Un viso inenarrabile dal sole

I momenti in cui si affrontano le ore buie e cupe del dolore; i momenti in cui si vive l’abbandono; i momenti in cui non si riesce a vedere un domani; i momenti in cui si cerca ovunque speranza. Le parole degli amici sembrano non dare sollievo, non bastare. Pare che l’uomo non sia fatto per sopportare questo ingombro nel cuore, per vivere questo stato. Eppure, scrive Luzi, si ritrovano le proprie orme, i propri riferimenti consueti, anche dietro le curve improvvise e impreviste. E lì riprende la speranza e l’attesa di uno spiraglio di luce. E che ognuno lo legga come crede: riferimento all’infinito se penso al sole, riferimento all’umano se penso al viso. In ogni caso incontro che porta all’inenarrabile.

Dove l’ombra procede e le strade ristanno

tra i fiori, ricordarmi le parole

e le grida dell’uomo è forse un inganno.sole.jpg

Ma sempre sotto il cielo consueto

ritrovo le mie tracce, il mio sole

e gli alberi remoti del tempo

fissi dietro le svolte. E sempre,

ancor che mi sia noto il dolce segreto,

sulla polvere quieta, tra le aiuole,

m’indugio ad aspettare che sporga

un viso inenarrabile dal sole.

(Dove l’ombra, Mario Luzi)

I’m flying

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Pubblico una foto che ho visto sul profilo facebook di una ex studentessa di diversi anni fa, quando appena avevo iniziato a insegnare, al liceo di Gemona. E aggiungo due frasi che hanno sempre a che fare con l’ottimismo. La prima è proprio per quella studentessa, visto il suo orientamento scientifico: afferma Galileo “Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che credono in quello che vedono”. Troppo spesso vediamo quel che crediamo… La seconda frase è invece del filosofo cinese Laozi, che affermava “Invece di maledire il buio è meglio accendere una candela”. Accendiamo, accendiamo che c’è bisogno…

Gioventù europea

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Ho avuto la possibilità, in questi tre giorni, di visitare i palazzi delle Istituzioni Europee a Bruxelles insieme ad alcuni colleghi. Abbiamo incontrato politici, funzionari, liberi professionisti, formatori. Una delle cose che mi hanno colpito di più, soprattutto all’interno del Parlamento Europeo, è stata la notevole presenza di giovani; l’età media era decisamente bassa. Va bene, non saranno certo tutti parlamentari, molti saranno stagisti, collaboratori, contrattisti… però la sensazione di vedere tutti questi ragazzi e ragazze lavorare, incontrarsi, parlare in tante lingue è stata molto bella. Ne ho colto un segno di speranza, uno dei regali più belli di questa esperienza.

Zolla dopo zolla

Ho trovato in rete questo raccontino; qualcuno scrive sia una storia sufi, in ogni caso non ho reperito una fonte certa. La leggo come un incoraggiamento nei momenti in cui tutto sembra remarti contro e arrivano tante critiche; la capacità umana può stare nel trasformarle in occasioni di crescita (a volte scrollandosele di dosso, a volte recependole cercando di migliorarsi).

“Un giorno l’asino di un contadino cadde in un pozzo. Non si era fatto male, ma non sufi,speranza,resistere,crescerepoteva più uscire. Il povero animale continuò a ragliare sonoramente per ore. Il contadino era straziato dai lamenti dell’asino, voleva salvarlo e cercò in tutti i modi di tirarlo fuori ma dopo inutili tentativi, si rassegnò e prese una decisione crudele. Poiché l’asino era ormai molto vecchio e non serviva più a nulla e poiché il pozzo era ormai secco e in qualche modo bisognava chiuderlo, chiese aiuto agli altri contadini del villaggio per ricoprire di terra il pozzo. Il povero asino imprigionato, al rumore delle palate e alle zolle di terra che gli piovevano dal cielo capì le intenzioni degli esseri umani e scoppiò in un pianto irrefrenabile. Poi, con gran sorpresa di tutti, dopo un certo numero di palate di terra, l’asino rimase quieto. Passò del tempo, nessuno aveva il coraggio di guardare nel pozzo mentre continuavano a gettare la terra. Finalmente il contadino guardò nel pozzo e rimase sorpreso per quello che vide, l’asino si scrollava dalla groppa ogni palata di terra che gli buttavano addosso, e ci saliva sopra. Man mano che i contadini gettavano le zolle di terra, saliva sempre di più e si avvicinava al bordo del pozzo. Zolla dopo zolla, gradino dopo gradino l’asino riuscì ad uscire dal pozzo con un balzo e cominciò a trottare felice.”

Francesco

Bergoglio.jpgHo atteso le ore piccole della notte per stendere sulla pagina bianca del pc le parole che cercano di dar voce a quello che ho sentito e pensato stasera in modo profondamente personale. Non sempre lascio spazio sul blog alle intime riflessioni, soprattutto ai miei pensieri di fede. Come tanti stasera ero davanti alla tv. Al nome Bergoglio la testa è andata alla lezione fatta in classe sui papabili, quando ho raccontato del conclave del 2005 per presentare questo cardinale argentino e quando ho detto il mio parere sulla difficoltà della sua elezione vista l’età. Pertanto in me c’è stata la sorpresa innanzitutto. Poi è venuto il momento del nome scelto: Francesco. E questa è stata la volta della meraviglia. E mi sono goduto gli attimi, fatti di tante istantanee.

Ho visto un papa non giovane ma fresco e semplice, inizialmente imbarazzato, quasi ingessato che ha salutato con un semplice “Fratelli e sorelle buonasera” e che poi si è sciolto; e ho notato che non ha indossato la mantelletta rossa.

Ho visto il primo papa provenire dal continente sudamericano, “sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo”, e ho visto in questo un segno di apertura alla chiesa universale.

Ho visto un papa, ma soprattutto un vescovo: e vi ho visto un segno di collegialità e vi ho vista esaudita la sete di un pastore da parte della gente.

Ho visto un papa che vuole essere in cammino insieme al suo popolo per percorre le strade della fratellanza e dell’amore.

Ho sentito un papa parlare di evangelizzazione e ho pensato che se ciò significa far innamorare la gente di Gesù Cristo il cammino sarà bello.

Ho visto un papa che ha chiesto, prima di benedire i fedeli, che i fedeli pregassero Dio per lui: “Adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore. Prima che il Vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica. La preghiera del popolo che chieda la benedizione per il suo vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me”. E l’ho visto chinarsi in silenzio.

Alla fine l’ho visto chiedere nuovamente il microfono perché non voleva andarsene senza salutare “Vi lascio, grazie tante dell’accoglienza, e a domani, a presto, ci vediamo presto, domani voglio andare a pregare la Madonna perché custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo”.

Ho ripensato al nome scelto, ho pensato ad Assisi e ho rivisto la chiesa di san Damiano, l’eremo delle carceri, la porziuncola…

Mi sono guardato dentro e vi ho letto la speranza, che per un credente significa resurrezione.

Oltre ogni ragionevole speranza

8529806402_5e22c98a83_b.jpgDa Virgilio, passando per De Luca, fino alla Bibbia, sfiorando Leopardi in poche righe. Si può? Ci si può provare…

Da poco ho finito di leggere il libro Alzaia di Erri De Luca. Uno dei passi che mi hanno maggiormente colpito è il seguente:

“Una salus victis: nullam sperare salutem, una sola salvezza per i vinti: non sperare alcuna salvezza. Così dice Enea raccontando il suo scampo alla rovina di Troia. E’ il coraggio di chi ha smesso ogni speranza e si lancia nella mischia con mente sgombra da ogni futuro. L’insurrezione degli ultimi ebrei nel ghetto di Varsavia può reggere esempio di questa condizione. Ci sono momenti estremi in cui i vinti sperimentano una terribile pace interiore nel più grande pericolo. Per grazia ricevuta di non sperare più.”

E adesso mentre rivedevo i tweet più recenti sono capitato su un articolo di Antonio Pitta scritto per Avvenire, di cui riporto alcune frasi:

“Il mito di Pandora racconta che quando il suo vaso fu aperto per diffondere ogni genere di male nel mondo, nel fondo rimase soltanto elpis, la speranza. Sono trascorsi duemila anni dall’inizio della fede cristiana, ma la concezione rassegnata e striata di pessimismo sulla speranza rimane ancora fra molti credenti in Cristo. L’illusione delusa del «sabato del villaggio» accompagna la nostra visione della speranza. Nutriamo sempre una certa diffidenza sulla speranza poiché il timore di essere delusi nelle attese è vivo più del suo desiderio… La speranza riceve dalla fede un fondamento sicuro; e soltanto una fede capace di attraversare la prova approda nella speranza. La prova non è quella dell’invisibile con gli occhi del corpo, ma del visibile con quelli della mente. Per questo non ciò che vediamo è oggetto della speranza, bensì quanto non vediamo, ma continuiamo a credere. La prova dell’amore è quella che nasce dalla fede e approda nella speranza, poiché senza cadere in forme di fideismo, l’amore tutto crede e, senza lasciarsi irretire nell’illusione, l’amore tutto spera. Qui sta la fondamentale differenza tra la speranza di origine greco-romana e quella di origine ebraico-cristiana: la prima è fondata sul desiderio, mentre la seconda si radica nella fede.”

Buone libere riflessioni 🙂

Primi profumi

Un giro con Mou per i campi e avverto che la primavera preme per socchiudere il portone di questo inverno: profumi, primo tepore, suoni. Anche se non c’è da fidarsi troppo… Piano, con calma, rispettando i ritmi della natura…

“Sorridi. La vita è come una siepe fiorita in una foresta di solitudine dove le foglie sono speranze, i fiori sogni, le spine i giorni tristi della vita. Sorridi. Perchè le spine, una alla volta, cadranno e la siepe fiorirà ancora a primavera” (Romano Battaglia)

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Duro come la vita, bello come la vita: il rugby

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Sto attraversando un periodo di disamore per il calcio: da curvaiolo convinto per qualche anno a persona che ogni tanto guarda qualche partita. E così ho aumentato la frequentazione televisiva con altri sport che comunque ho sempre, bene o male, seguito: baseball, football americano, soprattutto rugby. Ed ecco che trovo su Avvenire un bell’articolo di Vittorio E. Parsi, un inno al rugby, alla vita, alla speranza.

“Chi domenica ha avuto il privilegio di essere allo stadio Olimpico di Roma sa bene di essere stato partecipe di un evento il cui significato va oltre il pure importante ambito sportivo (con la storica vittoria italiana). Sessantamila persone, assiepate spalla a spalla, senza alcuna distinzione tra francesi e italiani, convenute sulle rive del Tevere per sostenere i propri colori: tutti insieme, senza reti, gabbie e schieramenti di polizia a separarli, perché accomunati innanzitutto dall’amore per uno sport senza tempo, che neppure la tv e il professionismo hanno saputo rovinare. E in campo 30 uomini che si sono battuti letteralmente fino all’ultimo secondo per sopraffarsi a vicenda, dandosele di santa ragione, eppure pronti a riconoscersi fratelli, gli uni per gli altri. Bisogna forse averlo giocato, il rugby, per capire fino in fondo come la lotta e il rispetto formino le due facce inscindibili di un’unica medaglia. Perché è dall’asprezza della lotta, dal sudore e dal dolore per i colpi subiti, per la vera fatica che si fa a conquistare e a difendere ogni singolo metro del campo di gioco che scaturisce il rispetto per l’avversario il quale, come te, sta dando il massimo (e anche di più) per avanzare. Si corre, si placca e ci si affronta per portare la palla avanti di qualche metro, e per proteggerla: tutti insieme, perché questo è il rugby, uno sport in cui nessuno è così “fenomeno” da poter vincere da solo e dove il contributo di ognuno è decisivo per portare la palla oltre la linea di meta. È uno sport serio, in cui si parla poco, e in cui le “moine” e le “simulazioni” non trovano spazio. Duro come la vita, bello come la vita e leale come la vita dovrebbe sempre essere, anche se a volte non lo è. Il rugby è pura educazione sentimentale, perché costringe a fare del coraggio, del sacrificio, della lealtà, dell’umiltà e dell’altruismo una pratica quotidiana: senza tante parole, senza troppi discorsi, ma semplicemente correndo, spingendo e placcando perché, come amano ricordare i rugbysti, «noi mettiamo la faccia in posti dove molti altri non metterebbero neppure un piede». Eppure, non c’è nessuna spocchia in queste frasi, ma semplicemente il monito rivolto innanzitutto a noi stessi che tutto questo è possibile solo perché hai la certezza di poter contare sul sostegno di un compagno – sempre – disposto a sacrificarsi per te come tu faresti per lui. Credo sia proprio questo tipo di messaggio che sta avvicinando al rugby tanti neofiti e lo sta trasformando in uno degli sport più seguiti e amati, ampliandone il numero dei praticanti. Al di là di ogni retorica, basta fare un giro per i campi in cui tanti giovanissimi giocano ogni week-end, vedere che cosa sono le rugby moms, per capire di che cosa stiamo parlando. Il rispetto che impari sul campo, con l’ovale stretto al petto, non ti abbandonerà mai anche fuori dal rettangolo di gioco, e saprai praticarlo anche nei confronti di chi nella vita ha commesso errori magari gravi. Perché se è vero che il rispetto te lo devi conquistare con il coraggio, è altrettanto vero che a chi mostra coraggio il rispetto è dovuto. E cosa c’è di più coraggioso che provare a cambiare una vita sbagliata? È proprio questo spirito che lega la partita di domenica a un’altra storia di rugby, che avrà luogo domani, quando, il “Grande Brianza Rugby” e il “Rugby Monza” terranno a battesimo la squadra dei detenuti del carcere di Monza, che da settembre hanno contribuito a far nascere ed allenare. Una storia di rugby, come tante altre, nata dalla circostanza che il campo di allenamento brianzolo confina con la casa circondariale: un luogo di dolore e uno di gioia, due mondi diversi, incapaci di ignorarsi, uniti dai valori che la palla ovale incarna e rappresenta, perché il rugby non è solo il nostro sport, ma è anche uno stile di vita e dare sostegno a chi ha bisogno di aiuto non è solo un aspetto del nostro gioco, ma è un modo di essere.”

C’è ancora una luce

1969. 31 gennaio, come oggi. Agli Apple Studios i Beatles registrano la versione definitiva di una delle loro canzoni più famose: Let it be. E’ un testo semplice, che invita alla speranza nei momenti bui e oscuri. Molti hanno vista nella Mother Mary dell’inizio un riferimento alla madre di Gesù; Paul McCartney afferma che è una lettura che non gli dispiace, ma in realtà si tratta della madre scomparsa nel 1956, apparsagli in sogno durante un periodo di difficoltà del gruppo.

Quando mi trovo in momenti difficili madre Maria viene da me

con parole di saggezza, Lascia che sia

E nella mia ora di oscurità lei sta proprio davanti a me

con parole di saggezza, Lascia che sia

Lascia che sia, lascia che sia, lascia che sia, lascia che sia

sussurra parole di saggezza, Lascia che sia

E quando la gente con il cuore spezzato che vive nel mondo andrà d’accordo

ci sarà una risposta, Lascia che sia

Perché anche se sono divise vedranno che c’è ancora una possibilità

ci sarà una risposta, Lascia che sia

Lascia che sia, lascia che sia, lascia che sia, lascia che sia

ci sarà una risposta, Lascia che sia

Lascia che sia, lascia che sia, lascia che sia, lascia che sia

sussurra parole di saggezza, Lascia che sia

E quando la notte è piena di nuvole c’è ancora una luce che splende su di me

splendi fino a domani, Lascia che sia

Mi sveglio al suono della musica madre Maria viene da me

Con parole di saggezza, Lascia che sia

Lascia che sia, …

Una voglia di esitere

Una breve canzone di Paola Turci: I colori cambiano. In una giornata grigia come questa e come quelle che ci attendono, ci vuole un po’ di colore. E’ una canzone sulla speranza, quella di cui si ha bisogno quando le cose non girano e si vede tutto nero e buio. Paola Turci canta di una voglia di esistere che cresce dentro ogni croce, dentro ogni dolore, dentro ogni cosa che ci fa star male: anche lì ci sono segni di vita e, magari nascosta, volontà di andare avanti. Ogni possibilità che ci viene data può essere colta: l’incontro con persone, animali, esperienze, ci dà qualcosa (anche dolore, perché no?) e ha bisogno di essere percorso, capito, meditato, sedimentato, ricordato (anche per poi cercare di dimenticarselo…)… perché la vita ci propone sempre qualcosa di nuovo… i colori cambiano continuamente… Quanta resurrezione c’è in questa canzone…

In ogni angolo di mondo, in ogni sud, anche quello più lontano

dentro ogni croce nasce e cresce una voglia di esistere.

Ogni incontro ha bisogno di ascolto di cammino e di memoria.

Qualcuno dice che il tempo non aiuta io dico invece che il tempo fa sperare.

I colori cambiano continuamente… I colori cambiano continuamente…

Assetato di parole buone

Una poesia di Dietrich Bonhoeffer tra domande su se stessi e abbandono in Dio. La scrisse nel carcere militare di Tegel, a Berlino.

Chi sono, io? Mi dicon spesso

che esco dalla mia cella

calmo e lieto e saldo

come il padrone del suo castello.

Chi sono, io? Mi dicon spesso

che parlo alle mie guardie

libero e amichevole e chiaro

come fossi io a comandare.

Chi sono, io? Mi dicon anche

che sopporto i giorni della sventura

impavido e sorridente e fiero

come chi è avvezzo alla vittoria.

Io, in realtà, son ciò che gli altri dicono di me?

O sono solo ciò che so io di me stesso?

Inquieto, nostalgico, malato come un uccello in gabbia

bramoso d’un respiro vivo come mi strozzassero alla gola

affamato di colori, di fiori, di voci d’uccelli

assetato di parole buone, di presenza umana

tremante di collera davanti all’arbitrio e alla più meschina umiliazione

roso per l’attesa di grandi cose

impotente e preoccupato per l’amico ad infinita distanza

stanco e vuoto per pregare, per pensare, per creare

esausto e pronto a prendere congedo da tutto?

Chi sono, io? Questo o quello?

Oggi uno, domani un altro?

Sono tutt’e due insieme? davanti agli uomini un simulatore

e davanti a me stesso uno spregevole, querulo rottame?

O ciò che in me c’è ancora rassomiglia all’esercito sconfitto

che si ritira in disordine prima della vittoria del già vinto?

Chi sono, io? – domandare solitario che m’irride.

Chiunque io sia, tu mi conosci, tuo sono io, o Dio!

Dietrich Bonhoeffer, Chi sono, io?

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Alla ricerca dell’onda perfetta

Ci sono delle volte in cui la vita si incasina e fai fatica a trovare un filo rosso che leghi fra loro i vari eventi che ti capitano. Poi, all’improvviso, in un attimo di istantanea chiarezza, riesci a leggere tutto e ti ritrovi; magari devi leccarti alcune ferite, magari ti culli in alcuni rimpianti, o magari ti volti indietro a guardare con orgoglio quel che eri e quel che sei diventato. E ci sono delle volte che ti sembra di essere in attesa di qualcosa che deve accadere e non capisci se sei tu che non ce la fai a vederlo o se non sei riuscito a creare i presupposti per il suo verificarsi. La canzone Onda perfetta de The sun ne parla e porta, nel ritornello, alla constatazione che la vita (il viaggio) è l’onda perfetta dove i tasselli si mettono a posto, anche i più impensabili e che ogni giorno è una pagina da scrivere, un cammino da percorrere. E’ una strada costellata di dubbi, di colpi, ma che vale la pena affrontare per far sì che speranze e sogni non si trasformino in illusioni. Lo stile di viaggio che hanno trovato The sun è: “mi fido e lo seguo, con Fede lo vivo”.

Mi sento come se aspettassi qualcosa
Tu chiamala svolta
Mi faccio mille viaggi ma li tengo nascosti bene, che forse conviene
Ho desideri un po’ comuni e un po’ folli, si danno il cambio tra virtù e vizi
Ma questo è il mio viaggio: un’onda perfetta dove tutto combacia anche quando non sembra
dove ogni mattino è una pagina bianca
di un nuovo destino, di un nuovo cammino
Accolgo più dubbi di un tempo, punto in alto e li sfido
Nel caso le prendo ma almeno vivo
Cammino più svelto, voglio qualcosa che non vedo
Ma Dio, come lo sento
Ho tutto un mondo di speranze e di sogni
Sono illusioni solo se non ci credi
E questo è il mio viaggio: un’onda perfetta dove tutto combacia anche quando non sembra
dove ogni mattino è una pagina bianca
di un nuovo destino, di un nuovo cammino
E’ questo il mio viaggio: si, adesso lo sento
e il senso lo trovo in ogni momento
anche quando non voglio c’è sempre un motivo
mi fido e lo seguo con Fede lo vivo
Ho tutto un mondo di speranze e di sogni
Sono illusioni solo se non ci credi

Il puzzo della brillantina

Ha 15 anni e frequenta il liceo Gozzano. Scrive questo articolo, da cui promanano una passione travolgente e una rabbia contro noia, apatia e indifferenza: lo pubblica sul giornale della scuola. E’ il 1942. Domani, se mi ricordo, vi dico chi è 😉

“Un turbine caotico, vorticoso che si abbatte sulla terra tutto distruggendo nella sua furia irresistibile, istituzioni, ideali, posizioni di fortuna che vengono completamente sconvolte. Un succedersi continuo di avvenimenti, un perenne capovolgimento di situazioni. Ecco le caratteristiche del momento che viviamo.

chagall.jpgMomento storico paragonabile a pochi, forse a nessuno nella storia dell’umanità e destinato ad avere ripercussioni storiche, politiche e sociali non limitate a un breve spazio né per poco tempo. Questo è un aspetto del nostro tempo, ma ve n’è un altro non meno consolante, ed è precisamente l’abbozzolarsi di alcuni, purtroppo anche giovani, nel loro involucro meschino coperto di muffa e di polvere, degnando di uno sguardo supremamente passivo gli avvenimenti che stanno cambiando la faccia del mondo. È precisamente il rinchiudersi in una tana maleodorante di brillantina e tabacco. È precisamente l’osservare dalla finestra ciò che succede, pronti a rinchiuderla e a sbarrarla alla prima corrente d’aria un po’ forte. E non sanno questi tali che da un momento all’altro il bozzolo verrà schiacciato, che nella tana buia e profonda penetrerà accecante la folgore della realtà quotidiana.

Non mi venite a dire che voi sapete dov’è il Sangro, dove si trova Isernia, che sapete la distanza tra Krivoj Rog e il Bug e il vero accento dei nomi dei generali russi. Non mi venite a dire che conoscete il numero dei motori del nuovo apparecchio tedesco né pronunciatemi il nome esotico di un’isola del Pacifico. Tutto questo non basta, si può far così ed esser più morti che mai nel vivere questo momento storico, più inerti dell’operaio che non sa tante cose ma agisce sul serio per strappare la fabbrica al padrone, più inerti dell’uomo della strada che dice Reic ma si prepara a pescare dal torbido un posto che non sia tra gli ultimi della società futura. Perché il domani, nero e pauroso come una notte senza luna, sarà di chi saprà prenderselo, di chi si troverà con le armi in mano per lottare, anche duramente, contro tutto e contro tutti per il trionfo di una causa di giustizia. Domani emergeranno dalla massa quelli che avranno una base solida, una formazione intellettuale e morale sicura. Perché ognuno dovrà crearsi da sé il suo avvenire, faticosamente, pezzo per pezzo, con tenacia e sacrificio; riuscirà meglio chi sotto al lavoro e al sacrificio abbia già saputo piegare le spalle e incurvare le gambe. Noia, apatia, indifferenza, peggio che mai esasperazione contro il nostro dovere sono un delitto contro noi stessi. Ottimismo facilone e pessimismo astenico sono uno scavarci la fossa sotto i piedi. Esigenze anacronistiche sono un coprirci di ridicolo. Ho chiesto a un giovanotto impomatato perché leggesse tanti romanzi: «Evado – mi disse con sussiego – dalla realtà quotidiana». Allora ho avuto un fremito e ho rimpianto di non essere un violento, del resto il puzzo della brillantina mi faceva schifo.”

No, dai, scherzavo, chi vuol sapere di chi si tratta può andare qui.

Luce che penetra nell’anima

“A volte, nel buio, mi avvicino, passo a passo, verso l’orlo di un precipizio, ma se sbuco su una strada maestra tiro un respiro di sollievo. Anche quando penso di non farcela, conosco la bellezza della luce della luna, lassù. Una luce che penetra nell’anima” (Banana Yoshimoto, Kitchen)

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