano pensati solo per reggere le relazioni tra ebrei. I comandamenti dicono: “Non uccidere”. Tuttavia, nel Primo Libro di Samuele si legge che Dio istruì il profeta perché dicesse a Saul di andare in guerra contro gli amaleciti e di uccidere tutti gli uomini, le donne, i bambini, i neonati, i buoi e gli asini (1 Sam 15,1-4). (…). I Comandamenti dicono “Non dire mosèfalsa testimonianza”. Tuttavia, il libro dell’Esodo presenta Mosè nell’atto di mentire al Faraone sul perché avrebbe dovuto permettere agli israeliti di andare nel deserto a offrire sacrifici a Dio (Es 5,1-3). Il codice morale della Bibbia si conformava sempre alle necessità del popolo. Questa era la sua natura. La pretesa di una paternità divina di questo codice morale era semplicemente una tattica per garantirne l’osservanza.
Ogni regola ha la sua eccezione. (…). È male rubare? Naturalmente (…). Supponiamo tuttavia che l’oppressione dei poveri da parte dell’ordine economico sia così estrema che rubare un po’ di pane sia l’unico modo per evitare che tuo figlio muoia di fame. (…). Potremmo riportare molti altri esempi, fino a prendere atto che non esiste un assoluto etico che non possa essere messo in discussione dinanzi alle relatività della vita. Pertanto, il criterio etico definitivo non può essere trovato semplicemente rispettando le norme. (…). Quello che ci guida non sono tanto le norme quanto le mete che perseguiamo. Se la forma suprema di bontà si esprime nella scoperta della pienezza della vita, allora tutte le decisioni morali, comprese quelle in cui non è chiaro cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, devono essere prese non in accordo alle leggi morali, ma secondo il fine che si persegue. La questione che bisogna porsi in ogni azione è: questo fatto fa sì che l’umanità si espanda e si consolidi? (…) Questa azione è contraria alla vita o la rende migliore? Incrementa l’amore o lo riduce? Chiama a un senso più profondo del proprio essere o lo reprime?
Se Dio è un verbo che bisogna vivere più che un nome da definire, allora i codici morali sono strumenti che bisogna apprezzare, ma non regole che devono essere seguite. (…). Non sempre è facile adottare la decisione corretta. Non è facile essere cristiani nel XXI secolo.”

Gemme n° 221

E’ vero, la mia gemma è un cartone animato. Ma alla fine della quinta penso sia importante decidere che strada prendere; per farlo potrebbe esserci bisogno di andare contro tutti, anche contro coloro che vogliono il nostro bene. E’ difficile riconoscere la strada giusta. Qui il padre vuole proteggere il figlio ma rischia di impedirgli di vivere la sua vita, cavolate ed errori compresi. Si deve solo ascoltare se stessi, quello che ci piace, chiarirci le idee in mezzo a tutto ‘sto casino. Ecco, la mia ambizione è che vorrei aggiungere qualcosa di mio a questo mondo, creare qualcosa, sarebbe un peccato sprecare l’occasione e penso che debba cercare di farlo in tutti i modi possibili”. Queste sono state le parole con cui A. (classe quinta) ha commentato la sua gemma.
Una studentessa di quinta porta un cartone animato? Allora il suo prof risponde a tono… Con Kung Fu Panda aggiungo un elemento: la fortuna di incontrare qualcuno che creda in noi!

Gemme n° 204

Vorrei raccontarvi di quando, 2 anni fa, mi sono trasferita qui a Udine dall’estero, dove ho trascorso 12 anni.
marinaNon è stato facile, è stato probabilmente il cambiamento più grande che ho fatto nella mia vita fino ad ora. A causa di ciò ho passato periodi tristi e difficili ma adesso, quando guardo indietro, lo faccio sorridendo.
Mia madre mi aveva sempre detto che quando mio fratello avrebbe finito le superiori, ce ne saremmo tornate in Italia.
Lo ripeteva ormai da anni, lei non vedeva l’ora. A dire il vero, quando me lo diceva quando ero piccola, anche io ero felice: quel posto non mi piaceva poi così tanto, e quando venivo a Udine per le vacanze e poi tornavo la, lasciare le mie cugine e tutti gli altri, mi faceva sempre piangere. Ma mia mamma mi consolava e mi sussurrava “torneremo”. Poi sono cresciuta: la mia vita ha iniziato a definirsi, non mi mancava niente: avevo una famiglia che mi voleva bene, tanti amici, una in particolare che era per me come una sorella, una squadra di ginnastica fantastica, una bella palestra, una scuola e una casa che adoravo. Certo, abbiamo dovuto superare diverse difficoltà e momenti bui per poter riuscire ad ottenere quello che avevamo, ma diciamo che proprio non potevo lamentarmi. Come dicevo prima, mia madre mi aveva sempre detto che saremmo tornate a Udine, ma io proprio non ne volevo più sapere: la mia vita ormai era quella e quella doveva restare: non riuscivo ad immaginarmela diversamente: in un’altra città o con altre persone. Mia madre però mi convinse dicendo che almeno un anno dovevo provare a vedere come andava, così, con la certezza che questa parentesi della mia vita sarebbe durata solo 365 giorni, accettai.
Devo essere sincera: non sono riuscita a realizzare veramente quello che stava accadendo alla mia vita fino al momento in cui ho dovuto preparare delle valigie più grandi e pesanti del solito, e partire verso la mia città natale: questa volta, però, per sempre.
Settembre si avvicinava, e io ancora non riuscivo a credere che non sarei più andata nella mia scuola con i miei compagni di classe con cui ormai avevo già condiviso 9 anni della mia vita.
Ho chiuso un libro e ne ho iniziato un altro nell’arco di così poco tempo, che forse non sono mai riuscita veramente a capire cosa stesse succedendo. Sono stata catapultata in una realtà completamente diversa: tutto era più piccolo e non per questo era migliore o peggiore: era semplicemente diverso ed era proprio questo che mi spaventava.
Non mi ricordo bene i miei primi giorni a Udine e al Percoto, ero triste non tanto perché non mi piacesse, ma semplicemente perché non riuscivo ancora ad accettare il fatto di avere chiuso in una scatola 12 anni della mia vita, ed ero convinta di non essere in grado di riuscire ad aprirne una nuova, così aspettavo che i giorni passassero in modo da poter tornare nel luogo che ormai consideravo come “casa mia” una volta finito l’anno.
Anche a ginnastica era tutto diverso ed era una nuova realtà che io ancora non riuscivo ad accettare. Mia mamma non poteva sopportare di vedermi così triste e demotivata, penso che non mi avesse mai visto in quelle condizioni, e mi disse più di una volta che se era quello che volevo veramente, potevo tornare là con mio padre. Fu soprattutto per lei che mi feci coraggio e strinsi i denti, e devo dire che è soprattutto grazie alle persone che mi sono state vicine che ce l’ho fatta: a iniziare da mia madre, ma non meno importanti sono state quelle persone speciali che fin dai primi momenti mi hanno fatto sentire a “casa” come Alice, Kelly e tante altre ragazze della mia vecchia classe, senza dimenticare le mie compagne di squadra. E per questo gliene sarò sempre grata. Più la mia vita andava avanti, più tutto diventava come se fosse sempre stato così: avevo quasi l’impressione di non aver neanche mai avuto una vita diversa da questa. Tutto si stabilizzò: la scuola, i compagni, la ginnastica, grazie alla quale tra l’altro ho avuto la possibilità di partecipare ai campionati nazionali italiani, sentendomi fiera di poter gareggiare finalmente per il mio paese.
Quando verso la fine dell’anno dovetti scegliere se fare il corso Esabac oppure no, beh, avevo talmente la nausea di fare cambiamenti che in prima analisi ho detto subito di no. Poi mi sono fatta coraggio, se ero riuscita a superare un cambiamento talmente grande, questo in confronto non sarebbe stato niente: e ancora una volta, con Kelly ed Alice, abbiamo intrapreso questo nuovo percorso. Beh.. che dire? Ora la mia vita è forse ancora più bella di quella di prima, soprattutto perché sono circondata da persone che mi vogliono bene e che ci tengono a me, e di cui non potrei più fare a meno. Così anche quest’anno ho conosciuto un sacco di persone importanti con le quali riesco veramente ad essere me stessa, e non posso fare altro che ringraziarle tutte per questo.
Vorrei concludere con una frase di un anonimo che riassume un po’ tutto quello che ho detto: Don’t be afraid of change, you may end up loosing something good, but you will probably end up gaining something better.
Quindi si, è vero, ho lasciato dietro di me qualcosa di molto grande, ma la ricompensa che ho avuto è stata enorme. Quindi non abbiate paura di cambiare, di girare pagina, di bruciare libro, perché non potrete mai sapere quello che vi aspetta, e alla fin fine, nella vita, le uniche cose che si rimpiangono, sono le occasioni che ci siamo lasciati scappare.”
Questa è stata la gemma di M. (classe terza) mentre sul monitor scorrevano immagini e musiche della sua esperienza belga, frutto del dvd regalatole dai suoi compagni di strada.
C’è una canzone dei Tiromancino che parla della vita, delle scelte consapevoli, delle strade che ci hanno portato a traguardi inaspettati, dei sensi unici, delle direzioni obbligatorie… “Vorrei imparare dal vento a respirare, dalla pioggia a cadere, dalla corrente a portare le cose dove non vogliono andare e avere la pazienza delle onde di andare e venire… Ricominciare a fluire… Un aereo passa veloce e io mi fermo a pensare a tutti quelli che partono, scappano o sono sospesi per giorni, mesi, anni, in cui ti senti come uno che si è perso tra obiettivi ogni volta più grandi. Succede perché in un istante tutto il resto diventa invisibile, privo di senso ed irraggiungibile per me. … Torneremo ad avere più tempo e a camminare per le strade che abbiamo scelto che a volte fanno male, per avere la pazienza delle onde di andare e venire e non riesci a capire… Succede perché in un istante tutto il resto diventa invisibile privo di senso ed irraggiungibile, per me. Succede anche se il vento porta tutto via con sé, vivendo, ricominciare a fluire.”

Gemme n° 199

Ho scelto questa canzone perché mi piace, e perché può essere riferita alla figlia Liv, che ha saputo di essere la figlia di Steven Tyler soltanto a 11 anni; è un invito a cercare di vivere al massimo ogni cosa della vita, perché poi il momento passa”. Questa la gemma di S. (classe quarta).
Nel futuro di questi SE non manca mai il lieto fine: se non avessi detto di no a quel ragazzo ora avrei una famiglia felice, sarei un avvocato di grido e via discorrendo. Nessun disoccupato esce dalle facoltà non frequentate, nessun divorzio nelle famiglie mai nate. L’unica vera rivincita che si prende questa vita non vissuta e continuamente rimpianta è togliere ogni luce alla vita che si vive davvero” (M. Perosino, “Le scelte che non hai fatto”).

Gemme n° 174

Attenzione: spoiler grande come una vita! Il video sottostante è la scena finale di Pulp Fiction”!

Ho scelto questa scena perché mi piace il film e per il messaggio: ognuno dovrebbe scegliere il suo ruolo, da che parte stare tra bene o male”. Ecco la gemma di R. (classe terza).
Adoro Quentin Tarantino. Se danno in tv per la decima volta un suo film, per la decima volta lo vedo: non posso farne a meno, è più forte di me, anche se sono le 2.00 di notte… E allora rilancio il concetto sottolineato da R. con una citazione da Kill Bill Vol. 2.

Come sai, io sono un grande appassionato di fumetti, soprattutto di quelli sui supereroi. Trovo che tutta la filosofia che circonda i supereroi sia affascinante. Prendi il mio supereroe preferito: Superman. Non un grandissimo fumetto, la sua grafica è mediocre. Ma la filosofia, la filosofia non è soltanto eccelsa, è unica! Dunque, l’elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e un suo alter-ego: Batman è di fatto Bruce Waine, l’Uomo Ragno è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker, deve mettersi un costume per diventare l’Uomo Ragno. Ed è questa caratteristica che fa di Superman l’unico nel suo genere: Superman non diventa Superman, Superman è nato Superman, quando Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alter-ego è Clark Kent. Quella tuta con la grande “S” rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono, sono quelli i suoi vestiti; quello che indossa come Kent, gli occhiali, l’abito da lavoro, quello è il suo costume, è il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede; e quali sono le caratteristiche di Clark Kent?! È debole, non crede in sé stesso ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana. Più o meno come Beatrix Kiddo è la moglie di Tommy Plympton”.

Kierkegaard: estetica, etica, religione

Un articolo di Matteo Andriola su cui riflettere e meditare. Uno di quei pezzi che ti fanno pensare “Mmm… devo approfondire le cose”… per cui didatticamente interessante 🙂

Søren Kierkegaard, BøgerHo sempre considerato Søren Kierkegaard come un filosofo anomalo, un pensatore illuminato e affascinante, poco propenso a fornire soluzioni e risposte, quanto piuttosto orientato verso la spiegazione e l’analisi di problematiche e situazioni che lo conducono a erigere strutture di pensiero sempre figlie di profonde osservazioni e meticolose elaborazioni. Spesso per tale motivo, a torto, lo si ritiene lontano dalla grandezza di altri filosofi, ma personalmente ho sempre visto in lui un pensatore straordinario, moderno e conservatore al tempo stesso, in grado di fornire continuamente fondamentali argomenti d’indagine. Quello della “scelta” è sicuramente uno di questi.

Partendo dall’assunto che l’esistenza umana si riduca fondamentalmente alla “possibilità”, in Enten-Eller, cui la comune traduzione Aut-Aut non rende completamente giustizia, il filosofo danese presenta la celeberrima contrapposizione tra i due ideali di condotta di vita: quello estetico e quello etico. Nella vita estetica, incarnata dalla figura di Don Giovanni, dominano la fugace ricerca del piacere e dell’estemporanea ebbrezza quali condizioni tese a impedire l’incanalamento dell’esistenza verso finalità concrete e definite, strumenti atti a evitare una qualsivoglia concretizzazione dell’esperienza vitale. L’esteta infatti, di fronte alla possibilità, di fatto rinuncia a scegliere, coltivando esclusivamente l’interessante, subendo passivamente la bellezza anziché dominarla attivamente. È proprio questa vita inconcludente e incompiuta ad appagare l’esteta, che ha nella rinuncia alla scelta in luogo del godimento dell’istante, la propria esaltante vittoria. La non scelta però, teorizza Kierkegaard, violenta se stessa nel momento in cui subentra nell’esteta la consapevolezza che rifiutarsi di scegliere sia in realtà l’innesco di un rovesciamento dell’essenza stessa della possibilità che, proprio in virtù della non scelta, diviene di fatto impossibile e dunque, ciò che in prima istanza appariva appagante, in realtà non risulta tale proprio perché irresoluto e incompiuto. Senza concretizzazione, la possibilità genera quindi angoscia, e la ripetitività dell’incompiutezza vanifica un percorso, quello estetico, che porta l’esteta a “non essere” o, se si preferisce, a “poter essere” in eterno.

Kierkegaard, sulla cui filosofia le personali tribolazioni religiose e sentimentali lasciano un segno molto più netto di quanto si voglia ammettere, sviluppa una teorizzazione che spesso, troppo frettolosamente si crede di aver dominato. Infatti, occorre uno sforzo intellettuale significativo per comprendere come il pensatore danese non cada in contraddizione sostenendo che, contrariamente alla concezione che in origine convince l’esteta della propria assoluta indipendenza, la libertà risieda in definitiva proprio nella scelta che inizialmente rifuggeva, nel poter scegliere in vista di una realizzazione individuale; il soggetto estetico, se vorrà realizzare se stesso e la propria essenza, rinunciando alla condotta estetica, non potrà fare a meno di svoltare in direzione etica. La virata etica non deve ritenersi però la tappa di un naturale e progressivo percorso, quanto piuttosto un cambiamento drastico ed emotivamente violento, una presa di coscienza del nulla insito in sé o, se si preferisce, va inteso come quella scelta che l’individuo, fintanto che si trovava a vivere lo stadio estetico, rifiutava a priori e di cui in realtà era assolutamente incapace. Tra le possibilità che gli si prospettano, l’uomo etico, incarnato dalla figura del marito, diviene tale proprio sgombrando il campo dalle opzioni e decidendo di scegliere una e una sola via, quella che gli permetterà di dare concretezza a se stesso, divenendo ciò che è. Strumento determinante affinché l’esteta possa virare in direzione etica è la disperazione, quel sentimento generato dalla presa di coscienza della propria nullità. La disperazione dunque, nella concezione kierkegaardiana si configura come condizione necessaria e per certi aspetti addirittura positiva, in quanto la sola a permettere all’esteta la piena comprensione del valore della scelta. La scelta etica però, a conti fatti, è a sua volta un palliativo poiché non necessariamente salva l’individuo dall’errore del peccato, in quanto il rispetto delle norme vigenti nella società in cui vive diviene, in seguito alla scelta, una nuda e cruda conformazione alle consuetudini, un moralismo figlio di un senso del dovere scaturente dal fatto che quella determinata società impone “conditio sine qua non” il rispetto aprioristico di determinate norme. L’obbligatorietà dell’allineamento a una norma però non rende necessariamente il suo rispetto un ossequio, quanto piuttosto soltanto un accettabile compromesso, un viatico per poter vivere entro quella società che porta però l’individuo etico a sprofondare nell’abisso dell’universalità, anziché in quello della singolarità come avveniva per l’esteta. Neppure l’ideale etico dunque può considerarsi un traguardo accettabile, e il ripiegamento su Dio diviene, a giudizio di Kierkegaard, inevitabile, anche se certamente non privo di difficoltà. È ancora una volta la disperazione, peraltro consapevole, a generare quell’insoddisfazione necessaria per gettarsi a capofitto nella scelta religiosa. Si tratta della svolta più difficile e coraggiosa in quanto richiede il totale annichilimento della ragione in luogo dell’assurdo, del paradossale e dell’incomprensibile; in altri termini, la scelta religiosa richiede un totale annullamento di sé, paradossalmente funzionale all’affermazione della propria individualità. Nella fede infatti, pur ritrovando la propria individualità, occorre spogliarsi di qualunque residuo di razionalità e lanciarsi nell’abisso dell’incomprensibile, nel profondo e spiazzante abisso di Dio. Secondo Kierkegaard infatti, Dio chiede ossequio incondizionato verso qualcosa che alla ragione non può che apparire assurdo e irragionevole se misurato secondo un criterio razionale, in quanto si sottrae completamente al suo metro di valutazione. Occorre credere a Dio, e per certi versi fidarsi di ciò che chiede senza condizioni accettando l’imperscrutabile e l’incomprensibile. Soffermiamoci infatti sull’episodio del sacrificio di Isacco: cosa ci può essere di razionale nella richiesta avanzata da Dio ad Abramo? Come può la ragione comprendere una richiesta così terribile e razionalmente ingiustificabile? Non la può comprendere, ma la svolta religiosa richiede accettazione e solitudine.”

Gemme n° 78

Ho portato come gemma l’ultimo episodio di una serie tv a cui sono legato anche per il modo di trattare “leggermente” argomenti profondi da un punto di vista etico. Qui c’è il monologo del protagonista poco prima di lasciare l’ospedale in cui ha lavorato. Il dottor Cox è il suo mentore per tutte le 8 stagioni e per lui non aveva mai mostrato affetto. Qui però succede qualcosa di diverso.”

E dopo il primo video G. (classe quarta) ha aggiunto: “L’altra sequenza la sento corrispondente ai miei pensieri attuali: in questo periodo sto pensando spesso a cosa fare della mia vita, all’università… e alle cose che ci lasciamo indietro, magari uscendo di casa. Mi chiedo cosa sarà di noi a livello di conoscenze, persone incontrate ed emozioni provate. Provo a darmi delle risposte: qui il protagonista se ne dà alcune.”

A commento una sequenza tratta da “Il curioso caso di Benjamin Button”:

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