Il pesce avvelenato

E ancora una volta sono qui a pubblicare un articolo che approfondisce una questione toccata nelle classi in questi giorni. E’ di Alessandro Zaccuri, tratta della presenza dell’umorismo nel mondo islamico: è preso da Avvenire.

“Ogni tanto una battuta non riesce a coglierla neppure lui, il che è tutto dire. «Ma non9788843059942.jpg perché l’umorismo arabo sia impenetrabile – si affretta ad aggiungere Paolo Branca, islamista alla Cattolica di Milano –. È che a volte, per scherzare, si ricorre al dialetto più stretto e lì qualcosa si perde, purtroppo». Studioso autorevole, Branca è un estimatore dichiarato di quello che, nel titolo di un saggio da lui curato lo scorso anno per Carocci con Barbara De Poli e Patrizia Zanelli, ha voluto definire Il sorriso della Mezzaluna. Da pochi giorni è fra l’altro in libreria il volumetto Islam (con Barbara De Poli; edizioni Emi, pagine 160, euro 12). Oggi Branca interverrà a Torino Spiritualità (Cavallerizza Reale, ore 18) per spiegare come e perché sia il caso di superare lo stereotipo del musulmano irriducibile al sense of humour. Compito impegnativo, specie di questi tempi. «In realtà, come dimostra il dibattito in corso, a essere in questione non è tanto il film blasfemo su Maometto, né la pubblicazione delle vignette da parte di Charlie Hebdo – ribatte il professore –, ma un principio che riguarda tutti, islamici e occidentali».

A che cosa si riferisce?

«Ai confini della libertà di espressione. Fino a che punto possiamo spingerci nel prendermi gioco della sensibilità altrui? Quando dobbiamo considerare l’eventualità di imporci un limite, di dirci: basta, più avanti di così non si può andare? Non sto invocando la censura, né tanto meno cercando di giustificare le reazioni violente e del tutto spropositate alle quali abbiamo assistito. Forse, però, è il momento di sottoporre a seria revisione il concetto, finora incontestabile, di autonomia assoluta dell’artista. Anche perché, alla fine, finisce per proteggere anche personaggi che artisti non sono e che probabilmente agiscono per fini tutt’altro che innocenti».

Stiamo parlando del famigerato film?

«Era in rete da tempo, ha iniziato a fare notizia proprio quando la campagna presidenziale negli Usa iniziava a entrare nel vivo. Non dimentichiamo che i Paesi del Golfo non hanno mai sostenuto Obama, nel 2008 il loro candidato era semmai McCain, portatore di un atteggiamento tradizionalmente più tollerante nei confronti dell’Iran. Oggi, nel clima di parziale delusione per l’esito delle Primavere arabe, che si parli d’altro, e non di politica in senso stretto, può fare comodo a molti».

D’accordo, ma il Corano ammette o non ammette l’umorismo?

«A differenza dell’Antico Testamento, nel quale convivono generi letterari diversi, il Corano è un testo esclusivamente ascetico, che quindi non riserva spazio al linguaggio del riso o anche solo dell’ironia. Ma questo non ha impedito che a fianco del Libro sacro fiorisse una letteratura in cui, se non Maometto, almeno i suoi primi compagni potessero fornire qualche spunto di umorismo».

Per esempio?

«Beh, si potrebbe ricordare l’aneddoto del musulmano scroccone, che non perde occasione per presentarsi, non invitato, a pranzo o a cena. “Che cosa c’è di buono oggi”, domanda sempre, fino a quando qualcuno non gli risponde: “Pesce avvelenato”. Quello, anziché scoraggiarsi, si siede e aspetta di essere servito. “Ma come, non hai paura di morire?”, gli chiedono. E lui: “Perché vivere se muoiono i compagni del Profeta?”».

Sembra una barzelletta.

«Ma la cultura araba è tutta percorsa da facezie e motti di spirito. Non dimentichiamoci che stiamo parlando di popoli mediterranei, estroversi e a volte perfino chiassosi. Gli egiziani, poi, vantano una tradizione ininterrotta di barzellette sul potere, lungo una linea che va da Nasser fino a Mubarak. L’Egitto, per chi lo conosce bene, è la terra della risata».

Vale solo per la satira politica?

«Anche qui vale la regola generale: in presenza di un regime oppressivo e occhiuto l’umorismo diventa una naturale valvola di sfogo. In questo le Primavere hanno fornito rappresentazione di una realtà che esisteva, ma in modo sotterraneo, nascosto. In precedenza, l’unica forma di presunta satira a godere di libera circolazione era quella di stampo antisemita, gradita ai regimi e adoperata in chiave anti-israeliana, con tutti gli odiosi stereotipi che purtroppo conosciamo».

Nel web circola molta comicità demenziale: vale anche per il mondo arabo?

«Solo per quanto riguarda gli arabi che vivono all’estero. Negli Stati Uniti, per esempio, opera un gruppo di cabaret che si chiama polemicamente (e ironicamente), Axe of Evil, e cioè l’Asse del male, l’espressione coniata da George W. Bush dopo l’11 settembre. In Francia, poi, c’è stato il caso di Allah Superstar di Yassir Benmiloud, un giornalista di origine algerina non nuovo a provocazioni di questo tipo. Ma nulla di simile, al momento, si trova nei Paesi arabi, che del resto vivono una condizione culturale molto diversa dalla nostra. A livello sociale lì sono ancora ben salde alcune gerarchie implicite che l’Occidente considera invece superate: i giovani devono rispetto agli adulti, le donne sono sottomesse agli uomini, il gruppo prevale sull’individuo».

Mi scusi se torno a chiederlo, ma in tutto questo l’islam non riveste alcun ruolo?

«Per il musulmano Dio non è soltanto clemente e misericordioso, due appellativi che tra l’altro rimandano etimologicamente all’utero, e dunque a una dimensione femminile, materna. Dio è anche “sottile” e perfino “simpatico”. Vede, il fondamentalismo sta cercando di imporre l’idea per cui tutto è proibito, tranne ciò che è permesso. Ma il lettore del Corano sa bene che, semmai, è vero il contrario: tutto è permesso, tranne ciò che è proibito. L’umorismo non è certo il cuore della predicazione di Maometto, però lo stesso Profeta esorta a vivere “in serenità”. Con il sorriso sulle labbra, potremmo dire».”

Sorridere

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Sono un po’ musone. Me lo dicono diversi colleghi, quando, la mattina, mi vedono in portineria. Non me lo dicono gli studenti; ma devo ammettere che la mia espressione in classe è diversa, più serena e spesso sorridente. Il fatto è che quando mi concentro sulle cose da fare e mi organizzo mentalmente assumo l’aria corrucciata. In fondo a questo pezzo Enzo Bianchi dice: “Per togliersi il muso, bisogna imparare a vivere senza strategie. Bisogna ritrovare lo stupore e l’ascolto, altrimenti ci si ammala.” Ci provo, anche perchè lui mi dà due anni di tempo…

Il pezzo è una simpatica intervista sul sorriso a Bianchi e a Moni Ovadia pubblicata da Maurizio Crosetti su La Repubblica.

In cosa consiste, secondo voi, “la sapienza del sorriso”?

M.O.: «All’inizio dell’avventura del monoteismo ebraico, c’è un’annunciazione che precede di 1.500 anni quella cristiana. Abramo, circonciso e centenario, è in comunicazione col divino e apprende che sua moglie Sara, novantenne e sterile, gli darà un figlio. Per tutta reazione, Abramo si scompiscia dalle risate, è ovvio che non ci crede, mentre il riso di Sara è più vergognoso ma non meno scettico. Nove mesi dopo, il Santo Benedetto si presenta per annunciare che il nascituro si chiamerà Isacco, nome che in italiano dice poco ma in ebraico è il futuro del verbo ridere. Eccolo, il figlio per quei due che tanto risero nel momento dell’annunciazione. L’identità ebraica è uno scoppio di risa, come l’aprirsi all’utopia, al cortocircuito tra senso e controsenso. Magari, la risata ebraica comincia con Caino che chiede “Sono forse io il custode di mio fratello?”, dopo averlo ucciso. Ma Dio raccoglie la provocazione, dicendo “nessuno tocchi Caino”».

E.B.: «Noi cristiani siamo sempre sorpresi per come gli ebrei, leggendo la Bibbia, siano capaci di humour e sorriso. Il Nuovo Testamento non dice mai che Gesù rise o sorrise, eppure ricordo che Pasolini nel “Vangelo secondo Matteo” fa aprire un gran sorriso sul volto di Gesù nel momento dell’entrata in Gerusalemme, al cospetto dei bambini. Quando vidi quell’immagine fu come una rivelazione. I cristiani, a differenza degli ebrei, non sono capaci di sorridere di Dio e neppure di litigarci. Gli unici a sorriderne sono i cosiddetti “santi folli”, soprattutto nella tradizione ortodossa, personaggi che oggi chiameremmo disturbati. Predicatori nudi, col fiasco in mano, capaci di sputare sulle candele per spegnerle o di abbracciare le mura dei postriboli: provocatori, dissacratori del potere. Alcuni, addirittura modelli di virtù. Meglio loro di un certo sorriso stereotipato da immaginetta, da paccottiglia religiosa».

Il Dio della Bibbia è spesso truce e vendicatore, altro che sorrisi. Perché?

M.O.: «Si tratta di un grosso equivoco, frutto di letture errate e traduzioni approssimative. La famosa vendicatività di Dio, altro non è che l’estremo tentativo di mettere l’uomo di fronte al suo destino. Non una minaccia, semmai un grido di richiamo. Qualche volta sembra addirittura che Dio alzi le mani e si arrenda davanti a certe beghe umane, quando lo tirano in mezzo come giudice e lui ride con misericordia, non certo con cattiveria. Può forse Dio essere cattivo?».

E.B.: «Nell’Antico Testamento esistono forti immagini di collera divina, la proverbiale ira di Dio. Non sappiamo sopportarla, però dovremmo capire che quel linguaggio rivela la passione di Dio, la sua emotività. Dio sa indignarsi, è un appassionato del bene. Ma quando promette a Noè che non manderà un altro diluvio, e anzi guarderà l’arcobaleno come un arco deposto tra le nubi, come non immaginare il suo sorriso? Chi, tra noi, può osservare la fine della tempesta e il ritorno del sereno senza sorridere? Finché l’uomo è qui, sulla Terra, Dio non può castigarlo, altrimenti gli toglierebbe la libertà. Siamo noi a sbagliare strada, quando accade. E nessuno viene spedito all’inferno con nome e cognome, mentre ci sono uomini che vengono mandati in paradiso, i santi».

Il sorriso è spesso scambiato per debolezza, quasi un pregiudizio riduttivo. Come se fosse una forma di carineria. Non è profondamente ingiusto, questo?

M.O.: «E’ come l’equivoco opposto, cioè confondere serietà e seriosità. Oppure, non sorridere ma irridere o deridere. Esistono fragili confini. C’è chi ride per offendere, per sottolineare un difetto fisico o una mancanza di carattere, c’è chi irride le donne o i poveri. E c’è il sorriso ipocrita, falso. Come non sorridere, invece, pieni di luce, di fronte a certi comportamenti geniali dei bambini? La risata ebraica è di altra natura, spesso nasce dalla tragedia, è un bagliore di luce che spiazza. Ma è sempre leggerezza e salute, non pesantezza e malattia. Non fa forse ridere che il popolo eletto fosse composto dagli ultimi tra gli ultimi, e guidato da un profeta balbuziente come Mosè? Per questo Dio gli mise accanto Aronne, che invece aveva la lingua sciolta: erano come i due carabinieri».

E.B.: «Il sorriso non è mai debole. Per sorridere occorre una grande padronanza di cuore, bisogna esercitarsi molto. E’ facile irridere o deridere, ha ragione il mio amico Moni, oppure sfoderare un mezzo sorrisino di superiorità. Ma il vero sorriso è accoglienza, è apertura del volto all’altro: si muovono tutti i muscoli del viso, e si aprono di più gli occhi. Il vero sorriso parla senza bisogno di parole, anzi le precede, altrimenti è solo egoismo e freddezza. Il linguaggio del sorriso è il più carnale, il più corporeo: nessuno può dire buongiorno facendo il muso. Purtroppo si è scambiata la bontà col buonismo, ed è diabolico, è come spogliare l’uomo delle sue più profonde capacità. Lo stesso trattamento riservato alla mitezza. Io penso che la vera crisi non sia la mancanza di fede in Dio, ma negli altri. Fede e fiducia sono la stessa parola, nella Bibbia. E gli altri si accolgono sorridendo».

Qual è il vostro personale rapporto con il sorriso?

M.O.: «Io, come autore e attore, ne faccio collezione. Ho il privilegio di incontrare tanta gente, e quando sorrido è come se aprissi loro la porta. Non mando indietro mai nessuno. Capisco com’è andato lo spettacolo dal sorriso del pubblico. Ricordo quando mi innamorai di mia moglie, tre anni prima di fidanzarmi: all’inizio, lei mi guardava come un carciofo. Poi la rividi, appunto tre anni dopo, a una festa, e la guardai sorridendo. Lei un giorno mi ha detto: nessuno, né prima né dopo quella volta, mi ha mai sorriso come te».

E.B.: «Io sorrido molto volentieri, e allo stesso modo mi piace ridere. Non di storielle o barzellette che non so raccontare, ma del piacere del ricordo con gli amici, della sorpresa del passato. Mi hanno educato così da piccolo. Rammento mia madre ormai morente, io avevo otto anni e lei mi ripeteva “Enzo, sorridi”. Non lo dimenticherò mai. Però devo ammettere di essere anche molto tentato dalla collera, specialmente di fronte alla menzogna e all’ingiustizia: in quel casi, la mia faccia può diventare assai dura. E se nella Bibbia non si parla mai del sorriso di Gesù, si dice invece che “indurì il suo volto” verso Gerusalemme, quando vide i nemici all’orizzonte ma decise ugualmente di proseguire».

Siamo sempre più musoni, viviamo di mugugni, insoddisfazioni e lamenti continui. Un sorriso può guarirci?

M.O.: «Gli ebrei sanno sorridere di se stessi anche sull’orlo dell’abisso. Qui, però, c’è poco da ridere, tutto è competizione, individualismo e mercato. Non viviamo, sopravviviamo. Si corre come criceti nella ruota, il sorriso è imploso in una smorfia oppure si è plastificato. Senza poi dimenticare quella perversione che è il lifting: c’è gente imbalsamata in vita, almeno i faraoni aspettavano di essere morti”.

E.B.: «Per togliersi il muso, bisogna imparare a vivere senza strategie. Bisogna ritrovare lo stupore e l’ascolto, altrimenti ci si ammala. La faccia si deforma, e dopo i quarant’anni non c’è più niente da fare, la bocca diventa una lamentosa U capovolta. E dopo i quarant’anni, come dicono i saggi, ognuno ha la faccia che si merita».